NEUROBIOLOGIA E PSICOPATOLOGIA DINAMICA

1.

La neopsichiatria sostiene che il progresso delle scienze neurobiologiche ha invalidato definitivamente l’orientamento psicodinamico in psicopatologia, dimostrando che i fenomeni psicopatologici riconoscono univocamente una predisposizione ereditaria e una patogenesi, conseguente a questa, incentrata su anomalie strutturali (dell’organizzazione interneuronale del cervello) e/o su disturbi biochimici.

Come ho scritto più volte si tratta di una falsificazione scientifica, non dandosi fino a oggi nessuna prova inconfutabile dell’ereditarietà delle malattie mentali né di una causalità primaria strutturale e/o biochimica.

Nel recensire il testo di J. Le Doux (Il Sé sinaptico) ho sottolineato che la neurobiologia contemporanea offre molteplici dati che si accordano piuttosto con una concezione psicodinamica dell’attività mentale normale e patologica che non con il rozzo organicismo della neopsichiatria.

Non si tratta peraltro di una novità. In quanto branca specialistica della biologia, la neurobiologia, in conseguenza del suo rigore metodologico, ha sempre mantenuto un orientamento neutrale in rapporto alla psicopatologia. Essa offre dei dati che nella loro oggettività richiedono di essere interpretati in riferimento alla clinica.

Di questa neutralità, ci si può rendere conto consultando un testo che si può ritenere ancora oggi un classico. Si tratta della Neuropsicologia di Gaetano Benedetti (Feltrinelli, Milano 1972), uno psichiatra psicoanalista operante in Svizzera, che risale a più di trent’anni fa, allorché la neurobiologia stava muovendo i suoi primi passi. Oltremodo dettagliato e minuzioso, con una bibliografia di ben 4000 titoli, il libro è una rassegna critica di tutta la letteratura neurobiologica dell’epoca. In uno dei capitoli finali della Parte quarta del libro (Confinia neuropsicologica), dedicato al rapporto tra neuropsicologia e psicoanalisi, l’autore opera una valutazione dei dati neuropsicologici che impongono una correzione dei postulati biologici della psicoanalisi e di quelli, che non necessariamente probanti, sono compatibili o orientativamente favorevoli ai suoi assunti.

Per quanto riguarda il primo aspetto, egli rileva che sono da correggere: primo, la concezione freudiana energetica dell’apparato mentale, il principio del Nirvana, per cui il cervello tenderebbe a difendere il suo livello energetico dal contatto con l’ambiente esterno e interno, uno dei cui corollari è l’odio primario nei confronti dell’oggetto (l’istinto di morte); secondo, il principio del piacere, secondo il quale i processi psichici hanno come scopo ultimo la soddisfazione e la scarica di tensioni biologiche.

In seguito alla ricerca neurobiologica, la nozione di energia psichica va sostituita con quella di informazione. L’apparato mentale funziona sulla base di un flusso di informazioni che vengono elaborate in maniera complessa. Ciò significa che esso, non diversamente per quest’aspetto da un computer, non lavora piuttosto trasformando l’energia che non consumandola in maniera massiccia.

Il principio del Nirvana, inoltre, è assolutamente incompatibile con la scoperta che il cervello è dotato di un’attività intrinseca. Esso, in pratica, a differenza di quanto supposto da Freud, tende a produrre spontaneamente e a cercare nel rapporto con l’ambiente un grado moderato di attivazione.

Il principio del piacere, che comporta il riferimento ad un monismo strutturale (dolore=tensione, piacere=distensione), non è compatibile con la scoperta di sistemi specifici di compenso e di punizione interrelati ma indipendenti.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, i dati della ricerca neuropsicologica compatibili o orientativamente favorevoli agli assunti psicoanalitici riguardano sia la psicogenesi che alcune categorie strutturali psichiche.

