Schizofrenia e Storia Sociale


Il 29 giugno 2003 ho tenuto una lezione agli allievi del quarto anno di specializzazione in psicoterapia dell'ASPIC, una scuola di formazione romana. La lezione si è basata su di una relazione consegnata in anticipo agli allievi. Ancora una volta, ho constatato che ciò che risulta affatto incomprensibile a numerosi psichiatri, trova una pronta ricezione in soggetti non contaminati dall'ideologia neopsichiatrica. Riporto il testo della relazione, alla quale ho apportato appena qualche modifica. Si tratta di una sintesi delle argomentazioni sviluppate nel saggio sulla schizofrenia, che ha il vantaggio di una stesura più accessibile.


Indice

Introduzione

Il nucleo delirante

Natura umana e cultura

Il doppio delirio di Francesco

Il conflitto strutturale

Esiste la schizofrenia

L'io diviso

Dissociazione psicodinamica vs schizofrenia

Il primato del sociale interiorizzato

Storia sociale e soggettività

Conclusione


1. Introduzione

Nel pensiero antipsichiatrico degli anni '70 circolavano asserzioni radicali secondo le quali la schizofrenia come malattia del cervello sarebbe stata un'invenzione degli psichiatri, un'etichetta che squalificava e pregiudicava esperienze incomprensibili in termini di senso comune. Il complotto psichiatrico sarebbe servito a tutelare la normalità dal riconoscere nella schizofrenia il proprio doppio, vale a dire il prodotto del suo statuto contraddittorio e mistificato. Alleata dell'ordine di cose esistente, la psichiatria, da ultimo, avrebbe assolto la funzione di mascherare quanto c'è di disumano nel nostro sistema sociale e culturale. Per quest'aspetto, si sarebbe dato addirittura un intimo nesso tra schizofrenia e capitalismo.

Asserzioni del genere oggi sembrano assurde. Di fatto, il loro radicalismo non è condivisibile. Il problema che, però, l'antipsichiatria ha posto - vale a dire il rapporto tra ambiente storico-sociale, sistema familiare e disagio psichico - non può essere accantonato come un problema ideologico. Ancora oggi, esso si pone a chiunque affronti l'ambito della psicopatologia con un atteggiamento critico che rifiuta ogni riduzionismo di marca biologica, psicologica o sociale.

L'atteggiamento critico, alimentato dalla pratica clinica, porta ad intuire che, nei deliri schizofrenici, si danno riferimenti impliciti al contesto socio-storico e alle sue contraddizioni, spesso mediate dalla famiglia, che, pur non essendo presenti alla coscienza dei soggetti, sono di fatto indubitabili. Porto due esempi a riguardo: uno, famoso, tratto dalla letteratura psicoanalitica, un altro dalla pratica professionale.

Freud ebbe in trattamento quasi solo nevrotici, ma fu spinto ad interessarsi della schizofrenia sull'onda della polemica con Jung che, per alcuni anni, lavorò in una casa di cura svizzera e tentò per primo di estendere la psicoanalisi alla comprensione e alla cura delle psicosi. Non avendo una diretta esperienza clinica, Freud affrontò il problema in modo singolare: analizzando le memorie scritte qualche anno prima da un paziente, il magistrato Schreber. L'intento di Freud, come peraltro accade in tutti i casi clinici che ha pubblicato, è di dimostrare la fondatezza della sua teoria e in particolare dell'importanza delle pulsioni sessuali infantili nella genesi della malattia mentale. Il delirio di Schreber, incentrato sulla necessità di farsi evirare per ricongiungersi con Dio e beneficare, in conseguenza di questo, l'umanità tutta che sarebbe stata ricreata, viene, di fatto ricondotto da Freud ad un desiderio rimosso di assoggettarsi omosessualmente al padre per condividerne la potenza. In quest'ottica, la storia sociale c'entra solo nella misura in cui il padre di Schreber, psicopedagogista all'epoca molto famoso, era indubbiamente un uomo di grande prestigio.

Un antipsichiatra, Schatzman, ha dedicato un intero libro (La famiglia che uccide, Feltrinelli, Milano) al caso Schreber ricostruendo un quadro familiare ben diverso da quello fornito da Freud. Il padre era in realtà un grave ossessivo preoccupato, nell'educazione dei figli, di estirpare ogni germe di negatività che potesse minacciare lo sviluppo di una personalità sana e forte. La sua ossessione riguardava la debolezza, la sensibilità, la sessualità. Le pratiche pedagogiche cui i figli erano sottoposti, che si avvalevano addirittura di corsetti e dispositivi atti ad evitare la masturbazione, erano francamente sadici. A tali pratiche, Schatzman riconduce il destino dei due figli: suicida l'uno, schizofrenico l'altro.

L'uomo sano e forte del padre Schreber è con tutta evidenza un modello militarista. Non è per caso che i principi dello studioso dettero luogo all'epoca alla diffusione di palestre psicoginniche ove affluivano i giovani tedeschi e ove prese forma l'embrione del giovane hitleriano.

Ora, se questo è vero, il delirio palingenetico del Presidente Schreber, che postula l'evirazione, appare più complesso rispetto all'interpretazione freudiana. Per un verso, su di un piano privato, esso non fa altro che denunciare la castrazione emozionale da lui subita in nome di un Dio incapace di comprendere gli uomini e al tempo stesso sancirla come necessaria. Per un altro, nella misura in cui vede nella femminilizzazione, cioè nell'ingentilimento del maschio, il passaggio obbligato perché il mondo migliori e si umanizzi, il delirio di Schreber assume una valenza storico-culturale che, a posteriori, dopo l'esperienza nazista, può essere pienamente apprezzata. Tanto più che la castrazione delle valenze militariste, che identificano nella guerra il momento fondamentale della risoluzione dei conflitti, è una "malattia" che affligge ancora l'umanità.

Il caso Schreber è eccezionale per le circostanze che hanno permesso di fare luce sul contesto ambientale e familiare sul cui sfondo si è definito. L'intreccio tra storia personale, familiare e sociale, posto che si voglia indagarlo, è però reperibile all'interno di qualunque vicenda psicopatologica. Mi resi conto di questo molti anni fa, allorché presi in cura una ragazza di famiglia piccolo-borghese, Paola, il cui delirio amoroso, d'acchito banale, si rivelò denso di significati.

Educata in casa e dalle suore secondo i principi della tradizione, cattolica fervente, la ragazza era vissuta sino a diciotto anni come una "madonnina". A tale età. aveva sedotto con lo sguardo un giovane, incontrato uscendo dalla Chiesa, e si era divertita per qualche tempo a giocare con lui come il gatto col topo, fino a scoprire che non le interessava. Caduto in depressione, il ragazzo aveva preso a perseguitarla. Non poteva fare un passo fuori casa che se lo ritrovava dietro, sempre rigorosamente in macchina. Infastidita dall'insistenza, Paola era divenuta alquanto cinica, non degnandolo di uno sguardo. Il giovane disperato aveva fatto ricorso ai parenti, che abitavano nel quartiere, i quali avevano preso a loro volta a perseguitare la "maliarda" con terribili occhiatacce, aspri rimproveri e oscure minacce. La giostra era andata avanti un anno, finché Paola aveva capito che non le avrebbero concesso più tregua. Aveva dunque capitolato, dichiarandosi disposta a riparare la colpa maritandosi. Si facesse dunque avanti il ragazzo. I parenti le fanno sapere che egli è rimasto troppo offeso e non se la sente di fare il primo passo. L'iniziativa spetta a lei. Sia pure malvolentieri, Paola accetta di sottomettersi. Esce da casa, lo riconosce per la macchina e per la sagoma e gli va incontro. Arrivata a pochi metri, però, la sua vista si confonde e non è più certa dell'identificazione. Non se la sente di salire sulla macchina di uno sconosciuto, perché sa che l'errore non le sarebbe mai perdonato. Scongiura i parenti del ragazzo di crederle. Vuole riparare la colpa, ma non può. La aiuti lui. Naturalmente non le credono: tutta scena - dicono - per non umiliarsi. La persecuzione prosegue, come pure l'affacciarsi di Paola dalla finestra di casa per gridare la sua innocenza, il suo vagare per strada alla ricerca del partner, l'accostarsi alle macchine, rimanere perplessa e fuggire.

Questa storia ha ingannato i genitori della ragazza per un anno buono, finché è risultato chiaro che era un delirio privo di fondamento. La seduzione non c'è mai stata, né il corteggiamento e tanto meno la persecuzione. La vicenda si è svolta tutta nello spazio mentale di Paola.

Nel complesso sembrerebbe un banale delirio amoroso fiorito sulla base della solitudine affettiva, di una scarsa capacità di relazione sociale e di una serie d'inibizioni dovute all'educazione religiosa. Ma perché un delirio amoroso si è trasformato in un delirio persecutorio, a tal punto drammatico che, anche stando in casa, Paola è tormentata dalle voci rimproveranti che sente venire dalla strada?

Per capire questo occorre analizzare la struttura del delirio, nel quale si esprimono due diversi orientamenti della personalità. Per un verso Paola, inseguendo il partner, manifesta la sua volontà di riparare la colpa - di averlo sedotto e preso in giro - sposandolo. Si dichiara insomma pronta a fare il suo dovere nell'ottica di una tradizione culturale che proietta sulla fantomatica famiglia del partner stesso. Per un altro verso, il disturbo visivo le impedisce di riparare, cioè di sposarsi e di assoggettarsi all'uomo. Come interpretare questo disturbo se non identificando in esso l'espressione di un opposizionismo inconscio nei confronti della tradizione culturale e di una rivendicazione radicale d'indipendenza della donna?

Non sto qui a fornire gli elementi inerenti la storia interiore che hanno attivato in Paola questo conflitto. Ciò che è importante, per ora, è capire che, nonostante la fenomenologia psicopatologica sia quella di un delirio strutturato, la sua matrice segnala il conflitto epocale tra una tradizione dura a morire - quella che impone alla donna di assoggettarsi al suo destino, vale a dire di realizzarsi nell'unione con un partner maschile - e un bisogno d'indipendenza che non trova modo di accedere alla coscienza, di essere riconosciuto ed elaborato adeguatamente.

Se ci si ferma a riflettere su questo conflitto, si capirà facilmente che, nella sua struttura, esso sottende ancora oggi giorno un numero rilevante d'esperienze di disagio femminile, nelle quali le vicissitudini nel rapporto con il partner maschile, la difficoltà di trovare un equilibrio che non porti per un verso all'assoggettamento e alla dipendenza, e per un altro all'abbandono e alla solitudine, svolgono un ruolo dinamico essenziale. Sulla base di questo conflitto si realizzano di solito esperienze meno gravi sotto il profilo psicopatologico: esperienze depressive, quando si configura il fantasma dell'abbandono e della solitudine, attacchi di panico, quando un rapporto in atto viene investito da fantasie di scioglimento, ecc.

Un delirio evidentemente postula un concorso di variabili affatto particolare. Ciò che è importante preliminarmente è prendere atto che la trama del delirio si realizza su di un ordito riconducibile ad un conflitto che è sempre comprensibile in termini di storia interiore e familiare e la cui spiegazione postula di tenere conto della storia sociale.

 

2. Il nucleo delirante

E' noto che il problema della comprensibilità è il nodo gordiano della psichiatria. Si tratta di un nodo che richiede una grande attenzione e precisione concettuale. Occorre distinguere in particolare la comprensione umana, intesa com'espressione d'empatia nei confronti di chi soffre, la comprensione fenomenologica, intesa come capacità di ricostruire il mondo vissuto da un altro soggetto, e la comprensione psicodinamica, che implica invece la capacità di cogliere i nessi psicologici che producono determinati fenomeni psicopatologici. Quest'ultima, che qui interessa, rivela il significato dei sintomi, dei vissuti e dei comportamenti psicopatologici e consente, attraverso essi, d'intravedere la struttura del mondo interiore.

E' giusto chiedersi se la comprensione psicodinamica può estendersi ai fenomeni deliranti. Io penso di sì a patto che, al di là dei contenuti deliranti, che possono essere del più vario genere, si riesce a cogliere la chiave specifica d'ogni manifestazione delirante, vale a dire il nucleo delirante.

Mi si consenta, a questo riguardo, una citazione da Miseria della neopsichiatria:

"Per quanto sia ricca di vissuti complessi, articolati, talora organizzati sotto forma di sistema di pensiero, talaltra caotici e indecifrabili, la psicopatologia schizofrenica appare a ben vedere riconducibile ad un tema univoco, che si ripete all'infinito nelle diverse esperienze, e appare come il nucleo psicodinamico del delirio: l'essere l'io in guerra con un mondo sociale (rappresentato interiormente secondo modalità antropomorfiche o simboliche) che lo sovrasta, e l'essere egli, quali che siano le difese che adotta, destinato a soccombere.

Un'esperienza schizofrenica è, infatti, caratterizzata da una perdita di contatto col mondo reale e dalla produzione soggettiva - espressa dalle allucinazioni, dalle interpretazioni deliranti, dai vissuti emozionali e dai comportamenti che ad essi fanno seguito - di un mondo dereistico che finisce con l'assorbirla. Per quanto dereistico, però, il delirio ha una connotazione affatto particolare: esso implica sempre e comunque una relazione con persone o anche con agenti impersonali ma antropomorfici (Dio, spiriti, extraterrestri, ecc.) che si rapportano al soggetto per inviargli dei messaggi, influenzarlo, guidarlo, manipolarlo, invaderlo, rubargli i più intimi pensieri, accusarlo, minacciarlo, torturarlo, punirlo. L'influenzamento, il riferimento e la persecuzione sembrano esaurire le caratteristiche di questo singolare ‘rapporto’ sociale. In conseguenza del delirio, il soggetto è inesorabilmente in comunicazione con qualcuno, è in una relazione sociale necessaria, irresolubile da parte sua, per quanto sul registro dereistico. L'estensione sociale del delirio è varia potendo essa coinvolgere una sola persona, più persone, tutto il mondo o anche agenti extramondani.

E' difficile minimizzare questo dato. La perdita di contatto con il mondo reale, con le persone in carne ed ossa, che può giungere in alcuni casi ad una totale chiusura autistica, al venire meno d'ogni comunicazione interpersonale, è compensata da una socializzazione forzata in conseguenza della quale il soggetto si ritrova esposto senza difese a relazioni invasive, più o meno turbanti, angosciose e minacciose, che egli non può troncare. Il delirio schizofrenico è dunque sempre, nel suo nucleo più profondo e quali che ne siano le manifestazioni, una particolare esperienza sociale, che mette in gioco ovviamente il sociale interiorizzato…

Una relazione immaginaria con esseri umani o antropomorfici che viola, in forme diverse, i diritti dell'individuo alla privacy psicologica, che lo espone senza scampo a messaggi, influenze, minacce; una relazione negativa e al tempo stesso ambivalente; una relazione infine necessaria poiché è imposta dalla volontà altrui e contro la quale il soggetto, in conseguenza della sua impotenza, non ha difese adeguate: questo è il nucleo proprio e specifico d'ogni delirio schizofrenico. E' sorprendente che la letteratura specialistica che, confrontandosi con la schizofrenia cade spesso nella trappola delle apparenze, pervenendo a giudicarla come una condizione esistenziale abissalmente oscura e indecifrabile, non abbia quasi mai colto questo aspetto strutturale, peraltro evidente. Il delirio è la produzione immaginaria di un mondo sociale regolato da strane leggi in virtù delle quali un soggetto, privato della sua intimità, diventa trasparente e preda degli altri, potendo essere di conseguenza controllato, influenzato, guidato, manipolato come un burattino o impunemente minacciato.

