Neurobiologia e psicopatologia

Depressione: biochimica e psicodinamica (2)


1.

I punti più importanti dell’articolo precedente sono i seguenti:

* il periodo di latenza degli antidepressivi esclude che il loro effetto (se e quando sopravviene) possa essere attribuito ad un’immediata incidenza sui neurotrasmettitori

* numerosi indizi attestano che la depressione corrisponde ad una situazione di stress e che gli antidepressivi funzionano incidendo sul sistema che regola l’adattamento allo stress

* lo stress in questione sembra ricondursi ad una “minaccia” che dà luogo all’attivazione dell’amigdala

* la minaccia in questione può essere rappresentata a livello conscio o semplicemente vissuta a livello inconscio

Ci sarebbe dunque un vissuto di minaccia alla base della depressione: un vissuto, dunque un’esperienza soggettiva conscia o inconscia che attiverebbe meccanismi di risposta neurobiologica.

Naturalmente, un assunto del genere urta contro la barriera ideologica opposta dalla neopsichiatria secondo la quale la depressione come malattia è definita o dall’inesistenza di circostanze oggettive che permettono di comprenderla psicologicamente o da una reazione del tutto disadattiva del soggetto ad eventi di vita negativi, che rivelerebbe la predisposizione alla depressione del suo cervello.

E’ evidente che questa ideologia si fonda su di un’estrema semplificazione del rapporto tra soggetto e ambiente e su di una concezione piuttosto limitativa del concetto di stress.

Genericamente per stress s’intende una situazione di rapporto tra organismo e ambiente che pone in tensione l’organismo stesso e lo obbliga ad investire risorse per pervenire ad un adattamento. Ogni organismo dispone di una certa quota di potenzialità ad attive, sormontata la quale esso sviluppa segni di disadattamento e di sofferenza.

Se dal piano biologico si sale a quello esperienziale, la nozione di stress va articolata in termini più complessi. Lo stress esperienziale, infatti, può intervenire in rapporto a eventi di vita negativi vissuti in nome dei sistemi di significati depositati nella personalità, ma anche in rapporto ad eventi di vita apparentemente neutrali che assumono un rilevante significato soggettivo. La significazione degli eventi, poi, siano essi negativi o apparentemente neutrali, può avvenire a livello cosciente o a livello inconscio.

Lo stress esperienziale ha dunque un’estensione più ampia rispetto allo stress biologico, che esso include. La reazione di un soggetto umano alla vita nei suoi vari aspetti è sempre mediata dalla soggettività.

Ciò significa che, partendo dal presupposto per cui il rattristarsi, vale a dire lo sviluppare uno stato d’animo opposto alla serenità e alla gioia, fa parte del corredo emozionale di base dell’essere umano, occorre definire uno spettro che va dall’estremo di reazioni “depressive” immediatamente comprensibili all’estremo opposto di reazioni serie, gravi e apparentemente immotivate.

L’analisi di tale spettro, come si vedrà, porta alla conclusione che in esso non si dà solo, come sostiene la neopsichiatria, un salto qualitativo dalla normalità alla malattia, considerata quest’ultima come un continuum riconducibile ad un’unica causa – il disturbo dell’umore, dovuto ad un difetto neurotrasmettitoriale -, bensì diversi livelli caratterizzati dall’incidenza più o meno rilevante di conflitti psicodinamici.

2.

Lo spettro in questione muove dalla polarità umorale che la neopsichiatria considera normale, essendo caratterizzata da uno stato d’animo che fluttua, sia pure con una periodicità diversa da soggetto a soggetto, tra un vissuto di benessere, vitalità, gioia, leggerezza e un vissuto opposto di tristezza, insoddisfazione, appesantimento, entro un range che, mantenendosi al di sotto dell’eccitamento e al di sopra della depressione, coincide con una condizione di adattamento al mondo, di assenza di sintomi e di non sofferenza.

E’ fuor di dubbio che un range del genere esiste. Se ci si chiede, però, qual è il significato della normale fluttuazione dell’umore, occorre riconoscere che esso, pur dipendendo in parte da circostanze esterne, attesta immediatamente che il mondo interiore è un sistema complesso dinamico la cui organizzazione funzionale, almeno in parte, corrisponde ad un “gioco” di fattori che sono in gran parte al di fuori del controllo della coscienza.

