L’introversione come modo di essere

(Vademecum sull'introversione)

Questo Vademecum serve come un primo approccio al problema dell’introversione e come introduzione alla lettura del saggio Timido, docile, ardente (Franco Angeli, Milano 2007).

1.

Ogni individuo è unico e irripetibile. L’analisi dei vissuti e dei comportamenti di diversi individui permette, però, di identificare alcune caratteristiche stabili e durature – i tratti – comuni a più di essi. Su questa base è possibile definire una tipologia, vale a dire un modello di personalità che può essere descritto astrattamente.

Se ogni individuo è unico e irripetibile, che senso ha una tipologia?

La tendenza a categorizzare è un bisogno intrinseco all’esperienza umana. Ogni soggetto, in ultima analisi, categorizza se stesso attribuendosi alcune qualità e alcuni difetti che concorrono a dotarlo di un’immagine interna. Nel relazionarsi agli altri, egli tenta, poi, di inquadrarli, di capire come sono fatti: anche senza saperlo, insomma, li tipologizza.

Assumendo tra i suoi oggetti la personalità, la psicologia non ha fatto altro che trasporre quella tendenza su di un piano scientifico.

Nel corso della sua storia, essa ha prodotto numerose tipologie sulla base dell’identificazione dei tratti più diversi. Nessuna teoria della personalità finora ha raggiunto uno statuto tale da essere riconosciuta come modello di riferimento dagli studiosi. C’è un solo dato sul quale consentono tutti gli psicologi: l’universalità del tratto estroversione/introversione.

Non è difficile capire perché tale tratto sia identificabile ovunque nello spazio e nel tempo.

Ogni coscienza individuale vive nell’interfaccia di due mondi: quello esterno, su cui è affacciata attraverso i sensi, e quello interno, che viene recepito come “sede” della propria identità. Il tratto estroverso/introverso, sul piano immediato, significa semplicemente che alcuni soggetti sembrano più attratti dal mondo esterno, altri da quello interno: gli uni pensano, sentono e agiscono sulla base dei dati che arrivano dal mondo esterno; gli altri filtrano attraverso il mondo interno tali dati e danno ad essi significati soggettivi.

Operata e valorizzata originariamente da Jung, la distinzione tra estroversione e introversione va, oggi, ripresa e approfondita perché, nel nostro mondo, l’introversione si è venuta sempre più a configurare come un tratto negativo della personalità. Essere introverso significa né più né meno essere chiuso, solitario, poco comunicativo, timido, insicuro, impacciato, inadeguato, ecc. Purtroppo, tale pregiudizio è spesso condiviso anche dagli  introversi, che vivono con una consapevolezza dolorosa la propria diversità e fanno il possibile per mascherarla e/o negarla, cercando di omologare il proprio comportamento a quello degli altri.

Il pregiudizio incide anche a livello pedagogico, perché, in vari modi, i genitori e gli insegnanti, identificato un bambino come introverso, sentono il dovere di aiutarlo ad estrovertirsi, a socializzare, a normalizzarsi, ecc.

Le conseguenze del pregiudizio sociale sull’introversione sono serie perché gran parte degli introversi convivono con un oscuro malessere e non pochi di essi manifestano disturbi psichici di vario genere.

Si tratta - come sostengono alcuni psicologi e psichiatri - di una conseguenza intrinseca alla “vulnerabilità” del corredo genetico introverso, o del prodotto dell’interazione con un ambiente sociale e culturale che non facilita lo sviluppo delle potenzialità introverse?

La risposta dipende da una definizione la più chiara possibile del mondo d’essere introverso.

2.

Estroversione e introversione sono due componenti, geneticamente determinate, normalmente presenti in ogni personalità. Non esistono di conseguenza forme pure dell’una e dell’altra. La distribuzione genetica delle due componenti si realizza attraverso uno spettro di combinazioni indefinito, all’interno della quale si dà  la prevalenza dell’una sull’altra.

Quando si parla di estroversione o di introversione si fa riferimento, dunque, al tratto prevalente.

Da molti dati si ricava che, nella popolazione, la prevalenza della componente estroversa è maggioritaria, mentre quella introversa riguarda all’incirca il 5-7% della popolazione stessa.

In quanto di natura genetica, la prevalenza del tratto estroverso o introverso determina dei vincoli allo sviluppo, che hanno però un certo grado di elasticità. Nel corso della vita, un introverso può in una certa misura estrovertirsi e un estroverso introvertirsi.

