Per una teoria delle emozioni

1.

“Allo stato attuale non siamo in grado di fornire dell’emozione e della motivazione una teoria esaustiva e generalmente condivisa di che cosa esse siano e di quali siano i loro rapporti.” Tratta dal secondo capitolo del manuale di Psicologia generale a cura di Paolo Legrenzi (il Mulino, Bologna 1997), quest’asserzione  definisce il limite più rilevante delle scienze psicologiche: quello che toglie senso alla loro pretesa, incrementatasi con l’avvento del cognitivismo, di porsi come scienze. Tale limite, infatti, concerne un aspetto a tal punto importante dell’esperienza umana che il Manuale in questione anticipa volutamente, rispetto alla consueta disposizione trattatistica, il tema delle emozioni e delle motivazioni, ponendolo subito dopo l’introduzione.

C’è dunque la consapevolezza che emozioni e motivazioni sottendono l’esperienza umana, le une dando ad essa una “qualità” in difetto della quale l’esperienza soggettiva non sarebbe concepibile, le altre caratterizzando il piano del comportamento individuale, attraverso il quale si oggettiva quell’esperienza.

Tale consapevolezza implica, come si legge nell’Introduzione, che il funzionamento “caldo” della mente, legato appunto alle emozioni e alle motivazioni, è, sul piano della vita vissuta, più importante di quello “freddo”, legato ai processi cognitivi.

Se questo è vero, l’assenza di una teoria psicologica esaustiva e generalmente condivisa sul funzionamento “caldo” è una lacuna di enorme portata. Tanto più questa lacuna incide a livello psicopatologico, laddove, consciamente e/o inconsciamente, sono sempre in gioco più o meno rilevanti turbolenze emozionali.

E’ evidente che, nella prospettiva di una nuova scienza dell’uomo e dei fatti umani integrata (una panantropologia) tale lacuna va affrontata. Per ciò avvio la pubblicazione di una serie di articoli che, se non perverranno ad una teoria in senso proprio, dovrebbero porre i presupposti per procedere in questa direzione.

E’ evidente che questo progetto non avrebbe senso se non si fondasse su una riflessione di antica data. Di emozioni e motivazioni si parla praticamente ovunque negli scritti. Il prossimo bimestre provvederò a documentare questo interesse estraendo il materiale dal Sito sotto forma di area tematica. Il frutto più maturo, sinora, di questa riflessione è rappresentato dai tre capitoli che, in Abracadabra, ho dedicato alle emozioni. Essendo il libro esaurito, e l’editore renitente ad una nuova edizione, li pubblico nella versione originaria. Ciò non dovrebbe interferire su un’ulteriore pubblicazione a stampa affidata ad un altro editore, perché il testo sarà di sicuro rimaneggiato.

Per agevolare la lettura ai fini dell’ulteriore discorso, devo solo anticipare tre aspetti pressoché assenti in Abracadabra, ma di grande interesse.

Il primo è che il corredo emozionale riconosce con certezza un fondamento genetico e, nella sua originaria intensità, corrisponde ad uno spettro.

Il secondo è che, nonostante il fondamento genetico, l’emozionalità umana in tutti i suoi aspetti è una dimensione educabile dell’essere, vale a dire influenzabile dall’ambiente, dalla cultura e dal soggetto stesso ( se egli si rapporta ad esse come un educatore…).

Il terzo aspetto è che le emozioni, nonostante l’apparente immediatezza con cui affiorano a livello di esperienza soggettiva, corrispondono a processi molto complessi che avvengono in gran parte a livello inconscio, e coinvolgono memorie personali, valutazioni cognitiva e sistemi di valore culturali.

Nessuno di questi aspetti è del tutto assente nei capitoli che riporto integralmente; nessuno, però, è svolto con sufficiente profondità.

Da Abracadabra

XVI  A CHE SERVONO LE EMOZIONI?

La domanda sembra banale e invece cela un bel groviglio di problemi. Primo, perché il fatto che con la comparsa delle emozioni nella scala evolutiva nasce la soggettività individuale, e con questa il "dovere", per ogni individuo, di esplorare un angoletto del mondo alla ricerca del miglior adattamento possibile, e cioè della "felicità", non è riconosciuto neppure dagli esperti. E per forza! Sarebbe imbarazzante prendere atto che, negli altri animali, questo bisogno si realizza con una certa naturalezza, mentre l'uomo, che ce l'ha al cubo, è ancora lontano parecchio dal realizzarlo. E d'accordo, il congegno s'è complicato parecchio, e l'orizzonte nello spazio e nel tempo, all'uomo,  gli si è dilatato un po' troppo. Ma insomma la dritta della natura rimane quella. C'è poi il rischio che gli uomini, se si convincono che la felicità - quel tanto almeno ch'è possibile - è un bisogno scritto nei loro geni e non un sogno, casomai si mettono di buzzo buono a rivendicarla come un diritto, e allora o il mondo cambia o va a carte quarantotto.

