Sull’inadeguatezza


Il vissuto di inadeguatezza è forse, in assoluto, sia pure in gradi diversi, il più rappresentato e il più tormentoso nella soggettività degli introversi. Dedicare ad esso attenzione, oltre a poter esser di aiuto a qualcuno, permette di portare avanti la riflessione su questo singolare modo di essere.

Sentirsi inadeguati significa sentirsi a disagio, inferiori, non all’altezza delle situazioni, impacciati nel parlare e nell’agire, non disinvolti e non padroni di sé come gli altri. Il vissuto di inadeguatezza si esaspera di fatto in rapporto all’esposizione sociale, ma può perseguitare il soggetto anche quando sta da solo e riflette su se stesso. Talora questo dipende dalla tendenza a rievocare situazioni sociali già vissute e vergognarsi del comportamento esibito. Altre volte, il vissuto prescinde dai ricordi, e fa riferimento a limiti personali sentiti come incompatibili con lecircostanze e le richieste dell’ambiente.

Per analizzare questo vissuto, un primo passo consiste nel consultare i Dizionari. L’uno vale l’altro, perché, con rare eccezioni, la definizione dei termini inerenti la psicologia (come è già stato comprovato dall’analisi dei termini introverso e estroverso) è descrittiva, vale a dire un po’ appiattita sul senso comune.

Dalla consultazione si ricavano le seguenti definizioni:

Inadeguato

Sproporzionato, inferiore alla necessità, insufficiente; di persona che non è all’altezza

Sin. Inidoneo

Comp. di in-+adeguato

Adeguato

Conveniente, adatto; proporzionato, giusto

Sin. idoneo

Adeguare

1. Rendere uguale, pareggiare; conformare: a. il proprio comportamento alle circostanze; proporzionare

2. paragonare, valutare uguale

Adeguarsi

Conformarsi, adattarsi

Dal lat. Adacquare, composto di ad+aequare, “uguagliare”. Derivato di equus, “equo, uguale”

E’ tutto molto ovvio, ma la trama semantica consente qualche osservazione interessante. Si intrecciano, infatti, in essa due diverse categorie: l’uguaglianza e l’adattamento. Adeguato significa, per un verso, uguale a qualcuno nelle potenzialità, nelle doti, nelle competenze, ecc.; per un altro, conforme sul piano del comportamento ad un modello che evoca un giudizio sociale di “normalità”.

Tenendo conto di questi due aspetti, verrebbe da pensare che se gli introversi valutassero realisticamente le loro doti e accettassero i limiti della loro condizione, potrebbero vivere meglio di come vivono. Di fatto, invece, il vissuto di inadeguatezza è una sorta di “tarlo” continuo, che, in alcuni momenti e in rapporto a determinate situazioni di esposizione sociale, diventa un incubo.

E’ del tutto evidente che ciò dipende dalla cattura che il modello normativo corrente (estroverso e estrovertito) esercita sulla loro soggettività. Ciò significa, in altri termini, che essi, adottandolo, sono spinti a valutare se stessi quasi solo in riferimento al comportamento sociale che, tra i vari parametri cui ho fatto cenno nell’articolo sull’immagine interna, è quello che il modello dominante tende a privilegiare.

Questa valutazione univoca incide, poi, su tutti gli altri parametri. Il non riuscire a parlare in pubblico, per esempio, giunge a significare non avere nulla di importante da dire, nulla che non esponga la propria pochezza riflessiva.

Sulle conseguenze globali dell’interiorizzazione del modello normativo vigente nella nostra società tornerò ulteriormente.

Nell’immediato è importante ricostruire i momenti evolutivi che consentono di spiegare i modi in cui avviene l’interiorizzazione.

2.

Nel saggio Timido, docile, ardente ho scritto:

“Il bambino introverso è straordinariamente ricettivo nei confronti degli educatori, e questo vale sia per i loro insegnamenti, che vengono presi alla lettera, sia per i loro vissuti e stati d’animo. Dotato solitamente di una straordinaria capacità intuitiva, egli registra quello che gli adulti sentono, pensano e si aspettano, anche a livello inconscio. Talora, addirittura, egli sembra vivere in presa diretta con l’inconscio degli adulti più che con la loro coscienza. Quest’aspetto non sarà sottolineato mai abbastanza. Alcuni studiosi pensano che l’introversione comporti una rilevante difficoltà di sintonizzarsi con la soggettività degli altri, di capire il loro mondo interno. In realtà sembra vero il contrario. L’intuizione introversa coglie gli aspetti profondi, inconsci della soggettività altrui. La vera difficoltà sta, forse, nell’interpretarli, dato che essi sono spesso contraddittori.