L’umore, lo stato d’animo sono gli indizi più evidenti che la coscienza letteralmente galleggia e scorre su di un mare interno denso di valenze emozionali.

Uno stato di equilibrio dinamico è sostanzialmente casuale. Esso non implica una particolare capacità introspettiva dell’io né una personalità riflessiva e coltivata né una visione del mondo articolata e complessa: è un fatto che, in un numero rilevante di casi, coincide con un orientamento piuttosto superficiale dell’io.

L’umore normale, insomma, non è un merito, bensì il prodotto di un mondo interno non molto strutturato, in parte rimosso e di un io che si adatta al mondo senza farsi molti problemi.

Questa considerazione ha una certa importanza perché consente di mettere a fuoco, all’interno dello spettro citato, un secondo livello non patologico, ma caratterizzato da una particolare ricchezza emozionale del mondo interiore e da un orientamento dell’io che, anziché adottare meccanismi spontanei di difesa, accetta la sfida di un confronto con esso e lo indaga.

Questo secondo livello coincide con un orientamento introverso che, contrastando l’adattamento al mondo così com’è, comporta uno sforzo di riflessione che utilizza le potenzialità interiori. Una circostanza del genere si realizza spesso in soggetti che hanno una vocazione intellettuale – filosofica, artistica, scientifica. Tale vocazione non comporta necessariamente fluttuazioni umorali che sconfinano dal range della normalità, ma è un fatto che in molti artisti, filosofi, scienziati le fluttuazioni appaiono più ampie rispetto alla media della popolazione, e in un numero rilevante di casi, esse si configurano come “patologiche”. Non è superfluo rilevare che la patologia più frequente che si riscontra negli intellettuali è la depressione.

Sarebbe ingenuo sostenere che esperienze del genere attestano che lo squilibrio dell’umore, intrinseco alla complessità stessa del mondo interiore, è arginato solo dalla capacità dell’io di adottare difese che lo tengono al riparo da esso. E’ poco confutabile però che tutti i soggetti che, per caso, vocazione o scelta consapevole, coltivano il loro mondo interiore cercando canali di comunicazione tra coscienza e inconscio corrono il rischio di fluttuazioni dell’umore più ampie rispetto alla media. Di solito sono le fluttuazioni negative ad essere rilevate. Ancora oggi un proverbio popolare sostiene che chi studia troppo rischia di rovinarsi la mente.

Occorre tenere conto, però, anche delle fluttuazioni positive. Tutte le persone, in rapporto a circostanze favorevoli di vita, possono gioire. Ma lo stato d’animo degli artisti, scrittori, filosofi, scienziati che portano a compimento un lavoro che intuiscono eccellente sfiora talora l’estasi, l’euforia, l’appagamento totale, anche se solitamente esso è seguito da una depressione post-partum.

Si dà dunque di fatto una complessità intrinseca all’apparato mentale potenzialmente pericolosa per quanto concerne l’umore.

Se ci si chiede in cosa consista questo pericolo, occorre tenere conto di due aspetti.

Il primo fa capo al fatto che, nello strato più profondo della soggettività, esiste una consapevolezza esistenziale, agganciata al tema della finitudine, che aggetta sull’abisso del non senso e dell’insignificanza dell’esperienza individuale e, allo stesso tempo, sull’infinita libertà del pensiero, del sentire e del costruire simboli.

Da questo punto di vista, la possibilità che si diano fluttuazioni depressive la cui matrice è esistenziale o noogena va ammessa per forza di cose. Si dà un confine tra la normale tristezza che un qualunque soggetto umano può sperimentare in rapporto alla casualità, alla contingenza e all’esposizione al rischio di soffrire intrinseca alla vita, e la depressione in cui tale tristezza può sconfinare.

Ciò detto per amore di verità, occorre riconoscere che le depressioni cliniche sembrano solo raramente correlate ad una circostanza del genere.

Il secondo aspetto fa riferimento al fatto che la complessità del mondo interiore riconosce una componente strutturale che appare quasi sempre in gioco nel corso delle depressioni. Tale aspetto è riconducibile alla doppia natura umana, vale a dire alla presenza di due logiche che governano il rapporto tra soggettività individuale e Altro (o mondo sociale), tra le quali, sia sul piano reale che interpersonale e interiore, si possono definire conflitti di diverso genere.

