Quel che resta di Freud


1.

Repubblica del 3 gennaio dedica un breve inserto a Freud il cui intento è di stabilire ciò che resta vivo del suo pensiero. Ho dedicato a questo tema tempo fa un articolo, che riproduco integralmente:

“Cosa rimane di Freud

Ricorre quest’anno il centocinquantesimo anno dalla nascita di Freud, che, nonostante i presagi di morte prematura, che ne hanno contrassegnato l’esperienza sino ad una certa età, ha avuto una vita lunga, operosa e ricca di riconoscimenti ufficiali. Si è trattato, insomma, di uno dei pochi geni che, pur avendo elaborato un sistema teorico che poneva in discussione il senso comune dell’epoca, dissacrandone alcuni presupposti (l’innocenza infantile, lo statuto centrale della coscienza nell’organizzazione della personalità, la sovrapposizione di un principio spirituale all’animalità iscritta nel bagaglio profondo della natura umana, ecc.), ha pagato un prezzo irrilevante all’iconoclastia del suo pensiero.

Freud è stato escluso dall’Accademia, valutato (eccezion fatta per Bleuler) con estremo scetticismo dalla psichiatria, aspramente criticato dai benpensanti, annoverato (con Marx e Nietzsche) tra i maestri del sospetto che hanno avviato il nichilismo. Non è stato mai però, di fatto perseguitato. L’unico pericolo lo ha corso, sul finire della sua vita, in seguito all’avvento del nazismo: non già però tanto per le sue teorie, quanto per essere ebreo.

Prima di valutare l’impatto della rivoluzione psicoanalitica sulla cultura, non sembra superfluo cercare di capire per quali motivi essa, nonostante le sue valenze iconoclastiche, sia stata sostanzialmente assorbita dalla cultura, fino al punto di venire a far parte, per alcuni aspetti, del senso comune.

La risposta è piuttosto semplice, anche se articolata.

Innanzitutto c’è da considerare che Freud è stato un divulgatore del suo pensiero di eccezionale efficacia. Basta, per convincersi di questo, leggere l’Introduzione allo studio della psicoanalisi, che si può ritenere un capolavoro sotto il profilo divulgativo. Si tratta di una serie di lezioni che egli ha effettivamente tenuto in un contesto universitario, nella quale sorprende la sua capacità di fare proprie i dubbi e le obiezioni che Freud stesso attribuisce agli ascoltatori, e ai quali egli risponde con argomentazioni che sono sempre semplici e persuasive.

Certo, la lettura del testo pone di fronte anche alla straordinaria capacità freudiana di colmare con ipotesi e discorsi ideologici le lacune del suo sistema, nonché la volontà di compattarlo al punto di renderlo inattaccabile. Ogni teoria rivoluzionaria, però, deve cedere all’esigenza di utilizzare l’ideologia come collante dei nuclei di verità che essa possiede.

Un secondo aspetto è da ricondurre al fatto che, affrontando il tema della sessualità in termini aperti e dissacranti (in rapporto alla sua incidenza nello sviluppo infantile e alla sua importanza nell’assetto complessivo della personalità umana), Freud ha senz’altro sfidato il moralismo e il perbenismo prevalente nel suo mondo. Al tempo stesso, però, egli ha puntato, forse inconsapevolmente, sul fatto che la cultura repressiva dell’epoca produceva nelle soggettività una ridondanza del desiderio sessuale, tal che, scalzate le resistenze, le persone potevano toccare con mano dentro di sé la fondatezza delle sue ipotesi.

Il terzo aspetto, il più importante in assoluto, è ascrivibile al fatto che, dei due aspetti più importanti della teoria freudiana – lo statuto mistificato della coscienza e la presenza, al fondo della natura umana, di un’eredità ancestrale “animalesca” - il secondo, più immediatamente comprensibile del primo, si integrava alla perfezione con l’ideologia borghese che già all’epoca era egemone. Dimostrando che l’uomo, senza colpa alcuna, viene al mondo con un bagaglio pulsionale caratterizzato da un cieco egoismo, dalla tendenza a perseguire il piacere individuale senza tener conto delle esigenze sociali e da una smodata aggressività, Freud in fondo, pur assegnando alla civiltà il compito di tenere a freno a natura umana, giustificava i presupposti di fondo del sistema socio-culturale cui apparteneva, già da tempo pervaso dagli “spiriti animali” sprigionati dal capitalismo.

Iconoclasta per un verso, in rapporto alla già declinante moralità vittoriana, il pensiero freudiano era fin troppo integrato con la concezione borghese dell’uomo per poter essere respinto da una società che si andava rapidamente conformando a quella concezione.

La sostanziale e relativamente rapida accettazione del freudismo è dunque avvenuta sulla base di un’enfatizzazione del suo aspetto più caduco – la concezione pulsionale della natura umana – e di una relativa rimozione, cresciuta nel corso del tempo, dell’aspetto più autenticamente rivoluzionario, identificabile nella mistificazione intrinseca al funzionamento della coscienza.

E’ stato detto giustamente più volte che la “rivoluzione” freudiana ha rappresentato il terzo e definitivo momento di superamento della visione antropocentrica prodotta dalla religione, che poneva la Terra al centro dell’universo e identificava nell’uomo, con la sua anima anelante alla trascendenza, un essere del tutto diverso rispetto agli altri animali: un essere fatto ad immagine e somiglianza del Creatore.

