BISOGNO INCONSCIO DI SOFFRIRE E FOBIA DELLA FELICITA' (1)


1.

C'è un ampio spettro di vissuti, sintomi e comportamenti, facilmente reperibili nel corso dell'analisi, che non possono essere interpretati se si prescinde da un "bisogno" inconscio di soffrire. Tale bisogno solo rarissimamente viene recepito e convalidato a livello cosciente. Spesso esso, rimanendo del tutto estraneo alla coscienza, va inteso nei termini di una motivazione psicodinamica a tal punto potente da determinare sia direttamente, attraverso i sintomi, sia indirettamente, attraverso i comportamenti che il soggetto è spinto ad agire, un regime di vita mortificante, molto distante o comunque al di sotto di una soglia minima di felicità che, in teoria, egli potrebbe sormontare. Lo spettro del bisogno inconscio di soffrire è definito dalla distanza qualitativa che si dà tra il regime di vita da esso determinato e il regime possibile che il soggetto potrebbe realizzare se riuscisse a liberarsene. Si tratta di uno spettro estremamente ampio, che ad un estremo comporta una tendenza spiccata all'autolesionismo (anche fisico, fino all'autosoppressione) e all'estremo opposto una depressione lieve, apparentemente immotivata, riconducibile alla fobia della felicità.

A questa complessa tematica un mio collega, amico e allievo, il dott. Nicola Ghezzani ha dedicato un libro (Volersi male, Angeli, Roma 2002) di grande interesse, che consiglio di leggere. Intrecciandosi con la tematica del senso di colpa, il bisogno inconscio di soffrire rappresenta un filo continuo in tutte le mie opere. In Star Male di Testa ad esso è dedicato il capitolo 17. Torno su questo problema, ripromettendomi di scrivere più articoli, perché ritengo che meriti, per la molteplicità e l'insidiosità dei modi in cui si esprime, un'attenzione costante.

E' difficile affrontare la complessa tematica definita dal titolo senza alcune precisazioni preliminari. Nell'accezione comune, ricavata dalla psicoanalisi tradizionale, il bisogno inconscio di soffrire À identificato con il masochismo. Tale accezione è estremamente limitativa, riferendosi in prevalenza al masochismo sessuale.

Coniato da Krafft-Ebing, il termine masochismo, derivato dal nome di un romanziere austriaco (Leopold von Sacher Masoch), i cui personaggi traevano piacere erotico dall'essere trattati crudelmente, designa semplicemente una pratica sessuale "perversa", tale cioè che: "l'individuo che ne è affetto, nei sentimenti e nei pensieri sessuali, è dominato dall'idea di essere completamente e incondizionatamente soggetto ai voleri di una persona del sesso opposto, di essere trattato da questa persona come da un padrone, di essere umiliato e maltrattatoÖ Cosa essenziale dal punto di vista della psicopatologia e comune a tutti i casi è la direzione dell'istinto sessuale verso la sfera di rappresentazioni della sottomissione ad un'altra persona e del maltrattamento da parte di quest'ultima".

Freud, che mutua il termine da Krafft-Ebing, ne cambia alquanto il significato. Già nei Tre saggi sulla teoria della personalità, egli minimizza l'aspetto relazionale, per cui il masochista gode nel porsi nel ruolo dello "schiavo" rispetto ad un "padrone" da cui vuole essere maltrattato, riconducendo la perversione ad una vicissitudine puramente istintuale. Egli scrive: "La designazione di masochismo abbraccia tutti gli atteggiamenti passivi verso la vita sessuale e l'oggetto sessuale, e di questi l'estremo appare essere la congiunzione del soddisfacimento con il patimento di dolore fisico o psichico cagionato dall'oggetto sessuale. Il masochismo come perversione sembra allontanarsi dalla meta sessuale normale più del sadismo; ed è lecito innanzi tutto dubitare se esso si presenti in modo primario o piuttosto non sorga regolarmente per una trasformazione del sadismo. Spesso si può riconoscere che il masochismo è nient'altro che una prosecuzione del sadismo rivolto verso la propria persona, la quale fin dall'inizio tiene il luogo dell'oggetto sessuale." (Opere, vol 4, p. 471)

In seguito all'ipotesi dell'istinto di morte, cui perviene nel 1920, Freud giunge però ad ammettere anche un masochismo primario. Egli, infatti, scrive in una nota all'opera citata del 1924: "Ulteriori riflessioni, che hanno potuto fondarsi su certe ipotesi riguardanti la struttura dell'apparato psichico e le specie di pulsioni in esso attive, hanno largamente modificato il mio giudizio sul masochismo. Sono stato indotto a riconoscere un masochismo primario - erogeno - dal quale si sviluppano due forme successive, il masochismo femminile e quello morale. Rivolgendo il sadismo inutilizzato nella vita verso la propria persona nasce un masochismo secondario, che si aggiunge a quello primario." (p. 471)

Il masochismo morale cui Freud fa cenno è la tendenza inconscia di alcuni soggetti a produrre, sia a livello soggettivo che nell'interazione con il mondo, un regime di vita doloroso o infelice, corrispondente ad un bisogno inconscio di soffrire, mortificarsi, punirsi, espiare.

