La "sindrome" di Robespierre

1.

Maximilien Robespierre era di sicuro un introverso. Nobile non di nascita ma  nei modi che, fino alla fine, appaiono contrassegnati da una naturale signorilità ed eleganza, egli, pur seguendo una carriera di studi e professionale fedele alla tradizione familiare, si imbatte precocemente in Rousseau e ne rimane profondamente, irreversibilmente influenzato. Attraverso il pensatore ginevrino, egli scopre ciò che è già implicito nel suo corredo genetico: l’uguaglianza degli uomini, il legame fraterno che si dovrebbe dare tra loro, e il terribile peso delle ingiustizie sociali. In nome di questa scoperta, prima di darsi alla politica, compie una scelta professionale significativa. Come avvocato, si pone a servizio degli umili, dei deboli, degli oppressi, e difende i loro diritti spesso contro i rappresentanti della classe cui egli stesso appartiene.

Quando intraprende la carriera politica, egli diventa il più accanito difensore dei principi rivoluzionari (Libertà, Uguaglianza, Fraternità) e si assume l’onere di realizzarli compiutamente. La sua utopia è splendidamente espressa in un discorso del febbraio 1794:

"Noi vogliamo sostituire, nel nostro paese, la morale all'egoismo, la probità all'onore, i principi alle usanze, i doveri alle convenienze, l'impero della ragione alla tirannia della moda, il disprezzo del vizio al disprezzo della sventura, la fierezza all'insolenza, la grandezza dell'animo alla vanità, l'amore della gloria all'amore del denaro, la buona gente alla buona compagnia, il merito all'intrigo, il genio al bello spirito, la verità al lustro, l'incanto della felicità alla noia della voluttà, la grandezza dell'uomo alla piccolezza dei grandi…"

E’ difficile non riconoscere immediatamente in questo progetto l’espressione del “sogno” che giace al fondo di ogni anima introversa: quella di un mondo nobile, giusto, affrancato dall’egoismo, anelante alla grandezza e alla felicità nel rispetto dei diritti altrui.

La realizzazione pratica di tale sogno urta, però, contro un ostacolo: esso, infatti, quando Robespierre arriva al potere sull’onda della fama della sua integrità morale e della saldezza dei suoi principi umanitaristici, non sembra facilmente condiviso dai conservatori e dai moderati, genia esistente in ogni contesto storico, le cui teste appaiono piuttosto impenetrabili al fascino di quei principi. Per Robespierre, anima sostanzialmente mite e niente affatto incline alla violenza, non c’è problema: basta tagliare le teste e il mondo è destinato a rigenerarsi.

E’ illecito, da un punto di vista storico, attribuire a Robespierre gli eccessi del Terrore, dovuti, in gran parte, a suoi collaboratori di temperamento tutt’altro che mite. E’ fuori di dubbio, però, che, anche se non era al corrente delle violenze che si perpetravano in nome della Rivoluzione, egli ha chiuso gli occhi su di esse.

La circostanza, destinata ad incombere come un marchio sul giudizio degli storici e siull’immaginario popolare (laddove si è prodotta l’identificazione di Robespierre come fanatico e spietato dittatore), è tanto più sorprendente se si tiene conto che egli, nel corso della sua vita, ha espresso più volte e in maniera vibrante un giudizio inappellabilmente contrario alla pena di morte. Nel suo intimo, dunque, il rispetto dell’altro in quanto persona dotata di inviolabile dignità è un valore assoluto.

Il paradosso che si dà, nella biografia di Robespierre, tra i principi e l’azione è degno di una profonda riflessione sul rapporto tra individuo e circostanze storiche. Per ora metto da parte questo tema perché questo articolo ha l’intento di ullimnare uno degli aspetti più densi di significato del modo di essere introverso.

Conio il neologismo “sindrome di Robespierre” per definire l’atteggiamento interiore nei confronti del mondo, e dei "normali", più consueto nei soggetti introversi. Inoffensivi, scrupolosi, compiti, corretti, ciò nondimeno numerosi introversi, nell’interazione con la realtà sociale, rimangono feriti dalla distanza, abissale per alcuni aspetti, che si dà tra il comportamento medio delle persone e il modello di riferimento, il “sogno” che essi albergano. La ferita, che si può verificare originariamente a livello familiare, ma si realizza inesorabilmente a livello sociale, è esasperata dal fatto che gli introversi, nonostante l’esperienza che fanno del mondo, rimangono sempre sorpresi dai comportamenti sociali che si ripetono attestando una scarsa delicatezza, più spesso inconsapevole che non consapevole, nei confronti degli altri.