Dopo l’eliocentrismo copernicano e l’evoluzionismo darwiniano, Freud ha inferto alla presunzione dell’uomo un colpo fatale. Per un verso, infatti, attribuendo alla sua natura un fondo di pulsioni ancestrali, che rappresenterebbe la vera psiche da cui tutte le altre funzioni sarebbero derivate, egli ha radicalizzato la discendenza della specie umana dagli animali, fino a negare ciò che Darwin stesso ammetteva: l’esistenza di un qualunque istinto sociale. Per un altro verso, illuminando il peso dei contenuti inconsci (memorie, pensieri, fantasie, desideri, emozioni, ecc.) nell’organizzazione complessiva del comportamento, egli è giunto alla inquietante convinzione che l’uomo non è padrone in casa sua, vale a dire che l’io cosciente controlla ben poco della sua vita interiore e, se mantiene un certo grado di identità e di coesione, ciò è dovuto in gran parte alle sue indefinite capacità di mistificare, negare le contraddizioni che si esprimono nel corso della vita e di giustificare in qualche modo i comportamenti, anche quando essi dipendono da motivazioni del tutto al di fuori del suo controllo.

A posteriori, riesce chiaro che, dei tre attacchi alla concezione antropocentrica della realtà, quello freudiano è il più incisivo e il meno riassorbibile in una cultura che ha bisogno di “valorizzare” l’uomo.

Che la Terra non sia al centro dell’Universo, infatti, al di là dell’originaria reazione oscurantista della Chiesa, non contrasta necessariamente né con una teologia illuminata né con un’antropologia ottimistica. Per l’una, è del tutto indifferente l’attribuzione a Dio di uno spirito geometrico (tra l’altro euclideo). Ciò che è importante è che sulla Terra sia accaduto qualcosa che non sembra essere accaduto nel resto dell’Universo desolato: la creazione di una specie affatto particolare, la cui vicenda ha richiesto la partecipazione di Dio sino al “sublime” sacrificio di sé, nell’intento di riaprire all’uomo le porte dell’eternità.

Da questo punto di vista, la certezza che la Terra è destinata a tornare ad essere inabitabile e, forse, a precipitare, tra miliardi di anni, in un buco nero, nulla toglie al fatto che su di essa si sarà svolta una vicenda decisiva per ogni soggetto umano, che determinerà la sua sorte per sempre.

Anche prescindendo dalla teologia, peraltro, la rivoluzione galileiana sembra rimediabile. Essa, infatti, ha inaugurato un’esplorazione dell’Universo che ha indotto alcuni scienziati a vedere in esso un sistema pervaso di Intelligenza e alcuni filosofi, alleati con i primi, ad ammettere il principio antropico, secondo il quale il significato dell’Universo sta, per l’appunto, nella comparsa di una specie le cui potenzialità cognitive sono tali da poterlo osservare e conoscere nella sua Armonia.

Anche l’evoluzionismo darwiniano, nonostante sia ancora oggi bersaglio dell’integralismo cristiano, è stato ritenuto dalla Chiesa, dopo una fiera opposizione, non incompatibile con il dogma creazionista. Si può ammettere, infatti, che l’evoluzione animale sia evoluta darwinisticamente sino alla struttura biologica dell’uomo nella quale, poi, Dio avrebbe infuso l’anima spirituale e immortale.

Certo, questa soluzione di compromesso postula sia un finalismo evolutivo del tutto assente nell’opera di Darwin sia una messa tra parentesi del perché Dio abbia permesso la convivenza di più specie (per esempio quella neanderthalense) appartenenti al genere homo e dotate di capacità cognitive simili, per poi votarle tutte, tranne l’homo sapiens sapiens, all’estinzione. Dato però che la volontà divina è imperscrutabile alla ragione umana, quest’ultimo problema non sembra creare eccessivi imbarazzi alla Chiesa.

La rivoluzione freudiana, almeno nella sua versione originaria, non è integrabile in una qualsivoglia concezione antropocentrica.

Il problema, da questo punto di vista, non è tanto la teoria pulsionale, che attribuisce alla natura umana una tendenza cieca a soddisfare le pulsioni attraverso la scarica, senza tenere in alcun conto il principio di realtà. Problema – questo – tanto più rilevante quanto più si fa riferimento all’estrema evoluzione del pensiero freudiano, incentrato sul privilegio assoluto assegnato alla pulsione di morte, che implica l’intolleranza nei confronti di qualunque legame significativo con la realtà e con il socius.

In quanto fondata su di un’improbabile eredità ancestrale, che avrebbe selezionato una pulsione – quella appunto di morte – che non sembra affatto attiva nelle altre specie animali e praticamente soppiantato una pulsione sociale invece molto attiva nelle specie più simili all’uomo, la teoria delle pulsioni è facilmente criticabile, e di fatto è stata criticata e sormontata anche all’interno del movimento psicoanalitico. Da Hermann e Bolbwy in poi la natura relazionale dell’uomo, vale a dire la tendenza a stabilire nessi significativi con la realtà, e il suo carattere eminentemente sociale sono state riconosciuti univocamente, e appaiono oggi fuori discussione.

Il vero problema, che consente di riconoscere nel pensiero freudiano una rivoluzione incompatibile con una concezione antropocentrica, riguarda lo statuto della coscienza, la struttura dell’inconscio e il rapporto tra coscienza e inconscio.

In un articolo pubblicato qualche tempo fa, il cui titolo – La rivoluzione culturale incompiuta – forse non era sufficientemente incisivo, ho affrontato nuovamente questo problema, sia pure in un’ottica più ampia rispetto a Freud. Secondo questi, la struttura mistificata della coscienza dipende essenzialmente da due diversi fattori: il primo è l’impossibilità della coscienza stessa di accedere all’Es, al mondo delle pulsioni che scorrono caoticamente nello strato più profondo dell’apparato mentale; il secondo, è la necessità di reprimere e rimuovere, con le istanze pulsionali, anche una quota rilevante di memorie perché o troppo dolorose o poco compatibili, per la loro contraddittorietà, con la pretesa unicità e coesione dell’io cosciente o con i principi morali e i valori culturali cui esso fa riferimento.

