Il prezzo da pagare all'introversione

 

1.

Le carriere  ricostruite nel saggio Timido, docile, ardente… sono riferite al nostro contesto sociale, e pongono in luce le carenze, le disfunzioni, le contraddizioni delle istituzioni e degli agenti educativi in rapporto ai bisogni propri dei bambini introversi. Impegnarsi perché questi esseri –  delicati e al tempo stesso preziosi – possano trovare un ambiente favorevole di sviluppo, rispettoso della loro diversità, è l’obiettivo primario della LIDI.

Per non rimanere astratto, però, questo obbiettivo non può trascurare che il problema di opportunità di sviluppo inadeguate, se investe drammaticamente  i soggetti introversi, si pone in una certa misura per tutti. Anche mettendo tra parentesi l’esistenza, nel nostro contesto sociale, di sacche ancora rilevanti (e purtroppo in crescita) di miseria economica, culturale e morale, che destinano spesso alla devianza o al sottosviluppo soggetti dotati dei più vari corredi genetici, si può affermare tranquillamente che la nostra società ha imboccato da tempo un vicolo cieco in conseguenza della nuclearizzazione della famiglia e dell’istituzionalizzazione della scuola.

In pratica, si dà per scontato che i genitori, semplicemente perché capaci di mettere al mondo un figlio, siano dotati anche di competenze adeguate ad allevarlo nel modo migliore possibile, vale a dire di assolvere la funzione che in passato era delegato al gruppo allargato e alla comunità. Per quanto riguarda poi l’intervento dello Stato nell’educazione, si assume come un dato di fatto che la Scuola, in continuità con la sua istituzionalizzazione epocale, che ha esteso a tutta la popolazione l’obbligo di alfabetizzarsi, possa compensare le eventuali diversificazioni culturali tra le famiglie rendendosi garante della diffusione di un sistema di valori comune e tradizionale.

Data l’alleanza sulla carta tra famiglia e scuola, che convergono sull’obbiettivo di dotare ogni soggetto della capacità di inseritisi nel mondo così com’è, si è di gran lunga allentata la tensione che, negli anni ’70, verteva sul problema della produzione antropologica, al punto che questa terminologia non viene più adottata. Essa va restaurata e approfondita, se non altro perché consente di mettere tra parentesi l’imponente letteratura divulgativa psicologista e idealista che, ormai anche attraverso le edicole, mira ad insegnare agli educatori a far bene il loro mestiere.

Per produzione antropologica si intende il processo in virtù del quale ogni società applica alla natura umana (rappresentata in ogni corredo genetico individuale) determinate “tecniche” educative il cui fine è la formazione di un cittadino adulto, capace di integrarsi in uno specifico contesto culturale, economico e sociale, e di svolgere in maniera adeguata i ruoli che gli vengono assegnati o che egli sceglie.

La produzione antropologica rientra nel quadro più ampio della riproduzione sociale, che è il processo in virtù del quale ogni società tende, attraverso il succedersi delle generazioni, a mantenere una sua identità e un certo grado di coesione.

L’allentamento della riflessione critica sul problema della formazione dell’uomo (a partire dal quesito marxiano irrisolto sul chi educa gli educatori) dipende in gran parte, come accennato, dalla convinzione che ormai il progresso culturale abbia fornito mediamente a tutti i genitori un patrimonio minimo di competenze adeguate a svolgere il loro ruolo, in associazione con la Scuola.

In realtà, quello che sta accadendo è che le istituzioni pedagogiche sono sempre più catturate da un modello antropologico che privilegia l’efficienza e la capacità di inserimento sociale – l’assunzione insomma del ruolo di citoyen – rispetto allo sviluppo delle potenzialità individuali depositate nel corredo genetico. La socializzazione, in breve, viene privilegiata in assoluto rispetto all’individuazione.

Questo assunto può apparire sorprendente se si tiene conto dell’insistenza con cui la psicopedagogia (dalle sue sedi accademiche alla diffusione attraverso i mass-media), la Scuola e le famiglie sono alleate nel sostenere che lo sviluppo della personalità deve avvenire nel rispetto e nella valorizzazione delle singole individualità.

L’assunto, però, fa capo ad una nefasta confusione tra individuo e individuazione. L’individuo, così come è concepito nel nostro mondo, vale a dire come un soggetto dotato di un sano egoismo e della capacità di darsi da fare in società per conseguire un riconoscimento di appartenenza, uno status, ruoli privati e pubblici, è un’invenzione culturale recente, intrinseca alla civiltà borghese. L’individuazione, viceversa, è un potenziale di sviluppo depositato nei geni che, acquisita un’identità culturale sulla base del processo di socializzazione, promuove una differenziazione che dà luogo a scelte e a pratiche di vita (inerenti il lavoro, gli affetti, gli interessi, ecc.) in conseguenza delle quali il soggetto giunge a sentire di avere realizzato la sua vocazione ad essere.