La nozione di spettro vale anche in riferimento all’insieme degli individui nei quali un tratto è prevalente. Tale tratto, infatti, può essere più o meno spiccato in rapporto alla componente di segno opposto. L’introversione è, dunque, una banda minoritaria sull’insieme della popolazione che tende a sfumare verso l’estroversione.

Al di là del pregiudizio sociale, le caratteristiche che si possono ritenere specifiche del genotipo introverso sono le seguenti:

Nessuno di queste caratteristiche in sé e per sé si può ritenere assolutamente specifica. La loro combinazione, sia pure in forme le più diverse, differenzia più o meno nettamente il modo di essere introverso da quello estroverso.

Anche solo tenendo conto delle caratteristiche elencate, appare evidente che l’introversione è una condizione potenzialmente ricca, ma anche problematica. Sentire intensamente, essere capaci di mettersi nei panni degli altri, avere un senso innato di dignità e di giustizia, essere inclini a riflettere sulla vita, essere dotati di una qualche creatività sono autentiche qualità. Esse però, confluendo univocamente nella tendenza a interrogarsi su se stessi, sugli altri e sullo stato di cose esistente nel mondo, “condannano” in una certa misura l’introverso a porsi dei problemi per tutta la vita, e a tentare di risolverli raggiungendo livelli sempre più elevati di consapevolezza e di comprensione della realtà.

Questa “condanna” a crescere emotivamente e culturalmente, a esplorare mondi e modi di essere possibili, è spesso mal vissuta dagli introversi, che, avvertendola come un peso, giungono ad invidiare coloro che vivono senza porsi troppi problemi.

Essa però va accettata perché solo facendosene carico e valorizzandola l’introverso giunge a sormontare la trappola dell’idealismo, che determina il rimanere fermo al riferimento al mondo così come dovrebbe essere e l’interagire con il mondo reale sul piano della delusione, dello sconcerto, dell’indignazione e della rabbia.

Anche facendosi carico della “condanna” a crescere e a coltivare se stesso, l’introverso raggiunge una certa maturità e un certo grado di autorealizzazione tardivamente rispetto alla media.

Non pochi introversi avrebbero vantaggio dal vivere a ritroso, cominciando dalla fine. Purtroppo la freccia evolutiva è quella che è e comporta una forte dipendenza dello sviluppo della personalità dalle circostanze ambientali.

3.

L’evoluzione della personalità introversa, anche in rapporto ad un ipotetico ambiente ottimale, comporta sempre un prezzo da pagare. Ciò è dovuto all’intensità e alla precocità del sentire,  sempre troppo ricco in rapporto agli strumenti cognitivi, vale a dire alla capacità di interpretare e dare senso a ciò che viene emotivamente intuito e registrato. Questo scarto è destinato, se tutto va bene, a ridursi progressivamente in virtù di canali cognitivi e culturali all’interno dei quali le emozioni possono scorrere senza grandi turbolenze e dispiegarsi in una gamma indefinita di sentimenti.

Una personalità introversa, se tutto va bene, non raggiunge un minimo di integrazione prima di un’età che va dai 25 ai 30 anni. Da questa epoca in poi, la crescita, se c’è l’intuizione del proprio modo di essere e del proprio “destino”, è pressoché continua e, superata una soglia critica, che varia da individuo a individuo, può dar luogo ad un’esperienza interiore, affettiva, sociale e culturale partecipata e profondamente appagante.

L’introverso adulto che ha avuto uno sviluppo poco o punto interferito dall’ambiente è un essere equilibrato e sostanzialmente sereno, riservato, signorile e delicato nei rapporti con gli altri, con una sfera di relazioni sociali intime sempre ristretta ma di grande profondità. Egli di solito coltiva interessi culturali e creativi piuttosto impegnativi, ma che sono per lui come l’aria che respira e dai quali ricava un appagamento spesso superiore alla pratica dei rapporti sociali e affettivi. Egli continua ad interrogarsi sul mondo, ma a partire da un atteggiamento di comprensione e di tolleranza, incentrato sulla consapevolezza che gli uomini tendono a dedicare troppo poco tempo alla vita interiore per essere saggi.

Purtroppo una condizione di autorealizzazione del genere, iscritta nel corredo genetico introverso, è eccezionalmente rara.

Gran parte degli introversi, infatti, rimangono letteralmente schiacciati dall’interazione tra le loro potenzialità, che comportano tempi e modi di sviluppo particolari, e le opportunità offerte o le richieste normative dell’ambiente socio-culturale.