Nell’articolo in questione, ho sottolineato che la tendenza della coscienza alla mistificazione non concerne solo il mondo interno, ma anche quello esterno: il mondo della natura, sul quale è affacciata percettivamente, e quello della cultura e della storia, in cui è immersa.

L’allargamento del discorso permette di capire che, benché univocamente difensiva, quella tendenza ha un carattere generale e funzionale. Se la coscienza, infatti, avesse una perpetua consapevolezza della complessità del mondo naturale, dell’ambiente storico-culturale e del mondo interno, essa sarebbe immersa in uno stato pressoché continuo di confusione e di perplessità.

Il contributo più importante di Freud consiste nell’avere illuminato la struttura complessa del mondo interiore, sottostante la coscienza, contestando le pretese certezze dell’Io di poterlo dominare attraverso la ragione.

Egli, però, in conseguenza della teoria pulsionale, è stato spinto a riconoscere la necessità del mantenersi di un certo grado di mistificazione. L’Io non è padrone in casa sua perché gran parte dei contenuti rimossi sono a tal punto allusivi alla sua cieca “pulsionalità” che, prendendone coscienza, egli rimarrebbe inorridito. Dovrebbe cioè prendere atto del suo essere schiavo delle pulsioni, e compensare questa consapevolezza accettando il principio di realtà, vale a dire le temibili conseguenze sociali di un suo abbandono ad esse, fino al punto di rassegnarsi alla frustrazione. L’unico rimedio, nell’ottica freudiana, alla schiavitù pulsionale, da ultimo, è il riconoscimento del controllo sociale, cioè del potere dei molti rispetto all’uno.

E’ per sfuggire alla duplice consapevolezza di essere schiavo dell’Es per un verso e dell’ordine sociale per un altro che l’Io deve mantenere in una certa misura la mistificazione di essere padrone di sé. Certo egli può procedere verso un allentamento della mistificazione e uno stato di maggiore autenticità, ma solo al prezzo di riconoscere il peso, nel suo mondo interiore, dell’”animalità”, e il peso, appena minore, della paura della rappresaglia sociale. Al limite estremo, l’autenticità implicherebbe il riconoscimento da parte del soggetto che, se fosse libero dal controllo sociale, egli non avrebbe alcun freno nel dare sfogo alle sue passioni e, da ultimo, alla sua autodistruttività.

Se si pone da parte il riferimento all’Es, vale a dire ad un fondo pulsionale del quale l’uomo non può prendere coscienza se non orripilando, il problema della mistificazione va evidentemente interpretato in maniera diversa rispetto a quanto ha fatto Freud. Esso infatti sembra ricondursi a diversi fattori sommati tra loro.

Un primo fattore è di ordine neurofisiologico. Nel produrre il cervello umano, la Natura sembra avere esagerato. Si tratta infatti di un organo che contiene circa cento miliardi di neuroni tra i quali si danno un numero di connessioni, e quindi di canali atti a far scorrere impulsi identificabili con sensazioni, percezioni, emozioni, fantasie, memorie, pensieri, emozioni, il cui numero è una potenza che eccede l’immaginazione. Questo ininterrotto lavorio della mente non potrebbe essere in alcun modo contenuto dalla coscienza,

Si danno dunque due difese che si possono ritenere semplicemente funzionali: la prima riguarda il bombardamento che il cervello subisce da parte del mondo esterno, misurabile all’incirca in ventimila stimoli al secondo, e si realizza attraverso l’estinzione selettiva automatica del 95% di essi; la seconda concerne il mondo interno e si identifica con un velo di rimozione, per cui essa non sa o sa ben poco di ciò che avviene al di sotto di esso.

C’è un parallelismo, che mi ha sempre suggestionato, tra mente e corpo. Se la natura ci avesse dotato di una pelle trasparente (alcuni animali ce l’hanno) noi avremmo potuto vedere direttamente o attraverso uno specchio tutto ciò che avviene normalmente nel nostro organismo, che, in maniera analoga all’apparato mentale, funziona ininterrottamente. Una situazione del genere ci avrebbe presumibilmente terrorizzati (e infatti terrorizza il solo pensarci). L’epidermide svolge, in rapporto al corpo, la stessa funzione che la rimozione svolge al confine tra coscienza e inconscio.

Questo aspetto è importante, ma non è forse il più importante. Si danno almeno altri due fattori che alimentano la mistificazione.

Il primo è riconducibile al patrimonio delle memorie che si può ritenere smisurato. Ogni memoria è la registrazione di uno o più eventi significativi, associati dunque ad una carica emozionale. In quanto contenuti psichici, le memorie sono sempre presenti dentro di noi. Alcune possono essere richiamate dalla coscienza, ma si tratta di un numero minimo. Gran parte delle memorie si mantengono nell’ombra. Alcune di esse possono affiorare repentinamente e spontaneamente, altre, se anche si attivano, rimangono comunque al di fuori della coscienza.

E’ a queste ultime in particolare che Freud ha posto attenzione per un motivo molto semplice. Per quanto esclude dalla coscienza, sono proprio esse ad avere una grande incidenza sullo stato d’animo e su comportamento del soggetto. Perché dunque la coscienza non può riconoscerle e deve far “finta” che esse non esistano?

La risposta di Freud è inequivocabile. La rimozione è una difesa. Le memorie in questione, infatti, o fanno riferimento ad eventi dolorosi e traumatici che il soggetto preferisce dimenticare o si intrecciano con le vicissitudini pulsionali di cui egli si vergogna.