Si tratta in genere di microtraumi, perché, eccezion fatta per i bambini o gli adolescenti introversi che vengono investiti da prese in giro, “giochi” pesanti e aggressioni fisiche, i comportamenti degli adulti con cui gli introversi si rapportano sono caratterizzati dalla superficialità e da una certa rozzezza. Non sono insomma violenti in senso proprio.

La microtraumaticità dell’esperienza sociale, però, ha degli effetti costanti e incisivi a livello interiore. Gli introversi reagiscono solitamente con rabbia allo scostamento dei comportamenti altrui da un sistema di valori ideale che essi vivono come assoluto e vincolante, equiparandolo ad una sorta di Decalogo scolpito sulla pietra. La rabbia si articola sul vissuto per cui nessuno dovrebbe permettersi di violare la Legge del rispetto nei confronti degli altri. Chi lo fa è dunque inesorabilmente colpevole e va punito.

Il problema è come indurre il rispetto della Legge. Inoffensivi, in genere gli introversi sono anche piuttosto in difficoltà quando si tratta di affrontare i conflitti interpersonali. Per un verso, pensano con timore ad un’esplosione di rabbia da parte degli altri cui non saprebbero contrapporsi. Per un altro verso, è la loro stessa sensibilità che li inibisce portandoli a pensare che gli altri, di fronte al rilievo della loro scorrettezza, potrebbero non già esplodere, ma sentirsi feriti, umiliati, ecc.

La scarsa capacità interattiva nulla toglie al fatto che i comportamenti contrastanti con la Legge rimangono intollerabili e sanzionabili. La punizione si realizza, pertanto, a livello interiore sotto forma di rabbia, odio e intolleranza. Solo raramente gli introversi si concedono di far scorrere a livello cosciente le fantasie che costantemente si associano alla rabbia e all’odio quando esse superano una soglia critica. Tali fantasie, infatti, realizzano puntualmente la sindrome di Robespierre: le persone che si comportano male e sono incorreggibili vanno eliminate, le loro teste tagliate.

Spesso, però, pur non concedendosi tali fantasie, che risuonano come ripugnanti, gli introversi fanno di peggio. Anziché elaborare le loro rabbie chiedendosi perché gli uomini si comportino mediamente in un certo modo, socialmente accettato ma di fatto “incivile”, essi si impongono di alimentarle. Ciò significa che, a seguito di un’interazione negativa con il mondo, essi la richiamano alla mente, la ruminano cercando di capirne il significato. Naturalmente, più fanno questo più la loro rabbia cresce e l’accaduto si configura come inaccettabile e intollerabile. E’ questa ruminazione a far sì che la rabbia sormonta una soglia critica al di là della quale essa si configura come cieca e tale da promuovere la fantasia di tagliare le teste.

Le conseguenze di questo perpetuo esercizio di valutazione negativa del comportamento medio delle persone ha degli effetti incisivi nel mondo interiore introverso. Esso, infatti, determina costantemente la produzione di sensi di colpa che si traducono in un marchio, a livello conscio e più spesso inconscio, di negatività e di cattiveria.

Questo è il motivo per cui, in genere, gli introversi convivono con due vissuti che sembrano contraddittori: di inadeguatezza, debolezza e inettitudine per un verso, e di cattiveria, malvagità e, al limite, pericolosità per un altro.

2.

Ci si può chiedere perché, se oggettivamente gli introversi hanno ragione nel rilevare la sostanziale rozzezza dei comportamenti altrui, essi incappano comunque nei sensi di colpa.

In alcuni casi, la risposta è semplice. E’ lo stesso Ideale dell’Io elevatissimo che porta a ritenere che determinati comportamenti poco rispettosi dei diritti altrui non dovrebbero essere agiti a promuovere un giudizio ipercritico e severissimo sulle fantasie che si associano alla rabbia. Anche se le fantasie, infatti, non si traducono mai in comportamenti, il fatto che si diano e siano a tal punto poco rispettose dei diritti altrui da identificare nel taglio delle teste la giusta punizione, difficilmente gli introversi scampano a sentirle come espressione di una parte selvaggia di sé.