Una differenza fondamentale tra il masochismo sessuale e quello morale è che, in conseguenza del primo, il soggetto ricerca attivamente un partner da cui farsi maltrattare, umiliare, tormentare, ecc., mentre il secondo non comporta alcun desiderio cosciente del genere. Di fatto, il primo si realizza sempre e comunque all'interno di una relazione interpersonale, il secondo invece si realizza nel rapporto con la vita e con il mondo nella sua totalità, compresa una relazione interpersonale nella quale però il soggetto s'immette con tutt'altro obiettivo.

Ricondurre, come fa Freud, il masochismo morale alle vicissitudini dell'istinto di morte sembra, oltre che riduttivo, teoricamente insostenibile.

Ci si può convincere di questo affrontando, in questo primo articolo, l'espressione forse più sottile del masochismo, che è anche la più facilmente interpretabile: la paura di stare bene o di "guarire" che affiora talvolta in analisi.

2.

Non c'è alcun paziente che "vuole" star male o non "vuole" guarire. Se si dà una motivazione primaria a livello d'inconscio, questa è identificabile con un bisogno di felicità ereditato dagli animali, che ha assunto negli uomini una valenza straordinaria. E' vero però che spesso un paziente non può guarire o riconoscere di stare meglio perché, albergando una dinamica masochistica, inconsciamente ha bisogno di continuare a star male. Tranne rarissimi casi di delirio di colpa, questo bisogno non À mai enunciato dal soggetto, che protesta in buona fede la sua volontà di guarire. Esso può essere ricavato però da una serie di indizi.

Il primo è la tendenza a negare di stare meglio anche quando il miglioramento è evidente e casomai rilevato dai parenti e dagli amici. Può capitare addirittura che il soggetto si arrabbi quando si trova di fronte ad un giudizio del genere, sino al punto di "drammatizzare" la sofferenza, quasi rappresentandola agli occhi degli altri, o di avvertire un repentino peggioramento delle sue condizioni. Per conto suo, sia in analisi che nella vita quotidiana, non può usare la locuzione stare meglio senza avvertire un'oscura, indecifrabile paura.

Il secondo indizio, singolare, è che la possibilità di stare meglio, che talora si realizza inconsapevolmente, dura finché il soggetto non se ne rende conto. Non appena ciò avviene, spesso con sorpresa, la conseguenza è repentinamente il ripresentarsi del malessere.

Il terzo indizio è l'alternanza di periodi di relativo benessere e di malessere, la cui ciclicità permette al soggetto di operare delle previsioni certe sugli sviluppi futuri del suo stato d'animo. Il benessere è ritenuto una transitoria illusione rispetto al malessere che definisce lo stato proprio in cui il soggetto deve vivere.

Non è difficile cogliere il significato inconscio di questi indizi se si tiene conto che la condanna a soffrire è inconsciamente accettata, quando non addirittura ritenuta giusta. In conseguenza di questo, lo stare bene viene a rappresentare una condizione impropria per il soggetto, né più né meno come sarebbe quella di un soggetto incarcerato che si ritrovasse all'aria aperta.

Che le cose stiano così è infine comprovato da alcune convinzioni ideologiche che sono spesso espresse dai pazienti come se fossero leggi oggettive. La più frequente fa riferimento al fatto che è normale aspettarsi il male se uno sta bene. Questa convinzione non ha molto a che vedere con la previsione che può fare un qualunque soggetto che sta bene in ordine al fatto che il benessere non può durare all'infinito. Essa più semplicemente fa capo al principio per cui lo stare bene non può non essere compensato dal male, come se esso fosse una colpa da pagare.

Su questo sfondo si definiscono poi due atteggiamenti inequivocabili.

Il primo, che risulta chiaro via via che i sintomi si allentano, è la tendenza a mantenere un regime di vita comunque mortificato in rapporto alle possibilità oggettive. In pratica, un paziente sta meglio ma, senza apparente motivo (o talora dicendo semplicemente che non gli va) si astiene dall'uscire di casa per incombenze che non siano strettamente necessarie (lavoro, gestione domestica). Egli non va a cena fuori né al cinema né al teatro o a concerti musicali, rifiuta di partecipare alle feste, rinuncia alle vacanze, spesso si astiene anche dal coltivare interessi piacevoli (lettura, musica, ecc.) all'interno delle pareti domestiche.

Il secondo atteggiamento non fa altro che fare affiorare a livello cosciente il motivo per cui il soggetto mantiene un regime di mortificazione, vale a dire la certezza assoluta che, se si concede degli svaghi, dei piaceri, delle vacanze, egli dovrà poi inesorabilmente pagarle stando male. Nessuno ovviamente è in grado di dare una giustificazione razionale a questa convinzione: alcuni soggetti la enunciano come un assioma che non richiede dimostrazione tanto è ovvio.