Data la varietà dei corredi genetici introversi e quella degli ambienti di sviluppo, si possono realizzare tragitti di esperienza i più vari.

All’interno di questa varietà, però, sembra possibile identificare due carriere evolutive, riconducibili alla prevalenza del bisogno di appartenenza/integrazione sociale o di opposizione/individuazione

La prima carriera è quella dei bambini d’oro, letteralmente risucchiati dalle aspettative dei grandi e costretti a calarsi precocemente nella maschera di un falso io. In questa maschera, che li fa apparire precocemente maturi, essi riversano le loro potenzialità, ma, per essere quello che gli altri desiderano che essi siano, devono reprimere tutte le istanze oppositive che fanno capo ad un  bisogno di differenziazione e individuazione sempre spiccato.

La seconda carriera è quella degli introversi oppositivi, che avviano precocemente una guerra al mondo avvertendone tutte le contraddizioni e le irrazionalità prima ancora di riuscire a capirle, e, a forza di ribellarsi, impuntarsi, fare questione su tutto, vengono identificati come bambini e adolescenti difficili e talora intrattabili.

Mentre gli appartenenti alla prima categoria, sollecitati da esseri più o meno imperfetti, si sentono obbligati a realizzare un modello di perfezione, gli appartenenti alla seconda pretendono precocemente che il mondo sia perfetto, meno contraddittorio e irrazionale di quanto è.

Entrambe queste carriere sono a rischio.

I bambini d’oro, se non interviene, dall’adolescenza in poi, una crisi, rischiano di rimanere cristallizzati in una maschera perfezionistica, che può assicurare loro molte conferme sociali, ma al di sotto della quale si dà l’intuizione  di tutto ciò che non si è mai espresso della propria personalità: l’intuizione, in breve, di qualcosa oscuramente percepito come terribilmente negativo.

Se sopravviene la crisi, essa si realizza su di un registro che va dalla perdita progressiva di efficienza al blocco delle prestazioni o, al limite estremo, allo sciopero volontario e all’isolamento come forma di protesta contro un regime di vita troppo faticoso.

Gli introversi oppositivi possono continuare, dall’adolescenza in poi, la loro guerra con il mondo sotto forma di disordini comportamentali di ogni genere, che spesso li portano sul terreno della devianza. Può accadere anche che, in conseguenza dei sensi di colpa accumulati in precedenza, essi vadano incontro ad una riorganizzazione ossessiva della personalità o sviluppino dei sintomi (dalla depressione all’attacco di panico e al delirio persecutorio) che interrompono la loro carriera di ribelli e potenziali devianti.

4.

La frequenza con cui, a  partire da un corredo introverso, si realizzano le due carriere cui s’è fatto cenno fino ad esiti psicopatologici è piuttosto frequente. Posto che il bambino introverso non sa di essere tale né cosa significa esserlo, ci vuole poco a pensare che se l’ambiente non spingesse, anche inconsapevolmente, gli uni verso il perfezionismo e gli altri verso il ribellismo ad oltranza, quegli esiti potrebbero essere scongiurati.

Ma questo obbiettivo, che pure va ritenuto primario nell’ottica di una prevenzione del disagio psichico, non basterebbe a risolvere il problema dell’introversione nel nostro mondo.

La psicopatologia che si definisce a partire dal venire al mondo con un corredo introverso è la punta di un iceberg, il cui corpo è il malessere sordo, sotterraneo, più o meno serio che caratterizza l’esperienza di quasi tutti gli introversi.

Gli elementi che, in misura diversa da individuo a individuo, sottendono tale malessere sono:

In pratica, il prezzo da pagare in fase evolutiva, cui s’è fatto cenno, molto spesso si prolunga indefinitamente, per tutta la vita, e porta non pochi introversi a radicalizzare la loro avversione nei confronti del proprio modo di essere.

Nel nostro mondo, insomma, gli introversi, in genere, vivono male. Non si dà alcun motivo di considerare questa una fatalità. Si tratta di una congiuntura storico-culturale, dovuta al modello normativo, marcatamente estroverso, che governa la nostra società, all’adozione pressoché generale di tale modello da parte delle istituzioni pedagogiche (famiglia, scuola, ecc.) e alla difficoltà degli introversi di prendere coscienza del valore e dei limiti della loro condizione e di farsi carico del “peso” che essa comporta in termini di coltivazione di sé e di crescita emozionale e culturale.

Per sormontare quella congiuntura, occorre avere anzitutto le idee chiare sul valore e sui limiti inerenti il modo di essere introverso.

