Introversione e disagio psichico (elogio dell'introversione)

1. Introduzione

In un dizionario della lingua italiana del 1988 (DIR, G. D’Anna, Firenze), alla voce introversione si legge: "tendenza, spiccata in alcuni individui, a ripiegarsi in se stessi, a interessarsi prevalentemente al proprio mondo interiore, con distacco e chiusura nei confronti del mondo esterno e dei contatti sociali". L’estroversione, viceversa, è definita come "atteggiamento di chi ha spiccati interessi verso l’ambiente esterno, tendenza a manifestarsi, e quindi facilità ad inserirsi nel contesto sociale". Si tratta, con evidenza, di giudizi di valore, piuttosto che lessicali, che riecheggiano l’accezione comune del termine. Nel linguaggio quotidiano, di fatto, introverso significa chiuso, taciturno, insicuro, poco socievole, passivo, estroverso viceversa aperto, comunicativo, spigliato, attivo, intraprendente. Per quanto si riconosca che parecchi introversi hanno una sensibilità e un’intelligenza fuori del comune, il loro modo di porsi, equivocato spesso come scostante e altezzoso, evoca naturalmente un moto di antipatia, mentre gli estroversi, eccezion fatta per quelli insopportabilmente narcisisti e invadenti, sono giudicati generalmente simpatici.

Introversione ed estroversione sono termini coniati da C. G. Jung per definire una tipologia universale della personalità. Di natura costituzionale, genetica, essi fanno riferimento ai ‘tratti’ di personalità più importanti che influenzano il modo di sentire, di pensare e di agire di un individuo e offrono di conseguenza una chiave immediata di comprensione del suo essere al mondo. Orientamenti entrambi significativi, essi attestano che ogni soggetto, vivendo nell’interfaccia tra il mondo esterno e quello interno, viene attratto, in nome della sua disposizione costituzionale, prevalentemente dall’uno o dall’altro. La tipologia di Jung non comporta dunque alcun giudizio di valore.

Adottati dall’opinione pubblica per la suggestiva corrispondenza che hanno con la pratica di vita quotidiana, che comporta un costante tentativo di ‘tipologizzare’ il comportamento proprio e altrui, i termini junghiani hanno acquisito un significato improprio, pregiudiziale, che connota univocamente in termini negativi l’introversione e in termini positivi l’estroversione.

Le origini sociali del duplice pregiudizio non sono difficili da spiegare. Ogni società privilegia un modello normativo di personalità che corrisponde alla sua struttura e alle sue esigenze di conservazione e di riproduzione. La nostra società, capitalistica e mercantile, all’interno della quale lo scambio è il metro di misura del valore, privilegia, sotto il profilo psicologico, l’intraprendenza, la spigliatezza, la capacità di contatto comunicativa, il pragmatismo, il successo, il saper vendere bene se stessi. La capacità di comunicazione sociale, vale a dire la capacità di accattivarsi il consenso, di promuovere un giudizio positivo, di influenzare gli altri a proprio favore, è giunta di conseguenza a configurarsi come un tratto positivo di personalità. Che tale tratto si associ spesso ad un certo grado di narcisismo e ad una tendenza ad usare l’altro, è unanimemente riconosciuto, ma avallato in nome dell’imperativo supremo dell’affermazione della personalità. La conseguenza di quest’opzione ideologica è che, in quasi tutte le fasi dell’esistenza e gli ambiti d’interazione sociale, l’estroversione funziona come una carta di credito, l’introversione come un handicap.

Anni fa, un genetista statunitense (Th. Dobzhansky, Diversità genetica e uguaglianza umana, Einaudi, Torino, 1981), pose in dubbio il mito meritocratico rilevando che, nelle società occidentali, il successo si fonda spesso su di una capacità competitiva ‘selvaggia’. Ciò comporta che i vincitori, sicuramente dotati di aggressività, positiva o negativa che sia, non sono necessariamente i migliori per qualità umane e competenze culturali. L’accelerazione della dinamica competitiva, intervenuta negli ultimi anni per effetto del trionfo del capitalismo e del suo proporsi, col modello antropologico suo proprio, come stadio ultimo e definitivo dell’evoluzione sociale, induce a pensare che il dubbio di Dobzhansky corrisponda ormai ad uno stato di fatto.