Se si pone tra parentesi la teoria delle pulsioni, è evidente che la vergogna è la conseguenza di determinati valori culturali che negativizzano e pregiudicano contenuti psichici che hanno un significato umano.

E’ facile portare un esempio a riguardo. Alcuni soggetti sono costretti a rimuovere le emozioni negative (rabbia, odio, vendetta) in virtù del fatto che, alla luce di valori morali spesso di origine religiosa o perbenistica, esse si configurano come colpevoli o mostruose. In quanto emozioni, quelle negative di fatto hanno la stessa dignità e naturalezza di quelle positive, Non si può essere innocenti fino al punto di non provarle: si può tutt’al più essere morali quanto basta ad esprimerle in maniera da non danneggiare troppo l’altro.

Il secondo fattore è, invece, più complesso, e del tutto estraneo al pensiero freudiano. L’ossessione dell’unità e della coerenza dell’Io urta costantemente contro un dato inerente la natura umana, che io penso di aver valorizzato al massimo grado. La verità è che l’uomo ha due nature: per un verso, quella di un animale radicalmente sociale, che ha bisogno di identificarsi con gli altri, di appartenere ad un gruppo e di essere riconosciuto e confermato dagli altri; per un altro, quella di un animale dotato della consapevolezza di essere distinto da tutti gli altri, di avere un’identità sua propria, e di avere un bisogno insopprimibile di agire liberamente, vale a dire in nome della volontà propria.

Queste due nature non sono irrimediabilmente incompatibili tra loro, non destinano l’uomo ad una scissione e ad un conflitto permanente. Esse però sono dotate di logiche loro proprie e di un potere dinamico tale per cui la loro integrazione richiede non solo una lunga evoluzione, ma anche uno sforzo costante da parte dell’Io per riconoscerle e per elaborarle.

In difetto di tale sforzo, che dipende in parte dalla programmazione sociale e in parte dagli strumenti culturali di cui il soggetto dispone, la tensione tra le due nature e le logiche ad esse intrinseche promuove facilmente la tendenza dell’io ad attribuirsi un’unità e una coesione che si fondano però sulla rimozione del problema.

Tra questi due fattori si dà un’intima relazione. Le vicissitudini interiori che Freud ha infatti ha attribuito alle pulsioni concernono infatti le due logiche in questione e i diversi bisogni che esse tendono a soddisfare.

La scoperta che la coscienza ha uno statuto inesorabilmente tendente alla mistificazione, affrancata dalla teoria pulsionale, si può ritenere il contributo più rilevante di Freud alle scienze umane e sociali: un contributo che, come ho scritto nell’articolo citato all’inizio, non è stato purtroppo portato sinora elle estreme conseguenze né sul piano teorico né su quello della programmazione sociale e della critica culturale.

Sarebbe ingenuo però non considerare che Freud è pervenuto a quella scoperta sulla base dell’intuizione e poi dell’esplorazione del mondo sottostante la coscienza, l’inconscio.

L’esistenza dell’inconscio è ormai universalmente riconosciuta.

C’è da chiedersi però se l’inconscio freudiano, vale a dire quello teorizzato da Freud, conservi ancora validità.

Il riferimento all’Es, come accennato, è insostenibile. Al di là delle contestazioni maturate anche all’interno della psicoanalisi in rapporto alla teoria pulsionale, una scoperta recente in ambito neurobiologico taglia la testa al toro. Si tratta della scoperta dei neuroni specchio, di cui ho dato conto con un articolo il bimestre scorso e con una recensione in questo bimestre.

Cosa porre dunque, al fondo dell’apparato mentale, al posto dell’Es? Ipotizzare una pulsione a vivere ereditata dagli animali sembra ovvio. Essa però, nell’uomo, si riduce ad una spinta generica rivolta verso la conservazione di sé e, forse, lo sviluppo. Al di là di questa spinta occorre ammettere, proprio in rapporto alla duplice natura dell’uomo, che si diano dei programmi geneticamente determinati che governano l’evoluzione, la strutturazione e l’equilibrio dinamico della personalità. La teoria dei bisogni intrinseci – di appartenenza/integrazione sociale e di opposizione/individuazione – sembra, allo stato attuale delle cose, capace di definire questi programmi in termini molto vicini alla realtà.

La teoria dei bisogni assolve anche un’altra funzione. Essa, infatti, consente di interpretare la complessità dell’apparato mentale senza cadere nello smarrimento di una dimensione irriducibile al pensiero scientifico.

La complessità dell’apparato mentale si può ritenere una conseguenza della scoperta freudiana dell’inconscio. Tale scoperta porta a concepire l’inconscio come uno spazio mentale gravido di memorie, di emozioni, di fantasie e di contenuti di pensiero che interagiscono tra loro e si organizzano sotto forma di motivazioni le più disparate. Tra le motivazioni si dà un sottile gioco dinamico teso a dare ad esse un’organizzazione gerarchica tale che solo la più potente o una combinazione di motivazioni affini possa affiorare a livello cosciente fornendo all’Io la spinta per agire un determinato comportamento.

Il caos che vige a livello inconscio è, però, solo apparente perché, per quanto disparate, le motivazioni, che possono avere una loro autonomia per quanto concerne il rapporto che il soggetto intrattiene con il mondo delle cose, con la natura e con gli oggetti culturali, tendono, per quanto riguarda la relazione tra io e Altro o mondo sociale, a confluire nelle due logiche intrinseche ai bisogni.

Ponendo in luce l’importanza primaria della relazione tra Io e Altro, la teoria dei bisogni implica che gran parte dell’attività inconscia sia caratterizzata da una perpetua ricerca di equilibrio tra appartenenza e individuazione, doveri sociali e diritti individuali, volontà propria e volontà altrui, ecc.