I principali reperti favorevoli alla psicogenesi rientrano nelle seguenti categorie: modificazioni del carattere adulto in animali in seguito ad esperienze infantili (rapporto con la madre, manipolazioni varie dell’ambiente); modificazioni delle strutture neurali in aniali in seguito ad esperienze infantili (arricchimento o impoverimento dell’ambiente); diverse conseguenze comportamentali di interventi fisici su strutture cerebrali a seconda del carattere dell’animale; importanza dell’apprendimento.

Riguardo alle categorie strutturali psicoanalitiche, le scoperte della neuropsicologia sono compatibili con il concetto psicoanalitico di memoria, che implica un patrimonio straordinario di informazioni depositate a livello inconscio e connotate emotivamente, con il concetto di inibizione e con il significato funzionale del sogno, che, utilizzando il patrimonio mnesico inconscio, contribuirebbe a mantenere la plasticità delle strutture nervose.

Al di là dei singoli aspetti, poi, Benedetti rileva che la neuropsicologia sta definendo un modello dinamico del cervello che implica i concetti di plasticità di modulazione, di autoregolazione, di campi d’influenza, di strutture nodali, di punti di decisione, di risposte graduate: un modello che fa apparire il sistema nervoso come qualcosa in continuo movimento, in sviluppo funzionale e microanatomico, un punto di convergenza tra neurofisiologia, etologia, psicologia comparata, in cui si va elaborando la struttura motivazionale non solo della specie, ma anche dell’individuo con la sua esperienza soggettiva.

Il libro di Le Doux si può ritenere, per molti aspetti, un aggiornamento dell’opera di Benedetti, tanto più prezioso quanto più esso viene da un addetto ai lavori, vale a dire da un neurobiologo che non rinuncia ad interrogarsi sul rapporto tra il funzionamento del cervello e l’esperienza soggettiva, conscia e inconscia. Non è sorprendente che egli arrivi a conclusioni analoghe e addirittura più radicali rispetto a Benedetti, sottolineando più volte che gran parte dell’attività mentale si realizza a livello inconscio ed è governata dalle emozioni.

La neurobiologia, dunque, non si è mai espressa a favore di un rozzo organicismo, incompatibile con l’assunzione del cervello come un sistema complesso e con il carattere inequivocabilmente dinamico del suo funzionamento.

Che cosa dunque spiega l’arroganza epistemologica o semplicemente l’ignoranza dei neopsichiatri i quali sostengono a tambur battente che la neurobiologia ha dimostrato la fondatezza dei loro assunti, vale a dire il carattere morboso (in senso medico) dei fenomeni psicopatologici?

2.

Una prima risposta è semplice da dare. Un sistema complesso è fatto di parti interdipendenti tra loro. Il suo funzionamento è qualcosa di più della somma delle parti che lo compongono: esso richiede una spiegazione globale, olistica. Tale spiegazione però, che è in ultima analisi una teoria, può sopravvenire solo in conseguenza dello studio sperimentale delle parti, vale a dire adottando un metodo riduzionistico.

Il cervello – sistema complesso per eccellenza – funziona sulla base dell’attività di cento miliardi di neuroni. Per giungere ad una spiegazione globale del suo funzionamento, la neurobiologia deve necessariamente partire dallo studio dell’unità di base – il neurone -, capire come esso è costituito, come funziona e come comunica con gli altri neuroni. Essa può poi estendere lo studio ai centri del cervello, vale a dire alle reti interneuronali, cercando di capire con quali funzioni essi hanno rapporto.

Attraverso la metodologia riduzionistica, la neurobiologia accumula una serie imponente di dati, più o meno significativi. Per dare ad essi senso, approssimandosi ad una spiegazione globale, occorre poi correlarli, inserirli nel quadro globale delle conoscenze attuali sul funzionamento del cervello e vedere in quale misura essi sono compatibili con un modello che, da ultimo, non può essere che olistico. Non i singoli dati in sé e per sé, ma la loro interpretazione complessiva è l’obiettivo della neurobiologia. I dati sperimentali dicono qualcosa, ma ciò che essi veramente significano richiede uno sforzo di elaborazione teorica.