La sensibilità sociale rende, in genere, il bambino introverso facile da educare. Non c’è quasi bisogno di dirgli quello che egli deve o non deve fare: egli lo sa perché cattura le aspettative e le idiosincrasie degli educatori, delle quali si fa immancabilmente carico. La tendenza ad accondiscendere i desideri degli adulti ha un duplice fondamento. Per un verso, il bambino introverso è letteralmente terrorizzato dalla paura di dispiacere, ferire, dare dolore: è insomma naturalmente scrupoloso. Per un altro verso, egli, in misura superiore agli altri, ha una percezione illusionale, mitica dei grandi. Stravede per loro, ai quali attribuisce – talora contro l’evidenza – straordinarie qualità, e dà per scontato che essi siano pressoché perfetti. La percezione illusionale comporta anche la convinzione che essi sanno sempre quello che fanno e perché lo fanno.”

Penso che sia opportuno partire da quest’ultimo aspetto.

Tutti i bambini hanno una percezione illusionale degli adulti. Si può senz’altro pensare che ciò dipenda dalla presenza, a livello inconscio, di immagini archetipiche del Padre e della Madre. Al di là di questo, occorre considerare però anche altri fattori. Il più banale è un fattore percettivo. Da quando cominciano a camminare, i bambini vedono gli adulti dal basso in alto. La prospettiva, ovviamente, ingigantisce questi ultimi. Un genitore più basso della media può, pertanto apparire, agli occhi del figlio, gigantesco.

Un secondo fattore è legato alle competenze di cui dispongono. Tali competenze possono essere assolutamente banali – dal leggere allo scrivere al disegnare al sollevare pesi, ecc. -, ma agli occhi del bambino, che non le ha ancora acquisite, esse appaiono univocamente straordinarie. E’, in un certo qual modo, quello che accadeva fino a qualche decennio fa agli analfabeti che, in presenza di persone capaci di leggere e scrivere, si chiedevano “come facessero”, ignorando che la capacità di alfabetizzarsi è specie-specifica.

A questi fattori, che si possono definire universali, ne va aggiunto uno, intrinseco al modo di essere introverso.

L’attribuzione agli adulti di qualità straordinarie rappresenta la proiezione su di essi di un bisogno intrinseco: quello di individuarsi su di un registro che comporta la piena realizzazione delle proprie potenzialità, quindi di una “grandezza” che va al di là dell’adattamento normativo.

L’esistenza di questo “strano” bisogno, che privilegia l’autorealizzazione rispetto all’adattamento al mondo così com’è, e quindi un’individuazione creativa, è attestato dalle molteplici circostanze di vita adulte nel corso delle quali, negli introversi, si definisce uno scarto tra le condizioni oggettive di vita, talora a tal punto positive da essere invidiate dagli altri, e un malessere soggettivo persistente riconducibile ad una quota del bisogno di individuazione rimasta frustrata.

I fattori cui ho fatto cenno consentono di comprendere la frequenza con cui gli introversi sviluppano un orientamento perfezionistico. Tale orientamento attecchisce, infatti, facilmente sul terreno della sensibilità introversa, ma, per effetto dei fattori citati e delle influenze ambientali, implica la confusione tra il divenire se stessi attraverso un impegno creativo e l’essere perfetti.

Sia esso di ordine morale o sociale, il perfezionismo implica un modello di misura irraggiungibile, che però il soggetto non vive come un miraggio, bensì come un obbiettivo da perseguire per non sentirsi inadeguato e privo di valore. L’obbiettivo del perfezionismo morale è, né più né meno, uno stato di santità identificato con l’altruismo e l’assoluta innocenza, vale a dire il non essere di danno agli altri in alcun modo. Tale obbiettivo prescinde da una fede religiosa, che può esserci o non esserci. Esso, però, dipende spesso da un’educazione religiosa, anche semplicemente riferita al catechismo. La sensibilità introversa comporta infatti l’interiorizzazione dell’altruismo radicale e il modellamento della sensibilità in termini di scrupolosità, tali per cui un eventuale danno fatto agli altri, anche inconsapevole e anche semplicemente dovuto ad una frustrazione delle aspettative altrui, attiva un senso di colpa.