Estrapolando questo dato, il più significativo e costante in assoluto, dall'insieme dei dati psicopatologici, si può affermare che il delirio schizofrenico è immediatamente, a livello di esperienza soggettiva, la prova del primato del sociale sull'individuale. E, trattandosi di una produzione immaginaria, del primato del sociale interiorizzato, di una parte della mente che rappresenta la società e che, all'interno della soggettività, laddove si dà un conflitto tra l'individuo e il mondo, svolge la funzione di un cavallo di Troia, che finisce comunque con il riabilitare il controllo sociale."

Non pretendo che la citazione risulti immediatamente chiara in tutti i suoi punti. Ciò che mi preme è che se ne colga l'essenziale. Nel suo nucleo, il delirio è una patologia della relazione, reale e immaginaria, con l'altro, che comporta uno stato di conflitto soggettivo, spesso inconsapevole, tra l'io e il mondo sociale. Come si genera questo conflitto e, soprattutto, perché esso assume una configurazione quanto mai drammatica? Si tratta di un conflitto specifico, qualitativamente diverso rispetto alle sindromi nevrotiche, o no? In quale misura concorrono nella sua genesi i fattori genetici? Qual'è, nella produzione dei sintomi, l'incidenza dei fattori biologici? Si tratta di quesiti di estrema importanza, per affrontare i quali però occorre disporre di una teoria della personalità.

 

3. Natura umana e cultura

Si danno verità elementari da cui si deve partire. L'uomo è un ente biologico, prodotto dall'evoluzione naturale, che ha assunto le caratteristiche proprie della specie in virtù della vita associativa. Enfatizzare le potenzialità intrinseche del cervello - il pensiero, il linguaggio, ecc. - trascurando che esse, per realizzarsi, richiedono un ambiente sociale cooperativo che definisce i valori in virtù dei quali si sente, si pensa e si parla porta in un vicolo cieco. In quanto ente biologico, l'uomo è una materia prima incapace, in sé e per sé, di autorganizzazione. Occorre applicare delle tecniche pedagogiche per far sì che questa materia si trasformi in un prodotto finito.

E' assolutamente singolare che la nostra civiltà, incentrata sulla produzione, tenda ad ignorare che anche l'uomo è un prodotto, e che la produzione antropologica è l'aspetto più importante della riproduzione sociale.

Che l'uomo sia un prodotto storico, non significa che la materia prima sia una cera amorfa. Il cervello comincia a funzionare e a strutturare se stesso prima di qualsivoglia incontro con l'altro. Esso ha dunque delle potenzialità intrinseche. Se questo è vero, non è meno vero che la personalità si sviluppa attraverso l'interazione con gli altri.

Freud, com'è noto, ha sempre negato di riconoscere l'esistenza nel corredo genetico umano di un bisogno primario di socialità. Oggi ben pochi analisti e psicologi condividono questo giudizio. L'attribuire alla natura umana un bisogno primario di socialità non significa molto però se non si definisce il ruolo che esso svolge nell'evoluzione della personalità. Da questo punto di vista, molti analisti e psicologi rivelano un orientamento riduzionistico identificando il bisogno di socialità con l'affettività. Questa è una dimensione di straordinaria importanza, ma, sotto il profilo evolutivo, rappresenta il canale che facilita la trasmissione culturale e ne consente l'interiorizzazione.

Nulla si può capire dell'uomo se si prescinde dal fatto che uno degli obbiettivi primari dell'evoluzione della personalità consiste nell'interiorizzazione i valori culturali propri del gruppo di appartenenza, che mantengono il loro potere in virtù del fatto che essi giungono a rappresentare, nella trama della soggettività, l'Altro con i suoi diritti, i suoi bisogni, le sue aspettative. Questa funzione di rappresentanza è assolta da un'istanza psicologica identificata da Freud: il Super-Io. E' sorprendente che egli l'abbia attribuita solo alla paura dell'Altro, negando il fatto che, nella strutturazione della personalità, l'Altro viene prima dell'Io e, a livello inconscio, mantiene per sempre un primato dinamico.

In quanto espressione dei valori culturali propri di un gruppo di appartenenza, il Super-Io svolge però una funzione normativa. Esso, in nome del bisogno di coesione proprio di ogni società umana, tende ad assimilare il comportamento individuale ad un modello abbastanza uniforme. Esso, in pratica, prescrive o proscrive comportamenti riferiti al ruolo e non alla persona. Definisce in breve come deve pensare, sentire, agire un buon figlio, un buon genitore, un buon cittadino, ecc.

Se si tiene conto di questo, si arriva alla conclusione che la cultura, in genere, in nome dei bisogni legati alla vita associativa, mortifica costantemente, in misura più o meno rilevante, un aspetto della natura. La natura infatti ama a tal punto la varietà che, nel produrre un corredo genetico umano, essa, eccezion fatta per i gemelli, non si ripete mai. Geneticamente ogni uomo è un essere unico e irripetibile, dotato dunque di una vocazione ad essere specifica e, per alcuni aspetti, differenziata da quella di tutti gli altri.

Una personalità umana governata dal Super-Io è poco più che un automa sociale. Ma su quale base si definisce la differenziazione della personalità? Indubbiamente non si può trascurare l'Io, ma non si può neppure enfatizzarlo. Dotato o meno che sia di un'autonomia primaria, esso, data la pressione che esercita il bisogno di socialità e la tendenza infantile ad idealizzare gli adulti, come fossero delle divinità, non ce la farebbe mai a differenziarsi. La differenziazione di fatto è agevolata da un bisogno d'opposizione e d'individuazione, anch'esso geneticamente determinato, che non è meno potente del bisogno di socialità, anche se l'individuazione non avviene che in dipendenza dalla socializzazione.

Come si esprime questo bisogno, identificato da Jung, nello sviluppo della personalità? Sulla base dell'esperienza clinica, io ho avanzato l'ipotesi che si esprima strutturando una funzione, per molti aspetti inconscia, che oppone alle esigenze culturali e alle aspettative altrui i bisogni, i diritti e la vocazione ad essere propria del soggetto in quanto individuo. Tale funzione si può definire neI termini di un Io oppositivo o antitetico (l'aggettivo essendo giustificato dal fatto che non ci può essere mai completa corrispondenza tra i valori culturali e la vocazione ad essere individuale), il cui obbiettivo ultimo è di promuovere l'autonomia personale, vale a dire la definizione di una volontà propria che si può esercitare sul registro del consenso o del dissenso rispetto a quella altrui, rappresentata dal Super-Io.

Posto ciò, è chiaro che l'Io svolge, o dovrebbe svolgere, una funzione di mediazione tra le richieste sociali e la vocazione ad essere individuale. Se questo è vero, il Super-Io e l'Io antitetico possono essere assunti come substrutture dell'Io.

Il problema, decisivo ai fini della psicopatologia, sta nel come intendere, al di là degli obbiettivi che perseguono - la normalizzazione e l'individuazione -, le funzioni del Super-Io e dell'Io antitetico. Se si ammette che esse si costruiscono sulla base di due bisogni intrinseci, geneticamente determinati - il bisogno di socialità e il bisogno d'individuazione-, verrebbe da dire che la loro espressione primaria è riconducibile ad una spinta motivazionale che porta ad alienarsi nell'Altro e, successivamente, a sentire la pari dignità dell'Io rispetto all'Altro. E' indubbio che le cose stanno così. Via via però che il Super-Io e l'Io antitetico si strutturano, rimanendo per molti aspetti inconsci, essi acquisiscono ciascuno il carattere di una soggettività autonoma rispetto all'Io. Essi in breve sono capaci di produrre pensieri, emozioni e comportamenti secondo le logiche loro proprie.

Questo modello teorico della personalità richiede, per essere apprezzato pienamente, un'esemplificazione clinica. Dovrebbe essere semplice ricondursi alla storia di Paola, e decifrare nella persecuzione l'attività del Super-Io normalizzante, che promuove l'accettazione del suo destino di donna, e nel sintomo che le impedisce di identificare il suo sposo l'attività di un Io antitetico che si oppone tenacemente a quel destino. Una storia ancora più significativa è la seguente.

 

4. Il doppio delirio di Francesco

Francesco è il quarto ed ultimo figlio di una famiglia sarda immigrata a Roma negli anni '60. Quando nasce, la madre soffre già da alcuni anni di una psicosi delirante in via di cronicizzazione. Francesco viene allevato dalla zia e dalla sorella. Di carattere buono e docile, non dà mai problemi. Frequenta un asilo di suore e le scuole statali fino alla terza media, senza manifestare interesse alcuno per lo studio. Dopo l'abbandono della scuola, si lascia un po' andare. Dorme fino ad ora di pranzo, e trascorre il pomeriggio con gli amici del quartiere. Dopo circa un anno, il padre, che gestisce una stazione di servizio, gli impone di lavorare con lui per guadagnarsi da vivere. Francesco accetta per dovere, ma di malavoglia. Per via del suo atteggiamento di 'lavativo', affiora qualche contrasto con il padre di lieve entità.

Intorno ai sedici anni, Francesco comincia a frequentare un giro di amici accomunati da un orientamento ideologico di destra. Non ha interesse alcuno per la politica, ma è suggestionato dai discorsi che circolano nel gruppo sul mito del superuomo. Comincia a sentirsi radicalmente diverso rispetto al contesto familiare e al tenore di vita piccolo-borghese faticosamente raggiunto. Nel suo intimo, diventa sprezzante nei confronti di tutti coloro che conducono un'esistenza routinaria, grigia e senza orizzonti. Continua a lavorare di giorno alla stazione di servizio, ma vive questo ruolo come un necessario compromesso. Nutre aspettative di un grande cambiamento fondate non su di un progetto personale, bensì sullo stato d'animo del gruppo che frequenta, vagamente esaltato dal rilancio della destra in Germania. Quando, a 17 anni, si rade a zero i capelli, esibendo la sua appartenenza al gruppo, lo scontro con il padre è inevitabile. Per via della docilità di carattere di entrambi, lo scontro non è violento.

Il padre, la cui cultura è rimasta incentrata sulla rispettabilità e sull'onore, lo richiama ad una condotta di vita più responsabile, facendogli presente che già da qualche tempo dei conoscenti lo hanno messo sull'avviso riguardo alle compagnie frequentate dal figlio, e gli hanno consigliato di intervenire per scongiurare che egli, influenzato dalle teste calde, possa compromettersi. C'è, in effetti, nel quartiere, un'atmosfera che sembra gravitare verso scontri tra gruppi giovanili di destra e di sinistra. Francesco ,in nome del rispetto dei grandi in cui è stato educato, lascia parlare il padre, ma, nel suo intimo, sente di essere ormai superiore a lui nel capire la vita, e di dover andare avanti per la sua via. Se ne assume la piena responsabilità e aspetta con ansia il compimento della maggiore età per rivendicare la sua libertà personale.

Compie diciotto anni un mese prima delle votazioni politiche, e si sente affrancato da un peso e vagamente esaltato senza ragione apparente. Vota MSI d'accordo con il gruppo cui appartiene, che si augura di vedere il partito virare più decisamente a destra per effetto della spinta giovanile. Per festeggiare il risultato elettorale, si concede una notte brava con gli amici nel corso della quale fuma qualche spinello. L'esaltazione legata alla maggiore età lo induce a sentirsi finalmente padrone di sé. Al padre, che lo richiama all'ordine, risponde che ormai non deve rendere conto a nessuno di quello che fa e intende quanto prima andare via di casa.

Dopo alcune settimane, comincia ad avvertire delle voci. Sono dapprima voci un po' confuse che commentano i suoi comportamenti. Nel giro di qualche mese, le voci diventano nitide. Francesco le avverte sia fuori sia in casa, benché un po' più distanti. I commenti si traducono, poco alla volta, in suggerimenti, consigli e, infine, in comandi.

Francesco non riesce a spiegarsi ciò che sta accadendo, ma gli riesce chiaro che, perseguitandolo, le persone tentano d’influenzarlo, di sottomettere la sua volontà, di trasformarlo in un automa o in un burattino. Si ribella, ma l'intensificarsi delle voci in rapporto alle sue ribellioni non gli concede scampo: deve piegarsi, anche se animato da una esasperazione rabbiosa crescente. Il significato della persecuzione non gli è immediatamente chiaro, poiché i comandi concernono pressoché tutti i comportamenti della vita quotidiana. Egli si rende conto addirittura che i suoi sogni sono programmati. E' evidente, però, che i "comandi'"mirano a farlo tornare a vivere nel ruolo di bravo ragazzo, rispettoso e mediocre, che è stato suo fino a sedici anni.

Per tacitare le voci, Francesco decide di assecondarle tatticamente, nell’attesa di andare via da casa. Si fa ricrescere i capelli, mantenendoli comunque corti, rinuncia ad alcuni capi di abbigliamento e ad alcune ingenue pose da superuomo, abbandona la palestra ove ha cominciato a fare del culturismo. Ad ognuno di questi compromessi, corrisponde un allentamento della persecuzione che, però, dopo qualche tempo si realizza con maggiore intensità. Un giorno, per strada, Francesco perde il controllo e attacca fisicamente un uomo che lo sta prendendo in giro. Per fortuna, l'episodio non ha conseguenze di rilievo, tranne per il fatto che l'uomo gli dà del matto.

Per non correre ulteriori rischi, si chiude in casa. La carcerazione domestica, che allenta ma non risolve la persecuzione, produce un'esasperazione totale, e l'affiorare di vaghi propositi di farla finita.

Nel periodo di reclusione domestica, Francesco giunge a darsi una spiegazione del delirio. La persecuzione è stata organizzata dal padre, che si è reso conto di aver perduto ogni potere su di lui coinvolgendo la gente del quartiere, per controllarlo e farlo rigare dritto. La prova è che i persecutori sanno tutto della sua vita, anche i pensieri più intimi e gli impongono di vivere come il padre desidera: per esempio di abbassare lo stereo quando quegli è in casa e riposa. Francesco si piega alle imposizioni perché altrimenti sono guai: le voci rimbombano finché non si decide a fare il suo dovere. Quando non impartiscono ordini, le voci lo accusano. Accuse strampalate: dicono ladro! ladro! e accennano a tre milioni. L'accusa manda in bestia Francesco perché rievoca quello che a scuola si diceva dei sardi. La sua famiglia è stata sempre onesta e non ha colpa se qualche conterraneo è una pecora nera. Qualche soldo lo ha preso dal portafoglio del padre, ma per necessità. Il padre non ha mai considerato i suoi bisogni, e lo mandava in giro anche quando era divenuto grandicello, senza una lira in tasca. Perciò, dai dodici ai sedici anni, ogni settimana, Francesco rubava la paghetta, qualche decina di migliaia di lire. I conti non li ha mai fatti ma tornano: più o meno di tre milioni si tratta!