Per illustrare quest’aspetto fondamentale, per cui la ricerca riduzionistica, vale a dire riferita a singole strutture o a singole funzioni, apre sempre scenari complessi in sede teorica, adduco come esempio uno degli esperimenti neurobiologici più famosi. Quando Odds e Miller cominciano ad impiantare degli elettrodi nelle regioni profonde del cervello dei ratti per verificare la loro risposta alla stimolazione elettrica, essi muovono dall’ipotesi che debba esistere qualche zona o centro che, attivato, produca una risposta avversativa (dolorosa) o appetitiva (piacevole) agli stimoli. Essi intendono appunto verificare la pertinenza dell’ipotesi freudiana (che riecheggia peraltro quella leopardiana) secondo la quale il dolore, legato ad una tensione spiacevole, è un fatto primario e il piacere si definisce solo come diminuzione o scarica di questa. La ricerca pone in luce invece che, per quanto molto vicini, esistono due diversi centri la cui stimolazione produce comportamenti avversativi e appetitivi. Questo significa che il piacere e il dolore hanno una loro dimensione autonoma: sono insomma due diverse qualità emozionali, anche se intimamente correlate tra loro sul piano dell’esperienza psichica.

Olds e Miller scoprono però qualcosa di ancora più importante. Essi addestrano i ratti a premere una leva che produce la stimolazione attraverso gli elettrodi. Se questi sono impiantati nel centro del dolore, la stimolazione avviene una sola volta, se, viceversa, sono impiantati nel centro del piacere, essa avviene ad libitum, fino all’esaurimento e alla morte dell’animale, che giunge a rifiutare sia il cibo che l’accoppiamento!

Questo dato sperimentale non solo invalida il principio del piacere freudiano, che dovrebbe risultare soddisfatto dalla scarica della tensione, ma evoca il "mistero" di un centro del piacere la cui stimolazione elettrica appaga l’animale al punto tale da renderlo indifferente agli stimoli che dovrebbero attivare gli istinti primari (cibo, sesso). Dov’è il mistero? Nel fatto che, sino allora, si riteneva che il piacere fosse una conseguenza della soddisfazione istintuale. Olds e Miller scoprono invece un centro la cui stimolazione dà luogo ad un piacere indipendente dagli istinti, che contiene potenzialità di appagamento a tal punto elevate da inibire gli istinti conservativi (cibo) e riproduttivi (sesso).

Sul piano neurobiologico, il mistero si è risolto in seguito alla scoperta successiva delle endorfine. Ai ratti, attraverso la stimolazione del centro del piacere, veniva offerta la possibilità di "drogarsi" ed essi – mutatis mutandis - facevano la fine di tanti tossicodipendenti consapevoli di destinarsi a morte, ma incapaci di rinunciare alla droga.

La soluzione neurobiologica del mistero, lascia però aperto il significato della scoperta sul piano della filosofia naturale. Se l’apparato mentale comporta un sistema – quello appunto delle endorfine – la cui potenzialità di produrre piacere eccede di gran lunga il piano degli istinti primari, che cosa significa questo se non che il piacere, persino in un animale relativamente semplice come il ratto, è una motivazione totalizzante che, al di là del cibo e del sesso, coinvolge tutto il comportamento dell’animale nello sforzo di conseguire un livello di appagamento sempre maggiore nell’interazione con l’ambiente? La riserva di potenzialità di piacere, solitamente non utilizzate, depone per un "progetto" che assegna all’animale dotato di emozioni il compito di sondare tutte le possibili interazioni con l’ambiente che possano appagarlo.

Avviata sulla base di una metodologia riduzionistica, la ricerca ha dischiuso, dunque, uno scenario sorprendente sotto il profilo della filosofia naturale. Quali conseguenze comporta una scoperta del genere per l’uomo?