3.

Nulla si può capire della depressione se non si parte dal presupposto che il patrimonio dei bisogni intrinseci – di appartenenza/integrazione sociale e di opposizione/individuazione -, rappresentato in ogni corredo genetico, tende per sua natura verso una qualche forma di equilibrio tra doveri sociali e diritti individuali. Dato che questi termini, raramente utilizzati in psicopatologia, sono imprecisi e inflazionati, nei miei scritti ho tentato varie volte di concettualizzarli in modo nuovo. La concettualizzazione migliore mi è apparsa sinora quella ricavata dall’approfondimento di un’intuizione di Nietzsche. In Genealogia della morale, questi afferma che i doveri sociali sono i diritti che gli altri hanno sul soggetto. Accettando questa formula, sembra logicamente corretto definire i diritti individuali come i doveri che gli altri hanno nei confronti del soggetto.

Questa concettualizzazione trasforma i doveri sociali e i diritti individuali in obblighi che l’individuo ha nei confronti degli altri e in obblighi che gli altri hanno nei suoi confronti. Penso che essa possa essere migliorata introducendo un altro concetto: quello dei doveri che l’individuo ha nei propri confronti, vale a dire l’obbligo di individuarsi. Si tratta di un obbligo naturale, legato al potenziale del bisogno di opposizione/individuazione, ma di grande importanza perché un difetto di dispiegamento di tale bisogno coincide con il mantenersi, a livello profondo, di uno stato di insoddisfazione e di frustrazione direttamete proporzionale al difetto.

Se si ammette che il corredo dei bisogni intrinseci è programmato per giungere ad un equilibrio tra appartenenza e individuazione che il soggetto deve realizzare attraverso l’esperienza di vita e mantenere in rapporto alle varie circostanze della vita stessa, si può ricavare da questo assunto una chiave interpretativa estensibile a tutto l’universo psicopatologico. Laddove, infatti, quel corredo va incontro ad una scissione tale per cui appartenenza e individuazione confliggono si può pensare che si determini uno stato emozionale di instabilità riconducibile, per un verso, alla paura di una rappresaglia sociale (dal giudizio negativo all’esclusione e alla persecuzione) e, per un altro, alla paura che l’affermazione dei propri diritti possa danneggiare gli altri.

Come si può applicare questa formula dinamica alla depressione?

Occorre intanto partire dal presupposto che la depressione è l’espressione di varie configurazioni dinamiche accomunate dall’entrata in azione di meccanismi inibitori delle funzioni psichiche e di alcune funzioni somatiche. Il nucleo sintomatologico di base della depressione è rappresentato dunque dall’astenia, dall’apatia, dall’abulia, dalla faticabilità, dal rallentamento dell’ideazione, dal difetto di concentrazione, dall’appiattimento emozionale, dall’amnesia, dalla perdita di fluidità nei movimenti, da una certa disconnessione tra volontà e azione, ecc.: tutti sintomi chiaramente riconducibili ad un’inibizione funzionale.

Se si parte da questo nucleo sintomatologico, identificabile a occhio e a croce con la sindrome pseudoneurastenica che interviene nel corso della convalescenza di malattie più o meno debilitanti (per esempio anche dopo un’influenza), ci si può chiedere perché l’apparato mentale attivi meccanismi di inibizione funzionale. Prima di rispondere a questo quesito, non è superfluo rilevare che, a livello di apparato cerebrale, non meno della metà dei cento miliardi di neuroni svolgono normalmente una funzione inibitoria, che equilibra e compensa quella eccitatoria svolta dall’altra metà. L’inibizione della trasmissione degli impulsi è dunque una potenzialità intrinseca al cervello. Nelle depressioni, tale potenzialità si realizza in una forma più intensa rispetto a quello che avviene di norma.

Il perché è semplice. L’inibizione serve a scongiurare un’eccitazione che potrebbe risultare dannosa o per i suoi effetti stressogeni o per i moduli comportamentali che potrebbe attivare.

Gli effetti stressogeni si realizzano in conseguenza o di eccessive richieste prestazionali che il soggetto rivolge a se stesso o di richieste eccessive che provengono dal mondo esterno.