Infine c'è da considerare la paura di stare bene che sopravviene verso la fine dell'analisi e che si esprime in tre modi. Il primo, più facilmente equivocabile, è la tendenza a perpetuare il rapporto con il terapeuta o ad assicurarsi la sua disponibilità permanente per il futuro.Questa tendenza è facilmente equivocabile perché, in alcuni casi, essa ha una comprensibilità umana immediata: corrisponde, in breve, al bisogno (negato nella nostra società in nome della concezione dell'individuo autosufficiente) di un "maestro" di vita o di un referente comunicativo privilegiato con cui parlare ogni tanto. In alcuni casi, però riesce del tutto evidente che quella tendenza fa capo al bisogno del soggetto di continuare a mantenersi nel ruolo del paziente, come se solo l'accettazione di questo ruolo potesse metterlo al riparo da una ricaduta. Questo significa, né più né meno, ritenere che la sofferenza sia stata superata, ma che essa si mantenga a livello potenziale.

Il secondo modo consiste nell'accettare una sintomatologia minima, senza più impegnarsi a sormontarla. La circostanza più evidente, a riguardo, è legata a soggetti affetti da disturbi ossessivi e da rituali imponenti, che alla fine si arrendono ad eseguire quotidianamente un solo, piccolo rituale, e non hanno il coraggio di astenersene. Evidentemente, mantenendolo, essi rimangono nella categoria dei soggetti che soffrono, e questo li fa sentire protetti.

Il terzo modo, sovrapponibile al secondo, riguarda i farmaci. Si tratti di ansiolitici o di antidepressivi, lo scalaggio procede talora senza alcuna difficoltà fino all'ultima dose, che può ridursi a poche gocce (talora addirittura due o tre). Assumendo questa dose (terapeuticamente inefficace e chimicamente praticamente inerte), il soggetto sperimenta un pieno benessere. Se tenta di sospenderla si scatena un malessere profondo. L'accettazione di questa dipendenza implica, inconsciamente, che la malattia, e dunque la sofferenza, ancora c'è.

3.

Mi sono limitato a descrivere gli indizi che, nel loro complesso, definiscono, nel corso di una terapia, l'attività di una dinamica masochistica. L'incidenza di tale dinamica nelle varie circostanze di vita sarà oggetto dei prossimi articoli.

Che cosa significano nel complesso tali indizi? Per un aspetto, il significato non potrebbe essere più chiaro. Nella misura in cui lo stare male contrasta con il bisogno di felicità, esso è sempre rifiutato in nome del desiderio di soffrire di meno e di "guarire". A questo rifiuto cosciente corrisponde spesso però un bisogno assolutamente inconscio di soffrire, che, di fatto, viene intuitivamente accettato dal paziente che si comporta come se lo ritenesse, se non giusto, fatale. Su che cosa si fonda questo bisogno? Sostanzialmente su due logiche.

La prima fa riferimento ad un senso rigoroso della giustizia tale per cui chi è colpevole di qualcosa non può sfuggire alla punizione. Non è tanto importante qui considerare di che cosa il soggetto si senta inconsciamente colpevole. Basta dire che di colpe reali in genere coloro che incappano in un disagio psichico ne hanno commesse o ne commettono in genere meno dei "normali". E' importante piuttosto soffermarsi sulla certezza della sanzione e della pena. Questo criterio, che pure governa la giustizia umana, è quotidianamente disatteso. Se l'automatismo cui fanno riferimento i pazienti esistesse realmente, si potrebbero eliminare le forze di polizia e chiudere i tribunali. A livello inconscio, perlomeno per quanto riguarda i soggetti affetti da un disagio psichico, quel criterio funziona come univoco e assoluto. Ciò si può spiegare solo facendo riferimento ad una necessità di ordine logico e etico nello stesso tempo, spesso, ma non sempre, influenzata dall'educazione religiosa. Non è neppure azzardato ipotizzare che tale necessità abbia rappresentato la matrice delle religioni monoteistiche, che l'accolgono univocamente.

La seconda logica è anch'essa riconducibile al senso di giustizia, ma da un'angolatura particolare. Tale angolatura fa riferimento all'equa distribuzione del bene e del male tra i diversi soggetti che appartengono alla specie umana. La consapevolezza che non pochi di questi soffrono determina come conseguenza la percezione dello stare bene come un ingiusto privilegio che va pagato perché l'equità sia restaurata. In alcuni pazienti, questa logica sembra avere un carattere privato: essa, in breve, concerne il confronto tra la propria condizione e quella di un congiunto che soffre. Stare bene, da questo punto di vista, corrisponde ad un tradimento, all'affrancamento colpevole del principio della condivisione del dolore. In altri pazienti, la logica sembra avere un carattere universale, concernendo il confronto tra la propria condizione e quella di tanti altri esseri umani.

Febbraio 2005