Si potrebbe d’acchito pensare che essa depone a favore dell’edonismo. Ma non è così. I soggetti bulimici come peraltro quelli dipendenti compulsivamente dal sesso o dal lavoro non sono affatto felici: il loro probema è di non raggiungere mai l’appagamento. Questo significa che la stimolazione unilaterale del centro del piacere non funziona. Data la complessità dell’apparato mentale umano, sembra piuttosto che la felicità, intesa come espressione soggettiva di uno stato di attivazione del sistema endorfinico, dipenda dall’insieme dei rapporti che il soggetto intrattiene con il mondo e dall’uso attivo delle sue potenzialità.

Ci si può chiedere che importanza abbia la scoperta di Olds e Miller per la psicopatologia. La prevalenza dinamica di un bisogno inconscio di punizione è un assioma della teoria analitica. E’ evidente che esso può essere più facilmente interpretato in termini psicobiologici dopo la scoperta di un centro del dolore che gli autori hanno definito come centro della punizione. Su quest’aspetto mi riprometto di tornare ulteriormente. Per ora sembra importante soffermarsi su di un altro aspetto.

Sulla scorta della scoperta di Olds e Miller, la ricerca neurobiologica ha tentato di verificare gli effetti sugli animali delle più varie sostanze chimiche, compresi gli psicofarmaci, per verificare in quale misura essi evocano reazioni appetitive o avversative. Le droghe in genere, e in particolare la morfina, evocano di solito reazioni appetitive. Tra gli psicofarmaci, gli ansiolitici e gli antidepressivi evocano reazioni neutrali o debolmente appetitive. Tutti i neurolettici, invece, evocano reazioni marcatamente avversative. Questo non significa, ovviamente, che essi debbano essere proscritti. Significa però che l’adesione di un paziente al trattamento farmacologico, quando risulta necessario, non può prescindere dal tenere conto che gli effetti collaterali sono in genere penosi.

E’ evidente, da quanto si è detto finora, che la neurobiologia può essere un’alleata preziosa della psichiatria a patto che i dati che essa offre, ricavati da una metodologia riduzionistica, vengano interpretati in un’ottica più ampia che deve tenere conto della complessità dell’apparato mentale e dell’esperienza soggettiva, che è il versante vissuto del suo funzionamento.

La neopsichiatria, invece, utilizza i dati neurobiologici in termini grettamente riduzionistici. Li svilisce, insomma, ad uso e a consumo dei suoi presupposti organicistici, che comportano una concezione del cervello non come un sistema complesso ma come un sistema lineare il cui funzionamento o malfunzionamento dipende semplicemente dalla somma delle parti che lo costituiscono. In conseguenza di questo, basta scoprire o anche solo ipotizzare un’anomalia biochimica per assumerla come causa della malattia mentale.

E’ quanto si sentono ripetere di continuo dai neopsichiatri gli ansiosi, i depressi, gli eccitati, i deliranti. Il problema è sempre e solo uno: il loro cervello produce in difetto o in eccesso una sostanza chimica. Rimediando alla carenza o all’eccesso di questa sostanza, gli psicofarmaci guariscono la malattia o, meglio, guariscono i sintomi. La malattia, in sé e per sé, è cronica, corrispondendo essa ad un disturbo biochimico di origine genetica. C’è insomma anche quando non si manifesta attraverso i sintomi.

3.

In quale misura questa vulgata, che ormai ha raggiunto anche i medici di base e l’opinione pubblica, corrisponde ai dati prodotti dalla neurobiologia?

Per rispondere a questa domanda, occorre appena qualche nozione di base sul funzionamento cerebrale.

Il cervello è una rete di neuroni la cui attività, che consiste nel trasmettere o nell’inibire la trasmissione di impulsi nervosi avviene su di una base elettrochimica.