C'è pure un altro motivo. Il termine emozioni fa subito pensare al cuore che  salta in gola, al respiro che si blocca, alle mani fredde, alle ginocchia che tremano, al pallore, al rossore e via dicendo. Non è la stessa cosa se, a produrre queste cose, c'è di mezzo l'amore, una bella o una brutta notizia, un rimprovero mal digerito, una litigata tra amici.  Ma quest'esperienza, per cui le viscere  si muovono,   segna:  porta a pensare alle emozioni come turbolenze episodiche, a considerarle  - nel bene e nel male (e in genere prevale questo) - sconvolgimenti del normale stato d'animo che attribuiamo all'essere coscienti e pensanti. Perciò c'è in giro parecchia gente che giudica le emozioni una gran rottura, un pericolo. Quelli che ogni giorno devono mandar giù qualche pillola per non essere atterrati dall'ansia che li divora, quelli che in genere sono tranquilli ma ogni tanto gli scatta un grilletto per cui sfasciano tutto ciò che si trovano a portata di mano, quelli che soffrono le pene dell'inferno per via di un amore non ricambiato, non hanno bisogno di giustificazioni. Ma gli esperti - sant'Iddio -, gli esperti valli a capire. Quasi  tutti - compresi alcuni psicoanalisti che ci campano - cadono nella trappola di considerare le emozioni una turbativa  dell'ordine razionale. E la conferma la ricavano dai comportamenti che sembrano determinati da esplosioni passionali individuali e collettive che mettono la ragione in sciopero. Gira gira, si arriva sempre  all' irrazionalità, che spiega gran parte delle cose che non funzionano sulla faccia della terra - dai raptus passionali ai suicidi, dalle tossicodipendenze al razzismo e alle guerre, dalle intolleranze religiose al comunismo -, ma contro la quale nessuno sa cosa fare. Tranne che appellarsi alla Dea Ragione, e chiedere lumi ai computers per vedere se, per caso, mettendo le mani nel congegno (oggi è già possibile), non sia possibile tirar fuori dei replicanti  senza più lati oscuri. E già: c'è pure qualcuno che lo dice, che se l'uomo potesse essere liberato dalle passioni, che rappresentano un difetto naturale, camperebbe meglio54 . Vengono i brividi nel constatare che a quasi nessuno di questi Cervelloni vien da pensare che dietro i maggiori crimini commessi nel corso della storia c'è il calcolo non la passione.

Prendiamo per esempio quella quisquilia di Hiroshima. Un tale, addestrato ad eseguire gli ordini senza discuterli, preme un pulsante e sgancia una nocciolina che, in un battibaleno, polverizza centomila civili. Un lavoro pulito (l'antesignano delle guerre chirurgiche) - altro che gli odi tribali e il corpo a corpo - dietro il quale c'è il calcolo degli Alti Comandi. Quella nocciolina (e non è vero: ce ne vorrà un'altra) serve a piegare la resistenza giapponese, e a salvare la vita a mezzo milione di soldati americani. Vuoi mettere mezzo milione di gente in gamba con centomila musi gialli (anziani, bambini, feti e invalidi compresi)? Nella logica della guerra, che persegue il raggiugimento di un obbiettivo col minimo risparmio di mezzi possibile, il ragionamento non fa una piega. Il ragionamento appunto. E se agli Alti Comandi gli veniva da mettersi nei panni di uno (un simile)  che da un momento all'altro, senza entrarci un cazzo con la guerra, si ritrova polverizzato, non gli sarebbe andato di traverso il ragionamento? Ma allora avrebbero dovuto abbandonarsi un po' alle emozioni, visto che l'identificazione con l'altro, col simile non è un fatto di testa. E da dove vien fuori l'identificazione con l'altro? Dal fatto che se uno sente se stesso, col suo carico di gioie e di pene, sente pure  che l’altro  sente  come lui, nel bene e nel male. E anche questo non è un fatto di testa. Come non lo sono i diritti individuali: la libertà, la pari dignità, la giustizia. L'uomo ci ha messo parecchi secoli a riconoscerli col comprendonio come universali, ma, in sé e per sé, allo stato brado, come emozioni, si ritrovano già belli vivi in un esserino umano di tre anni.

 Dunque, questo frugoletto senza né arte né parte, che parla sì ma non ha ancora una sua filosofia di vita, si trova a tavola di fronte a una polpetta che non gli va proprio a genio. Fa i capricci? E' un'occasione d'oro per gli educatori. Uno di loro, tra l'altro, è pure nervoso per fatti suoi. O la butti giù, o niente televisione - è il messaggio. Non è un gran danno, date le polpette televisive. Ma al frugoletto, che gli stati d'animo dei grandi li riconosce eccome, il ricatto suona come una prepotenza,  un torto, un profittarsi della sua impotenza. Ci vorrebbe il trapano per fargli aprire la bocca. E giù una sberla, per via del fatto che ha sfidato l'autorità (e se continua così, poi da grande finisce criminale). Il frugoletto ha un bel caratterino. Apparentemente si imbroncia solo. Ma dallo sguardo che s'indurisce e saetta, s’intuisce che, nel fondo del cuore, al broncio corrisponde una rabbia furibonda e cieca. Per via della frustrazione? Di certo, ma quella rabbia è impastata anche di protesta contro l'ingiustizia subita e comporta una  rivendicazione di libertà e di pari dignità. Tutte cose che, concettualmente, il frugoletto non sa neppure cosa significhino. E da dove le tira fuori? Dal suo bagaglio emozionale naturale.