Via via che ricostruisce le sue colpe - i furti, l'esaltazione politica alimentata dal fumo che lo ha reso aggressivo in casa, la sua rivendicazione di essere mantenuto - la rabbia di Francesco si placa. Egli riconosce le ragioni e le preoccupazioni del padre, anche se non gli perdona un atteggiamento maltrattante. Riordina la sua vita, torna a lavorare regolarmente, elimina il fumo, si tiene a distanza dai fascisti. Le voci degli 'amici' del padre si rarefanno e si dissolvono. Ma, poco tempo dopo, ne insorgono altre, ancora più irritanti.

Sono quelle dei suoi amici che lo prendono in giro perché si è fatto mettere sotto dai grandi ed è diventato un pulcino, un "cacasotto". Francesco cerca di lasciare correre, ma le voci si incrementano. Per dimostrare di non essere assoggettato alla volontà paterna e di essere un uomo, riprende ad uscire, a fare tardi la sera, a fumare. Lo scontro con il padre è inevitabile e piuttosto aspro. Francesco reagisce negativisticamente, abbandona il lavoro e si blocca in casa. Ma la decisione è sbagliata su due fronti. Le voci riprendono a tormentarlo e si sommano: le une lo rimproverano del suo essere un figlio sciagurato, le altre d’essere un codardo che non ha più il coraggio di uscire la sera. Dopo essersi proposto più volte di scendere in strada e di ammazzare qualcuno dei suoi persecutori, Francesco si getta dalla finestra. Sopravvive ma rimane ingessato per un anno, dopo di che accetta passivamente le cure farmacologiche prescritte da un Centro di Salute Mentale, e si cala rapidamente nel ruolo di psicotico cronico.

Per quanto drammatica, l'esperienza di Francesco è, sotto il profilo psicodinamico, straordinariamente chiara. Si tratta di un doppio delirio, l'uno sotteso dai sensi di colpa e dai doveri di appartenenza, l'altro da una rivendicazione confusa di libertà e di differenziazione, che si realizza attraverso "voci" allucinatorie che manifestano i pensieri, le emozioni e le logiche rispettivamente del Super-Io e dell'Io antitetico. Per questo aspetto, l'esperienza di Francesco è più trasparente rispetto a quella di Paola. Il problema è se, sotto il profilo strutturale, si può dare ad essa un significato di carattere generale.

 

5. Il conflitto strutturale

Un conflitto psicodinamico si definisce strutturale nel momento in cui esso comporta la scissione, l'opposizione e l'alienazione delle substrutture dell'Io, vale a dire del Super-Io e dell'Io antitetico, in conseguenza delle quali viene compromessa, più o meno gravemente, la coesione e la funzionalità dell'Io.

In conseguenza della scissione, le substrutture perseguono ciascuna gli obbiettivi suoi propri, che l'io non è in grado di riconoscere e di mediare. Im conseguenza dell'opposizione esse, anziché mirare all'integrazione, tendono reciprocamente ad eliminarsi, vale a dire ad assumere il controllo egemonico dell'Io. In conseguenza dell'alienazione esse diventano disfunzionali sia in rapporto alle esigenze dell'io che in rapporto ai bisogni da cui prendono origine. In pratica esse si irrigidiscono, si autoalimentano reciprocamente e si allontanano progressivamente dal loro obbiettivo primario. Il Super-Io può assumere un carattere persecutorio rispetto all'Io fino al punto di promuoverne la soppressione, e l'Io antitetico può volgersi in una direzione che ha poco a che vedere con la differenziazione individuale perché, al limite, può ridursi alla rivendicazione di una libertà cieca e trasgressiva.

Per capire meglio quest'ultimo aspetto, ho mutuato dalla scienza della comunicazione un principio - quello di ridondanza - che mi sembra particolarmente pertinente. Tale principio può essere facilmente esemplificato. Si immagini un assetato nel deserto, un individuo cioè un cui bisogno primario viene ad essere frustrato dalle circostanze ambientali. E' evidente che la coscienza del soggetto in tale situazione è dominata dal bisogno dell'oggetto atto a soddisfare il bisogno frustrato, l'acqua. Ma come si presenta questo desiderio nell'orizzonte soggettivo?Non di certo nella misura espressiva dell'autentico bisogno fisiologico, che è di due-tre litri d'acqua, bensì sotto forma di una fantasia rivolta ad una quantità illimitata d'acqua. Da ciò si può ricavare il principio della ridondanza, secondo il quale un qualunque bisogno, fisiologico o psicologico, frustrato s'infinitizza, vale a dire si presenta alla coscienza o preme a livello inconscio in una forma fenomenologica che esaspera il bisogno reale.

L'importanza di questo principio dal punto di vista psicopatologico è difficile da minimizzare. E' nel nome di esso che si può comprendere la natura persecutoria del Super-Io, che, ridondando, mira a riabilitare il senso dei doveri di appartenenza, e la natura non meno persecutoria dell'Io antitetico, che, ridondando, mira a rivendicare la libertà e i diritti individuali.

Ora, per fare un ulteriore passo sulla via della comprensione e della spiegazione psicopatologica, rimane solo da chiedersi se, nei termini in cui è stato definito, il conflitto strutturale ha una sua specifica configurazione nelle varie sindromi psicopatologiche, o viceversa, se esso ha una configurazione univoca che si fenomenizza in modi diversi. La domanda sembra estremamente complessa, ma la risposta può essere agevolata da un rilievo importante.

Basta chiedersi in quale periodo dello sviluppo della personalità il conflitto tra Super-Io e Io antitetico, quale che ne sia la consapevolezza dell'Io che lo alberga, si può ritenere strutturalmente "fisiologico". La risposta è ovvia: il periodo in questione è quello adolescenziale, allorché le richieste sociali, reali e interiorizzate, e i bisogni d'individuazione entrano normalmente in conflitto. Questa risposta orienta a pensare che un conflitto strutturale psicopatologico, capace cioè di manifestarsi sotto forma sintomatica, è sempre l'indizio di una crisi adolescenziale fallita, esitata in una scissione piuttosto che in un'integrazione del bisogno di socialità e del bisogno d'individuazione. Ciò non significa ovviamente che il conflitto strutturale si origini a livello adolescenziale. La sua genesi può essere più o meno remota. E' un dato di fatto però che qualunque conflitto preesistente il quale non si risolve attraverso la crisi adolescenziale può assumere un valore psicopatogeno, rimanga o no esso latente.

Io ritengo che questa conclusione abbia un valore affatto generale, che investe tutto l'universo psicopatologico. E' fuor di dubbio però che essa, riguardo al problema della schizofrenia, assume un significato di particolare interesse. Ci fa intuire infatti immediatamente perché le sindromi schizofreniche, siano esse acute o striscianti, si manifestano nel 90% dei casi in un arco di tempo che va dai 15 ai 25 anni, e copre quella che i sociologi contemporanei definiscono come l'adolescenza lunga.

La schizofrenia dunque interviene sulla base di un conflitto strutturale che, date le polarità dinamiche che lo sottendono, è comprensibile, e non ha alcun carattere qualitativamente specifico rispetto a qualunque altra esperienza di disagio psichico.

Se questo è vero, occorre chiedersi perché esso si esprime in forme cliniche tanto drammatiche da avere prodotto il fantasma della follia come una malattia del cervello geneticamente determinata. Questo fantasma è infatti oggi accreditato dalla maggioranza degli psichiatri, che hanno restaurato la dottrina ottocentesca sulla schizofrenia, dando ad essa una nuova veste, quella neopsichiatrica. La neopsichiatria si riconduce ad un modello multidimensionale secondo il quale, nella genesi dei disagi psichici, concorrono, in misura diversa da caso a caso, fattori biologici, psicologici e ambientali o socio-culturali. Tale modello sembra sormontare d'emblée la polemica tra organicisti, psicologisti e sociogenetisti. Ma l'equilibrio epistemologico del modello multidimensionale è uno specchietto per le allodole. In particolare per quanto concerne la schizofrenia, in tutti i manuali in tutti gli articoli scritti dai neopsichiatri si dice a chiare lettere che essa è una malattia del cervello, che si fonda su di una predisposizione genetica, e si esprime attraverso sintomi psichici solo in conseguenza dell'organo particolare interessato. I fattori ambientali si riducono, da questo punto di vista, all'ambiente uterino, ove forse la malattia avvierebbe un difetto della strutturazione dei circuiti interneuronali. I fattori psicologici e quelli culturali sono ritenuti importanti solo per quanto riguarda il decorso della malattia stessa.

Le prove fondamentali della natura genetica della schizofrenia sono due: la sua incidenza statistica costante (1%) nello spazio e nel tempo, e la morbilità tra congiunti che, nel caso dei gemelli omozigoti, separati alla nascita e allevati in ambienti diversi, è del 40%. Ho sottoposto a critica entrambi queste prove in Miseria della psichiatria. Per questo non mi soffermo ora su quest'aspetto, preferendo approfondire il discorso psicopatologico.

 

6. Esiste la schizofrenia?

Mi sia concesso di riproporre il quesito antipsichiatrico in termini diversi dal passato. Di fronte ad un soggetto adulto che delira da anni, afferma che le persone lo controllano con le radio onde, sente le voci e gli sguardi penetrare le pareti e vive chiuso in casa come un assediato, casomai sfogando la sua rabbia con i familiari, ritenere che la schizofrenia sia un'etichetta sociale può apparire francamente bizzarro. Di fatto lo è, anche se la ricostruzione della storia interiore e sociale del soggetto può permettere, a distanza di anni dall'esordio, di riconoscere una problematica conflittuale. Da questo però ad utilizzare il termine schizofrenia per etichettare qualunque crisi giovanile grave caratterizzata, in forma acuta o strisciante, da sintomi deliranti e/o autistici, il passo è lungo. E non solo perché si danno episodi psicotici acuti che regrediscono senza lasciare traccia di sé. Questo è riconosciuto anche dalla neopsichiatria. Il problema è che, se si accetta il punto di vista strutturale di cui ho parlato, diventa assolutamente inammissibile ritenere che le crisi giovanili, quale che sia la loro fenomenologia clinica, possano essere considerate incomprensibili. La comprensibilità psicodinamica, posto che si intenda perseguirla, si dà sempre. Laddove si dà comprensibilità, utilizzare il termine schizofrenia è illecito e pericoloso: illecito esso comporta un giudizio diagnostico, e spesso prognostico, grave che implica una malattia primaria del cervello; pericoloso perché può indurre un trattamento unicamente farmacologico deleterio.

Cercherò di chiarire questi assunti riportando due casi clinici.

A ventidue anni, Marco è incarcerato in casa da alcuni mesi e si sente assoggettato ad un assiduo controllo da parte dei vicini. Evita d'avvicinarsi alla finestra poiché vede, nei palazzi di fronte, sempre qualcuno di turno che lo spia. Anche in casa non è tranquillo. Si muove con cautela, impaurito dal pericolo che i suoi movimenti possano disturbare e irritare i vicini. Vive uno stato d'allarme continuo incentrato su una paura di morire, in seguito ad una malattia o ad un'aggressione, che talora raggiunge vertici di panico. Ha tentato alcune volte d'uscire di notte allontanandosi dal quartiere, ma ha preso atto d'essere sempre e comunque spiato e tenuto sotto controllo. Non riesce a capirne le ragioni. Intuisce però che alcuni controllori lo temono come se fosse pericoloso, altri lo ritengono un codardo e dunque lo spiano derisoriamente.

Il delirio di riferimento è insorto alcuni mesi prima in rapporto ad alcuni contrasti con i vicini. Uno di questi aveva avviato dei lavori utilizzando una sega elettrica il cui rumore aveva fortemente disturbato Marco impegnato a studiare. Irritato egli aveva deciso ad un certo punto di redarguirlo, desistendo per la paura di un conflitto. Poco tempo dopo, un meccanico, cui la famiglia di Marco aveva chiesto di sgombrare una parte del giardino della casa che gli era stata data in concessione, si era presentato con una squadra di operai e aveva smantellato il cancello lasciando la casa sguarnita. Anche in tale circostanza, benché arrabbiatissimo, Marco non se l'era sentita d'intervenire. Il delirio di riferimento si è avviato una settimana dopo quest'ultima circostanza.

E’ evidente che il delirio di riferimento, che ha già assunto un carattere persecutorio, risulta funzionale ad inibire la rabbia di Marco e ad impedire ad essa d'esplodere. Marco ha avuto di fatto e continua ad avere delle fantasie di vendetta micidiali, e, via via che esse hanno preso piede, è giunto ad avvertire e a temere la sua potenziale pericolosità. Questa percezione è smentita dal comportamento sociale, caratterizzato da una totale accondiscendenza e arrendevolezza nei confronti degli altri. Benché di taglia nettamente superiore alla media fin da piccolo, Marco ha sempre subito le 'cattiverie' dei coetanei senza mai reagire. Si definisce un vigliacco, ma riconduce la vigliaccheria anche al suo essere troppo sensibile. L'idea di far soffrire o di danneggiare qualcuno l'ha sempre terrorizzato. E' molto lucido nel definire la sua sensibilità un problema drammatico. Ha sempre sentito l'altro come una parte di sé, anzi come una parte più importante del suo io. Si è sentito sempre invaso dagli altri, obbligato a rispondere alle loro aspettative, a subirne i desideri e gli arbitri. Ogni moto di ribellione interna si è sempre associato ad una sofferenza estrema, impregnata di sensi di colpa. "Non ho mai avuto confini tra interno ed esterno" afferma per la soddisfazione dei teorici della debolezza dell'io. La sua storia interiore attesta che, data la sua sensibilità, non avrebbe potuto darseli.

Marco è il terzo di cinque fratelli di una famiglia singolare. I genitori sono entrambi cattolici catecumenali e comunisti. Dacché si sono sposati vivono in un quartiere periferico di Roma molto degradato, ove si sono costruiti una casa con le loro mani, che considerano come un terreno di missione religiosa e politica. Sono impegnati contemporaneamente nelle opere di carità parrocchiale e nella militanza politica. La vita familiare è stata ispirata rigorosamente ai precetti evangelici. I figli sono stati educati all'amore del prossimo, alla tolleranza, al sacrificio. L'esempio rigoroso, ma non bigotto, dei genitori li ha influenzati tutti inibendo, in nome del mito dell'armonia, ogni opposizione. Solo una sorella maggiore, tre anni prima che Marco stesse male, ha assunto per un certo periodo un atteggiamento aspramente conflittuale nei confronti del padre accusandolo d'essere un prepotente e non rivolgendogli la parola per alcuni mesi. La crisi è stata smaltita in famiglia in virtù di un lungo dibattito dal quale è venuto fuori che il padre non è un prepotente bensì un perfezionista implacabile (caratteristica condivisa in misura minore anche dalla madre) che, non dando tregua a se stesso, non l'ha data mai ai figli.