La prima circostanza si verifica spesso nel corso di esperienze contrassegnate dal perfezionismo sia sociale che morale. Imponendosi un regime di vita di schiavitù, che comporta un investimento totale di energie in attività produttive (studio, lavoro domestico, lavoro extradomestico) o in attività virtuose orientate a mantenere la coscienza tranquilla (disponibilità altruistica illimitata anche sui fronti delle attività suddette), i soggetti attivano, senza esserne consapevoli, una protesta viscerale incentrata su di un bisogno completamente represso di libertà e di individuazione, che attiva inibizioni funzionali che mettono il soggetto in sciopero o a riposo.

La seconda circostanza è legata sostanzialmente ad esigenze sociali che impongono agli individui un ritmo di vita frenetico. Le esigenze sociali fanno capo quasi sempre all’ambiente di lavoro (laddove la richiesta di produttività giunge ormai all’estremo per cui si pretende che i lavoratori diano, in cambio del salario o dello stipendio, tutte le loro energie) o al modo in cui il lavoro, inteso come dimensione capace di assicurare un aumento del reddito che soddisfi un bisogno crescente di consumo, viene vissuto.

L’egemonia culturale e psicologica del lavoro, sovrapponendosi ad un’organizzazione di vita che comporta anche altri doveri (per esempio nei confronti della famiglia) o altri bisogni (per esempio la coltivazione di rapporti sociali, affettivi, di interessi, ecc.), determina un effetto di disumanizzazione che non può non riflettersi a livello di equilibri psicosomatici.

Le depressioni da stress in senso proprio, siano esse dovute ad un orientamento soggettivo perfezionistico o a richieste sociali eccessive, sono depressioni tipicamente funzionali nel senso che, inibendo le prestazioni dell’individuo, tendono a metterlo al riparo da un danno.

Quelle che riconoscono la loro matrice in richieste sociali eccessive, lavorative o legate al ritmo complessivo di vita, comportano, al di là della protesta dell’inconscio che si traduce in un’inibizione funzionale, anche un’altra dinamica: la rabbia e l’ostilità sociale. Non ci vuole molto a capire che parecchi lavoratori dipendenti, assoggettati ad un regime di sfruttamento (anche nel rispetto della legge), possano avercela a morte con i datori di lavoro, con i ricchi e con il mondo intero che tollera o ratifica le ingiustizie che subiscono. Non ci vuole molto neppure a capire che parecchi soggetti, in situazioni tipiche della vita urbana (traffico, affollamento, rumore, ecc.) possano avvertire un’ostilità indifferenziata contro il socius.

Questa dinamica somma alla componente funzionale psicosomaticamente “protettiva” della depressione una componente, più o meno intensa, punitiva, dovuta cioè ai sensi di colpa che le emozioni di ostilità evocano.

4.

L’altro ambito delle depressioni è caratterizzato dal rilievo che la componente punitiva ha rispetto a quella “protettiva”. L’innesco di queste depressioni è dovuto a corto-circuiti conflittuali che animano, quasi sempre a livello inconscio, il pericolo di una perdita di controllo sul comportamento che potrebbe dar luogo a conseguenze sociali negative. La dinamica in gioco in questi casi riconosce molteplici varianti.

Talora il pericolo in gioco è del tutto immaginario, come pure le conseguenze cui esso fa riferimento.

Un ragazzo di diciotto anni, con un Super-Io fortemente strutturato moralisticamente, che già alberga molteplici sensi di colpa per via di fantasie sessuali piuttosto sfrenate, si ritrova un giorno a guardare con desiderio una donna più grande di lui alla fermata dell’autobus. Non appena si accorge che essa porta la fede al dito, avverte un’angoscia violentissima che lo costringe a tornare a casa e lo precipita in una depressione che lo immobilizza per alcuni mesi. La depressione fa riferimento alla convinzione che tutti abbiano colto il suo desiderio scandaloso, e abbiano sviluppato nei suoi confronti un giudizio radicalmente negativo. Una volta che, per esasperazione, mette il naso fuori di casa, il giudizio lo legge negli occhi delle persone e capisce che la sua vita è finita, perché tutti lo tratteranno come un appestato.

In un caso del genere è evidente che il cortocircuito si realizza tra la sfera dei desideri soggettivi e un codice rigorosamente moralistico depositato a livello superegoico.

Altre volte è incerto se il pericolo sia reale o immaginario.