Un matematico finito per dedicarsi alla filosofia55 ha detto che il cuore ha le sue ragioni che la ragione non ha. Semplice ma efficace. Ci vuole un po' di pazienza per capire perché troppo spesso queste ragioni si ingarbugliano. Per intanto un fatto va rimarcato. La ragione funziona a corrente alternata. Se uno vuole può starsene da una parte a fissare il vuoto: dentro la testa qualcosa scorre sempre. Ma da questo a pensare ce ne passa. Ciò che caratterizza immediatamente la coscienza è che dove si dà coscienza si dà anzitutto uno stato d'animo, quello che gli specialisti chiamano umore.  Non volendo andare sul profondo, l'umore è il collante che tiene insieme la coscienza. L'emozionalità, anche di sfondo, insomma, è una funzione continua della mente. E a che serve questo sottofondo che, ogni tanto, vira verso l'ansia, la gioia, la paura, la rabbia e via dicendo? A legare l'uomo al mondo, a dargli il senso di esserci e di partecipare.

Pervasiva, l'emozionalità è aperta al mondo e ci lega ad esso su tre registri. Lo si può verificare di persona. C'è un'emozionalità aperta alla natura. Ci si ferma una sera d'estate a guardare il tramonto dalla finestra e, con la musica di sottofondo, ci si ritrova a stare ancora lì con la luna piena. Un po' di turbamento c'è, per la storia dell'infinito, ma associata a una strana sensazione tra gola e stomaco che sa tanto di un piacere inesprimibile.  Se ci si  mette a riflettere, non si trova una sola ragione logica al fatto che il sole e la luna, come il mare, le montagne, gli alberi, le stagioni, gli animali - tutte cose monotone in sé e per sé, perché non fanno che ripetersi - ci toccano così profondamente. E' che il cuore, senza ragionamenti, ci restituisce immediatamente l'appartenenza alla natura, il sentire d'essere tutt'uno con essa. 

C'è poi l'emozionalità sociale. Lasciamo perdere il fatto che se si va in giro qualche oretta per la città  viene da odiare tutto e tutti per via del traffico e dello smog. Questa emozionalità è mediata dalla cultura, che ci ha messo in gabbia e pretende che ci adattiamo alla cattività. Quella naturale si sperimenta quando in televisione si vedono i bambini che, nell'intervallo tra una bomba e un'altra, giocano rivendicando il loro diritto a non vivere nel terrore. Viene il groppo alla gola e l’umido agli occhi perché ci si mette nei loro panni,  e la cosa viene spontanea perché uno che può soffrire lo conosciamo da vicino, convivendoci. Il  groppo è compassione, ma anche rabbia contro gli stronzi il cui mestiere è di far la guerra. Rabbia dunque contro i prepotenti, e ansia di giustizia.  Al naturale, l'emozionalità sociale sta sempre dalla parte dei deboli, perché nell’intimo lo siamo tutti.

C'è infine  l'emozionalità estetica,  che negli uomini (lo specifico perché gli studiosi di altri animali hanno scoperto che anche loro hanno  delle predilezioni estetiche: per esempio, per delle forme geometriche piuttosto che per altre) è aperta alla cultura. A scuola, coi libri che sono scritti per i professori, capita a pochi di scoprirla. Ma un essere che si emoziona anche di fronte ad una stupida luna può non essere dotato  di senso estetico? La Cultura (da non confondere con quella con la c minuscola, che è l'insieme dei luoghi comuni condivisi dalle persone che appartengono ad una società), in sé e per sé, è tutto ciò che di bello, grande, profondo, utile e commovente - dall'arte alla scienza -  gli uomini (quelli con una marcia in più) hanno prodotto  nel corso della storia, per altri versi sciagurata. L'apertura emozionale alla cultura ci permette di comunicare con loro senza limiti di spazio e di tempo. Ed è bello dialogare con gli uomini grandi, che hanno sentito le nostre stesse cose ma le esprimono meglio e ce le fanno capire. Anche se sono morti. E sì, perché, in fondo, l'emozionalità aperta alla cultura è un'emozionalità sociale mediata: è un modo per comunicare con qualcun altro assente, che, producendo quello che ha prodotto, ci teneva a comunicare con qualcun altro oltre che con la moglie e gli amici.  Anche qui, la logica vale un fico secco. Uno può spiegarci fino alla fine dei tempi perché - poniamo - un quadro, una poesia, un racconto, un film, una canzone sono belli. La cosa diventa chiara solo nel momento in cui un'emozione  ce la fa provare quella bellezza, e si rimane smarriti finchè ci si risveglia. Non capita a tutti, purtroppo, ma può capitare visto che siamo programmati anche per questo.

Per capire le emozioni, prima ancora di farne la tabellina, bisogna partire di qui, dal fatto che ci aprono e ci legano al mondo a filo doppio, ci danno il senso di esistere e che esistono altri simili a noi, ci fanno sentire un tutt'uno con la natura, e hanno qualcosa a che vedere col gusto del vivere (con l'estetica). Un po' ci illudono, per forza. Uno va in campagna e il verde lo fa andare in bambola. Si stende tutto contento e respira forte l'aria che profuma di mille odori. Ah, la vita - pensa - e gli sembra che sia una cosa dolce. Poi s'accorgè che quell'angoletto di paradiso, che sembrava solitario, è occupato da una marea di animaletti più o meno invisibili che protestano contro l’invasore e si danno da fare per vedere se funziona come preda. Non ci passa, per via dell'esperienza, l'amore per il verde. Una puntura di zanzara uno se la dimentica. Certe cose provate una volta non se le dimentica più.