Marco, più di tutti gli altri, ha interiorizzato la logica cristiana del sacrificio e della mortificazione a favore degli altri. A scuola prima e nell'interazione sociale spontanea poi, in un quartiere in cui domina la legge del più forte, egli ha avuto non poche difficoltà a tollerare una serie di piccole e di grandi angherie. Si è attenuto, però, rigorosamente al principio di offrire l'altra guancia. Ha sempre percepito, allorché subiva o vedeva subire dei torti, un intimo moto di ribellione violenta. Dall'età di diciotto anni in poi, avendo cominciato ad interessarsi di politica, ha avuto non poche crisi interiori riferite alla difficoltà di conciliare il principio cristiano di subire con quello di lottare contro le ingiustizie. La crisi si è risolta in conseguenza del sopravvenire, a diciannove anni, di una serie di rituali ossessivi piuttosto complessi inerenti i movimenti del corpo che Marco doveva eseguire con estremo scrupolo per scongiurare che accadesse del male a lui o ai suoi cari.

Nonostante la pratica dei rituali, vissuta soggettivamente come un’ulteriore prova cui Dio lo sottoponeva, Marco da allora è convissuto con un'ansia, talora molto intensa, incentrata sull'aspettativa di una malattia o della morte. Tale ansia, appena arginata dai rituali, ha interferito sistematicamente e sempre di più nella vita di Marco rendendo temibile ogni piacere dall'alimentazione all'ascolto della musica e alla sessualità. Ad ogni tentativo d'abbandono al piacere corrispondeva, infatti, l'intuizione angosciosa di doverlo pagare in qualche modo.

Dall’epoca dell’insorgenza del delirio si è definita una condizione interiore paradossale. Per un verso, la coscienza di Marco è perennemente ingombrata dal ricordo ossessivo, pescato peraltro in un patrimonio molto ricco a riguardo, di qualcuno che gli ha fatto dei torti di cui vendicarsi. Lo spirito di vendetta s'associa, non di rado, contro la sua volontà, a fantasie di violenza e di sadismo. Per un altro, egli si sente pericoloso, giudicato tale socialmente e perciò tenuto sotto stretto controllo. La sua rabbia nei confronti del controllo sociale s'attiva solo quando, stando in casa e non potendo fare male ad alcuno, deve inibire quasi il respiro per non sentirsi in colpa.

La trasparenza strutturale del delirio è inequivocabile. I valori propri del gruppo d'appartenenza, interiorizzati a livello superegoico, hanno orientato Marco verso una pratica di vita incentrata sull'annullamento di sé a favore degli altri, inibendo in maniera radicale qualunque espressione del bisogno d'opposizione/individuazione, che si è organizzato, a livello inconscio, in conseguenza dei torti subiti e della presa d’atto delle ingiustizie esistenti nel mondo, sotto forma di un Io antitetico che ha assunto il ruolo di un implacabile giustiziere. La colpevolizzazione di quest'Io antitetico, significato a livello superegoico, laddove vige il principio cristiano per cui nutrire risentimento nei confronti del prossimo è già di per sé un peccato mortale, come espressione di una smodata aggressività, ha prodotto dapprima i rituali di controllo del comportamento motorio e poi le angosce ipocondriache. Un'ulteriore intensificazione del conflitto, legato alle circostanze scatenanti di cui si è riferito all'inizio, ha reso precari i controlli superegoici interni rendendo necessaria la proiezione delirante, il controllo sociale.

In virtù del delirio, i diritti degli altri, che hanno sempre avuto nell’esperienza di Marco un peso smisurato che ha schiacciato il suo io nell’accondiscendenza, nell’altruismo e nella paura del conflitto interpersonale, sono riabilitati in nome di un mondo offeso dalle sue rabbie e dalle sue fantasie di vendetta. L’aspettativa della morte va però al di là del conflitto sociale. Essa infatti è coscientemente riferita ad un Dio adirato nei suoi confronti in quanto peccatore.

Benché totalmente deprivato della sua libertà dai rituali e dal delirio, Marco non se la prende più di tanto con coloro che lo tengono sotto controllo. Se infatti non gli sembra di meritare la morte, la percezione che ha della propria rabbia e la paura profondissima di potere agirla e fare male a qualcuno, l'induce a vivere l’ingabbiamento assicurato dai sintomi come un male minore. Egli dunque, pur protestando contro il controllo sociale invasivo, che lo priva di ogni privacy, è in qualche misura convinto di essere potenzialmente pericoloso. Nonostante sia intelligente e dotato di una buona attrezzatura culturale, la sua coscienza, totalmente calata nel delirio, è lontana mille miglia dal coglierne il senso, soprattutto in rapporto al fatto che la punizione a cui si assoggetta smentisce la presunta pericolosità.

Egli, dotato di una grande capacità introspettiva, impiega alcuni mesi a rendersi conto di ciò che è accaduto. Il delirio di fatto scompare, e Marco si dedica al compito di rafforzare la sua personalità nell'interazione sociale utilizzando, come capitale energetico, le rabbie accumulate nel corso degli anni in seguito alla frustrazione del bisogno di individuazione. Dedicandosi a questo, scopre l'enorme difficoltà di entrare in conflitto con qualcun altro, anche semplicemente di dissentire o dire di no, e questo lo aiuta a dissolvere il fantasma della pericolosità sociale.

Ci si può chiedere che cosa sarebbe accaduto se egli avesse seguito la via indicata dal primo psichiatra che lo ha visitato, che gli ha prescritto dei farmaci e ha annunciato ai genitori di avere un figlio schizofrenico. Presumibilmente, sarebbe rimasto intrappolato nella convinzione della sua pericolosità, avrebbe continuato a sentirsi offeso e arrabbiato per il controllo sociale totale cui era sottoposto. Le rabbie e le fantasie di vendetta avrebbero incrementato i sensi di colpa e il delirio persecutorio in una spirale dinamica senza fine, capace senz'altro di dissociare l'Io.

Il secondo esempio è ancora più inquietante. Si tratta di un ragazzo di 16 anni, Giacomo, che da un giorno all'altro manifesta dei comportamenti molto strani. Rifiuta di frequentare un corso di apprendimento professionale e un ambiente di lavoro dove svolge il tirocinio, si chiude in casa, appare manifestamente terrorizzato ma non sa dire da cosa, si aggrappa disperatamente ai genitori, evita di guardarsi allo specchio perché teme di vedere apparire sul suo volto qualcosa di mostruoso, è convinto di doversi celare agli occhi altrui al fine di evitare di trovarsi di fronte ai loro sguardi spaventati e rimproveranti. Nel giro di un mese, regredisce in una situazione autistica che gli impedisce quasi di parlare. Viene visitato da uno psichiatra il quale dice ai genitori, anche se la diagnosi di schizofrenia non è certa, la sola ipotesi che di ciò si tratti giustifica un intervento precoce con neurolettici ad alte dosi. Egli sostiene infatti che, quando si avvia un processo schizofrenico, bloccarlo immediatamente significa ritardarne l'evoluzione, mentre non intervenire con i farmaci può indurne la cronicizzazione anche dopo solo un mese.

Con i neurolettici, Giacomo non sta affatto meglio, tranne per il fatto che riesce a dormire un po' più di notte. L'angoscia, l'autismo e il terrore di guardarsi allo specchio anzi sembrano incrementarsi.

Quando me lo ritrovo davanti, con lo sguardo dell'animale braccato, mi limito semplicemente a chiedergli di cosa ha paura: di morire, d'impazzire o di perdere il controllo su di sé e fare male a qualcuno. Si tocca lo stomaco laddove l'angoscia si è immediatamente attivata, ma risponde senza esitazione che ha paura di tutte e tre le cose. Dato che quelle paure sono espressive di gravi sensi di colpa (e Giacomo riconosce di vivere nell'attesa che il buon dio gli somministri una terribile punizione), si tratta di capire come questi si siano originati. Non è particolarmente difficile.

Giacomo nasce da due genitori impegnati entrambi a fare carriera e tendenzialmente perfezionisti. E' un bambino quieto, ma introverso, che sente molto più di quanto riesce ad esprimere. Egli cattura le aspettative perfezionistiche dei genitori ed interagisce con esse in maniera ambivalente. Sotto il profilo del comportamento, fin dalla prima infanzia, è un "ometto" inappuntabile, ossequioso, corretto, che non dice mai una parolaccia e non si abbandona mai ad un gesto volgare. La pressione educativa è compensata da un opposizionismo inconscio che si esprime attraverso lo studio. Nonostante un'intelligenza brillante, Giacomo va avanti a fatica tollerando il fatto che i genitori, non potendolo rimproverare, si limitano a ritenerlo poco dotato. Giacomo sente che non è vero, ma non sa perché i risultati scolastici sono mediocri.

All'epoca delle medie, le cose si complicano. Lo stile di vita di Giacomo, troppo "signorile" per la sua età, lo isola dai coetanei, alcuni dei quali cominciano a prenderlo in giro. Il peggio avviene al liceo. Come accade a molti ragazzi introversi, l'atteggiamento di Giacomo, che non dà molta confidenza agli altri, viene scambiato per un atteggiamento scostante e presuntuoso. Tre-quattro compagni cominciano a perseguitarlo, rivolgendoli epiteti infamanti, sottoponendolo a "scherzi" piuttosto sadici e addirittura aggredendolo fisicamente. Giacomo non è in grado di reagire né di parlare ai genitori, iperimpegnati nel lavoro, della situazione che si è creata. Si limita a subire, ma sente crescere dentro di sé una rabbia sempre maggiore, che alla fine si traduce in fantasie atroci di vendetta. Arrivato al limite della sopportazione, e avvertendo la paura di perdere il controllo, Giacomo decide di abbandonare la scuola.

I genitori non ne fanno un dramma. Per loro l'importante non è la laurea ma un qualunque impegno. Provvedono immediatamente ad iscrivere Giacomo ad un corso di apprendimento professionale e, per non farlo poltrire il pomeriggio, lo inseriscono in un ambiente di lavoro come tirocinante. Giacomo praticamente si ritrova impegnato dalla mattina alla sera. Per di più, nell'ambiente di lavoro la sua timidezza e la compostezza sono ancora una volta motivi di scherno. Il datore di lavoro poi lo tratta grossolanamente come un garzone di bottega. E' un po' troppo. Giacomo sente di nuovo avvampare dentro una rabbia micidiale. La fa presente al padre chiedendo di essere esentato dal tirocinio. Questi è spaventato dalla possibilità che il figlio ciondoli tutto il pomeriggio senza fare nulla. Lo rimprovera e gli impone di continuare. Giacomo tenta di essere ancora una volta un buon figlio. Ma le rabbie accumulate da molti anni per le richieste eccessive cui è stato sottoposto e per le angherie e le umiliazioni subite a livello sociale hanno la meglio.

Comincia ad avere fantasie di vendetta contro tutti e contro tutto. Le fantasie poi imboccano la via della devianza attraverso la droga, che sarebbe un duro colpo anche per i genitori. Già qualche volta in passato, Giacomo ha fumato marijuana. Per sedare una situazione interna turbolenta e giunta al limite della rottura, la tentazione è di varcare la soglia delle droghe leggere e di inoltrarsi nel mondo dello sballo. E' a questo punto che si attivano gli intensi sensi di colpa che lo precipitano in uno stato psicotico.

Queste due esperienze sono di estremo interesse sotto il profilo teorico: mi soffermo sulla seconda semplicemente perché è più recente.

 

7. L'io diviso

L'io diviso è il titolo di un libro di D. R. Laing che, negli anni '70, rappresentò un manifesto dell'antipsichiatria. La sua lettura, ancora oggi, è densa di suggestioni. Cito da una recensione il cui testo integrale si trova sul sito (Bibliografia/ Antipsichiatria/ Laing):

"I nuclei concettuali, intimamente correlati, sono tre. Il primo - l'insicurezza ontologica primaria - definisce il background da cui si sviluppano le psicosi. Il secondo - il sistema del falso io - descrive l'organizzazione della personalità che, con varie modalità, si realizza sulla base dell'insicurezza ontologica. Il terzo riguarda gli sviluppi psicotici del sistema del falso io, vale a dire la schizofrenia.

L'articolazione del discorso comporta, come assunto di fondo, che non si dà una malattia come fatto primario. Il fatto primario è un modo di essere, di sentire se stessi e di sperimentare il mondo su di un registro, prodotto dall'esperienza personale e sociale del soggetto, caratterizzata dall'angoscia, che è il segno dell'insicurezza ontologica primaria, vale a dire del mancato raggiungimento di un obbiettivo di straordinaria importanza sotto il profilo psicologico-esistenziale: un senso, solido e centrale, della realtà, dell'identità di se stesso e degli altri.

L'angoscia legata all'insicurezza ontologica si traduce in tre vissuti che Laing definisce con i termini: risucchio, implosione, pietrificazione…

L'analisi di questi vissuti nel testo è finissima, ma Laing, nel rispetto della metodologia fenomenologica, non si chiede come si producano. Li riconduce all'insicurezza ontologica primaria, che è un dato vicino all'esperienza dei soggetti che la sperimentano. Ma - c'è da chiedersi - si tratta di una condizione ontologica o non piuttosto di una condizione che rivela uno stato di conflitto tra soggetto e mondo sociale di cui egli non si rende conto, e in conseguenza del quale il rapporto del soggetto con sé e con gli altri diventa inquietante, temibile, angoscioso e reciprocamente persecutorio?Se Laing avesse tenuto conto che ciò che affiora a livello soggettivo, e viene vissuto con immediatezza è il frutto di processi inconsci e dell'interpretazione che la coscienza dà delle turbolenze emozionali legate a quei processi, sarebbe giunto alla conclusione che la comprensione fenomenologica non è né può essere l'apprensione di ciò che avviene nella coscienza di un altro soggetto bensì solo il presupposto di un'interpretazione che necessariamente deve tenere conto di quello che avviene nella totalità della mente, che comporta livelli consci e livelli inconsci.

Assunta dunque l'insicurezza ontologica primaria come fondamento angoscioso di una condizione di paura e di diffidenza nei confronti del mondo (e di sé) che Laing riconduce al modo di essere schizoide, egli passa ad illustrarne le conseguenze sull'organizzazione della personalità, riconducibili al sistema del falso io. Data la difficoltà d'intrattenere con il mondo un rapporto interattivo aperto, fondato sulla capacità di separarsi dagli altri e di relazionarsi con loro, la personalità schizoide non può non organizzarsi che in maniera dissociata. L'io vero, reale, interiore, o almeno quello che il soggetto sente come tale si separa, si ritira dal mondo e diventa inosservabile. Nella relazione col mondo, il soggetto indossa costantemente una maschera, una facciata che mira in parte a adattarlo agli altri e in parte a renderlo impenetrabile.