Nella nuova cornice offerta dalla teoria dei bisogni intrinseci, gran parte del pensiero freudiano, depurato dei suoi presupposti pulsionali, può essere recuperato e valorizzato come una potente intuizione della logica motivazionale che sottende e anima l’apparato mentale umano. Mettendo tra parentesi quel presupposto, si giunge anche ala conclusione, estranea a Freud, che quella logica, che si fonda su di una doppia natura, spinge perpetuamente l’uomo nella direzione della ricerca di un equilibrio, che solo l’Io, però, aiutato dalla cultura e dal sistema sociale, può trovare.

Se questo è vero, se cioè Freud, senza rendersene conto, ha scoperto che l’uomo è un animale perennemente inquieto perché, data la sua doppia natura, non trova pace finché non raggiunge una condizione di equilibrio nel suo sviluppo individuale e sociale, c’è da chiedersi perché tale verità è rimasta a tal punto avulsa dal senso comune che ancora oggi nessuna società è programmata per favorire tale sviluppo, e le diverse culture esistenti sul pianeta possono facilmente essere distribuite su di uno spettro che va dalla polarità che privilegia il comunitarismo a quella opposta che esalta l’individualismo, e che riconosce una paurosa lacuna nella banda intermedia, laddove si darebbe una cultura integrata.

La risposta non è affatto semplice, poiché essa dovrebbe tenere conto di una serie indefinita di fattori storici, culturali, ambientali, ecc.

Non si va lontano dal vero però ipotizzando che, per quanto ogni individuo sappia di partecipare alla socialità e di avere una sua identità differenziata da tutte le altre, il riconoscere, alla base del suo essere una doppia natura, tale che l’Io e l’Altro sono, al limite, nella profondità dell’inconscio, una cosa sola, determini una sorta di rimozione primaria, avallata dalla cultura.

Tale riconoscimento, infatti, equivarrebbe ad accettare che l’uomo è il risultato di un azzardo dell’evoluzione, che ha prodotto un essere naturalmente “dissociato” il quale, per diventare “se stesso”, oltre ad essere aiutato dalla cultura, deve impegnarsi molto e pagare il prezzo di una qualche sofferenza per raggiungere una soglia minima di integrazione.

La difficoltà di accettare questa verità permette di comprendere che la coscienza continui ad alimentare la mistificazione che restituisce ad essa un’unità e una coesione che, di fatto, non si dà mai del tutto.”

Non avrei molto da aggiungere se non rimandare agli articoli sulla Mistificazione, che approfondiscono il significato dei meccanismi difensivi scoperti da Freud.

Torno sull’argomento perché, pur avendo avuto sempre un atteggiamento critico nei confronti di Freud, vederlo trattato come “un cane morto”, mi irrita profondamente. I due articoli pubblicati, infatti, questo fanno, anche se forse indipendentemente dalla volontà degli autori. Li riporto integralmente.

2.

Umberto Galimberti

Quel che resta di Freud (1)

Repubblica — 03 gennaio 2010

A settant’anni dalla morte di Freud vien da chiedersi che cosa sopravvive della sua teoria e che cosa invece si è rivelato caduco. È questa una domanda legittima, ma che forse vale solo per le scienze esatte, dove verifiche oggettive e sperimentazioni sempre più approfondite consentono di validare o invalidare una teoria. La psicoanalisi non è una scienza "esatta", ma si iscrive nell’ambito delle scienze "storico-ermenutiche". E questo perché la psiche è così solidale con la storia da essere profondamente attraversata e modificata dallo spirito del tempo, che è possibile cogliere e descrivere solo con l’arte dell’interpretazione o, come oggi si preferisce dire, col lavoro ermeneutico.

Questo spiega perché, a partire da Freud, si sono sviluppati tanti percorsi interpretativi, approdati ad altrettante teorie psicoanalitiche, da cui hanno preso avvio le diverse scuole. In comune esse hanno il concetto di «nevrosi» che Freud, dopo aver rifiutato di considerare la nevrosi una malattia del sistema nervoso come voleva la medicina di stampo positivista in voga al suo tempo, ha trasferito dal piano "biologico" a quello "culturale". Lo ha fatto definendo la nevrosi come un «conflitto» tra il mondo delle pulsioni (da lui denominato Es) e le esigenze della società (denominate Super-io) che ne chiedono il contenimento e il controllo. In questa dinamica è possibile scorgere il tragitto dell’umanità e il suo disagio che Freud condensa in queste rapide espressioni: «Di fatto l’uomo primordiale stava meglio perché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza».

Questa interpretazione del disagio psichico, che sposta la lettura della sofferenza dal piano biologico a quello culturale, è la grande scoperta di Freud, tuttora alla base delle successive teorie psicoanalitiche che, per quanto differenti tra loro, rifiutano di reperire le spiegazioni della sofferenza psichica esclusivamente nel fondo biologico dell’organismo. A questa intuizione Freud è giunto grazie alla sua assidua frequentazione della filosofia e in particolare di quella di Schopenhauer, che Freud considera suo «precursore»: «Molti filosofi possono essere citati come precursori, e sopra tutti Schopenhauer, la cui "volontà inconscia" può essere equiparata alle pulsioni psichiche di cui parla la psicoanalisi». Secondo Schopenhauer, infatti, ciascuno di noi è abitato da una doppia soggettività: la «soggettività della specie» che impiega gli individui per i suoi interessi che sono poi quelli della propria conservazione, e la «soggettività dell’individuo» che si illude di disegnare un mondo in base ai suoi progetti, che altro non sono se non illusioni per vivere, senza vedere che a cadenzare il ritmo della vita sono le immodificabili esigenze della specie.