XVII. ANCORA SULLE EMOZIONI

Oltre alla natura, agli altri uomini e alla cultura, non resta  altro sulla faccia del pianeta. L'emozionalità, insomma, investe la totalità dell'esperienza umana.  Per come si è evoluto, lentamente nel corso di migliaia e migliaia di anni, il cervello ha un'organizzazione funzionale stratificata. Quello che vien prima, in pratica, condiziona quello che viene dopo, anche se ne è a sua volta condizionato. E' un po' approssimativo, ma non lontano dal vero, dire che, nella scala evolutiva, dapprima  il cervello funziona in base a comportamenti istintivi mediati dalle percezioni dell'ambiente esterno, poi in base alle valutazioni emozionali,  e cioè alle "interpretazioni" soggettive che l'individuo opera della situazione nella quale si trova, fortemente influenzate dalle sue memorie,  e, infine, con l'uomo, in base ai processi di elaborazione legati al pensiero.  Con l'avvento del pensiero, il ruolo delle emozioni non si riduce: anzi. Tutta l'attività cognitiva è impastata di  emozionalità.

Di solito non ci si accorge  di questo per due motivi. Primo, perché gran parte delle emozioni scorre al di là e al di sotto della coscienza (ci arriveremo). Secondo, perché la coscienza è affacciata sul mondo esterno, sul mondo delle percezioni, e questo fa sì che ciascuno di noi ha l'impressione di un contatto immediato con la realtà. Il realismo ingenuo della coscienza, per cui le cose fuori di noi stanno così come le vediamo, è un’altra trappola che essa ci tende. I buddisti dicono addirittura che la realtà esterna è  un’illusione. Non volendo rinunciare a quel tanto di piacere (misto a dolore) che ci assicura, diciamo più modestamente che si tratta di un’interpretazione nella quale le emozioni, consce e inconsce, giocano un ruolo rilevante.

 Un breve excursus  a questo punto è necessario. A occhio e croce, il cervello umano può essere diviso in quattro aree anatomiche e funzionali. In profondità, c'è una zona minuscola - l'ipotalamo - che coordina l'attività dei visceri interni attraverso il sistema nervoso neurovegetativo e nella quale esistono dei centri specifici per gli istinti primari (fame, sete, sesso e via dicendo). A cavallo - diciamo così - dell'ipotalamo, c'è un'area piuttosto complessa, il  lobo limbico (un insieme  di nuclei e di circuiti correlati funzionalmente) che ha parecchio a che vedere  con la vita emozionale. C'è poi la corteccia corticale - la materia grigia per i profani - dove si distinguono due aree: la corteccia sensoriale, che riceve informazioni dagli organi di senso (tatto, gusto, olfatto, udito, vista) e la corteccia associativa, che elabora le informazioni e, particolarmente a livello frontale,  produce pensiero.  L'immediatezza delle percezioni induce a ritenere che l'informazione passi direttamente dal mondo esterno ai centri corticali, dal produttore insomma al consumatore.  Ma è ormai acquisito che, prima di arrivare alla corteccia sensoriale e a quella associativa, le informazioni percettive pagano un pedaggio, passando prima, in un lampo di cui non ci accorgiamo, attraverso il filtro dei centri emozionali. E non è  una semplice diversione. Questo passaggio dà luogo ad una prima valutazione che mette in rapporto l'informazione con tutto il patrimonio di memorie soggettive - consce e inconsce  - ricavato dall’esperienza precedente. Dato che questo patrimonio è fortemente connotato emotivamente, poiché i ricordi sono fissati in conseguenza del valore emozionale degli eventi, già a questo livello l'informazione perde - diciamo così - il suo carattere bruto, oggettivo, e assume un significato soggettivo, un peso specifico. In conseguenza di ciò, per esempio, un odore, che sarebbe per molti di noi insignificante, ha spinto uno scrittore a sondare il suo archivio personale e a ricavarne  un capolavoro.

Parlare di filtro emozionale non è un modo di dire. Gran parte delle informazioni, a questo livello, vengono estinte: quelle valutate come insignificanti e quelle che metterebbero in gioco la coerenza. Le altre, che passano attraverso il filtro, non sono più le stesse  rispetto all'entrata poiché si arricchiscono di un valore emozionale che dipende dalle memorie evocate. Con questa connotazione soggettiva, l'informazione  arriva alla corteccia sensoriale e associativa, ove viene categorizzata, vale a dire riconosciuta come appartenente a un insieme già noto, e processata,  cioè utilizzata come un simbolo per pensare. Il processo di astrazione a livello corticale non è però solo logico. Anche qui le informazioni possono essere connotate emotivamente: e il quantum di emozioni che ad esse si associa è decisivo nel definire il loro peso specifico allorché vengono depositate nell’archivio della memoria. Insomma quello che dell'esperienza rimane, e viene a far parte del patrimonio personale di memorie integrandosi con quelle già accumulate, intanto rimane in quanto ha un valore doppio: uno emozionale e uno cognitivo.  Via via che il patrimonio di memorie si organizza, anche il mondo interno diventa una fonte di informazioni. Ma (sempre ponendo tra parentesi l'inconscio) l'uso di questo patrimonio dipende esso stesso dal valore emozionale delle memorie. E qui si dà un paradosso denso di conseguenze: le memorie più ricche di cariche emozionali possono, per ciò stesso, essere sempre presenti alla coscienza, fino all’ossessione, o viceversa  essere cancellate, rimosse dalla coscienza e messe nello sgabuzziono dell’inconscio. L'amnesia è il condimento di ogni storia personale, come pure di quella della società.