Questa difesa, che dovrebbe arginare l'angoscia legata all'insicurezza ontologica, in realtà diventa un rimedio peggiore del male perché la sua conseguenza è che il soggetto si sperimenta come vuoto e futile, sente di ingannare gli altri e vive perennemente nell'angoscia del giudizio sociale

"Nessuno, più dell'individuo schizoide, si sente vulnerabile e esposto allo sguardo di un'altra persona. Se non prova un acuto imbarazzo, una "consapevolezza" di essere guardato dagli altri, vuol dire soltanto che ha temporaneamente evitato il manifestarsi dell'ansia, e ciò con due possibili modi: o ha trasformato in un oggetto l'altra persona, spersonalizzando quindi i sentimenti nei suoi confronti, ho ha assunto un'aria indifferente." (p. 87).

"Per l'individuo schizoide ogni paio di occhi di un suo simile significa una testa di Medusa, dotata del potere effettivo di uccidere o spegnere quel po' di vita che è in lui. Egli cerca perciò di prevenire la sua pietrificazione pietrificando gli altri." (p. 88)

In breve:

"Nella struttura caratteriale dello schizoide troviamo un'insicurezza delle fondamenta, e in compenso una rigidità della sovrastruttura." (p. 88-89)

Se si ammette che l'insicurezza non sia un fatto primario, ma l'espressione di una conflittualità sottostante che, non potendo essere decifrata, viene percepita a livello cosciente come angoscia, la struttura risulterebbe più complessa. Essa infatti comporterebbe un'infrastruttura inconscia, dominata dal conflitto tra soggetto e mondo sociale, un livello subcosciente o cosciente caratterizzato dal recepire drammaticamente le turbolenze emozionali determinate dal conflitto e un livello cosciente, sovrastrutturale, governato da esigenze difensive che irrigidiscono e spersonalizzano il soggetto e gli altri.

L'indizio che rivela questa struttura complessa è, peraltro, fornito da Laing stesso, che scrive:

"Il suggello finale alla prigione che l'io si è costruita viene messo dal senso di colpa." (p.106)

L'origine di questo senso di colpa è da ricondurre ad un'autoattribuzione di distruttività:

"Se c'è qualcosa di cui lo schizoide può essere convinto, è proprio della sua natura distruttiva… Il suo isolamento non è provocato soltanto dal bisogno di difendersi, ma nasce anche da una preoccupazione per gli altri." (p. 107)

Il problema che si pone a questo punto sta nel capire se il paradosso di un'autoattribuzione di distruttività associato alla paura di danneggiare gli altri sia una conseguenza delle difese adottate in rapporto all'insicurezza ontologica primaria, che comporta una relazione reciprocamente persecutoria tra il soggetto e gli altri, o non sia piuttosto, in quanto espressione di un conflitto tra rabbia sociale e senso di colpa, il fatto primario che determina l'insicurezza e le sue conseguenze. In questo secondo caso, infatti, occorrerebbe ammettere che la scissione schizoide avviene, in conseguenza dell'interazione con il mondo, a livello del patrimonio di bisogni a partire dal quale si avvia lo sviluppo della personalità, e che comporta per un verso un bisogno irrinunciabile di socialità e per un altro un bisogno altrettanto irrinunciabile di libertà e di identità personale. Se ciò fosse vero, il livello fenomenologico sarebbe indiziario di un dramma che si svolge al di fuori della coscienza, rimane al di fuori di essa e che lo psichiatra può ricostruire solo andando al di là della comprensione, vale a dire avanzando delle ipotesi sulla struttura del conflitto.

Nel capitolo sesto (pp. 108-121), Laing fornisce delle prove a riguardo, nelle quali però non coglie ciò che esse significano. Egli ricostruisce una delle carriere che più di frequente portano alla definizione di un carattere schizoide, una carriera incentrata su di un'accondiscendenza e una sottomissione totale alle intenzioni e alle aspettative altrui ("questa docilità porta ad essere eccessivamente "buoni", a non fare mai altro che quello che viene detto di fare, a non combinare mai nessun "guaio", a non affermare e svelare mai la propria volontà, tanto più se questa, eventualmente, è contraria a quella altrui." (p. 112)

Escludendo una patetica debolezza, che significa una carriera del genere se non che il soggetto è dotato originariamente di una sensibilità sociale che lo porta a privilegiare gli altri in rapporto a sé e a sacrificare la sua individualità in nome di questo sacrificio? Che cosa significa il fatto che essa, ad un certo punto, s'interrompa in conseguenza di un indurimento e di un incattivimento ("il falso io può anche essere assurdamente cattivo." p. 115), se non che la rabbia e l'esasperazione, accumulate negli anni, fanno affiorare una rivendicazionne di libertà individuale che sembra non potersi realizzare se non in conseguenza di un'anestesia morale?

Anche se Laing non ne fa cenno, un'altra carriera evolutiva, più rara, porta ugualmente ad una struttura di carattere schizoide: è la carriera di bambini tendenzialmente oppositivi, ribelli e contestatari, che rifiutano ostinatamente di assoggettarsi alla volontà altrui, e pongono di continuo problemi ai familiari finché non incappano nell'angoscia, spesso impregnata di terribili sensi di colpa.

Questi dati portano a pensare che se l'accondiscendenza sacrifica, sull'altare del bisogno sociale, un bisogno di differenziazione e di libertà personale che poi affiora drammaticamente, sotto forma di indurimento e incattivimento, anche l'opposizionismo, che sacrifica la sensibilità sociale in nome della libertà e della volontà personale, giunge poi a riabilitare la prima attraverso il senso di colpa.

La clinica dunque fornisce numerosi indizi che depongono a favore di una programmazione, che sottende l'evoluzione della personalità ed è incentrata su due bisogni elementari o intrinseci (quello di appartenenza e quello di individuazione) che, nell'interazione con l'ambiente, possono scindersi, dando luogo ad un conflitto strutturale, e diventare entrambi disfunzionali.

Il problema è che Laing, in nome della fenomenologia, non ama parlare di conflitti strutturali che, nell'ottica freudiana, pongono in gioco il mondo delle pulsioni. Ma il conflitto tra i bisogni intrinseci non ha nulla a che vedere con le pulsioni poiché essi veicolano istanze - la socialità per un verso, la libertà individuale per un altro - che sono radicalmente umane.

Il rifiuto del punto di vista strutturale rende conto del fatto che la parte più debole del libro è la terza, ove Laing tenta di analizzare le circostanze che portano dallo stato schizoide alla psicosi, vale a dire alla schizofrenia. Tali circostanze si riducono all'evoluzione del sistema del falso io: "Il falso io si estende sempre di più; diventa sempre più autonomo; viene "disturbato" da frammenti di attività involontaria; tutto ciò che gli appartiene si fa sempre più irreale, falso, morto, meccanico." (p. 164)

Come spiegare questa evoluzione se non ammettendo un'intensificazione del conflitto strutturale? Certo, l'intensificazione del conflitto dipende dalle difese che il soggetto adotta che, come si è detto, sono rimedi peggiori del male e non fanno altro che alimentarlo. Ma in conseguenza di cosa si realizzano queste difese se non dell'incapacità del soggetto di capire il significato intrinseco del conflitto? E qual è infine questo significato se non una drammatica scissione tra una sensibilità sociale e una rivendicazione di libertà individuale che si oppongono irriducibilmente?".

Nonostante i limiti rilevati, L'io diviso di Laing rimane dunque un testo sostanzialmente valido, che però va integrato per quanto concerne il ricondurre la scissione tra io falso e io vero ad un conflitto strutturale psicodinamico. Ma questo non basta. Occorre aggiungere che la forma di questo conflitto, nelle esperienze che manifestano sintomi deliranti, è costantemente un'amplificazione della forma propria del conflitto adolescenziale.

Torniamo all'esperienza di Giacomo. La sua carriera evolutiva è contrassegnata da una falsificazione dell'io apparente dovuta al suo bisogno di rispondere alle aspettative genitoriali, rigidamente perfezionistiche. E' un falso io che esprime alcune valenze proprie della sua vocazione ad essere: di fatto, Giacomo è un ragazzo sensibile, legato ai suoi da un affetto autentico, che condivide i loro valori culturali "signorili". Esso però reprime alcune istanze di differenziazione non meno importanti. Giacomo non è d'accordo in tutto e per tutto su di una visione del mondo che privilegia l'impegno, il senso del dovere, il lavoro. Non è d'accordo su di una severità di giudizio che ritiene eccessiva. Il falso io rappresenta l'interiorizzazione del Super-io genitoriale, inflessibile in entrambi i genitori, l'io che laing definirebbe vero si identifica con un Io antitetico che contesta quella severità, si arrabbia nella misura in cui il potere genitoriale viene esercitato prepotentemente, si orienta verso la trasgressione intesa come rivendicazione di libertà.

Che cosa impedisce a questa crisi tipicamente adolescenziale, nella sua forma, di evolvere? Che cosa provoca la catastrofe psicotica? E' evidente. Un senso di colpa mostruoso che porta Giacomo inconsciamente a confondere l'odio nei confronti del Super-io genitoriale con l'odio nei confronti delle persone genitoriali. Tale odio è accentuato dal fatto che, senza rendersene conto, Giacomo attribuisce all'influenza genitoriale la colpa di avere mantenuto nei confronti degli altri, e dei coetanei, un atteggiamento di rispetto che lo ha costretto a subire infinite angherie.

Ora un senso di colpa del genere che porta un ragazzo a percepire, come ha intuito Laing, il suo vero io in termini di distruttività - percezione che dipende dalla valutazione superegoica della rabbia ridondante - può facilmente provocare un crollo psicotico, che induce il soggetto a vedere negli specchi e negli sguardi degli altri la propria mostruosità, a sentirsi esposto alla rappresaglia sociale sotto forma di isolamento o di voci rimproveranti. Giacomo, per giunta, è credente: circostanza che lo porta infine a sentirsi esposto alla giusta punizione che Dio infligge ai malvagi, la morte.

Il problema è che quello che riesce immediatamente comprensibile in un'esperienza del genere adottando un punto di vista psicodinamico, è del tutto sottratto ai livelli di coscienza del soggetto. Somministrando solo psicofarmaci, le valenze di angoscia possono depotenziarsi, ma le dinamiche continuano a agire. Ciò significa che, nel corso dei mesi e degli anni, se non interviene una presa di coscienza sul significato di quello che è accaduto e che accade a livello interiore, le conseguenze psicopatologiche possono essere estremamente serie e, al limite, dar luogo ad un processo disgregativo della personalità. La schizofrenia, dunque, non è mai una malattia di esordio. Essa rappresenta sempre una condizione tardiva che, sulla base di una conflittualità comprensibile, interviene o per difetto di una qualunque intervento terapeutico o per situazioni ambientali particolarmente sfavorevoli o in conseguenza di un maldestro trattamento farmacologico a base di neurolettici. Dato che le due prime circostanze sono piuttosto rare, non è illecito dire che la schizofrenia, così come viene definita nei manuali, è sostanzialmente una malattia iatrogena. Questo significa che non è solo, come si pensava negli anni '70, un'etichetta sociale che dà luogo ad interazioni negative, bensì l'effetto psicobiologico di una pratica terapeutica errata e nociva.

 

8. Dissociazione psicodinamica vs schizofrenia

Ho tentato di riassumere, in un'ottica preventiva, queste idee in un articolo che cito sinteticamente:

"1. La schizofrenia, ancora oggi, è il signum contradictionis tra due ideologie, antropologiche prima ancora che psichiatriche, l'una delle quali assume la personalità come un sistema dipendente, in misura rilevante, dall'interazione con l'ambiente, mentre l'altra enfatizza il ruolo dei fattori genetici. Il contrasto sconfina dall'ambito psichiatrico. Esso infatti fa riferimento al rapporto tra natura umana e cultura, dal quale - a seconda di come lo si definisce - discendono tutta una serie di conseguenze che investono l'interpretazione dei fatti umani, e in particolare un atteggiamento critico o acritico nei confronti dell'organizzazione sociale.

Minimizzare questo contrasto facendo riferimento al modello multidimensionale, che lo avrebbe sormontato in nome del riconoscimento di fattori causali molteplici (biologici, psicologici e sociali) significa ignorare che tale modello è meramente nominale. Non c'è un alcun lavoro nella letteratura psichiatrica che abbia articolato il modello multidimensionale in termini epistemologicamente significativi. Si tratta semplicemente di un tributo formale alla teoria dei sistemi complessi che serve a dare alla psichiatria una patina di scientificità. Ciò è comprovato dal fatto che la pratica corrente continua ad essere caratterizzata da una medicalizzazione brutale e sommaria.

Per porre i presupposti di un intervento preventivo, occorre, a mio avviso, definire in maniera non ambigua che cos'è la schizofrenia e affrontare il problema cruciale della predisposizione alla schizofrenia. 

Il termine schizofrenia dovrebbe essere bandito, in quanto esso è gravato da un pregiudizio organicistico che implica il riferimento ad una predisposizione genetica e ad un processo morboso. Pure avendo infatti rinunciato ad un principio classificatorio eziologico, il DSM-IV è una riproposizione aggiornata del verbo kraepeliniano, appena temperato dai punti di vista di Bleuler e di Schneider che sono indubbiamente più flessibili ma non meno pregiudiziali in rapporto alla natura biologica del processo morboso. L'unica differenza reale rispetto al passato consiste nel considerare la schizofrenia una sindrome piuttosto che una malattia unica, nell'ammettere almeno due forme elementari (l'una caratterizzata da sintomi positivi, l'altra da sintomi negativi) che si riconducono a due diverse eziopatogenesi, e nel tenere conto di una costellazione che sfuma per un verso nel disturbo di personalità schizoide e per un altro nelle psicosi acute schizofrenosimili.

Il pregiudizio intrinseco al termine schizofrenia, per effetto della propaganda neopsichiatrica, è giunta ad influenzare l'opinione pubblica. Formulare una diagnosi di schizofrenia significa oggi esprimere un verdetto che, nell'accezione dei pazienti e ancora più delle famiglie, suona come inappellabile, alla stregua di un cancro psichico la cui evoluzione è inesorabilmente maligna.

Bandire il termine schizofrenia, non significa solo rifiutare il significato ad esso implicito di malattia a prevalente causalità organica, bensì soprattutto dare un significato del tutto diverso all'insieme dei fenomeni cui esso fa riferimento. Una valutazione critica dei dati clinici porta a ritenere, infatti, che la schizofrenia non sia una condizione di esordio, bensì l'esito evolutivo infausto di un'esperienza psicopatologica che, originariamente, quale che sia la fenomenologia clinica, riconosce un conflitto psicodinamico di base comprensibile ed omologabile, nelle sue componenti strutturali, a quello che sottende qualunque forma di disagio strutturato.