Ma c’è anche un altro aspetto da considerare. L’amore per la giustizia, infatti, che promuove la rabbia giunge, infatti, attraverso l’alimentazione di questa, ad inibire a livello interiore l’empatia. Nel momento in cui l’introverso giunge a pensare o a fantasticare che sarebbe necessario eliminare dal mondo determinate persone (proprio secondo la logica di Robespierre), egli mortifica e tradisce l’empatia, che mantiene comunque il riferimento all’altro come persona.

Il senso di colpa è dunque un richiamo che muove dalla sensibilità sociale a non superare il limite al di là del quale, sia pure nel proprio intimo, l’altro diventa un “mostro” o una “cosa”.

Il conflitto che segna l’esperienza interiore di molti soggetti introversi si realizza, dunque, sulla base di un senso di giustizia spiccato, che riconosce la sua matrice nell’empatia, nel sentire la pari dignità e l’uguaglianza tra gli esseri umani, e una sensibilità sociale che viene anestetizzata dalla rabbia fino al punto di tradursi, sia pure a livello di fantasia, in un orientamento “sadico”.

3.

Più volte nei miei scritti ho rilevato che il senso di giustizia, la cui matrice è innata, rappresenta l’aspetto più specifico e differenziale del corredo emozionale umano. Esso implica, infatti, il riferimento all’uguaglianza, alla pari dignità e al diritto dell’uomo di noi essere oppresso da un altro uomo, vale a dire la libertà.

Ho rilevato anche che si tratta di un’emozione che raggiunge il suo autentico valore solo attraverso una maturazione che la integra con una capacità cognitiva che, prendendo atto del fatto che l’uomo è un prodotto della natura e il mondo storico-sociale un prodotto dell’attività umana, la trasforma in un’utopia, vale a dire in un obbiettivo verso cui tendere sia sul piano individuale che collettivo.

Nel nostro mondo, ciò che appare immediatamente evidente è che gli introversi rimangono vincolati ad un senso di giustizia primario, che lo trasforma in una sorta di Legge assoluta cui tutti gli uomini devono subordinarsi, mentre la media delle persone lo elabora in stretto riferimento ai propri diritti individuali (la cui soddisfazione può prescindere dai diritti altrui) e, peggio ancora, lo trasforma in un succedaneo esiziale: la giustificazione.

Su quest’ultimo aspetto occorre soffermarsi un attimo. Giustificare significa rendere giusto, far diventare legittimo o ammissibile ciò che altrimenti non lo sarebbe. Nel nostro mondo l’orientamento giustificazionista è divenuto a tal punto diffuso che ormai è difficile ottenere un’ammissione di colpa anche da parte di persone imputate di reati (per esempio finanziari). Nella vita quotidiana il giustificazionismo è il pane quotidiano di gran parte delle persone.

Si tratta senz’altro di un meccanismo difensivo in virtù del quale i soggetti si mettono al riparo dal prendere coscienza del carattere amorale, immorale o colpevole dei loro comportamenti. Se ci si chiede, però, sulla base di quale logica tale meccanismo difensivo giunge ad agire, il discorso diventa paradossale, perché, al di là delle trasformazioni sociali, esso sembra implicare una qualche responsabilità della cultura psicologica.

Per un lungo periodo di tempo, come noto, il comportamento individuale è ricaduto nell’ambito del controllo sociale. Esso, in pratica, veniva valutato in termini di osservanza o non osservanza delle regole condivise dal gruppo. Se risultava deviante, il giudizio sociale era severo e inappellabile.

Solo lentamente il controllo sociale è stato sormontato dal controllo istituzionale, riconducibile al diritto sancito dallo Stato e alla morale della Chiesa. Si è trattato di un progresso perché i codici giuridici e quelli ecclesiali sono di fatto più flessibili di quelli adottati dall’opinione pubblica. Essi, per esempio, oltre a concedere a ogni individuo la possibilità di una riparazione e di una riabilitazione, si fondano anche su di una valutazione dei comportamenti che tiene conto delle circostanze e delle attenuanti per un verso (oltre ovviamente della capacità di intendere e di volere, sulla quale si basa l’imputabilità), e, per un altro, della debolezza intrinseca ad una natura umana inquinata dal peccato originale e continuamente minacciata dal Diavolo.