Ma che diavolo significa valutazione emozionale? Valutare - lo dice la parola stessa - significa dare un certo valore o peso a un evento. Sì, ma con quale scala? Se continuiamo a parlare delle emozioni in generale, non lo risolviamo  questo problema. Ch'è grosso, perché non appena si tenta di definire le emozioni elementari, di base, quelle naturali insomma, le idee si confondono (specie tra gli specialisti). Procediamo a lume di naso.

Con la comparsa delle emozioni nella scala evolutiva, il comportamento animale - s'è detto - diventa più vario, soggettivo per via del fatto che il rapporto dell'individuo con l'ambiente viene ad essere valutato alla luce delle memorie accumulate, connotate emotivamente. E d'accordo, ma il progetto della vita, per un aspetto importante, ch'è in primis il salvare la pelle, non cambia. Così non si va lontano dal vero ammettendo che un'emozione di base è l'allarme, il drizzare le orecchie quando si configura da qualche parte un pericolo. Un pericolo comunque inteso fa riferimento, oltre che al giocarsi  la pelle,  alla possibilità, ben presente a tutti gli esseri senzienti, di provar dolore. Il dolore, dunque, va messo tra le emozioni di base. Se fuori e dentro di sé tutto è in ordine, l'animale se ne sta tranquillo. La quiete è l'opposto dell'allarme. Ma ci vuol poco a capire che si tratta di un unico registro emozionale con una specie di indice che oscilla di continuo verso l'una o l'altra polarità. La quiete è una gran cosa, ma non è il massimo della vita per gli animali dotati di capacità emozionale. In difetto di pericolo e di bisogni impellenti, c'è qualcosa come la noia che a un certo punto insorge. L'animale si dà da fare. Esplora il mondo, manifesta una qualche curiosità gratuita (non finalizzata al ventre e al sesso), gioca: insomma ricerca attivamente il massimo benessere possibile. Un secondo registro dunque è  quello del piacere e del dolore. Non è finita. Un altro registro si definisce solo negli animali che vivono in società: è la scala dell'affettività, che concerne le emozioni tra simili, e che va dall'estremo dell'amore - che porta a ridurre le distanze - a quello dell'odio - che porta a non volere avere nulla a che fare con l’altro.

La natura insomma lavora in economia. Ha prodotto solo tre registri emozionali, autonomi l'uno dall'altro anche se correlati (tant'è che un bel tramonto diventa più bello se lo si osserva mano nella mano con chi si ama e ancora più bello se lo si vede scintillare in una tela di Monet), ciascuno dei quali riconosce due polarità tra le quali l’indice oscilla di continuo in rapporto all’esperienza. Da quando mettiamo piede nel mondo, questi registri funzionano per via del fatto che il cervello non è un organo passivo. Gli specialisti dicono che, fin da quando siamo nel ventre della mamma, ha un'attività intrinseca, vale a dire un’attività che non è dovuto a stimoli esterni Tutto ciò che sperimentiamo, quale che sia il suo contenuto percettivo o cognitivo, viene qualificato dalle variazioni indotte sui registri emozionali e viene memorizzato in conseguenza di queste variazioni.

Dall'elenco manca qualcosa, e non di poco conto: la paura e la rabbia. A riguardo si può procedere diciamo sperimentalmente. Prendo un gattino tra le mani. Per lui sono un estraneo, quindi potenzialmente minaccioso. E' in ansia perché percepisce un pericolo, e ha paura: gli batte il cuore e ha lo sguardo spaventato. Lo stringo un po', quanto basta a fargli credere che il pericolo si stia realizzando. Può darsi che il terrore lo paralizzi, ma, essendo un felino, è più probabile che a un certo punto si incazzi, sfoderi le unghie e tenti di liberarsi sgraffiando. E sì, la paura e la rabbia, in sé e per sé, non sono emozioni autonome, ma correlate all'ansia. La percezione di un pericolo, quando supera un certo livello di intensità attiva o la paura che, se non paralizza, provoca la fuga, o la rabbia, che si traduce nella difesa (tipo digrignare i denti) o nell'attacco.

A questo punto vien fuori una questione piuttosto spinosa. Se la rabbia viene ricondotta all'ansia, ciò significa che, in natura, essa esiste solo come un' emozione difensiva che, al limite, si traduce in un comportamento offensivo  quando l'animale si sente minacciato?  E l'aggressività distruttiva - il cavallo di battaglia di quelli che insultano gli animali per dargli la colpa di avercela trasmessa (anche se riconoscono che noi ci abbiamo aggiunto un carico da tressette) -, dove la mettiamo? C'è un sacco di confusione a riguardo, tra gli specialisti e nella testa della gente comune. Un po' d'aggressività - si dice - ci vuole nella vita. Alcuni psicologi, che lavorano solo perché la lotta per sopravvivere mette fuori gioco qualcuno, parlano addirittura di un'aggressività sana, che serve ad affermare se stessi. Come se il bisogno di felicità, tra l'altro complicato dalla giostra dell'infinito, non bastasse a funzionare come una motivazione energetica potente. Chiariamoci le idee.