Partiamo dai dati clinici. La schizofrenia esordisce con tre diverse modalità.

Si danno forme striscianti, definite, a posteriori, pseudonevrotiche o atipiche, nelle quali il conflitto di base è trasparente e ha una comprensibilità che obbliga a mantenere in sospeso per mesi il giudizio diagnostico. In questi casi, il giudizio a posteriori è sbagliato, poiché tiene conto dei sintomi e non delle dinamiche sottostanti che sono di fatto nevrotiche, anche se con potenzialità espressive psicotiche.

Alessandro è un figlio-modello sino all'ultimo anno delle superiori, quando il suo rendimento declina. Va a lavorare in una fabbrica e, per i suoi modi signorili, una certa introversione e un atteggiamento ossequioso nei confronti dei capi, viene preso in giro dai colleghi e investito da critiche e accuse pesanti. Dopo un anno, cede e dà le dimissioni perché ha delle fantasie rabbiose che gli fanno temere di potere perdere il controllo e fare male a qualcuno. Avendo scoperto di essere inadatto al mondo, si chiude in camera e non ne vuole sapere di qualunque lavoro. Dato che è venuto su da una famiglia operaia con un senso del dovere spiccato, la nullafacenza viene pagata al prezzo di continui dolori agli occhi e al collo. Se esce di casa, sente gli occhi della gente che lo rimproverano e lo accusano di fare la bella vita sulle spalle dei suoi. Diagnosticato come schizofrenico e trattato con psicofarmaci, la situazione non migliora nel corso degli anni. L'esasperazione della clausura e dei dolori fanno addirittura affiorare comportamenti violenti in famiglia.

Si danno poi forme acute, destrutturanti, che però regrediscono più o meno rapidamente residuando un assetto di personalità che, analizzato, si rivela essere sotteso da un conflitto psicodinamico.

Alcuni mesi fa, una giovane donna, Ula, madre di una bambina di due mesi, è stata ricoverata volontariamente nel CPDC del S. Spirito per una bouffée delirante. Dopo un'ora dal ricovero, il responsabile del servizio ha convocato nel suo studio il marito, la madre e il fratello per comunicare loro la ferale notizia. La donna, a suo avviso, era affetta da una grave malattia cerebrale che avrebbe richiesto un trattamento farmacologico protratto, e sui cui esiti egli non osava pronunciarsi. Alla richiesta del marito di sapere in base a quali esami si fosse pervenuti ad una diagnosi senza scampo, lo psichiatra gli ha chiesto (con tono sprezzante) se era laureato in medicina. Alla contestazione ulteriore, per cui l'uomo eccepiva che in medicina occorre fornire delle prove, lo psichiatra ha risposto seccamente che di una malattia del cervello si trattava. Punto e basta.

Il giorno dopo, alle rimostranze della donna che chiedeva di uscire per accudire la figlia, la risposta è stata il TSO e il divieto di allontanarsi dal reparto anche in compagnia del marito. Alla dimissione sono stati prescritti 10 mg di Zyprexa e tre compresse di Depakin.

Attualmente ho in cura questa paziente che è estremamente collaborativa, e assume solo alcune gocce di ansiolitico. La comprensibilità dell'esperienza delirante è piena.

U. ritrovatasi incinta senza volerlo, si è calata nel ruolo di madre a tempo pieno, rifiutando gli aiuti parentali, per cancellare il ricordo di una madre nevrotica e anaffettiva che le ha creato problemi. Questa strategia, come accade sempre, ha determinato l'affiorare di angosce claustrofobiche, vale a dire di fantasia di fuga e di abbandono della bambina che sono state terribilmente colpevolizzate. Prima della bouffée delirante, U. ha passato sei notti insonni tormentandosi sul suo essere una madre sciagurata e, al tempo stesso, non potendo negare a se stessa di non farcela più a adempiere i suoi doveri.

Si danno, infine, forme acute che non tendono a regredire e si strutturano. La strutturazione, di solito delirante, rende trasparente il conflitto di base.

Giunta alla laurea in matematica a 28 anni, dopo una carriera di vita contrassegnata da una militanza politica di sinistra e durissimi scontri con una madre implacabilmente perfezionista, Elena comincia a lavorare e decide di andare ad abitare da sola. Chiude praticamente i conti con la famiglia e, pur lavorando con passione, si abbandona ad un genere di vita alquanto disordinato. Dopo sei mesi, comincia a ricevere strani messaggi sulla segreteria telefonica, avverte un'ostilità diffusa da parte dei colleghi e sente dappertutto un mormorio profondo che alla fine decifra come rivolto a sé. Si tratta di minacce che concernono la sua vita e, ancora più, quella dei suoi. Per scongiurarle, non esce più di casa la sera, non frequenta il gruppo politico e tiene in ordine la casa. Non basta. Per non sentirsi responsabile della morte dei suoi, deve tornare ad abitare con loro. Le "voci" non cessano però nonostante due ricoveri in casa di cura e gli psicofarmaci. E' evidente che esse sono funzionali a farla rimanere con i suoi e a comportarsi in maniera tale da non far loro correre dei rischi.

I dati clinici portano a pensare che, al suo esordio, la schizofrenia sia null'altro che l'espressione di una conflittualità psicodinamica caratterizzata, rispetto alle altre forme di disagio, da una configurazione scissa e dissociata di polarità conflittuali che si ritrovano in ogni altra esperienza di disagio. Se ciò è vero, all'esordio, quale che sia la fenomenologia, sarebbe giusto parlare di una sindrome dissociativa. Questo termine ha il vantaggio di cogliere un aspetto clinico-descrittivo e di alludere ad un aspetto psicodinamico. Naturalmente, trattandosi di un termine tradizionale, occorre concettualizzarlo in maniera nuova.

 Dal punto di vista clinico-descrittivo, la dissociazione va riferita al carattere ambivalente del pensiero, dell'affettività e del comportamento. Questo aspetto, riconosciuto da sempre, viene riferito ad una debolezza o a una disorganizzazione dell'io. E' singolare che non ci si sia mai chiesti se il malfunzionamento dell'io non dipenda da dinamiche e logiche sottostanti che compromettono il suo potere integrativo.

Il punto di vista dinamico chiarisce il problema. Adottandolo, infatti, riesce immediatamente chiaro che la struttura di un qualunque delirio dissociativo è una variazione sul tema del rapporto tra soggetto e mondo, o meglio tra doveri sociali e diritti individuali, che si articola sulla base di logiche antitetiche.

A. si ritira dal mondo per la paura di perdere il controllo e di fare male a qualcuno. Il ritiro dal mondo non estingue però la sua rabbia, che si mantiene sotto forma di volontà di non avere più a che fare con esso. Questa decisione, però, lo costringe alla nullafacenza e a vivere sulle spalle dei suoi.

U. pensa di abbandonare la figlia per non finire di danneggiarla come ha fatto la madre con lei. La soluzione però implica comunque il sentirsi una madre snaturata.

E. fugge di casa per dare spazio alla sua vocazione ad essere e per non avere più a che fare con i suoi. Non riesce però ad accordare la sua sensibilità sociale, vivissima, che la porta a schierarsi sempre dalla parte dei deboli e degli emarginati, con l'abbandono di due genitori anziani e col venire meno ai suoi doveri di figlia.

La specificità del delirio dissociativo è da ricondurre al fatto che, quali che siano le difese adottate, l'altro rimane onnipresente nell'orizzonte esperienziale del soggetto. I diritti individuali vengono regolarmente colpevolizzati in riferimento ai doveri sociali. La colpa riabilita univocamente il sociale che rivendica i suoi diritti. Si tratta ovviamente di un sociale interiorizzato che, adottando il linguaggio psicoanalitico, si può identificare col termine super-io.

Ogni sindrome dissociativa pone di fronte al primato, nell'organizzazione soggettiva umana, del sociale interiorizzato. Mi chiedo da molto tempo perché questo dato, clinicamente evidente, non è riconosciuto né adeguatamente valorizzato. Questo misconoscimento è ancor più rilevante se si tiene conto che la maggior parte delle sindromi dissociative comportano un delirio persecutorio, vale a dire un delirio caratterizzato dal fatto che l'altro, vissuto proiettivamente, assume, nelle maniere più varie, il controllo dell'io. La risposta non è semplice.

Un motivo è il rifiuto, ancora abbastanza diffuso tra gli operatori psichiatrici, di concetti e di termini psicoanalitici, ritenuti datati o inservibili in un'ottica che non sia esclusivamente interattiva e comunicativa. Un altro motivo è da ricondurre al fatto che la nostra cultura, enfatizzando l'io individuale, tende a minimizzare o a misconoscere il ruolo e il peso del sociale interiorizzato nella strutturazione della personalità. Un ulteriore motivo è la difficoltà di accettare una concezione strutturale della personalità, che vede in essa l'espressione dell'equilibrio dinamico di varie funzioni in qualche misura differenziate.

Muovendo dal rilievo che il sociale interiorizzato svolge una funzione decisiva in tutte le esperienze di disagio psichico, ho elaborato una teoria psicopatologica che ha il duplice vantaggio di essere esplicativa sul piano psicologico e di azzerare lo scarto tra psicogenesi e biogenesi… Essa muove dall'attribuire alla natura umana due bisogni intrinseci, geneticamente determinati, che rappresentano gli assi di strutturazione della soggettività. Uno di questi bisogni - d'appartenenza/integrazione sociale - promuove l'interiorizzazione dei valori culturali dell'ambiente con cui il soggetto interagisce e determina la strutturazione del super-io…

L'altro bisogno - d'opposizione/individuazione - veicola la vocazione ad essere propria di un determinato individuo, depositata, sotto forma di potenzialità, nel suo corredo genetico. Tale bisogno determina, nel corso dell'evoluzione della personalità, la strutturazione di una funzione - l'io antitetico - deputata a adattare le richieste interiorizzate dell'ambiente alle esigenze proprie del soggetto. La definizione di io antitetico è resa necessaria dal fatto che è praticamente impossibile che le richieste ambientali, che fanno riferimento ad aspettative normative, vale a dire a comportamenti di ruolo, coincidano puntualmente con la vocazione ad essere individuale.

Il super-io e l'io antitetico rappresentano substrutture dell'io, vale a dire le componenti strutturali e funzionali, in gran parte inconsce, che sottendono l'evoluzione dell'io. La funzione dell'io è di mediare le diverse logiche che animano la soggettività umana, vale a dire di trovare un equilibrio tra i doveri sociali e la vocazione ad essere individuale.

Se, nel corso dell'evoluzione della personalità, in conseguenza dell'interazione con l'ambiente, le substrutture, anziché integrarsi, giungono a porsi in opposizione, si determina, a livello inconscio, una matrice conflittuale che può dar luogo, dopo un periodo vario di latenza, ad una fenomenologia psicopatologica. Questo è il conflitto di base che sottende tutte le esperienze di disagio psichico.

La sindrome dissociativa è l'espressione più grave di questo conflitto di base. Essa attesta, infatti, un'opposizione irriducibile tra le substrutture che scinde l'io e determina lo scorrere, a livello cosciente, di flussi di pensiero, di emozioni e di spinte comportamentali antitetici. La presunta debolezza dell'io, che è alla base di un sostanziale pessimismo terapeutico, va intesa come una conseguenza della "forza" delle substrutture e dell'opposizione che si dà tra di esse.

La specificità della sindrome dissociativa non è però riconducibile alla matrice conflittuale, che è la stessa che sottende ogni esperienza psicopatologica, bensì a due aspetti particolari.

Il primo è dato dal fatto che le substrutture, più che in ogni altra esperienza di disagio psichico, sono vissute antropomorficamente. L'antropomorfismo delle funzioni psichiche è riscontrabile in altre sindromi. Per esempio, nel corso di una sindrome ossessiva, l'affanno del soggetto di eseguire i rituali per scongiurare che accada del male a sé o agli altri implica inconsciamente il riferimento a "qualcuno" che controlla il comportamento e, in caso d'inadempienza, può intervenire agendo un potere punitivo. Sempre nell'ambito ossessivo, le fantasie e i pensieri coatti, non riconosciuti come propri, implicano il riferimento a parti della soggettività autonome rispetto all'io. Nella sindrome dissociativa, l'antropomorfismo delle funzioni psichiche raggiunge il massimo grado e promuove la proiezione delle stesse all'esterno e all'interno. In conseguenza di ciò il super-io s'identifica col mondo sociale e l'io antitetico con una "presenza", solitamente inquietante, che parassita l'io dall'interno.

Il secondo aspetto, di fondamentale importanza ai fini di un superamento dell'antitesi tra psicogenesi e biogenesi, va ricondotto al fatto che le substrutture, il cui riconoscimento avviene in virtù del loro aspetto funzionale, vale a dire alla capacità di produrre ciascuna pensieri, emozioni e spinte comportamentali, hanno indubbi correlati biologici. Non si va lontano dal vero ipotizzando che il super-io e l'io antitetico corrispondano a circuiti interneuronali specifici la cui attività è integrata solitamente dall'io. In conseguenza di un conflitto strutturale, che oppone irriducibilmente il super-io e l'io antitetico, si può ritenere che i circuiti interneuronali, in virtù di un'attivazione, si autonomizzino funzionalmente. Ciò permette di spiegare gran parte dei fenomeni dissociativi a carico dell'ideazione, dell'affettività e del comportamento.

Si tratta, com'è evidente, di una teorizzazione sostanzialmente semplice (per quanto epistemologicamente compressa), che ad un estremo, per quanto riguarda i valori superegoici e quelli antitetici, apre la psicopatologia allo studio dei rapporti tra soggettività e storia sociale, e all'estremo opposto consente di spiegare il coinvolgimento biologico in termini psicosomatici."

 

Il primato del sociale interiorizzato

L'aspetto forse più difficile da accettare del modello psicopatologico struttural-dialettico, che trova peraltro il suo massimo riscontro nelle esperienze deliranti, riguarda il primato del sociale interiorizzato, vale a dire del Super-Io, nell'economia mentale umana. La difficoltà si fonda sulle carenze della teoria freudiana del Super-Io. Freud, come noto, rifiuta di attribuire alla natura umana un bisogno sociale primario. E' l'esperienza clinica che lo pone di fronte all'incidenza psicopatologica dei sensi di colpa e gli consente d'intuire prima e di definire poi una funzione psichica che, rappresentando la società, li genera: il Super-io appunto. Come accordare però questa scoperta con la negazione di un bisogno sociale primario? La soluzione di Freud fa capo all'interiorizzazione dei valori culturali trasmessi all'infante dai genitori e dagli educatori: interiorizzazione che frustra le componenti pulsionali proprie della natura umana. Che cosa è però che mantiene in vigore questi valori via via che l'infante cresce e viene meno la soggezione nei confronti degli adulti? La risposta è la pura della rappresaglia sociale. In questa ottica, il Super-Io è l'espressione della soggezione che l'infante ha nei confronti dei grandi e si mantiene sulla base della paura che egli sviluppa nei confronti del mondo sociale quando si rende conto che un'eventuale violazione lo espone ad un giudizio negativo o, al limite, all'emarginazione. La teoria dunque vale nel contesto di una società gerarchica, repressiva, all'interno della quale le figure genitoriali inducono soggezione e dispongono di un potere rilevante di punizione. Con il tramonto, almeno apparente, di quella struttura sociale. Il concetto di Super-io ha perso valore, sino al punto che oggi solo i freudiani ortodossi lo rivendicano (perché esso è indispensabile nell'ottica dell'Edipo).