L’avvento delle scienze psicologiche ha avuto, come accennato, un effetto paradossale. Esse, infatti, hanno assunto come oggetto loro proprio la spiegazione dei comportamenti umani sulla base di motivazioni consce e inconsce e sono giunte alla conclusione, che si può ritenere sommamente importante, che non si dà alcun comportamento umano, anche aberrante, che non possa essere compreso in virtù di una catena di motivazioni che ne inducono la realizzazione.

Purtroppo, a livello di senso comune, la comprensione del comportamento è giunta ad equivalere ad una giustificazione. Questo equivoco ha inciso sulla psicologia individuale in maniera del tutto negativa per due aspetti. Il primo riguarda il fatto che essendo ogni soggetto in grado di ricostruire, almeno per qualche aspetto, che il proprio comportamento riconosce e non può non riconoscere delle ragioni per cui è stato agito, tali ragioni lo giustificano. Il secondo è che, laddove un comportamento adottato da un soggetto è simile a quello di tanti altri nello stesso contesto sociale, esso viene normalizzato, cioè giustificato socialmente senza alcun riferimento al suo significato morale.

Che questo stato di cose, che caratterizza la maggioranza dei comportamenti nella nostra società, possa risultare esasperante è fuor di dubbio. Il giustizialismo dei soggetti introversi, però, va in genere al di là dell’esasperazione: diventa intolleranza radicale e dà luogo, nel foro interno, appunto alla sindrome di Robespierre. Per quanto tale sindrome incida diversamente nei vari soggetti (in alcuni dei quali, soprattutto giovani, può arrivare al delirio persecutorio), è fuor di dubbio che essa riconosce come fattore univoco la consapevolezza che il modo di essere apparente, che di fatto coincide con alcune qualità intrinseche al modo di essere introverso, copre e maschera una diversa realtà interiore, caratterizzata appunto dall’ostilità e dall’intolleranza.

Il rimedio c’è, ma, come sa chi cerca di metterlo in pratica, non è affatto semplice da realizzare.

Si tratta, infatti, di elaborare il senso di giustizia, cristallizzato dal riferimento a valori assoluti, in nome di una comprensione critica che porti ad un giudizio più equo sui comportamenti umani. Per comprensione critica io intendo un processo di analisi della realtà umana che, da ultimo, arriva anche a tradursi in un giudizio sul peso oggettivo del comportamento, vale a dire sulle conseguenze che esso ha sugli altri, ma sulla base di presupposti che lo rendono equo. I presupposti in questione riguardano lo statuto della coscienza umana e la storicità dell’esperienza umana.

Lo statuto della coscienza umana è normalmente mistificato. Ciò significa che, anche se le persone agiscono i comportamenti in stato di vigilanza e in maniera volontaria, essi spesso non sanno ciò che fanno, perché adottano il criterio della giustificazione, e perché affette da un difetto di empatia che impedisce loro di prendere atto delle conseguenze dei loro comportamento a carico degli altri.

La storicità dell’esperienza umana incide accrescendo il peso della giustificazione in nome del fatto che “tutti agiscono così”.

Sulla base di questi presupposti, la realtà umana appare alienata dal giustificazionismo e dal conformismo sociale. Valutarla su questa base, difficilmente porta a nutrire una rabbia cieca. Si arriva piuttosto a provare pietas per esseri che utilizzano le proprie straordinarie potenzialità piuttosto per ingannare se stessi e normalizzarsi che non per procedere verso una qualche autenticità.

Come poi l’umanità possa venir fuori da questo stato di cose è un altro discorso. Finché esso persiste, però, è sconsigliabile che gli introversi, nelle loro teste, si abbandonino alla sindrome di Robespierre. Tale abbandono non migliora di un grammo lo stato di cose esistente nel mondo, e mortifica la qualità introversa della tolleranza e della comprensione critica implicita nella sensibilità sociale. E’ inutile aggiungere che tale qualità è data solo in potenza: essa va realizzata attraverso un tragitto introspettivo e culturale.