Questa doppia soggettività viene codificata dalla psicoanalisi con le parole «io» e «inconscio». Nell’inconscio occorre distinguere un inconscio «pulsionale» dove trovano espressione le esigenze della specie, e un inconscio «superegoico» dove si depositano e si interiorizzano le esigenze della società. Sono esigenze della specie la sessualità, senza la quale la specie non vedrebbe garantita la sua perpetuazione, e l’aggressività che serve per la difesa della prole. Queste due pulsioni, proprio perché sono al servizio della specie, l’io le subisce, le patisce, e perciò diventano le sue «passioni», che la società, per salvaguardare se stessa, chiede di contenere, nella loro espressione, entro certi limiti.

Tra le esigenze della specie (Es o inconscio pulsionale) e le esigenze della società (Super-io o inconscio sociale) c’è il nostro io, la nostra parte cosciente, che raggiunge il suo equilibrio nel dare adeguata e limitata soddisfazione a queste esigenze contrastanti, la cui forza può incrinare l’equilibrio dell’io (e in questo caso abbiamo la nevrosi) o addirittura può dissolvere l’io sopprimendo ogni spazio di mediazione tra le due forze in conflitto, e allora abbiamo la psicosi o follia.

La psicoanalisi, che per curare ha bisogno dell’alleanza dell’io, può operare solo con la nevrosi, aggiustando le incrinature dell’io, mentre è impotente con la psicosi, dove inconscio pulsionale e inconscio sociale confliggono corpo a corpo, senza uno spazio di mediazione.

Ma proprio perché la psiche è «storica» e perciò muta col tempo, non si può essere fedeli a questa grande intuizione di Freud, se non superando Freud, perché il suo concetto di nevrosi ben si attaglia a una «società della disciplina» dove la nevrosi è concepita come un «conflitto» tra il desiderio che vuole infrangere la norma e la norma che tende a inibire il desiderio. Oggi la società della disciplina è tramontata, sostituita dalla «società dell’efficienza» dove la contrapposizione tra «il permesso e il proibito» ha lasciato il posto a una contrapposizione ben più lacerante che è quella tra «il possibile e l’impossibile». Che significa tutto questo agli effetti della sofferenza psichica?

Significa, come opportunamente osserva il sociologo francese Alain Ehrenberg in La fatica di essere se stessi (Einaudi), che nel rapporto tra individuo e società, la misura dell’individuo ideale non è più data dalla docilità e dall’obbedienza disciplinare, ma dall’iniziativa, dal progetto, dalla motivazione, dai risultati che si è in grado di ottenere nella massima espressione di sé. L’individuo non è più regolato da un ordine esterno, da una conformità alla legge, la cui infrazione genera sensi di colpa, ma deve fare appello alle sue risorse interne, alle sue competenze mentali, per raggiungere quei risultati a partire dai quali verrà valutato. In questo modo, dagli anni Settanta in poi, il disagio psichico ha cambiato radicalmente forma: non più il «conflitto nevrotico tra norma e trasgressione» con conseguente senso di colpa ma, in uno scenario sociale dove non c’è più norma perché tutto è possibile, la sofferenza origina da un «senso di insufficienza» per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di fare, o non si riesce a fare secondo le attese altrui, a partire dalle quali, ciascuno misura il valore di se stesso. Per effetto di questo mutamento, scrive Eherenberg: «La figura del soggetto ne esce in gran parte modificata. Il problema dell’azione non è: "ho il diritto di compierla?" ma: "sono in grado di compierla?"». Dove un fallimento in questa competizione generalizzata, tipica della nostra società, equivale a una non tanto mascherata esclusione sociale.

Del resto già Freud, considerando le richieste che la società esigeva dai singoli individui, ne Il disagio della civiltà si chiedeva: «Non è forse lecita la diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili, e magari tutto il genere umano, sono diventati "nevrotici" per effetto del loro stesso sforzo di civiltà? ... Pertanto non provo indignazione quando sento chi, considerate le mete a cui tendono i nostri sforzi verso la civiltà e i mezzi usati per raggiungerle, ritiene che il gioco non valga la candela e che l’esito non possa essere per il singolo altro che intollerabile».

Alla domanda iniziale: cosa resta di Freud a settant’anni dalla sua morte? Rispondo: l’aver sottratto il disagio psichico alla semplice lettura biologica, l’averlo collocato sul piano culturale, l’aver intuito per effetto di questa collocazione che il disagio psichico si modifica di epoca in epoca, per cui compito della psicoanalisi, più che attorcigliarsi nelle diverse denominazioni delle nevrosi, è quello di individuare le modificazioni culturali che caratterizzano le diverse epoche, che tanta ripercussione hanno sulla modalità di ammalarsi «nervosamente».

Paolo Repetti

Quel che resta di Freud (2)

Repubblica — 03 gennaio 2010

Il mio inconscio è un reperto archeologico nel quale un osservatore attento può trovare tracce stratificate di una trentennale storia clinica che spazia dai freudiani agli junghiani ai lacaniani e perfino ai famigerati comportamentisti. La mia carriera di paziente in cura è cominciata a otto anni. Uno strano malessere che faceva sue giù all’altezza del plesso solare in prossimità del pranzo e della cena mi attanagliava e mi impediva di mangiare. Fu in quell’occasione che ebbi il mio primo incontro con una rudimentale figura di terapeuta: la portinaia del palazzo. Mi fermavo a parlare con lei, una signora ebrea poco loquace ma dotata di un bel sorriso e di un robusto buon senso. Da lei si intrattenevano altre figure solitarie, querule zitelle e vedovi angustiati, e anche un ragazzino manesco che solo in sua presenza sembrava calmarsi. Il setting che si svolgeva in una guardiola poco illuminata aveva anche le sue brave regole: mai fuori dell’orario di portineria e a bassa voce. E dunque non è un paradosso. È lì che ho vissuto il mio primo transfert.