Il neurone è una cellula immersa in un ambiente esterno, dal quale è separata da una membrana. Sia all’interno che all’esterno si dà una concentrazione di sali che si dividono in particelle con carica negativa e particelle con carica positiva dette ioni. La membrana cellulare del neurone serve a mantenere, tra l’interno e l’esterno, una diversa distribuzione di ioni. In un neurone a riposo (che si definisce polarizzato) la concentrazione degli ioni sodio (Na+) e cloro (Cl-) è minore all’interno rispetto all’esterno, mentre gli ioni potassio (K+) sono più concentrati all’interno che all’esterno. La permeabilità della membrana tende a spingere continuamente ioni K+ fuori dal neurone e ioni Na+ dentro il neurone. Per mantenere il potenziale di riposo, occorre un dispendio energetico che trasporta dentro la cellula ioni K+ e fuori ioni Na+.

Ogni neurone è in comunicazione reciproca con altri neuroni. La comunicazione è stabilita dalle sinapsi, che rappresentano le terminazioni dei neuroni. Su ogni corpo cellulare se ne contano a migliaia, che provengono da altri neuroni. A livello di sinapsi, vengono rilasciati i neurotrasmettitori che, legandosi ai recettori postsinaptici presenti sulla membrana del neurone possono indurre due tipi di effetti: la depolarizzazione della membrana con la produzione di potenziali postsinaptici eccitatori ( EPSP) e la depolarizzazione della membrana con la produzione di potenziali postsinaptici inibitori (IPSP). E’ la somma di EPSP e di IPSP a decidere se il neurone scarica o no un impulso. Se quella somma depolarizza la membrana, che raggiunge quindi una soglia di eccitazione, si genera un potenziale d’azione (PA). A differenza dei potenziali postsinaptici, i PA non sono risposte graduate: essi rispondono al principio del tutto-o-nulla.

Quando un neurone raggiunge la soglia di eccitazione, una corrente massiva di ioni Na+ entra nella cellula e una corrente massiva di ioni K+ esce. Subito dopo la scarica dell’impulso, la membrana si polarizza nuovamente e si restaura il potenziale di riposo.

Si capisce facilmente, tenendo conto di queste poche nozioni, perché il cervello è un sistema complesso. Il funzionamento di ogni neurone è probabilistico: esso dipende dalla somma delle influenze eserciatate da parte di un numero indefinito di altre cellule. L’unica cosa assolutamente certa è che i neuroni sono riconducibili a due categorie funzionale: la prima consta di neuroni prevalentemente eccitatori, l’altra di neuroni prevalentemente inibitori. Queste due categorie, per quanto si sa, si equivalgono. Questo significa che l’apparato nervoso è governato, nel suo funzionamento, da un acceleratore potentissimo e da un freno altrettanto potente.

Un ruolo funzionale decisivo lo assolvono comunque i neurotrasmettitori, vale a dire le sostanze chimiche che vengono rilasciate a livello di sinapsi. Che cosa si sa a riguardo?

Nel sistema nervoso sono presenti due diverse classi di neurotrasmettitori: a basso e alto livello molecolare. Entrambi sono sintetizzati all’interno della cellula. In passato si riteneva che ciascun neurone sintetizzasse un unico tipo di neurotrasmettitore; oggi è noto che molti neuroni contengono due tipi di neurotrasmettitori.

Una volta sintetizzato, il neurotrasmettitore rimane depositato in vescicole sinaptiche che si aggregano in vicinanza della membrana sinaptica. L’arrivo del PA ai bottoni terminali determina l’afflusso nei bottoni stessi di ioni calcio (Ca+). Questo determina la fusione delle vescicole con la membrana sinaptica e la loro apertura, in conseguenza della quale il neurotrasmettirore viene rilasciato nella fessura sinaptica. Qui essi si legano con i recettori presenti sulla membrana postsinaptica, generando un potenziale postsinaptico.