Il valore, riconducibile alle caratteristiche genetiche elencate all’inizio, è un valore potenziale. Quelle caratteristiche, infatti, sono omologabili ad un materiale da costruzione di eccellente qualità, che però richiede una cura e uno sforzo di grande portata per raggiungere una struttura di personalità integrata, realizzata e equilibrata. Per quanto concerne la cura, essa dipende in gran parte dall’ambiente evolutivo che deve porre l’introverso in grado di svilupparsi secondo i suoi tempi, i suoi modi e le sue linee di tendenza. Lo sforzo, viceversa, dall’adolescenza in poi, dipende dall’introverso stesso, dalla consapevolezza che egli ha della propria diversità e dall’intuizione che, al di là del confronto immediato con gli altri, egli, se segue la propria via, può pervenire ad un livello di autorealizzazione del tutto appagante.

I limiti dell’introversione non sono meno importanti del valore. Essi sono riconducibili fondamentalmente all’idealismo e alla ricchezza del patrimonio emozionale. 

L’introverso rischia sempre di rimanere irretito dal sogno di un mondo nel quale gli esseri umani siano delicati e corretti, nel quale cioè la tendenza a farsi del male si riduca al minimo. Si tratta di un nobile sogno che sovrappone, però, al mondo così com’è il mondo così come dovrebbe essere, e fa di quest’ultimo, anziché un obiettivo storico-culturale verso cui procedere, un modello alla luce del quale viene giudicato il primo.

In conseguenza di questo sogno, l’introverso si ritrova spesso a tentare di realizzarlo in proprio orientandosi verso il perfezionismo, vale a dire orientandosi verso un regime di vita che comporta eccessive richieste che egli rivolge a se stesso.

Allorché quel modello viene utilizzato per giudicare gli altri, è inevitabile che si definisca un atteggiamento ipercritico nei confronti dello stato di cose esistente nel mondo, che va dall’indignazione all’intolleranza e alla rabbia .

L’emozionalità esuberante che, cogliendo gli aspetti più sottili e significativi della realtà, richiede adeguati strumenti cognitivi e culturali atti a dare senso ad essa, nel suo spessore e nella sua contraddittorietà, rimane spesso, soprattutto per quanto concerne il senso di giustizia, vincolata ad uno stato nascente che la rende disfunzionale. L’introverso sente troppo, ma rischia, in difetto di una strutturazione della personalità ricca e articolata, nell’ambito della quale le emozioni scorrano entro canali di comprensione del mondo, di avere una percezione dolorosa e frustrante di se stesso e degli altri.

5.

C’è un grande lavoro da fare per riscattare l’introversione dal pregiudizio da cui essa è investita nel nostro mondo, per restituire agli introversi la coscienza della loro diversità e per metterli in condizione di procedere verso un’autorealizzazione affrancata dal modello normativo dominante.

La LIDI nasce sulla base della convinzione che tale lavoro spetta sostanzialmente agli introversi, alla loro capacità di riconoscersi, di organizzarsi e di lottare, dentro e fuori di sé, contro il pregiudizio sociale che investe il loro modo di essere, ponendo i presupposti di una nuova cultura sull’uomo che valorizzi la diversità anziché tentare di omologarla.

E’ ovvio che questa nuova cultura dovrà investire anzitutto l’ambito in cui gli introversi corrono i rischi maggiori di subire danni e di non riuscire a prendere coscienza della loro diversità: l’ambito, dunque, dell’allevamento e dell’educazione.

Essa potrà di sicuro anche coinvolgere introversi adulti che vivono il loro oscuro malessere senza riuscire a farsene una ragione e adottando di solito strategie normative che sono rimedi peggiori del male.

Se la finalità primaria della LIDI  è rivolta a ridurre il peso del disagio con cui gli introversi vivono nel nostro mondo, sarebbe ingenuo non tenere conto che essa ha e non può non avere un obiettivo ancora più ambizioso. Si tratta, infatti, di estendere a tutti gli esseri umani il “dovere”, conseguente alla complessità del loro apparato mentale, di coltivare la vita interiore, di riflettere sulla vita e di sviluppare la loro individualità in maniera differenziata, interagendo criticamente con i codici normativi, i pregiudizi, i luoghi comuni, ecc.

L’utopia di un mondo fatto a misura d’uomo non ha alcuna possibilità di realizzarsi finché gli esseri umani non giungereranno a produrre una cultura che valorizzi piuttosto che mortificare la loro natura e la loro diversità.

[Luigi Anepeta]

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