Un giovane, figlio unico, ha un rapporto terribilmente ambivalente con una madre perfezionista. Dall’adolescenza in poi, la tensione cresce progressivamente finché arriva a livelli di guardia. Oppresso dal controllo materno persecutorio, il giovane comincia ad avere accessi di rabbia nel corso di uno dei quali colpisce la madre con un pugno. Dopo una notte di incubi, il giorno seguente si avvia una depressione che, nel giro di alcuni giorni, raggiunge un notevole livello di gravità tanto che il giovane fa fatica anche a sollevare il braccio.

In questo caso è evidente che la sintomatologia è sopravvenuta per evitare un grave danno alla madre (punendo ovviamente l’aggressore).

Una donna, sposata e infelice, con due bambini, sviluppa in forma strisciante una depressione che le consente a mala pena di muoversi in casa per fare alla bell’e meglio i suoi doveri. Non ha né forza né voglia di uscire, di vedere  le amiche e di frequentare il corso di ballo che, da qualche mese, aveva introdotto nella sua monotona vita una parentesi piacevole. Nonostante le cure farmacologiche, dopo tre mesi il quadro è immodificato, forse anche peggiorato.

La verità che affiora in analisi è che la donna, al corso di ballo, ha incontrato un coetaneo di cui si è innamorata e ha cominciato a fantasticare di separarsi dal marito per “rifarsi una vita”. La depressione è intervenuta poco prima che si rivolgesse ad un avvocato per avviare la pratica.

In questo caso, il significato punitivo della depressione è evidente. Essa, però, ha anche un carattere preventivo. La donna è sposata con un uomo che conosce fin dall’adolescenza e rispetto al quale ha una profonda dipendenza. Per quanto il rapporto si sia un po’ spento nel corso degli anni, lanciarsi nel vuoto all’inseguimento di un sogno sarebbe forse un passo più lungo della gamba.

Queste situazioni riportate hanno un’immediata comprensibilità. Il nesso dinamico tra cause (emozioni violente che spingono il soggetto ad agire un comportamento irragionevole) e effetti (l’inibizione depressiva) è evidente.

Nessi del genere, però, sono reperibili in tutte le depressioni, anche quelle che affiorano apparentemente senza causa alcuna. Basta cercarle con un po’ di pazienza.

G. cade in depressione dopo il matrimonio, combinato per motivi di interesse e accettato per soggezione, con un uomo che non ama e che non riuscirà mai ad amare. L'uomo della sua vita c'è: è il cognato, che aveva preso a frequentare la casa per lei, e che la sorella più intraprendente s'è accaparrato. La depressione se la porta dietro, con alti e bassi, per trent'anni. A 50 anni precipita in una crisi peggiore di tutte le altre, che sembra senza scampo e la induce a pensare di finire in una casa di cura. Parlando, viene fuori che, da quando sta male, ha sempre confrontato la sua condizione d'infelicità con quella degli altri chiedendosene la ragione. Non avendola trovata, le è sembrata sempre un'ingiustizia bell'e buona. Negli ultimi anni, però, s'è accorta, con sgomento,  di provare dolore quando a qualcuno dei compaesani le cose andavano bene, e di sentirsi sollevata o addirittura di provare piacere quando accadevano delle disgrazie. Il peggio è - ma lo confessa tremando - che le è capitato pure di augurare il male agli altri per stare meglio lei, in nome del mal comune mezzo gaudio. Una vittima, insomma, e una carogna nello stesso tempo. Alla fine, il tribunale della mente ha stabilito che è più carogna che vittima.

A. trova lavoro come dipendente di una società subito dopo la laurea. I familiari, che ricordano la sua adolescenza irrequieta, sottesa da progetti alternativi e anticonformistici, sono rassicurati dal posto fisso. Dopo tre anni, però, A. non è più in grado di tollerare i vincoli orari e l'assoggettamento ai superiori. Dà le dimissioni per mettersi in proprio. Brillante e preparato, dotato di una capacità fuori dell'ordinario di intrecciare pubbliche relazioni, non ha fatto i conti però con la sua claustrofobia. Questa non ha nulla di misterioso. L'adolescenza di A. si è svolta all'insegna di un padre severo che, per rimediare alla sua irrequietezza,  lo ha costretto a lavorare nel suo negozio dopo la scuola, sabato compreso. Ribelle nel suo intimo, ma molto rispettoso, A. ha morso il freno. Il lavoro autonomo rappresenta il riscatto definitivo dalla dipendenza. Si tratta di un lavoro di grande responsabilità, che comporta il rispetto di scadenze, di obblighi burocratici, ecc.  La capacità di pubbliche relazioni fa sì che A. organizza facilmente un giro cospicuo di clienti. Periodicamente, però, le scadenze vengono disattese, gli obblighi trascurati. La clientela si rarefa, e A. si deprime. La depressione lo spinge a vedersi ridotto al barbonaggio, evoca la nostalgia della sicurezza legata al posto fisso, e attiva il senso di colpa di essersi rovinato con le sue mani abbandonandolo.