Da adolescente i miei mi obbligarono ad alcune rare incursioni nello studio di uno psichiatra. Per me e i miei genitori, che nulla sapevano di psicoanalisi, quello era un vero medico, dotato di scrivania di noce, martelletto per i riflessi, pila per il controllo delle pupille e il cui sapere rassicurante aveva come espressione manifesta il famigerato ricettario dove la sua firma di officiante di un’autentica scienza campeggiava sotto i farmaci prescritti. Nulla di tutto questo in analisi, cominciata qualche anno dopo. Quella stanza svuotata di qualsiasi autorevolezza clinica era piena solo di parole e fantasmi, immagini e sogni, sotto il controllo paziente di un "tecnico dell’inconscio" che aveva con i miei sintomi, il malessere e la mia angoscia, un rapporto di comprensione, privo di pregiudizi.

Io e il mio analista imparavamo uno straordinario «gioco linguistico» - che è la vera grande rivoluzionaria scoperta di Freud - in cui ricostruendo assieme pezzi inghiottiti della mia biografia rendevamo attivo quel processo che mi avrebbe portato col tempo - e mai in modo definitivo - ad accettare che nessuno è depositario del segreto della tua guarigione. Il percorso è lungo, dispendioso, accidentato. Ma non ho conosciuto altre scorciatoie.

La psicoanalisi non è una filosofia di vita che dà senso alla tua esistenza. Non è un pieno che riempie una lacuna. Per quello ci sono il buddismo, lo yoga, la religione, il turismo orientale. La guarigione stessa è solo un limite che si sposta come quando guardiamo l’orizzonte.A un certo punto accade. Assomiglia allo sgretolamento di un muro. Un muro che ci difendeva dalla vista insopportabile del mondo «così come è», nudo e crudo, e che ora possiamo finalmente guardare con i nostri occhi senza temere di esserne sopraffatti.

Certo nel corso del mio trentennale girovagare tra uno studio e l’altro sono stato un paziente tutt’altro che fedele. Ho persino avuto per tre mesi due analisti in contemporanea. Un freudiano e uno junghiano. Ero un politeista alla ricerca ansiosa di un monoteismo da abbracciare e mettevo ingenuamente a confronto i vantaggi dei riti più diversi. Sono stato colpito dal virus lacaniano. Per un anno sembrava che parlassi con le maiuscole. Il Desiderio, l’Altro, il Significante. E ancora una breve e intensa partecipazione a un gruppo terapeutico presso un’analista seguace di Winnicot. Esperienza che non ebbe alcun effetto sui sintomi ma che mi permise di conoscere una ragazza più nevrotica di me e della quale divenni amante e vice-terapeuta. Ero ancora un paziente nevrotico, ma dotato di un sapere minuzioso che elargivo con generosità ad amici e fidanzate. Come quegli ipocondriaci che pensano di vincere la malattia immaginaria trasformandosi in medici dilettanti.

A trent’anni finalmente l’incontro con un vecchio analista junghiano, un ebreo polacco che, per inciso, era nato nella stessa città del ginecologo di mia madre, anch’egli ebreo: semplice coincidenza o sincronicità junghiana? All’inizio ero ancora talmente immerso nello studio del Significante lacaniano che i primi sei mesi di sedute, invece di affrontare dolorosamente gli effetti catastrofici di un’autostima ridotta a zero - quello che il mio analista chiamava il mio Sé schifoso - ero io a tenere dotte lezioni al terapeuta sulle Macchine Desideranti di Deleuze e Guattari dei quali avevo seguito una e una sola lezione presso il Dams di Bologna. Ebbene dopo sei mesi di farneticanti conferenze lentamente cominciai a scoprirmi e a raccontare qualcosa di me. Tutto cominciò con un sogno di pipistrelli e colombe che il terapeuta accolse con un sorridente: «Ecco questa è la prima moneta d’oro da infilare nel salvadanaio».

E invece, da sempre, una naturale diffidenza verso la cosiddetta psicoanalisi dell’Io che ha in America la sua culla e nei film di Woody Allen la sua caricatura più appropriata. Una psicoanalisi ridotta a ortopedia dell’io, tecnica di adattamento, normalizzante e felicemente convinta che l’american way of life sia la vita stessa. In questi giorni ho iniziato la mia quinta terapia. L’archeologo che si imbatterà nel mio inconscio scoprirà le tracce di una bonaria e sorridente diffidenza e una disponibilità ironica verso questo nuovo viaggio. Segno che il muro comincia a mostrare le sue crepe.

3.

Galimberti riduce la scoperta freudiana al trasferimento della nevrosi dal piano biologico a quello culturale, ma aggiunge che il conflitto analizzato da Freud tra Super-io repressivo e Es pulsionale è storicamente datato e non è più riscontrabile nella psicopatologia contemporanea, che sarebbe caratterizzata dal dramma di un Io narcisistico che si protende vanamente verso un modello di potenza e di efficienza.

Paolo Repetti illustra il suo trentennale tragitto analitico, non ancora giunto al termine, affermando che la grande scoperta freudiana riguarda il gioco linguistico che caratterizza il rapporto tra coscienza e inconscio e tra il soggetto e l’altro. Egli aggiunge che la psicoanalisi non è una filosofia di vita, ma un modo per raggiungere una comprensione della realtà così com’essa è, ponendo da parte le aspettative immaginarie del soggetto che funzionano come un muro.

Comune ai due articoli è il riferimento alla psicoanalisi come disciplina ermeneutica, e, di conseguenza, non scientifica in senso proprio.