La distinzione è importante perché mentre la definizione dell’individualità corrisponde ad esigenze prevalentemente sociali, l’individuazione, viceversa, soddisfa esigenze prevalentemente soggettive. Ciò significa, né più né meno che un individuo può essere solo parzialmente individuato nel senso che egli sacrifica, anche senza accorgersene, i suoi potenziali di individuazione sull’altare del riconoscimento e dello status sociale.

Questa premessa è importante ai fini del discorso che intendo sviluppare, il cui nocciolo è che i soggetti normodotati possono con facilità conseguire uno statuto di individui, mentre gli introversi (e gli estroversi iperdotati) non possono rinunciare all’individuazione se non al prezzo di un disagio psicologico più o meno serio.

Naturalmente, c’è da chiedersi come la vocazione introversa all’individuazione possa mantenersi e realizzarsi nonostante le spinte verso la normalizzazione che caratterizzano la nostra società.

Si tratta di un problema complesso, sul quale già ho detto qualcosa, ma che merita un approfondimento perché almeno un aspetto è rimasto finora in ombra: il prezzo che inesorabilmente gli introversi devono pagare nella fase evolutiva della personalità, che viene ampiamente compensato dall’appagamento cui essi pervengono in età adulta se il processo di individuazione si realizza.

 

2.

Definire l’introversione come una condizione di potenziale ricchezza emozionale e intellettiva non significa né confondere le potenzialità con la loro realizzazione, che avviene nel corso dello sviluppo evolutivo e della vita, né giungere alla conclusione che, date circostanze favorevoli, l’evoluzione di un soggetto introverso non comporterebbe alcun problema.

Nel nostro mondo gli introversi pagano e talora per tutta la vita, un prezzo esorbitante alla scelta che la natura ha operato.

C’è però, a monte di questa ingiustizia sociale, per combattere la quale è nata la LIDI, un’ingiustizia che si può definire genetica, riconducibile al fatto che, anche in un ambiente ottimale, quella scelta comporta un prezzo da pagare nella fase evolutiva della personalità, che assume il suo pieno significato solo se la personalità raggiunge un certo grado di integrazione e di sviluppo (l’individuazione).

L’ingiustizia genetica è riconducibile a leggi dello sviluppo del cervello e della personalità contro le quali non si può fare alcunché (tranne che comprenderle e ammortizzarne gli effetti). Esse sono universali, ma, laddove si dà un corredo introverso, la loro incidenza è più evidente (e talora drammatica). Uno spunto per chiarire questo aspetto può essere tratto dall’autobiografia di Rousseau, laddove egli scrive in rapporto alla sua esperienza infantile: “Non avevo ancora nessuna idea delle cose e già tutte le passioni mi erano note. Non avevo pensato niente, avevo sentito tutto.” (p. 749)

Insomma, il nodo è il rapporto tra il sentire e il capire, il mondo delle emozioni e quello delle cognizioni.

Il sentire è un dato primario dell’esperienza umana, che, per effetto dell’attività intrinseca cerebrale, funziona fin dalla nascita, il capire, invece, è vincolato alla maturazione cognitiva che avviene lentamente.

Quando si parla di evoluzione della personalità, raramente si tiene conto che essa è sottesa e avviene sulla base della crescita del cervello, che termina intorno ai ventitre anni. Mettendo tra parentesi gli aspetti più specialistici di questo fenomeno, un dato appare particolarmente importante. La crescita del cervello comporta di sicuro fasi di potenziamento e di dilatazione dell’orizzonte emozionale che, anticipando lo sviluppo cognitivo, sono di fatto in una certa misura squilibranti.

Un esempio di tale legge è nota. Tra i cinque e i sette anni i bambini raggiungono la consapevolezza intuitiva di ciò che significa morire. Tenendo conto delle paure viscerali che esprimono anche in precedenza in rapporto ai pericoli, le quali fanno capo all’istinto di conservazione, si può dire che essi convivono dalla nascita con  l’intuizione della loro vulnerabilità. E’ solo a quell’epoca, però, che la vulnerabilità prende la forma di un destino inesorabile. Si tratta, però, di una forma intuitiva, emozionale, di un sentire squilibrante, che solo lentamente potrà essere organizzato cognitivamente.