Aggressività è un termine che descrive dei comportamenti miranti a danneggiare qualcuno, a far del male. Intesa in questi termini, è una specializzazione umana.  In senso proprio, il predatore non è aggressivo, poiché (come s'è detto) alla preda  non ha alcuna intenzione di far del male, anche se la sbrana.  D'accordo, c'è la storia dei gatti che inseguono i topi anche quando sono sazi, li straziano e li lasciano lì. Ma lo fanno per dare il buon esempio ai piccoli e  per tenersi in esercizio (come fanno i cacciatori che, nelle pause della stagione, vanno a tirare al bersaglio); e poi al topo non è che gliene freghi tanto, una volta stecchito, di essere degustato o meno. Laddove, tra specie diverse, difetta il riconoscimento del simile, parlare di aggressività è improprio: i cosiddetti comportamenti aggressivi sono motivati o dalla fame o dalla difesa (per esempio del territorio). Quanto ai comportamenti aggressivi all'interno della stessa specie, un esperimento semplice semplice chiarisce le idee. Porto da mangiare a dei gatti randagi: quelli si avvicinano al cibo e cominciano a soffiare. Poi uno allunga la zampa artigliata, e, se funziona, stabilisce l'ordine della beccata. Ha difeso i suoi diritti di più forte ed è stato riconosciuto come tale dagli altri. Questi comportamenti sono dunque finalizzati a mantenere un ordinamento gerarchico, non a distruggere il rivale. Ma il gatto dominante l’offesa non se la lega al dito. Quando è sazio, lascia il resto - se c'è - agli altri. E poi, casomai, ci si mette a giocare. Solo alcuni uomini  sono insaziabili e agli altri non lasciano neppure le briciole. E poi, se un altro gatto, crescendo manifesta un atteggiamento dominante, il leader  tenta di contrastarlo, ma, se prende atto della sua superiorità, si arrende e aspetta il suo turno. Guai però se qualcun'altro, ringalluzzito dalla sua perdita di potere, azzarda troppo. L'ex-leader il secondo posto lo difende con la stessa rabbia di prima. D'accordo in natura esiste la legge del più forte, ma la legge si fonda sul fatto che un individuo lo è veramente e gli altri gli riconoscono il primato. Insomma  è una legge che si basa sul "consenso".

Non è finita qui. Dietro i comportamenti aggressivi in senso proprio, quelli che si realizzano tra membri della stessa specie, un'emozione c'è, ed è la rabbia. Ma cosa hanno scoperto a questo riguardo gli studiosi seri (ce n'è che fanno il gioco delle tre carte) al di là del fatto che l'uccisione del simile è un evento rarissimo, eccezionale e quasi sempre casuale (come quando uno stambecco, in lotta col rivale per il possesso di una femmina, cade giù dal burrone)?  Primo, che l'asportazione della corteccia cerebrale negli animali (e già, gli si fanno anche cose del genere) li rende placidi, insensibili quasi agli stimoli che di solito promuovono la rabbia e il comportamento aggressivo. Questo significa  che l'attivazione della rabbia si traduce in comportamento aggressivo per effetto di una valutazione della situazione che avviene a livello corticale, di un'elaborazione insomma cognitiva. E già con questo la teoria degli istinti ancestrali va a farsi fottere. Secondo, che, negli animali più vicini a noi, nelle scimmie, la stimolazione con gli elettrodi di alcuni centri cerebrali, determina un aumento netto dell'aggressività. Ma che succede? Che l'animale,  nei suoi comportamenti aggressivi, rispetta  - per così dire - gli amici, e se la prende con quelli che già prima gli stavano antipatici.  Alla faccia dei teorici degli istinti ciechi, la rabbia bestiale rispetta gli affetti.

La ferinità, insomma, non esiste. Esiste la rabbia che, negli animali, attiva comportamenti aggressivi orientati alla difesa o all'affermazione dei "diritti" individuali, e solo nell'uomo promuove comportamenti orientati  a danneggiare l'altro (e talora anche se stesso). Perché? Se si tien conto  della lezione che viene dagli animali, in parte il problema si chiarisce. La rabbia in sé e per sé è l'emozione che determina un comportamento "giusto" sia esso difensivo o affermativo dei propri diritti. E' la matrice del senso di giustizia  e, a livello umano, laddove la cultura pesa come un macigno, di tutte le ingiustizie che si commettono in suo nome. Tutte le guerre, gli arbitri, i crimini, le sopraffazioni, gli sfruttamenti e via dicendo - dal livello della storia a quello della vita quotidiana - sono giusti per chi li commette. C'è dietro sempre l'intento di difendersi da un torto subito, di rivendicare dei diritti violati o di affermare i propri sacrosanti interessi. E' una giustificazione che non giustifica niente, ma vale a capire che un riflesso della natura rimane nelle nostre teste bacate se gli uomini accusati di comportamenti aggressivi rifiutano di essere delle bestie feroci (e in effetti non lo sono) e adducono le loro ragioni (che sono, di solito, peggiori di quelle delle bestie)