Il perfezionismo sociale ha, invece, negli introversi, come obbiettivo, più che il denaro e il successo, la manifestazione di competenze umane, culturali e professionali, adeguate a promuovere una conferma. Il problema, per questo aspetto, è che l’obbiettivo implica competenze massimali, al di sotto delle quali si attiva il vissuto di disvalore, e che le competenze in questione fanno riferimento ad un modello normativo che implica l’adozione di comportamenti non congeniali (il frenetico darsi da fare, l’investire tutte le energie in una direzione produttiva, lo spirito pratico, il sapersi “vendere”, ecc.). Alla luce di tale modello, la resistenza opposta dall’individuazione, che ostacola ogni forma di omologazione, viene vissuta come inadeguatezza piuttosto che come incapacità di adattarsi ad un modo di essere estraneo.

3.

Il perfezionismo, dunque, conscio e inconscio, è la matrice univoca del vissuto di inadeguatezza. Detto questo, però, occorre aggiungere alcune riflessioni che chiariscono meglio il problema.

I codici perfezionistici, sia di ordine morale che sociale, hanno una caratteristica comune. Essi fanno riferimento, infatti, ad una scala che riconosce solo valori estremi: in pratica, un valore infinito e un altro nullo. E’ evidente che nessun uomo ha un valore infinito e nessuno un valore nullo. Il valore di un individuo, posto che sia misurabile, rientra nello spettro continuo dei valori intermedi che si danno tra gli estremi. Prendendo per buona quella scala, e non considerando i valori intermedi, gli introversi sono costretti a prendere atto che, non essendo il loro valore infinito, esso non può che essere nullo.

Un altro aspetto importante è che la scala in questione, in particolare quella sociale, fa riferimento ai comportamenti sociali piuttosto che all’essere della persona nella sua globalità.

L’importanza di questo aspetto non può essere minimizzato. Se ci si chiede, in rapporto ad un vissuto di inadeguatezza, inadeguato rispetto a chi la risposta è semplice: rispetto ad un individuo che incarna alla perfezione il codice normativo dominante. Se ci si chiede, invece, inadeguato per quale aspetto, la risposta è complessa. La scala in questione non discrimina infatti i vari aspetti della personalità e i vari piani su cui essa si esprime, a livello soggettivo e sociale. Essa tiene conto solo del comportamento oggettivo, socialmente percepibile, che può essere valutato dall’esterno.

Purtroppo gran parte degli introversi cadono in questa trappola e valutano se stessi alla luce di come appaiono agli altri e di ciò che questi possono pensare. Ancora peggio, fanno propri e convalidano i presunti giudizi sociali.

Oggettivamente, per fare un esempio, un soggetto che non parla in pubblico non ha alcunché da dire. Molti introversi, che hanno una vita interiore estremamente ricca, non riescono a parlare in presenza di più persone o perché si vergognano o perché ritengono assolutamente banale ciò che gli altri dicono. La vergogna è una conseguenza del perfezionismo, il quale implica che solo chi ha cose straordinarie da dire è autorizzato ad aprire bocca senza esporsi ad una brutta figura. Anche il giudizio di banalità riferito a ciò che gli altri dicono è riconducibile allo stesso metro perfezionistico: esso, però, pur essendo severo, coglie un aspetto della vita sociale reale. Molte persone aprono la bocca e danno ad essa fiato.

Ciò nondimeno, il non parlare in pubblico attiva nei soggetti introversi un vissuto di inadeguatezza, e li induce a pensare di essere persone che valgono meno degli altri perché non hanno nulla da dire.

Il giudizio oggettivante non cede neppure di fronte al fatto che, laddove, in un ambito duale o ristretto, si definisce una sintonia comunicativa, gli introversi riescono a parlare e a farsi apprezzare fino al punto, talvolta, di destare meraviglia in chi prima li valutava solo in rapporto all’apparenza.

Il non parlare in pubblico è ritenuto un segno di disvalore all’interno di una società e alla luce di un codice culturale che assume la capacità di public relation come un indizio essenziale di adeguatezza. L’avere o meno cose sensate (non straordinarie da dire) è ritenuto un aspetto secondario.