Ma allora, depressioni immotivate e incomprensibili non ce ne sono? Apparentemente sì, di fatto no.

A diciassette anni, D., alla guida di un motorino, ha un incidente.  Rimane  illeso,  ma l’amico sul sellino posteriore subisce un trauma cranico e una frattura al braccio. Nei primi  giorni dopo l’incidente, egli è comprensibilmente  turbato. Si reca ogni giorno in ospedale a visitare l’incidentato, appare piuttosto preoccupato per le sue condizioni,  peraltro buone, dorme male e ha qualche incubo. Nel giro di un mese, però, la situazione precipita.

D., che è  molto religioso, si confessa ogni giorno ma sente di non  essere in pace con la sua coscienza. Nonostante l'amico, dimesso dall'ospedale, sia in buona salute, egli continua a ruminare  dentro di sé sul danno fatto. Ricostruisce di continuo nella sua mente l'incidente perché, anche se la strada gli è stata tagliata, deve dissolvere il dubbio di non avere fatto il possibile per evitarlo. Sa, perché è capitato ad un cugino (operato qualche anno prima per un ematoma cronico), che i traumi cranici possono comportare delle complicazioni a distanza. Obbliga l’amico a sottoporsi ad un consulto con un neurochirurgo e a fare tutti gli esami possibili e immaginabili.  Le spese sono sostenute dalla sua famiglia che comincia ad essere preoccupata. L’esito del consulto è positivo, ma D. chiede allo specialista la certezza che all’amico  non potrà accadere mai nulla.  Nonostante la rassicurazione, nel giro di pochi giorni, si sviluppa un delirio di colpa. D. è certo che l’amico morirà, si sente responsabile di un omicidio che attribuisce alla sua leggerezza, e, non potendo suicidarsi, date le sue credenze, decide di espiare la colpa chiudendosi in casa e sottoponendosi ad un regime di vita ascetico incentrato sulla preghiera.

Scrupoloso prima, ossessivo poi, e infine matto sfasciato. O no? 

D. è stato un figlio modello, precocemente responsabile, scrupoloso nei suoi doveri, molto religioso. La sua diversità rispetto ai coetanei lo ha esposto a più riprese, sia alle elementari che alle medie, a degli attacchi, a delle prese in giro, a delle provocazioni. Apparentemente egli non ne ha risentito perché si è sempre attenuto al principio di offrire l'altra guancia e di perdonare. La frequentazione di un gruppo catecumenale, al cui interno è stato sempre apprezzato, ha compensato i difficili rapporti i compagni di scuola piuttosto rozzi.

A 15 anni, in seguito ad un ennesimo  attacco da parte di alcuni di questi che lo deridono perché, assorto nel suo mondo, non si accorge che una compagna gli fa gli occhi dolci e lo qualificano come un omosessuale, comincia ad avere delle ossessioni. Sente l’impulso di colpirli, di infilare loro negli occhi la penna a biro, di spintonarli quando sono affacciati alla finestra, ecc. E’ sconvolto da tali pensieri, nei quali non può riconoscere l’espressione di una rabbia che si vieta di provare, in nome dell'obbligo di perdonare chi fa del male. Li interpreta come indizi  del demonio, che lo tenta per farlo diventare cattivo. Nonostante sia rassicurato dal confessore, si difende dedicandosi alla preghiera e sottoponendosi a degli esercizi spirituali mortificanti. Non serve a nulla: le fantasie si incrementano, e il ragazzo comincia a temere di potere perdere il controllo su di esse. E’ questo il suo vissuto  all’epoca dell’incidente che, evidentemente, lo ha messo faccia  a faccia con la sua presunta aggressività. La quale, al solito, non ha nulla a che vedere col demonio. E' la conseguenza di un eccesso di virtù.