Certo, la progressiva dilatazione dell’orizzonte emozionale non ha solo effetti negativi. Un bambino introverso può sperimentare anche stati d’animo di quiete profonda (quando per esempio si immerge nelle sue fantasie) o addirittura estatici (quando si trova in un rapporto di feeling con un adulto, con un animale, con la natura). E’ fuori di dubbio, però, che la dilatazione emozionale determina, al di là dei sette anni, una consapevolezza intuitiva degli aspetti negativi della vita e della realtà (il dolore, il male, le ingiustizie, ecc.) che ha un impatto squilibrante. Tale consapevolezza diventa ovviamente più squilibrante e dolorosa se quegli aspetti, colti come costitutivi della realtà, sono sperimentati sulla propria pelle in conseguenza dell’interazione sociale con gli adulti o i coetanei.

Il prezzo da pagare all’introversione in fase evolutiva è dunque dovuto all’intensità e alla precocità del sentire rispetto alla possibilità di organizzare cognitivamente ciò che si prova.

Questo scarto tra la fulmineità del sentire, che ha la sua matrice nell’inconscio, e la relativa lentezza dei processi cognitivi è un aspetto costitutivo della soggettività umana, che negli introversi è solo più evidente e spesso si mantiene anche a livello adulto.

La testimonianza di Rousseau è preziosa anche a questo riguardo. Egli scrive:

"Due cose pressoché inconciliabili s'uniscono in me senza che io possa spiegarmi come: un temperamento focosissimo, passioni vive, impetuose, e una lentezza a nascere d'idee, impacciate, che non si svegliano mai che a cose fatte. Si direbbe che il mio cuore e la mia intelligenza non appartengano al medesimo individuo. Il sentimento, più rapido del lampo, mi inonda l'animo, ma anziché illuminarmi, mi brucia e mi abbaglia. Sento tutto e non vedo nulla. Sono irruento, ma stupido; mi occorre il sangue freddo per pensare.”

L’esperienza di questo scarto, vale a dire di essere preda di emozioni intense che si attivano per conto loro, appaiono ingovernabili e spesso del tutto inadeguate in rapporto alle situazioni sociali, è il motivo principale per cui gli introversi, dopo aver sperimentato il prezzo da pagare in fase evolutiva, continuano a pagarlo da adulti e giungono alla convinzione che, dotandoli di un corredo emozionale intenso, la natura non ha fatto loro un grande dono. La convinzione, insomma, è che l’introversione è una condizione disfunzionale o peggio un destino di dolore.

Sarebbe ingenuo negare che se si facesse un test proponendo ad un campione di introversi l’opzione tra l’accettare la propria condizione e il cambiarla, liberandosi dal fardello di un’emozionalità per molti aspetti disagevole e imbarazzante, otto o nove su dieci preferirebbero liberarsene.

 

3.

Non bisogna avere paura della verità. Una riflessione sulla natura umana porta a pensare che, anche nel migliore dei mondi possibili, il prezzo da pagare all’introversione in fase evolutiva diminuirebbe, ma non si azzererebbe. Che tale prezzo, però, continui ad essere pagato a livello adulto, non è affatto fatale: in parte esso è dovuto all’ambiente e al modello normativo che esso propone, in parte all’ambivalenza che vige nell’anima dell’introverso in rapporto alla propria condizione, la quale, pur riconoscendo momenti in cui l’intuizione del proprio valore si attiva, risulta più spesso attestata sul registro del disvalore, dell’inadeguatezza e dell’inettitudine a vivere.

Se le cose stanno così, e purtroppo stanno così, l’affermazione, implicita nel saggio, secondo la quale l’introversione non solo non destina inesorabilmente all’infelicità, ma, in sé e per sé, è una predisposizione ad un’esperienza soggettiva che può giungere a livelli di intima e consapevole serenità, sembra un paradosso se non addirittura una provocazione.

Occorre, dunque, fornire qualche prova della sua fondatezza.

In uno scritto precedente ho fatto riferimento ad una soglia critica di autorealizzazione superata la quale si realizza un passaggio critico dall’inquietudine, il disagio, la vergogna, l’inadeguatezza alla quiete interiore, il sentirsi a proprio agio, il percepire il proprio valore, il vivere fluidamente, ecc. Non avendo specificato concettualmente quale sia quella soglia critica, l’affermazione è rimasta sterile. Cerco di rimediare sulla base di ciò che è stato detto poc’anzi.

La soglia critica minima dell’autorealizzazione è quella al di là della quale il mondo delle emozioni e quello della cognizione, avendo raggiunto un certo grado di integrazione, si interagiscono e si potenziano a vicende. Ciò significa, né più né meno, che, essendosi ridotta la loro turbolenza, le emozioni, la cui immediatezza si mantiene vita natural durante, funzionano come un flusso ondoso che, aprendo sempre nuovi orizzonti, motiva e sollecita il bisogno di capire se stessi, gli altri e il mondo : di capire, insomma, sempre più in profondità la vita nella sua complessità per partecipare ad essa con il cuore e con la mente.