Il mondo è dunque degli estroversi, che fanno il buono e cattivo tempo e impongono, tra l’altro, il loro modo di essere come metro di misura della normalità. Gli introversi, che quasi sempre hanno delle ricche potenzialità emozionali e intellettive, vivono in un cono d’ombra, defilati, frustrati. Inesorabilmente contaminati dal codice culturale prevalente, essi stessi si ritengono spesso inadeguati, meno capaci degli altri, gravati da tratti di carattere che, se non morbosi, ritengono disfunzionali. Ciò li induce a nutrire un sordo risentimento nei confronti della natura, responsabile di un carattere che crea solo problemi, associato spesso ad una rabbia più o meno consapevole nei confronti della società che li disconferma e, talora, li emargina. Alcuni, come non bastassero le sollecitazioni esterne ad essere ‘normali’, tendono ad adottare, per mimetizzarsi, dei moduli comportamentali estroversi. Nella misura in cui ci riescono, realizzano tutt’al più un falso sé, una caricatura del loro vero essere.

Penso che sia arrivato il momento di riflettere su questa situazione in un’ottica preventiva del disagio psichico poiché, come si vedrà, essa ha una pesante incidenza psicopatologica. Il presunto carattere disadattivo, sostanzialmente difettoso e disfunzionale, dell’introversione è, infatti, quotidianamente confermato dalla circostanza per cui, tra coloro che manifestano, soprattutto a livello giovanile, una qualche forma di disagio psichico, una quota rilevante ha alle spalle una carriera evolutiva che attesta inequivocabilmente un orientamento costituzionale introverso.

Intendo dimostrare che questa circostanza non è legata all’introversione in sé e per sé, bensì allo stato di cose esistente nel mondo, che espone quasi inesorabilmente coloro che vengono al mondo con un determinato corredo genetico al rischio di sviluppare un disagio psichico. Se l’intento sarà raggiunto, mi auguro che esso possa contribuire al riconoscimento sociale del problema e al riscatto di una minoranza genetica il cui significato, nell’ottica evolutiva, è estremamente importante se la natura continua a produrla.

Tale riscatto postula, anzitutto, la consapevolezza della propria condizione e, in conseguenza di ciò, una rivendicazione orgogliosa di una diversità che va coltivata e vissuta come irrinunciabile. Per motivi che riusciranno chiari ulteriormente, la consapevolezza soggettiva non basta. E’ assolutamente necessaria una presa di coscienza sociale del problema. Il mondo, a partire dalle istituzioni pedagogiche, è organizzato in maniera tale da squalificare pregiudizialmente gli introversi, ponendo ostacoli di vario genere allo sviluppo della loro personalità. E’ assurdo e inutile pensare ad un mondo fatto su misura per loro. Non è però utopistico pensare che essi non siano più costretti a pagare, in nome della congiuntura tra il caso genetico e la normalità dominante, i prezzi che attualmente pagano e che coincidono spesso con una qualche forma di disagio psichico.

2. Le caratteristiche dell’introversione

Che l’introversione sia una condizione caratterizzata da una particolare ricchezza dei processi psichici consci e inconsci si può indurre facilmente. Se ci si affranca dal pregiudizio per cui il ripiegamento interiore è una fuga dal mondo esterno, non si stenta a capire che esso corrisponde ad una modalità di funzionamento cerebrale il cui fondamento è biologico.

La dipendenza del mondo interno da quello esterno, cui si è fatto cenno, riguarda infatti l’io, la cui strutturazione è imprescindibile dall’interazione con l’ambiente. Il mondo interno, però, non esiste solo in forma strutturata. Esso di per sé è l’espressione di un’attività intrinseca del cervello, indipendente dall’ambiente. Dal momento in cui, nel corso dello sviluppo fetale, si realizza un abbozzo del cervello, esso è caratterizzato da una modalità di funzionamento particolare che è impossibile riferire agli stimoli dell'ambiente uterino, che rappresenta il mondo esterno. Tale funzionamento consiste in un’attività cerebrale omologabile a quella che si riscontra costantemente associata ai sogni. Non sappiamo e non sapremo mai se a quest’attività cerebrale corrispondano dei contenuti psichici. Essa però implica necessariamente lo scorrimento di ‘qualcosa’. Essendo impossibile ipotizzare dei contenuti percettivi, sembra lecito ammettere che quel qualcosa abbia rapporto col mondo delle emozioni.

Ogni bambino che viene al mondo ha un comportamento introverso, poiché per circa venti ore al giorno è immerso nel suo mondo interno. Su questo sfondo comune, i bambini introversi per natura sono talora riconoscibili in virtù del fatto che manifestano un comportamento straordinariamente tranquillo anche da svegli, come se fossero immersi in una sorta di nirvana. Caratteristico è il fatto che privilegiano l’esplorazione visiva a qualunque altro tipo d’esplorazione percettiva, al punto che talora la loro tendenziale inerzia motoria può evocare qualche sospetto di danno neurologico.

Questo comportamento attesta una vivace attività intrinseca che mantiene una tensione di base senza il bisogno di molti stimoli esterni. Tale dato è comprovato dal fatto che i bambini introversi manifestano un disagio superiore alla media quando sono investiti da stimoli ambientali intensi, luminosi o acustici.