Questa stessa analisi può essere estesa a tutti i vissuti di inadeguatezza di cui soffrono i soggetti introversi, i quali cadono nella trappola del giudizio sociale normativo senza tenere conto che ogni personalità può essere adeguata per alcuni aspetti, su alcuni terreni e in alcuni contesti di rapporto, e inadeguata su altri.

4.

L’interiorizzazione del codice normativo dominante è dunque la matrice del vissuto di inadeguatezza che affligge gli introversi. Tale interiorizzazione diventa psicologicamente disastrosa perché essi traducono quel codice in un Ideale dell’Io perfezionistico, che vedono (illusoriamente)realizzato per molti aspetti dagli altri e del tutto inattingibile per quanto li riguarda.

L’inattingibilità, di fatto, si riconduce al perfezionismo del modello, soprattutto per quanto concerne la dimensione morale, non meno che alla sua estraneità rispetto al modo di essere introverso, per quanto riguarda la dimensione sociale.

Sarebbe ingenuo, però, non considerare che, oltre ad essere in attingibile, tale modello è anche inconsciamente avversato e boicottato.

Nell’articolo sul perfezionismo, ho sottolineato che l’opposizionismo, più o meno cosciente, è una valenza intrinseca ad ogni esperienza irretita da un Ideale dell’Io che contrasta con la natura umana e/o con il modo di essere di una determinata persona.

Il perfezionismo morale attiva l’opposizionismo poiché esso, promuovendo una disponibilità altruistica senza limite, mortifica il bisogno che ogni soggetto ha di tenere conto, oltre che degli altri, anche di se stesso, dei suoi diritti e dei suoi bisogni. Il paradosso del perfezionismo morale è che il soggetto si identifica con gli altri, soprattutto se essi soffrono, ma “dimentica” che la matrice dell’identificazione è il suo sperimentare se stesso come vulnerabile e bisognoso. Dedicandosi agli altri, egli viene meno ai suoi doveri nei suoi stessi confronti. E’ questo tradimento ad attivare l’opposizionismo, che spesso si traduce nella fantasia di diventare insensibile e indifferente in rapporto a tutto il mondo.

Il perfezionismo sociale attiva l’opposizionismo perché, nonostante il fascino cosciente dell’introverso nei confronti di coloro che appaiono pienamente adeguati al mondo delle public relation, egli, in realtà, ne coglie anche la superficialità il narcisismo, la presunzione, l’arroganza, ecc. Il fascino cosciente è insomma compensato da un giudizio ipercritico, talora venato addirittura di disprezzo, che rende impossibile procedere verso la realizzazione del modello in questione.

Tenendo conto di questi aspetti, riesce chiaro che il vissuto di inadeguatezza fa capo ad una scissione dinamica tra un orientamento cosciente, catturato dal perfezionismo, che si protende verso un modello comportamentale che il soggetto identifica come soluzione del suo disagio, e un orientamento inconscio che, avversandolo, ne ostacola e boicotta la realizzazione. Ciò non significa che alcuni introversi, soprattutto a livello giovanile, non riescano a simularlo, mascherandosi e fingendo di essere altro da ciò che sono, talvolta sino al punto di mistificare la verità a se stessi. Si tratta, però, di sterili tentativi il cui unico risultato è di produrre, prima o poi, un collasso dell’io.

Non si rifletterà mai abbastanza sul fatto che i vissuti introversi, compresa l’inadeguatezza, possono essere spiegati solo sulla base di una scissione dinamica tra la cattura che il modello normativo esercita sulla soggettività e l’opposizione inconscia nei confronti di esso, che si attiva sulla base di una vocazione ad essere che va realizzata seguendo altre strade.

La ricostruzione di un’immagine realistica di sé, che tenga conto dei valori e dei limiti personali, può avvenire solo in virtù di un affrancamento dal codice culturale dominante, vale a dire privilegiando l’individuazione – l’essere secondo la propria vocazione – rispetto alla normalizzazione – l’essere ciò che la società impone di essere.

Non è un’impresa facile perché già in precedenza ho scritto che i codici culturali sono pervasivi e inquinano, in misura diversa, la soggettività di tutti coloro che appartengono ad una determinata società. Pur non essendo facile, però, l’impresa è possibile.