E' evidente invece che., partendo dall'attribuire all'uomo un bisogno primario di socialità, e dando ad esso non solo un significato affettivo, ma un significato ancora più importante ai fini della trasmissione e della perpetuazione dei valori culturali sui quali si fonda l'identità stessa di una società, il Super-Io rappresenta una funzione senza la quale non sarebbe concepibile la mente umana. Esso infatti, che definisce l'individuo come parte di un tutto e lo richiama al rispetto dei doveri sociali iscritti nei vari ruoli della vita che esso giunge a ricoprire, svolge una funzione che la paura sociale non potrebbe mai realizzare: la normalizzazione dei comportamenti umani all'interno di un determinato gruppo, laddove per normalizzazione s'intenda il loro confluire entro modi di pensare, di sentire e di agire piuttosto omogenei. Una funzione dunque di riconduzione verso la media dei comportamenti umani tanto più sorprendente quanto più si considera che ogni corredo genetico è unico e irripetibile, e quindi, di per sé, tenderebbe a differenziarsi scartando rispetto alla media.

L'ammettere che un bisogno sociale sottenda la strutturazione del Super-Io consente di risolvere un altro "mistero" psicopatologico. Il mistero consiste nel fatto che sono proprio gli esseri più dotati di sensibilità sociale quelli nei quali l'interiorizzazione dei valori culturali e, in senso lato delle aspettative degli altri, avviene con maggiore facilità e intensità. La stessa dotazione che promuove quest'interiorizzazione è destinata a suscitare problemi, perché essa di solito comporta anche una vocazione ad essere molto spiccata nella direzione della differenziazione.

Questo aspetto genetico meriterebbe un lungo discorso che non mi sembra il caso di fare qui.

E' più importante immediatamente chiedersi se, oltre a quelle ricavabili dalla pratica clinica, si diano delle prove in qualche misura oggettiva del primato del sociale interiorizzato. Di fatto se ne danno. Traggo una citazione dal mio libro sulla schizofrenia:

"L'esperienza di Paola (di cui ho parlato all'inizio) attesta che, laddove si dà un conflitto irriducibile tra Super-Io e Io antitetico, l'evoluzione del conflitto volge inesorabilmente a favore del Super-Io. Questo dato, che si può ricavare da qualunque esperienza schizofrenica, e che, con la sua evidenza, attestata dal delirio, fa della schizofrenia la chiave della psicopatologia, attesta il primato dinamico del sociale interiorizzato nella mente umana. Ciò non sorprende se si tiene conto che, da quando esiste l'uomo, l'appartenenza e la condivisione dell'esperienza di gruppo, sancite dal rispetto di valori culturali comuni normativi sono state esigenze primarie della sopravvivenza individuale e collettiva, e che l'individuazione si è fatta strada molto lentamente nel corso della storia. La schizofrenia attesta che quest'inesorabile tensione non è risolta e che essa riconosce una componente psicobiologica, mediata dalla cultura.

Per un episodio apparentemente banale, significato a livello inconscio come attestante la sua ribellione alla tradizione culturale, Paola è stata immersa nel delirio persecutorio per alcuni decenni. Accade di peggio.

In un libro denso di suggestioni per quanto teoricamente poco incisivo, G. Benedetti affronta un problema che gli analisti, avendo ricusato il punto di vista strutturale freudiano, ignorano: la destrutturazione differenziale della personalità. Cito testualmente:

"Col termine di destrutturazione differenziale intendo dire che i processi disorganizzativi della schizofrenia non si sviluppano in ugual misura a carico delle tre 'province' psicoanalitiche della Psiche, ossia l'Es, l'Io, il Super-Io. La perdita di struttura intrapsichica che caratterizza lo stato schizofrenico si svolge anzitutto a carico dell'Io. La schizofrenia (su questo sono ormai d'accordo tutti gli autori) è una malattia dell'Io... Sorge (però) la domanda se la destrutturazione schizofrenica, che abbiamo studiato anzitutto come un processo a carico dell'Io, affligga anche gli altri due sistemi maggiori della psiche. Mi sembra fuori di dubbio che la destrutturazione schizofrenica finisca con l'essere, quando procede fino ai suoi ultimi termini, una dissoluzione dell'intera psiche... Stabilito che la destrutturazione nella schizofrenia può andare avanti sino ad investire l'intera psiche, bisogna adesso completare questo concetto aggiungendovi l'osservazione che in diversi casi il Super-Io può mantenersi relativamente indenne, mentre la frammentazione dell'Io procede. Un'alternativa interessante del disfacimento schizofrenico mostra la coesistenza di un Io disintegrato con un Super-Io ancora altamente strutturato..." (pp. 43-44).

Si tratta di un'osservazione d'estremo interesse, che, in passato, poteva facilmente essere agevolmente verificata a livello manicomiale nei pazienti che avevano alle spalle decine d'anni d'internamento, ma che ha riscontro ancora oggi a livello territoriale. Dopo i cinquant’anni, la sintomatologia schizofrenica tende comunque ad affievolirsi e talora, nel tempo, a rendersi impercettibile. In questi casi spesso il comportamento, nella misura in cui appare abbastanza conforme alla norma, appare ritualizzato, vale a dire eseguito dal soggetto automaticamente, con una partecipazione emotiva e cognitiva molto ridotta.

Qual è il significato psicopatologico di tale osservazione? Se lo chiede e risponde Benedetti:

"Per quale motivo la struttura superegoica sembra essere, in questi pazienti, relativamente più resistente al processo di dissoluzione della struttura dell'io? io non trovo altra risposta a questa osservazione se non quella fornitami dall'esperienza che siffatti pazienti hanno vissuto l'istanza parentale, per quanto contraddittoria e irrazionale, come una realtà più sostanziale dell'Io." (pp. 45-46)

La risposta rivela i limiti del pensiero psicoanalitico. L'istanza parentale cui si fa riferimento è il Super-io genitoriale. Ma il Super-io genitoriale, particolarmente a livello inconscio, rappresenta la società e spesso veicola tradizioni, valori, pregiudizi, miti del tutto estranei alla coscienza genitoriale. L'osservazione di Benedetti attesta dunque una sorta d'onnipotenza del sociale, rappresentato superegoicamente, a livello di soggettività umana quando esso entri in conflitto con le funzioni psichiche egoiche consce e inconsce. In una condizione di sfacelo schizofrenico - questa è la verità - la struttura superegoica sopravvive come un guscio al cui interno l'io è rattrappito, disintegrato, svuotato di senso.

Ciò è vero anche nei casi in cui la dissoluzione dell’Io non coincide immediatamente col venire meno dell’io antitetico. Basaglia, in più di uno dei suoi lavori dedicati alla riabilitazione degli istituzionalizzati, ha rilevato che le crisi degli psicotici cronici tranquilli, anche quando assumevano una configurazione aggressiva, erano un buon segno ai fini della riabilitazione perché attestavano la persistenza di un nodo confuso di rabbie e di rivendicazioni di libertà e di giustizia. Di fatto, le crisi cui fa riferimento Basaglia erano temute dagli operatori perché si sapeva che, quando esse sopravvenivano, lo stesso soggetto vissuto per anni senza manifestare alcun cenno attestante un'identità personale, poteva sprigionare per un certo periodo una carica d'energie, una vitalità sorprendente, protestare vigorosamente e talora aggressivamente per i soprusi subiti, agire comportamenti aggressivi e trasgressivi d'ogni genere. Le crisi, imprevedibili e per alcuni aspetti incredibili, facevano affiorare uno Io antitetico ancora vivo a livello psicodinamico inconscio.

La destrutturazione differenziale della personalità schizofrenica si realizza dunque anzitutto a carico dell’Io, ed essa lascia trasparire la struttura conflittuale che lo determina la quale, articolandosi su funzioni che producono pensieri, emozioni e motivazioni comportamentali antitetici, consente di spiegare ciò che di apparentemente bizzarro, incoerente e apparentemente assurdo esprime la sintomatologia.

Ma, se ciò è vero, rimane il fatto che, a lungo andare anche l’Io antitetico cede e lascia il campo al Super-io. Talora, dopo un’ultima crisi, gli psicotici tranquilli rientravano nel loro ruolo d'automi sociali e vi rimanevano fino alla fine.

La schizofrenia dunque è un insieme di esperienze umane che pongono in luce il primato dinamico del sociale interiorizzato. Ma essa rivela, con ogni probabilità, un aspetto che non è un prodotto particolare dei conflitti psicopatologici, bensì un dato universale. L’infrastruttura profonda della personalità umana è, infatti, caratterizzata dalla presenza pervasiva dell’Altro. Ciò che impedisce, oggi, di rendersene conto è semplicemente una rimozione culturale collettiva, funzionale peraltro a mantenere in vita il mito dell’individuo autonomo e padrone di sé. Non fosse altro che per questo aspetto, la schizofrenia dovrebbe essere rivalutata come una condizione che, con la sua drammaticità, richiama ad una verità che, alla coscienza contemporanea, risulta intollerabile".

 

10. Soggettività e storia sociale

La verità è per l'appunto il valore e il potere dinamico che l'Altro, rappresentato dal Super-Io, mantiene all'interno della soggettività inconscia umana. Se si tiene conto di questo aspetto, riesce immediatamente evidente il rapporto intimo che intercorre tra soggettività e storia sociale. Se è vero infatti che il Super-Io nasce dall'identificazione dell'infante con i genitori e dall'influenzabilità da questa prodotta, che facilita l'interiorizzazione dei valori culturali da essi trasmessi, ridurre questo aspetto ad un fatto privato, interpersonale o intersoggettivo, è ingenuo. Già Freud aveva intuito che la genesi del Super-Io coinvolge non solo i livelli coscienti genitoriali, ma anche quelli inconsci e che, in virtù di ciò, a livello superegoico vengono interiorizzati anche le tradizioni, le convinzioni, i pregiudizi presenti nell'inconscio genitoriale come espressione dell'influenza delle generazioni precedenti.

Quest'intuizione ha avuto uno sviluppo di straordinario interesse in un ambito disciplinare del tutto distinto dalla psicoanalisi: la storia. Una scuola di storici francesi ha infatti messo a fuoco il concetto di inconscio sociale, che non ha alcunché a che vedere con l'inconscio collettivo junghiano. Cito ancora una volta da Miseria della neopsichiatria:

" L'inconscio sociale, secondo i nuovi storici francesi, appartiene a pieno titolo alla struttura sociale, sarebbe costitutiva di essa non meno dei fenomeni economici e istituzionali che la caratterizzano, e con cui interagisce, rispetto ai quali si differenzia in quanto meno immediatamente visibile alle coscienze, più profondo, dotato di un'inerzia che ne assicura uno scorrimento lento o lentissimo, e quindi la sopravvivenza quando a livello di superficie sembra che i contenuti che esso veicola siano scomparsi.

Per definire questo aspetto della realtà sociale, e per differenziarlo sia dall'ideologia intesa in senso peggiorativo (di inganno prodotto dai ceti colti e dominanti per indurre nei subjecti l'accettazione dello stato di cose esistente) sia dall'inconscio collettivo psicoanalitico, gli storici francesi hanno adottato il termine mentalità. Non è stata - perlomeno a posteriori - una scelta felice.

Occorre considerare, infatti, una iattura il fatto che il concetto di mentalità, male interpretato in conseguenza dell'accezione comune del termine, non sia stato adottato né valorizzato dalle scienze psicologiche e psichiatriche. Non si tratta forse neppure di un errore interpretativo. Ammettere, infatti, che i quadri di mentalità recintano la psicologia collettiva e quella individuale, ritualizzando i pensieri, le emozioni, i comportamenti, e diaframmando ideologicamente, in qualche misura, le coscienze sia in rapporto alla realtà sociale di cui partecipano che al mondo interno, rappresenterebbe per quelle scienze una rivoluzione epistemologica che ne renderebbe necessaria la rifondazione. Occorrerebbe, infatti, prendere atto, nonostante i cambiamenti intervenuti nel corso dello sviluppo storico, i quali sono giunti ad enfatizzare il ruolo dell'individuo, che, a livello mentale collettivo e individuale, il primato del sociale (la mentalità essendo un prodotto culturale collettivo) si è mantenuto intatto nel corso del tempo e non v'è motivo di pensare che esso non continui a mantenersi vivo, e a influenzare potentemente la psicologia collettiva e individuale e la pratica sociale in tutti i suoi aspetti.

L'uso del concetto di mentalità varrebbe a dare un fondamento concreto alla necessità di storicizzare l'esperienza soggettiva individuale per capirne la struttura e i modi di vedere, consci e inconsci, su cui si basa il suo funzionamento. Ma occorre riconoscere che quel concetto, potenzialmente dotato di una carica rivoluzionaria sotto il profilo epistemologico, va senz'altro approfondito interdisciplinarmente. La teorizzazione più avanzata sinora è stata fornita da G. Duby in un articolo famoso.

Duby afferma esplicitamente che lo studio di ogni società non può ormai prescindere dal tenere conto dei fenomeni mentali, vale a dire dalle ideologie sociali consce e inconsce che fanno parte della sua struttura. Posto che, in seno ad ogni società, e in misura proporzionale alla sua complessità e al suo spessore storico, non si dà mai una sola ma sempre molteplici ideologie, si pone il problema, in ogni contesto sociale, di identificarle, di caratterizzarle, di spiegarne le origini storiche e di analizzare il rapporto interattivo e reciproco che esse intrattengono con gli altri aspetti della struttura sociale. Tale compito è reso estremamente difficile non solo dal fatto che il corpo delle ideologie appartiene all’inconscio sociale, bensì soprattutto dalle loro caratteristiche. Secondo Duby, infatti, le ideologie sociali sono totalizzanti, deformanti, concorrenti, stabilizzatrici e pratiche vale a dire fluide per un verso e viscose per un altro, statiche e dinamiche, interattive e tendenti all’integrazione non meno che competitive e orientate all’esclusione reciproca.

Riflettendo sulla trama complessa, e in gran parte inconscia, delle ideologie presenti in ogni società e del loro carattere pervasivo, è difficile prescindere dal dubbio che esse abbiano un'importanza estrema in rapporto alla psicologia individuale. Ed è ingenuo pensare che si diano relazioni interpersonali, quali quelle affettive, all'interno delle quali esse non incidano più di tanto. Il modo stesso in cui una madre vive il suo ruolo, i doveri a cui si richiama, i comportamenti che agisce, il modo in cui percepisce i bambino e definisce i suoi bisogni sono contrassegnati a tal punto dall'ideologia che tutti questi aspetti mutano e profondamente nel corso del tempo.