I neurotrasmettitori vengono poi inattivati da due diversi meccanismi: alcuni vengono ricaptati dai bottoni terminali e impacchettati di nuovo nelle vescicole sinaptiche, altri sono degradati da enzimi presenti nella fessura sinaptica.

Esistono tre classi di neurotrasmettitori a basso peso molecolare: gli aminoacidi (glutammato, aspartato, glicina, acido gamma-amino-butirrico o GABA); le monoamine (dopamina, noradrenalina, adrenalina e serotonina); e l’acetilcolina.

I neurotrasmettitori ad alto peso molecolare sono i neuropeptidi, costituiti da catene di aminoacidi. Attualmente se ne conoscono più di settanta, tra i quali i più importanti scientificamente sono le endorfine.

Una scoperta rilevante della neurobiologia, che si può ritenere consequenziale a quella dei neurotramettitori, è che gli psicofarmaci esercitano i loro effetti agendo come agonisti o antagonisti dei neurotramettitori. Gli psicofarmaci agonisti sostanzialmente aumentano la sintesi dei neurotrasmettitori, aumentano la loro liberazione a livello di fessura sinaptica, aumentano l’efficacia del legame tra neurotramettiore e recettori postsinaptici e bloccano i meccanismi di inattivazione nella fessura sinaptica. Gli psicofarmaci antagonisti determinano effetti opposti: bloccano la sintesi dei neurotrasmettuittori, diminuiscono la loro liberazione nella fessura sinaptica e bloccano i recettori postsinaptici.

Più in particolare gli ansiolitici funzionano da agonisti per il GABA, gli antidepressivi da agonisti della serotonina e della noradrenalina e i neurolettici da antagonisti della dopamina e della noradrenalina.

4.

Sia pure esposti in termini semplificati, i dati citati si possono ritenere certi. Sulla base di essi, come riesce chiaro dal libro di Le Doux, si può costruire un modello dinamico e plastico del funzionamento cerebrale. La neopsichiatria li utilizza invece nel modo più rozzo, vale a dire riduzionisticamente.

La rozzezza non consiste nella prima conclusione cui perviene la neopsichiatria. Se gli psicofarmaci realizzano i loro effetti terapeutici a livello neurotrasmettitoriale, ciò significa che l’ansia, i disturbi dell’umore (depressione, eccitamento) e i deliri schizofrenici dipendono da una qualche disfunzione che concerne la trasmissione sinaptica. La disfunzione in questione può essere ipotizzata ad un qualunque livello della trasmissione stessa. Si può ammettere, di volta in volta, che si dia un difetto o un aumento nella produzione del neurotramettitore, un potenziamento o una scarsa efficacia degli enzimi che lo degradano nel bottone sinaptico, un difetto o un eccesso di liberazione nella fessura sinaptica, un difetto o un eccesso dei meccanismi d’inattivazione nella fessura sinaptica, una sensibilità eccessiva o ridotta dei recettori postsinaptici, ecc.

Questa conclusione, per quanto con qualche riserva, può essere tranquillamente accettata anche dagli psicoanalisti. Posta una corrispondenza tra fenomeni neurobiologici e fenomeni mentali, nulla vieta di pensare che ai fenomeni psicopatologici corrispondano alterazioni dei meccanismi di trasmissione sinaptica.

La rozzezza affiora nel momento in cui la neopsichiatria affronta il problema eziologico, che riguarda la causa del disagio psichico. Posto che si diano anomalie biochimiche a livello dei neurotrasmettitori, esse possono essere interpretate come una causa primaria della malattia, una causa secondaria o una concausa. Si può pensare, infatti, sia che tali anomalie attestino un difetto di base intrinseco all’organizzazione di un determinato cervello, sia che esse rispondano a particolari situazioni di emergenza psichica, legata all’attività di conflitti psicodinamici che squilibrano un sistema neurotrasmettitoriale in sé e per sé normale, sia addirittura che, dato un conflitto psicodinamico, esse lo esprimono ma squilibrandosi e che tale squilibrio, in alcune situazioni, si autonomizzi rispetto al conflitto riverberando su di esso. La prima ipotesi è somato-psichica (organicistica), la seconda psico-somatica, la terza psico-somato-psichica.