 XVIII. EMOZIONI E SENTIMENTI

La natura non ha testa, e, quindi, commette meno errori di noi che ce l'abbiamo. La comparsa nella scala evolutiva delle emozioni, come s'è detto, determina una estrema variabilità comportamentale rispetto alle forme di vita preesistenti, per via del fatto che ogni individuo interpreta "soggettivamente" la situazione nella quale si trova. Impegnando gli animali a far questa fatica, occorreva dargli un contentino. E infatti, con le emozioni,  compare il sistema del piacere  e della ricompensa. Stratagemma sottile, per quanto insidioso, come s'è detto parlando dell'autostimolazione. Stratagemma coercitivo, perché impone a ogni animale di darsi da fare per raggiungere, in rapporto alle sue potenzialità e alle opportunità offerte dall'ambiente, un benessere ottimale. Stratagemma che, infine, rende conto dell'irrequietezza e del disagio di un sacco di gente: sia di quelli che le potenzialità non sanno neppure di averle, sia di quelli che mirano solo alla sicurezza e a star tranquilli, sia di quelli che si danno un bel po' da fare ma sempre e solo in direzione di un obbiettivo unilaterale.

E già, ma dall'altra parte del piacere c'è il dolore, dall'altra parte della quiete  l'ansia, e dall'altra parte dell'amore la rabbia, l'odio,  la vendetta (o viceversa per quelli che ci tengono a essere duri). Visto che si trovava, la natura non poteva farci uno sconto riducendo un po’ l’ampiezza dei registri emozionali e togliendo via quello che ci disturba? Non avrebbe potuto poiché le polarità emozionali sono le facce di una stessa medaglia, inseparabili e tutte funzionali alla vita. Se  fossimo immersi in una quiete perenne anche nel momento in cui la terra ci si muove sotto i piedi, se rimanessimo felici come pasque quando subiamo una delusione o un lutto,  se non fossimo capaci di condividere le sventure e i dolori altrui, se non avessimo la capacità di arrabbiarci e di odiare le ingiustizie, gli arbitri, le sopraffazioni, saremmo ebeti.

La qualificazione delle emozioni avversative (la rabbia con gli annessi e connessi) come negative, vale a dire il pregiudizio che le imparenta alla cattiveria, è un bel paradosso, non privo di significato. Gli Ebrei consideravano la rabbia un attributo del Dio di giustizia, ma non pensavano di certo che fosse malvagio (per quanto i sette castighi di Egitto, colpendo degli innocenti a posto dei loro capi, qualche dubbio potevano ingenerarlo). Anche il Figlio di Dio non scherza. Le maledizioni che scaglia sugli scribi e sui farisei - serpenti, razza di vipere, sepolcri imbiancati e via dicendo - non sono un esempio di tolleranza, tanto più che si concludono con la condanna all'inferno (che è un po' più della pena di morte). Né è tollerante quando afferma che, in nome della verità e della giustizia, 'il fratello darà a morte il fratello, e il padre il figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire'56 . E' una metafora, d'accordo, ma parecchio incisiva. Segno che all'epoca, la rabbia e l'odio avevano una loro dignità. Erano colte l'una come espressione di una sacrosanta indignazione contro il fariseismo (che, sotto forma di culto delle apparenze ingannevoli e vuote di significato, è un male permanente), l'altro come strumento essenziale di liberazione e di differenziazione rispetto al soffocamento dei doveri parentali che obbligava a rispettare le tradizioni. Sicchè la contraddizione col comandamento dell'amore reggeva. E poi? Il messaggio si è sdilinquito al punto che è venuto meno il riferimento al fatto che, per amare intensamente qualcosa – l’uomo, la verità, la giustizia -, bisogna per forza odiare qualcos'altro che la minaccia – l’oppressione dell’uomo sull’uomo, l’ipocrisia, l’ingiustizia . E' diventato la sponda dei benpensanti, sicchè, quando è stato ripreso, mutatis mutandis,  da uno57 che non sopportava il fatto che tre quarti dell’umanità dovesse soffrire per fare stare bene l’altro quarto, è stato facile accusarlo d'essere solo un sobillatore, un fomentatore d'odio, un criminale. Vada a genio o meno, le emozioni negative riconoscono la loro matrice nel senso innato di giustizia con cui ogni uomo viene al mondo. 

Certo, si danno degli inconvenienti. Capita che la rabbia sbagli del tutto il bersaglio, che l'odio dell'ingiustizia porti a farne una peggiore, che la vendetta, forma primaria di giustizia, si spiralizzi, perché non c'è accordo su chi è stato il primo a fare il danno. Il nostro mondo, da questo punto di vista, è tutto una spirale. Ma prendersela con il corredo emozionale umano è un non senso. Le emozioni di base sono come i colori primari. Su di essi, impastando e reimpastando, e aggiungendoci cognitivamente dei valori culturali, gli uomini hanno costruito i sentimenti. Una gamma infinita che gli specialisti tentano invano da anni di classificare. Ne hanno individuati circa duecento, vocabolario alla mano, e lì si sono fermati perché l'analisi dei sentimenti è un bel rompicapo.