Valorizzare la socialità e il ruolo della mentalità a livello psicologico, vale a dire il ruolo degli aspetti superegoici consci e inconsci, non significa minimizzare o ignorare il ruolo dell'io. Intanto perché quegli aspetti, indispensabili ad assicurare alla società e ai singoli individui un certo grado di stabilità strutturale, rappresentano la matrice in rapporto alla quale l'io, in un rapporto ambivalente di subordinazione e di opposizione, si definisce. In secondo luogo perché essi, nonostante il primato che mantengono all'interno di ogni personalità in quanto essenziali a soddisfare il bisogno di appartenenza/integrazione sociale, non hanno mai impedito totalmente la differenziazione individuale, animata dal bisogno di opposizione/individuazione."

E' difficile minimizzare l'importanza psicopatologica dell'inconscio sociale definito in questi termini. Esso non rappresenta un fattore culturale che si sovrappone o s'intreccia con l'esperienza personale: è letteralmente l'ordito su cui si trama la soggettività. Per spiegare meglio questo aspetto riporto una storia clinica tratta da Miseria della neopsichiatria:

"Alessia, insegnante di matematica, che vive con la famiglia in una cittadina marchigiana, comincia a star male a 27 anni. All'inizio appare solo più silenziosa e inibita del solito. Poi, sia a scuola che a casa, manifesta comportamenti inadeguati. Rimane bloccata in piedi, emette strani risolini, fissa spesso insistentemente nel vuoto. Non ha alcuna consapevolezza di ciò che le sta avvenendo per cui è la famiglia a farla mettere in malattia. Visitata da uno psichiatra, che non riesce a cavarle una parola di bocca, viene dichiarata brutalmente schizofrenica e aggredita con il solito cocktail di neurolettici. Si sottopone passivamente alle cure, ma, ciononostante, la situazione peggiora. Alessia si chiude in un mutismo assoluto e comincia a rifiutare il cibo. Smagrisce, ha il colorito cereo e una mimica nel contempo atonica e disperata per via dello sguardo perduto nel vuoto. Il decorso sembra confermare una diagnosi senza scampo.

Il contatto comunicativo non è rifiutato, ma appare improduttivo perché la coscienza di Alessia sembra immersa in un vuoto assoluto. Si trova un solo spiraglio. Alessia da alcuni anni ha una relazione con un giovane del paese. Originariamente tale relazione è stata vivamente ostacolata dal padre, per via del fatto che il giovane in questione è notoriamente ateo e di sinistra. Ma, nonostante il padre abbia esercitato tutta la sua autorità nell'imporre alla figlia di desistere, questa, per la prima volta nella sua vita, si è impuntata e lo ha sfidato. Dopo circa due anni, la famiglia ha accettato lo stato di fatto. Alessia però si rende conto di essersi messa in un vicolo cieco. Il fidanzato, infatti, è decisamente anticlericale. Si è parlato di matrimonio, ma egli ha fatto onestamente presente che non potrà mai accettare il rito religioso. Pur essendo credente, Alessia non avrebbe difficoltà a contrarre un matrimonio civile. Sa però che la famiglia, di tradizione rigorosamente cattolica, subirebbe un'offesa mortale e sarebbe disonorata agli occhi del paese. Si rende conto di non potere in alcun modo agire un comportamento a tal punto dissacrante. Dunque la sfida è stata inutile, e la relazione è a vicolo cieco. Alessia di fatto la interrompe, ma ha già cominciato a stare male, a coltivare un deliro trasgressivo inapparente che esiterà nella crisi.

Non avendo alcuna coscienza che si tratta di un delirio, Alessia comunica l'imbarazzante segreto solo dopo alcuni mesi di terapia. Il segreto è questo. Nonostante la sua apparenza di santarellina, essa ha avuto una doppia vita nel corso degli anni, essendo stata in relazione con uomini, anche sposati, dai quali ha avuto un numero imprecisato di figli naturali. Tutti nel paese, tranne i suoi familiari, lo sanno e perciò la guardano male e la rimproverano. E' un delirio florido vissuto con una convinzione totale che si è sviluppato qualche mese prima che si manifestassero i disturbi comportamentali.

Appare immediatamente evidente una contraddizione clamorosa. Per un verso, Alessia, avendo operato la scelta di un partner non conforme alle aspettative familiari, ha sacrificato la sua felicità in nome dell'onore familiare; per un altro, il delirio attesta che tale onore è già stato infangato da comportamenti più trasgressivi rispetto al matrimonio civile in questione. La soggezione superegoica, insomma, è compensata da una sfida trasgressiva e radicale incentrata sull'ideale dell'io antitetico.

L'atteggiamento di Alessia nei confronti dei contenuti deliranti è ambivalente. Per un verso, alla luce della fede, si sente terribilmente in colpa e nutre l'aspettativa di una punizione mortale; per un altro, rivendica i suoi diritti di donna libera e adulta che non deve dar conto a nessuno. Questa ambivalenza è l'indizio di una scissione tra due parti della personalità che, a livello inconscio, veicolano due diverse visioni del mondo. La prima assegna alla comunità, alle sue tradizioni e ai suoi costumi, un valore predominante e assoluto, al quale la libertà individuale deve essere sacrificata in nome dell'equilibrio sociale e del bene comune; la seconda, viceversa, privilegia la libertà individuale come diritto assoluto il cui esercizio non può essere inibito quand’anche entra in contrasto con le convenzioni sociali. Questa scissione spiega a sufficienza il delirio nella misura in cui questo condensa una sfida radicale ai valori religiosi, morali e culturali propri del gruppo d’appartenenza e un terribile senso di colpa. Spiega anche il fatto che, quando è "normale", Alessia è totalmente connivente con la prima visione del mondo; quando sta male, aderisce e difende la seconda. Il passaggio dalla normalità alla patologia coincide, dunque, inconsciamente con una rabbiosa rivendicazione di libertà anarchica che viene immediatamente pagata. Le voci persecutorie la bloccano, i risolini attestano la sua fierezza sfidante.

Dove affonda le sue radici questa cieca volontà di trasgredire, di sfidare l'ordine sociale e trascendente? Il contesto socio-culturale in cui vive Alessia è un contesto provinciale, tradizionale, conservatore. I pochi giovani che rifiutano di adattarsi in nome d’un crescente benessere e si sentono soffocare dal controllo sociale se ne vanno senza nostalgia. Anche Alessia lo ha progettato dopo la laurea, rinunciando poi per non dare un dispiacere ai genitori. Su questo sfondo, la famiglia di Alessia si caratterizza per un conservatorismo assoluto incentrato su di una comune fede religiosa dai tratti marcatamente integralisti.

Si tratta intanto d’una famiglia allargata. I vari gruppi parentali vivono a stretto contatto in un regime di solidarietà comunitaristica e di controllo reciproco. Il principio dell'uno per tutti e del tutti per uno è un vangelo che nessuno ha mai osato contestare. Il valore dominante il gruppo è l'onore, un patrimonio comune ereditato dagli avi che hanno condotto a memoria una vita specchiata, il quale, rappresentandone l'eredità, va gelosamente tutelato. In questa ottica culturale, la libertà individuale deve essere sacrificata se essa entra in contrasto con l'onore, il sacrificio essendo compensato dal vantaggio di essere partecipi di un gruppo che assicura a ogni membro una rilevante sicurezza e protezione.

Il debito nei confronti della famiglia e dei genitori in particolare, che hanno sacrificato la loro vita per i figli, Alessia lo ha sempre avvertito. E' in nome di questo debito che il suo comportamento è stato sempre docile, acquiescente e pienamente rispondente alle aspettative familiari. Alessia insomma non ha mai dato problemi di alcun genere. Il problema però è di essere venuta al mondo con uno spirito critico e contestatore che, nel suo intimo, ha cominciato ad avvertire nettamente dall'adolescenza in poi. Impregnata dei valori tradizionali, non ha mai concesso ad esso spazio alcuno, identificandolo con un germe maligno la cui presenza nella sua anima era perfettamente spiegabile in termini religiosi. Questa convinzione si è incrementata via via che, col passare degli anni, Alessia ha cominciato ad avere dei sintomi inapparenti sotto il profilo sociale. Di cosa si è trattato? Di pensieri, fantasie e coazioni ossessive parassitarie. Capitava insomma ad Alessia di guardare la madre e di pensare: ma quando muore?; di trovarsi in chiesa e di sentirsi spinta ad urlare o a colpire la testa di chi stava nel banco davanti; di trovarsi per strada e di sentire il bisogno di denudarsi e via dicendo. A chi poteva mai Alessia ricondurre questi pensieri e queste fantasie se non al demonio? Per liberarsene, ha adottato la strategia propria dei credenti: la preghiera, la contrizione, la mortificazione. Ciononostante, le fantasie parassitarie hanno continuato a tormentarla.

Paradossalmente, esse si sono attenuate solo allorché Alessia ha sfidato l'autorità paterna entrando in relazione con il giovane inaccettabile per la famiglia. Per due anni, pur altercando con il padre, Alessia è stata bene come non mai. Poi si è resa conto che quella sfida, portata alle estreme conseguenze, l'avrebbe posta in rotta con tutta la famiglia e l'avrebbe costretta a disonorarla. In conseguenza di ciò, le fantasie si sono ripresentate e con esse è fiorito il delirio della doppia vita, e, col delirio, l'isolamento animato da vissuti persecutori, dall'aspettativa della giusta punizione e dall'anoressia, che rappresenta nel contempo un'espiazione delle colpe, una purificazione e la volontà inconsapevole di affrancarsi dal mondo.

Ricondurre la scissione che si è instaurata in Alessia a un'ambivalenza tra amore e odio nei confronti della famiglia è riduttivo. Quella scissione di fatto fa capo a due orientamenti ideologici, a due visioni del mondo, a due modi di pensare, sentire e agire incompatibili. La prima privilegia il debito nei confronti del gruppo di appartenenza, e riconosce in esso, in quanto inestinguibile, il limite dell'esercizio della libertà personale. In caso di conflitto, da questo punto di vista, la libertà va sacrificata in nome dell'indebitamento. La seconda, viceversa, privilegia la libertà individuale come bene sommo e irrinunciabile che, per nessun motivo, deve piegarsi ad una volontà esterna al soggetto, tranne il caso che essa sia riconosciuta come coincidente con la propria. In Alessia, queste due visioni del mondo sono entrambe rappresentate e attive sia emotivamente sia cognitivamente. Finché Alessia è inconsapevole di ciò, la prevalenza dell'una o dell'altra o la brusca alternanza tra di esse si traducono in comportamenti e vissuti sintomatici. Via via che essa si rende conto di questa scissione, paradossalmente si ritrova a constatare di comportarsi come se avesse due teste.

Un esempio di ciò fa capo alla quotidianità domestica. La casa di Alessia, nel pomeriggio, è un luogo consueto di ritrovo per gli zii e per le zie. Si passa il tempo a parlare del più e del meno, a giudicare un mondo che diventa sempre meno comprensibile agli occhi di una famiglia conservatrice e integralista. Alessia sente il dovere di essere presente anche se si annoia mortalmente e non condivide quasi nulla di ciò che viene detto. D'istinto le verrebbe da ritirarsi nella sua camera e di dedicarsi alle letture o al computer. Sa però che tale atteggiamento sarebbe vissuto dai parenti come uno sgarbo o, peggio ancora, come un sintomo di peggioramento. Si costringe a partecipare, ma più spesso rimane in piedi bloccata come una statua di sale emettendo ogni tanto, quando le cose che vengono dette dai parenti le sembrano ridicole, dei risolini che destano un grave imbarazzo.

Non appena lo stato quasi stuporoso indotto dai farmaci si attenua e la sua storia viene ricostruita per sommi capi nei suoi significati, Alessia comincia a prendere dopo ogni incontro degli appunti che elabora autonomamente. Ha difficoltà ad accettare l'ipotesi di essere stata sempre visceralmente critica nei confronti della cultura ambientale e familiare. Tale difficoltà è da ricondurre al fatto che, riconoscendo la dedizione dei suoi nei confronti dei figli e la loro coerenza assoluta, non intende attribuire loro alcuna colpa. La difficoltà viene sormontata attraverso l'analisi delle mentalità familiare che consente di capire come i suoi possano averla danneggiata senza averne alcuna intenzione e consapevolezza. Alessia giunge a dare voce alle sue proteste contro una cultura angusta senza sentire di profanare l'affetto nei confronti dei genitori e dei parenti. Riesce anche a capire in quale misura i suoi vani tentativi di soffocare quelle proteste possono avere contribuito ad indurre, a livello inconscio, una rivendicazione di libertà anarchica tradottasi nel delirio della doppia vita.

Dopo due anni di trattamento il delirio sorprendentemente muta forma fenomenica. Alessia non rivendica più di avere avuto relazioni con molti uomini e un numero imprecisato di figli bensì d’essere stata sposata una volta e di avere un solo figlio. Occorrono alcuni mesi per decifrare questo cambiamento come un sorprendente delirio riparativo. Nell'ottica della tradizione familiare, il dovere assoluto della donna è di dedicarsi agli altri o come madre e moglie o come suora. Da questo punto di vista il non essersi sposata rappresenta una colpa che il nuovo delirio, paradossalmente normativo, serve a rimediare."

La chiave psicodinamica di questa esperienza è nella scarsa compatibilità tra la cultura familiare e la vocazione ad essere di Alessia. Sarebbe oltremodo ingenuo però non capire che quella incompatibilità in tanto giunge a dissociare l'Io (per effetto dell'opposizione irriducibile tra Super-Io e Io antitetico) in quanto Alessia, riconoscendo la dedizione dei suoi, si sente in debito nei loro confronti. E' in nome del debito, infatti, che rinuncia ad agire una scelta di vita troppo radicale in rapporto alla mentalità familiare. E' questo uno dei tanti casi in cui il conflitto tra un'affettività sostanzialmente positiva e un'incompatibilità culturale, tra diverse visioni del mondo, ha un esito esiziale.

11. Conclusione

Su un tema così complesso come quello della schizofrenia ci sarebbero ovviamente infinite altre cose da dire. L'intento di questa relazione non era però quello di affrontare tutti i problemi, bensì di aprire uno spiraglio su un nuovo modo di rapportarsi alle esperienze psicotiche. Tale modo, che rientra nell'ambito della teoria struttural-dialettica, ricusa gli estremismi antipsichiatrici, ma non le suggestioni di comprensibilità che l'antipsichiatria ha prodotto. Esso ricusa invece in maniera netta la tradizione psichiatrica e la neopsichiatria contemporanea che pretende di averla rinnovata, ma, di fatto, è rimasta ferma all'ipotesi della malattia del cervello.


Luigi Anepeta

5 maggio 2003