La neurobiologia non fornisce attualmente alcun dato favorevole ad una delle tre ipotesi: da un punto di vista scientifico esse sono equivalenti.

Per confermare una di esse, occorre fare appello alla clinica. Questa (come cerco di illustrare negli articoli dedicati al significato funzionale dei sintomi, ai quali rimando) depone piuttosto a favore delle ultime due che non della prima.

Si consideri, per esempio, la sintomatologia depressiva. Alcuni sintomi (astenia, abulia, apatia, inappetenza, insonnia), pur potendo essere interpretati diversamente, possono esser ricondotti ad un difetto di serotonina o di noradrenalina (o di entrambe). Già è più difficile attribuire ad esso il vissuto costante di essere finiti che, implicando una previsione a lungo termine, sembra alludere più che ad un errore cognitivo, ad un’inconscia aspettativa di soffrire per sempre. E’ francamente ridicolo attribuire ad un disturbo chimico vissuti complessi come la disistima, l’autosvalutazione, le autoaccuse. Occorrerebbe infatti ammettere che l’autostima, una valutazione equa di sé e la coscienza tranquilla dipendano dalla disponibilità di serotonina nelle fissure sinaptiche!

Senza porsi troppi problemi, la neopsichiatria opta tout-court per l’ipotesi somatopsichica, secondo la quale i sintomi psicopatologici sono un’espressione di una malattia del cervello, che nulla ha a che vedere con l’esperienza soggettiva. Tale patologia avrebbe, inoltre, un fondamento genetico, definibile in termini di vulnerabilità rispetto allo stress. Su questa base si ipotizza uno spettro morboso che va dall’estremo di una vulnerabilità spiccata, per cui basterebbe un nonnulla ad evidenziare la malattia, all’estremo opposto, che comporta una rilevante incidenza delle circostanze ambientali.

L’applicazione diagnostica di questa concezione è semplice. Se nell’esperienza di un soggetto che manifesta una sintomatologia psichiatrica non sono reperibili eventi di vita o circostanze ambientali di particolare impatto stressogeno, è evidente che è in gioco una malattia genetica.

Qual è il metro di misura dello stress? Semplicemente il modo di reagire delle persone normali alle stesse circostanze.

Quanta rozzezza ci sia in quest’approccio riesce immediatamente evidente. I neopsichiatri reificano l’oggettività delle circostanze ambientali e misconoscono, di conseguenza, la soggettività che dà ad esse senso e peso (cognitivo ed emozionale). Essi ritengono, in altri termini, che la soggettività sia una variabile dipendente dalla trasmissione neurotrasmettitoriale!

Se questo fosse vero, rimarrebbe comunque da affrontare un problema. Ammessa una labilità del sistema neurotrasmettitoriale su base genetica, occorrerebbe chiedersi perché essa si manifesti in una certa epoca della vita, e casomai a ciel sereno, senza alcun evento apparente che giustifichi il passaggio dalla normalità alla patologia. La risposta neuropsichiatrica è per l’appunto la vulnerabilità allo stress. In pratica, per quanto labile, il sistema neurotrasmettitoriale regge finché le (normali) richieste della vita non eccedono le sue capacità adattive. Senza un criterio che quantifichi o almeno permetta di valutare con una certa obiettività la vulnerabilità allo stress e le normali richieste della vita, tale risposta non ha alcun significato scientifico.

E’ una constatazione empirica, sostengono i neopsichiatri. Ciò significa semplicemente che occorre accordare credito al loro personale punto di vista.

Dicembre 2004