Certo, la comprensione critica promossa dall’interazione tra emozioni e cognizione è un duro impegno, di gran lunga maggiore rispetto a quello che devono operare coloro che si affidano al senso comune. Il problema è che, per gli introversi, non c’è alternativa, poiché il tentativo di  liberarsi dal fardello di un’emozionalità intensa e turbolenta attraverso la rimozione o l’anestetizzazione, come pure quello di giustificarla in rapporto allo stato di cose esistente nel mondo (la sindrome di Robespierre) non approdano ad alcun risultato.

D’altro canto, anche se gli introversi che, avendo alle spalle un’esperienza fortunosa o travagliata, superano la soglia critica e  raggiungono la serenità, sono pochi (un’assoluta minoranza, che io sappia), la loro esistenza attesta che questa possibilità sussiste come intrinseca al corredo introverso.

L’analisi dei motivi per cui il superamento della soglia critica avviene raramente è un discorso complesso. Mi limito ad accennare l’essenziale.

In difetto di una programmazione sociale che valorizzi il capitale introverso, il prezzo che si paga ad esso nella fase evolutiva in termini di disagio persistente induce facilmente ad operare una previsione che investe il futuro e si configura  come un “destino”. In realtà, come si è detto, quel prezzo dipende in gran parte da un difetto di integrazione tra l’esperienza emozionale e quella cognitiva, accentuato dal fatto che, alla fine della fase evolutiva, gran parte degli introversi si ritrovano a convivere con un carico di emozioni negative e turbolente particolarmente intense che sembrano irrimediabili.

A questo occorre aggiungere che la nostra cultura (comprese le scienze psicologiche), sia a livello pedagogico che in riferimento alla personalità adulta, non riconosce nelle emozioni una dimensione educabile dell’essere (come avviene invece per la ragione). Essa, insomma, fa corpo con il senso comune che, tenendo conto della loro immediatezza, le identifica con un tratto di carattere poco o punto modificabile.

Specificare cosa significa che le emozioni sono educabili richiederebbe molto tempo.

Faccio un solo esempio, peraltro tendenzioso. Di fronte ad eventi negativi di vita (lutti, incidenti, malattie, ecc.) una reazione emotiva quasi universale, assente solo in coloro che pensano di meritarseli, è incentrata sul loro rigetto in nome del chiedersi: perché proprio a me? E’ evidente che tale reazione si fonda su di un senso di giustizia innato il quale postula che il bene ed il male siano distribuiti secondo criteri equi o addirittura meritocratici.

Educare questa emozione non significa misconoscere quanto in essa si dà di radicalmente umano e significativo. Ciò posto, occorre riconoscere che il suo attivarsi in rapporto a circostanze che, per molti aspetti, si possono ritenere casuali, e del tutto avulse da un criterio di merito o demerito, è un aspetto potenzialmente disfunzionale dell’emozionalità umana che va canalizzato in maniera tale da giungere a distinguere gli ambiti di realtà cui esso può essere applicato da quelli cui non può essere applicato.

L’esempio è tendenzioso perché, estendendolo, esso può investire anche la scelta che la natura fa producendo corredi introversi. Perché proprio a me? è la domanda che molti introversi si pongono, alimentando la rabbia. Perché la società e la cultura hanno bisogno di una quota di individui introversi, e tale quota può essere prodotta solo da una lotteria.

Che questa scelta non è, in sé e per sé, un evento negativo, una disgrazia, un destino inesorabilmente contrassegnato dal disagio psichico definisce uno degli obbiettivi che la LIDI persegue.

Certo occorrerà ancora molto tempo e lavoro per mettere a fuoco e diffondere una teoria delle emozioni che ne sancisca il valore, il significato evolutivo e le modalità di integrazione.

Rimane il fatto che, pur ponendosi come collettore di esperienze accomunate da un disagio esperienziale, la LIDI non può arrendersi al fatto di porsi come un’Associazione simpatetica e patetica. Essa deve trovare i modi per promuovere nei suoi membri un salto di qualità che consenta progressivamente ad un numero crescente di essi di raggiungere e sormontare la soglia critica di cui si è parlato, quella al di là della quale l’introversione diventa ciò che essa geneticamente implica: un modo di essere profondo, intenso, partecipe, comprensivo, equilibrato e, da ultimo, sereno.

Al di là della soglia, il prezzo da pagare alla scelta della natura, se non equo, appare in qualche modo giustificato da ciò che se ne ricava.