5.

Parlando di inadeguatezza, il pensiero va quasi automaticamente a F. Kafka. Ho pubblicato una psicobiografia dell’autore su entrambi i siti, alla quale rinvio il lettore. Qui cito solo l’essenziale.

L’esperienza di Kafka pone in luce, più di ogni altra, quello che, nel saggio sull’introversione, ho definito una congiuntura genetica. Da un padre dedito totalmente al commercio e di modesta levatura culturale, nasce un figlio che eredita per linea materna, oltre la sensibilità, il senso della giustizia e l’irrequietezza (emozionale e intellettiva), anche una spiccata attitudine alla riflessione e alla scrittura. Il conflitto con il padre è inevitabile, non l’esito del conflitto.

La citazione è la seguente:

“L'estraneità fisica e psichica rispetto al padre - il dramma che segnerà la sua esperienza psicologica - è radicale. Primogenito e unico maschio, il destino di Kafka è di portare avanti l'azienda paterna, che consta di una fabbrica e di un negozio al dettaglio. Egli è però un sognatore sprovvisto di qualunque senso pratico, non ama il commercio, non ha ambizioni di status.

Il padre non comprenderà mai le "stranezze" del figlio, in particolare non gli perdonerà mai il difetto di senso pratico, né avrà mai alcuna intuizione della sua genialità letteraria. Kafka il padre lo comprende: capisce che il suo desiderio di affrancarsi da una condizione originari socialmente umile e l'aspirazione ad un tenore di vita borghese, impegnandolo a soffrire, a lottare e a non arrendersi, lo hanno indurito e esaltato. Capisce anche che il suo orgoglio di self-made man lo ha indotto a considerare la tenacia, la forza di carattere, la capacità di lottare mirando a obbiettivi concreti come gli unici attributi degni di un uomo. Considera anche criticamente alcuni suoi tratti di carattere che hanno pesato nell'educazione:

"Ero un bambino timido eppure sarò stato testardo come tutti i bambini; mia madre mi avrà certo viziato ma non posso credere di essere stato particolarmente difficile da guidare, non posso credere che una parola gentile, una tacita stretta di mano, uno sguardo amorevole, non avrebbero ottenuto da me ciò che si desiderava. Ora, tu sei in fondo un uomo buono e tenero (ciò che segue non sarà in contraddizione perché parlo soltanto della figura con la quale agivi sul bambino), ma non tutti i bambini hanno la costanza e il coraggio di cercare la bontà finché la trovano. Tu puoi trattare un bambino soltanto secondo la tua stessa natura con forza, baccano e collera, e in questo caso tutto ciò ti sembrava molto adatto perché volevi fare di me un ragazzo forte e coraggioso" (p. 19).

Si tratta di una critica benevola, che sottolinea una diversità insormontabile. Ciononostante, Kafka vede nel padre un esempio ammirevole e supremo di normalità, lo assume come modello, e misura se stesso alla luce di tale modello. L'esito è devastante: per tutta la vita, egli è perseguitato da un vissuto di totale inadeguatezza e inettitudine a vivere che, in alcuni momenti, lo porta sull'orlo della disperazione. "Non sei idoneo alla vita": l'inappellabile verdetto che Kafka, nella celeberrima Lettera, attribuisce al padre, è di fatto un verdetto intimamente condiviso. Nulla più di questa condivisione esemplifica il pericolo intrinseco alla personalità introversa di assumere come metro di giudizio un modello inattingibile perché non congeniale e, spesso, inconsciamente addirittura disprezzato. In conseguenza di quella condivisione, al vissuto radicale d'inadeguatezza si associa in Kafka anche "una sconfinata coscienza di colpa" (p. 22), riconducibile al tradimento, al non poter essere quello che l'Altro (il padre, la società) si aspetta che egli sia.”

Inetto a vivere: tale si considerava Kafka assumendo come misura della normalità il modo di essere del padre. Egli, però, è passato alla storia, mentre il padre sopravvive solo perché il figlio gli ha scritto una lettera famosa e ha avuto il merito biologico di aver messo al mondo uno degli scrittori più importanti del Novecento. Se questo è vero, la possibilità di scampare all’abominio dell’inadeguatezza si dà per tutti gli introversi.