Mi riesce difficile essere d’accordo con questi luoghi comuni.

La grande scoperta di Freud riguarda l’influenza che il sociale ha sulla mente umana, nella misura in cui esso viene ad essere rappresentato interiormente fino a costituire una substruttura dell’Io, il Super-io, la cui funzione è di promuovere la normalizzazione del soggetto, vale a dire la sua adesione ai valori culturali ritenuti essenziali ai fini della coesione e del funzionamento della società cui appartiene.

Inteso in questo senso, riesce evidente che il Super-io è una funzione mentale universale i cui contenuti cambiano in rapporto all’evoluzione storica, ma, in difetto del quale, non potrebbe darsi la replicazione culturale, che è il fondamento della consapevolezza che l’io consegue di esserci e di avere una sua identità.

E’ un po’ come se il Super-io, che si struttura precocemente, fosse la crisalide ha che nel suo bozzolo l’Io, il quale, dall’adolescenza in poi, può dispiegarsi o rimanere imbozzolato.

E’ vero che il Super-io è cambiato dall’epoca di Freud ad oggi. Il cambiamento è da ricondurre semplicemente al fatto che il Super-io repressivo, analizzato da Freud nel contesto di un mondo fortemente gerarchizzato, si è trasformato in un Ideale dell’Io (altro concetto messo a fuoco sia pure con qualche incertezza dal maestro viennese) “aspirativo”, che sollecita il soggetto verso l’efficienza e l’inserimento in una società fluidificata e altamente competitiva.

In questo cambiamento, è agevole leggere la pressione esercitata da una nuova concezione dell’Io, che all’epoca di Freud era appena embrionale, secondo la quale esso deve farsi valere, acquisire potere sociale, sapersi vendere al fine di acquisire uno status sociale che lo affranchi da un intollerabile anonimato.

Nella misura in cui questo Ideale dell’Io riduce del tutto l’individuazione ad un processo di inserimento e di integrazione sociale in una società competitiva, esso mortifica il potenziale di individuazione che, in sé e per sé, è rivolto ad una realizzazione onnilaterale del soggetto. E’ dunque non meno repressivo del Super-io freudiano se il concetto di repressione viene riferito non già ad inesistenti pulsioni ma ai bisogni intrinseci.

Purtroppo, l’equivoco in cui cade Galimberti è lo stesso in cui cadono numerosi psicoanalisti contemporanei, che facendo riferimento ad una patologia narcisistica estremamente diffusa a livello giovanile, dimostrano di non avere letto con attenzione le opere di Freud.

L’altro aspetto del pensiero freudiano che Galimberti trascura è la scoperta della tendenza “naturale” della coscienza alla mistificazione, che implica uno scarto costante tra ciò che il soggetto pensa di essere e ciò che egli di fatto è. Si tratta di una scoperta sommamente importante che, facendo seguito all’analisi che Marx fa della coscienza ideologica e a quella di Nietzsche sulla coscienza catturata dalle tradizioni morali, permette di inserire Freud nella categoria dei Grandi demistificatori.

Per quanto riguarda questo aspetto, il pensiero di Freud, più che passato, è avveniristico. Un mondo programmato sulla base di una tensione soggettiva verso un lavoro di demistificazione, e dunque di autenticazione ( nei limiti in cui è possibile), un mondo dunque nel quale gli esseri umani accettino la loro condizione di crisalidi culturali e avvertano il dovere di impegnarsi per realizzare, anche indipendentemente dalle richieste sociali, la loro personale vocazione ad essere, è oggi né più né meno un’utopia.

L’orientamento coscienzialista, anzi, incentrato sulla convinzione dell’Io di vedere abbastanza chiaro fuori e dentro di sé, è paradossalmente aumentato nel corso degli ultimi decenni proprio in conseguenza dell’enfatizzazione dell’individuo cui si attribuisce e che si attribuisce una presunta unità.

Il presunto tramonto di Freud è contestato anche dalla nascita della Neuropsicoanalisi, della quale ho parlato e sulla quale tornerò. Si tratta non solo di un'autentica riscoperta di Freud, il cui limite sta nel non riuscire ancora ad affrancarsi dalla teoria delle pulsioni, ma anche della riproposizione di un aspetto del pensiero freudiano che Galimberti ignora. E' senz'altro vero che il Maestro ha portato la psicopatologia sul terreno dell'interazione tra natura umana e cultura. La teoria delle pulsioni, però, attesta che egli non era certo un culturalista. Egli, infatti, ha nutrito sempre un vivo interesse per la neurobiologia, com'è attestato dal progetto di psicologia che risale al 1895 e fu abbandonato in difetto di consistenti informazioni sulla struttura e sulle funzioni del cervello.

La neuropsicoanalisi può avvalersi oggi di dati neurobiologici imponenti, anche se non esaustivi, e alla luce di questi tenta di stabilire una correlazione tra l'attività del cervello e le funzioni psichiche consce e inconsce. E' probabile che questo orientamento di studi riserverà molte sorprese a chi ha frettolosamente archiviato Freud.

Dovrei, infine, fare qualche considerazione su come gli intellettuali in genere sono esposti, più di tutti gli altri, al rischio di fare analisi per lunghissimi periodi ricavandone vantaggi molto relativi. La discrezione nei confronti di Repetti, che riconosce di convivere con una situazione ancora attiva di disagio, me lo impedisce.

Mi limiterò a dire che, in genere, gli intellettuali usano l’analisi come usano la cultura: ricavandone una potente sovrastruttura culturale che incrementa i livelli di mistificazione soggettiva. Perché questo si realizzi con una frequena inquietante, è un altro discorso.