Prendiamone uno, la vergogna. Già definirla è un problema. E' un sentimento imparentato con l'imbarazzo, col sentirsi a disagio, col sentire esposto qualche aspetto di sé (che si ritiene disdicevole) a un giudizio negativo. Un fondamento emozionale, che mette in gioco contemporaneamente il registro del dolore e quello dell'allarme, ce l'ha di sicuro, perché anche i cani, quando vengono tosati, sembrano stare a disagio, e le scimmie, se colte in fallo, si coprono gli occhi. Nell'uomo naturalmente le cose si complicano. Intanto perché la vergogna può essere provata in pubblico e in privato. C'è chi si vergogna dentro di sé anche per quello che sente o che pensa e che nessun altro potrà mai conoscere. E poi perché la vergogna mette in gioco valori culturali complessi quali il pudore, la convenienza, l’adeguatezza, il rispetto degli altri e via dicendo. E' un sentimento insomma che dipende da ciò che in una determinata società viene approvato o disapprovato, ritenuto conveniente o sconveniente, consentito o pregiudicato.

Qui cade l’asino.  I valori culturali infatti cambiano nel corso del tempo, ma in una società complessa, stratificata storicamente come la nostra, se ne danno di molteplici che fanno a botte tra di loro. Se una donna entra in chiesa con le braccia nude viene redarguita e messa fuori,  perché Dio non vuol saperne di come l'ha fatta (e, per via di Eva, si è pentito). Deve insomma vergognarsi. A un matrimonio di famiglie altolocate in pieno luglio sono però consentite, trattandosi di una festa, scollature di ogni genere. Date le circostanze,  Dio chiude un occhio, e il pudore diventa una variabile.

In nome dell'immagine dell'azienda, i managers devono portare rigorosamente giacca e  cravatta, e vergognarsi se, alla riunione del consiglio di amministrazione, gli salta un bottone. L'a plomb viene meno quando palpeggiano il sedere delle segretarie. Devono farlo del resto. Se si diffonde la voce che non ci provano mai, rischiano di fare una brutta figura.

Il funzionario del Ministero dei Lavori Pubblici che, all’epoca di Tangentopoli, non si è arricchito, ha la coscienza pulita, ma sa bene che il portiere e alcuni vicini, preso atto che non ha una villa al mare, una in montagna e lo yacht, lo ritengono un fesso.

E quel passante che, preda della compassione, allunga mille lire alla zingara che si porta attaccati al collo due bambini ai quali ha insegnato a fare gli occhi da pesce morto, non si vergogna di dare dei soldi ai ladri e di mancare di rispetto a tutti quelli che sono stati derubati?

I sentimenti insomma sono un mix di valutazioni emozionali e cognitive influenzate dai valori culturali correnti: sono  prodotti culturali, da prendere con le molle. Questo è ancora più difficile che per le idee, perché l'immediatezza del sentire ci inganna, sembra venire proprio dalle viscere. Ma non è così: anche il sentire individuale è impastato di storia sociale. Di sentimenti universalmente validi però  ce ne sono  - dicono i conservatori. Macchè!

Prendiamo l'amore materno. In natura esiste solo come emozionalità programmata. Una cagna mette al mondo una nidiata di cuccioli. Uno, identificato come debole, lo spinge via quando tenta di succhiare e lo lascia morire (è un dovere, questo, nella logica della natura). Gli altri li cura scrupolosamente, fino al punto che, per difenderli da un predatore, è disposta a dare la vita per essi. Un dovere anche questo al quale nessuna cagna, ma proprio nessuna si sottrae. Intorno al terzo mese, però, il programma si esaurisce, viene meno il riconoscimento parentale, i figli vengono allontanati, e ciascuno deve vedersela da sé. E' la legge della vita, fino a un certo livello dell'evoluzione. Se passiamo alle scimmie, laddove il riconoscimento parentale si mantiene,  il discorso è diverso: questi sì che sono animali che sanno amare. Vita natural durante i genitori hanno un debole per i loro figli, senza essere possessivi, e senza escludere dallo spidocchiamento gli altri.

A livello umano le leggi di natura funzionano, ma possono essere anche sovvertite. A una madre nasce un figlio sano, e lo scarica nel cassonetto, visto che non esiste più la ruota dei monasteri. Madre snaturata? Sarebbe più giusto dire madre umana acculturata e quindi libera rispetto alle leggi di natura. Tanto che l'amore materno viene ad essere rimosso, quasi sempre, dalla vergogna sociale,  un sentimento complesso prodotto dalla cultura che impone alla madre il calcolo delle opportunità (per esempio, se tenersi il figlio rischiando di far morire la madre di crepacuore, o se tenerselo e perdere il posto di cameriera a tempo pieno presso la famiglia benpensante). Ad un'altra madre nasce un figlio handicappato. Per legge di natura, dovrebbe buttarlo nel cassonetto, e, invece, fin dal primo giorno, pensa che quell'esserino ha bisogno di lei più degli altri, che ne avrà sempre bisogno, e si dispone a svolgere il suo ruolo di madre a tempo pieno e indeterminato. Snaturata anche questa,  a rigor di termini. Come la prima acculturata: capace di sentirsi in colpa laddove colpa non c'è e di accettare una riparazione interminabile. E allora è tutto chiaro: è la libertà che ci rende migliori e peggiori degli animali. E ci rende tali perché sui programmi emozionali naturali l'uomo costruisce la cultura. Li arricchisce di valori, nel bene e nel male.