5.

Lo spettro delle depressioni è caratterizzato, dunque, da una totale comprensibilità in termini dinamici. Questo dato però non esaurisce il discorso perché, al limite, si potrebbe pensare che i nessi psicologici non fanno altro che attivare meccanismi patologici riconducibili alla genetica.

In realtà, la comprensibilità psicodinamica ha delle implicanze funzionali complesse.

In un articolo recente ho illustrato la distinzione tra inconscio neurobiologico e inconscio culturalizzato. Penso che questa distinzione possa essere applicata facilmente all’insieme delle depressioni, tenendo conto che in esse si sommano nelle combinazioni più varie componenti preventive e componenti punitive.

E’ evidente, infatti, che le componenti preventive sono da ricondurre all’inconscio neurobiologico, il quale entra in azione laddove il soggetto è spinto ad agire comportamenti poco o punto compatibili con la sua sensibilità o con i diritti degli altri. Le componenti punitive, viceversa, sono da ricondurre in gran parte all’inconscio culturalizzato, vale a dire alla funzione superegoica in quanto veicolo di determinati sistemi di valori morali, la quale entra in azione imputando al soggetto colpe il cui peso è determinato da quei valori.

Le interpretazioni fornite si accordano, dunque, con la teoria dello stress a patto che con questo termine si faccia riferimento a qualunque stato di instabilità strutturale del mondo interiore dovuto all’attivazione di un conflitto psicodinamico. L’instabilità strutturale coinvolge e pone in gioco l’assetto identitario e si associa la fantasma della catastrofe. Quale situazione si dà più stressante di questa?

Rimane, naturalmente, da capire l’effetto degli antidepressivi. Posto, infatti, che esso interviene con un periodo di latenza che contrasta con l’ipotesi serotoninica e non è affatto elevato come si pensava quando sono stati messi in commercio i farmaci di ultima generazione, non si può trascurare che l’efficacia dei farmaci, in tutte le sperimentazioni, è superiore (sia pure in alcune di poco) al placebo.

Il discorso a questo punto diventa complesso. Cerco, dunque, di semplificarlo al massimo.

Un conflitto si definisce dinamico perché, dal momento in cui si attiva, evolve nel tempo. In alcuni casi l’evoluzione, in rapporto a circostanze ambientali favorevoli o a particolari capacità introspettive del soggetto, evolve verso la risoluzione. Si dà, in effetti, un certo numero di depressioni che, anche non trattate, guariscono spontaneamente.

In molti casi, però, l’evoluzione del conflitto a livello inconscio dà luogo ad un’intensificazione dello stesso sia perché persistono le cause che lo hanno prodotto (per esempio relazioni interpersonali negative) sia perché le polarità del conflitto si autoalimentano. L’intensificazione del conflitto determina il peggioramento della sintomatologia e, spesso, il sovrapporsi di un’altra emozione ostile a quelle già esistenti: l’invidia nei confronti di coloro che stanno bene.

In uno dei casi riportati, quello di G., tale emozione è venuta a galla con grande nitidezza. Essa, però, solitamente rimossa, si attiva in gran parte delle esperienze depressive che raggiungono  un notevole livello di sofferenza e, naturalmente, concorre ad alimentare i sensi di colpa, finendo con il produrre un circolo vizioso responsabile dei peggioramenti.

Su questa base è possibile capire l’efficacia (sia pure relativa) degli psicofarmaci. Al di là dell’effetto costante di isolare un po’ la coscienza dall’inconscio, anestetizzandola, essi, infatti, non diversamente dagli antalgici, hanno il potere di incidere sui circoli viziosi prodotti dal conflitto, che sono, in ultima analisi, circoli interneuronali. L’allentamento dei sintomi  e l’apertura di quei circoli viziosi può mettere in atto una ristrutturazione della coscienza positiva.

Se questo è vero, non c’è da sorprendersi che gran parte delle depressioni, pur migliorando, non riescano a risolversi del tutto, persistendo in genere l’anedonia. Il non provare gusto nel vivere è l’indizio di una mortificazione espressiva della presenza dei sensi di colpa. Il superamento di questi può avvenire solo attraverso la ristrutturazione dell’inconscio culturalizzato, vale a dire un lavoro interiore.