L’attività intrinseca può produrre anche fenomeni paradossali. Nei momenti in cui essa è molto intensa, possono, infatti, realizzarsi con facilità turbolenze comportamentali che si manifestano attraverso pianti, risvegli notturni, difficoltà alimentari. Si tratta però di eccezioni. I bambini introversi, di solito, non danno problemi nei primi mesi di vita.

Dacché, a partire da un anno, si organizza un minimo d’identità, essi manifestano dei comportamenti piuttosto tipici. Poco vivaci da un punto di vista motorio, osservano molto e hanno uno sguardo precocemente denso e apparentemente riflessivo. Il periodo esplorativo dell’ambiente, che s’inaugura con la stazione eretta e la capacità di muoversi autonomamente, difficilmente ha il carattere ‘vandalico’ tipico degli altri bambini. I bambini introversi maneggiano gli oggetti con una delicatezza che lascia pensare alla paura di danneggiarli. Presumibilmente ciò è da ricondurre al fatto che la ricchezza emozionale che li caratterizza comporta uno spiccato animismo.

Un indizio tipico e precoce di introversione è la sensibilità musicale, che talora realizza, in conseguenza dell’ascolto, una sorta di immobilità estatica.

L’eccesso delle emozioni rispetto agli strumenti linguistici di cui dispongono, vale a dire l’eccesso del sentire sulle possibilità espressive, fa sì che i bambini introversi parlino poco e, talora, tardivamente. Se li si osserva con attenzione, è difficile equivocare quest’aspetto come segno di un ritardo. La loro attenzione è sempre estrema e la loro partecipazione intuitiva evidente. L’arrichimento del patrimonio linguistico non coincide mai, comunque, con la tendenza propria degli altri bambini a parlare per parlare, per esercitare la funzione comunicativa e mantenere il contatto con l’esterno. I bambini introversi parlano poco, solo quando lo ritengono necessario, ed esprimono di solito contenuti concettuali che colpiscono per la loro pertinenza. Spesso è in questa fase che riesce possibile capire se la ricchezza emozionale si associa o no alla ricchezza intellettiva.

L’apparente ripiegamento interiore, attestato dal parlare poco e dal muoversi in maniera contenuta, è smentito dal legame empatico che i bambini introversi stabiliscono con le persone. Un aspetto proprio della ricchezza emozionale è la sensibilità sociale, vale a dire la capacità di identificarsi con gli altri e di registrare gli stati d’animo altrui. Tale sensibilità comporta un’influenzabilità educativa estrema. Gli introversi colgono intuitivamente le aspettative, consce e inconsce, degli educatori nei loro confronti e sono sollecitati a soddisfarle in maniera ottimale. Diventano, perciò, in genere rapidamente dei bambini-modello, che vengono elogiati per il loro comportamento sempre adeguato e precocemente maturo.

Si danno, per quest’aspetto, delle eccezioni. Per quanto la sensibilità sociale sia elevata, in una quota rilevante di bambini introversi il bisogno di individuazione è rappresentato in forma ugualmente se non addirittura più intensa. Ciò comporta che la tendenza a rispondere alle aspettative ambientali è subordinata al capire a al condividere il significato di ciò che viene richiesto di fare. Se le richieste non vengono spiegate, alcuni bambini introversi manifestano un atteggiamento oppositivo molto marcato, e talora incoercibile.

La sensibilità sociale ha, peraltro, un orientamento particolare. I bambini introversi prediligono il rapporto con gli adulti, nei quali vedono, a torto o a ragione, realizzato un modello di maturità che urge nel loro intimo e li affascina. In conseguenza di questa predilezione, destinata a perdurare spesso al di là dell’adolescenza, essi non amano molto l’interazione con i coetanei, la cui irrequietezza motoria e verbale li imbarazza. Sprovveduti di aggressività, tra l’altro, non se la cavano bene nelle schermaglie prepotenti che sono proprie dell’infanzia.

Immersi precocemente nella scuola materna, all’insegna del verbo della socializzazione, essi di solito manifestano un aperto disagio per la confusione e il rumore. Nella migliore delle ipotesi, tendono ad appartarsi e ad osservare gli altri. Posti di fronte ad una realtà caratterizzata dalla tendenza spontanea degli altri bambini ad interagire fisicamente per affermare se stessi, rimangono spesso perplessi e turbati da atteggiamenti che interpretano come prepotenze, nei quali leggono intuitivamente l’espressione della legge del più forte. Hanno, infatti, uno spiccatissimo senso della giustizia e della pari dignità, che vanno ricondotti ovviamente ad un modo di sentire originario in quanto si manifestano ben prima dell’acquisizione dei concetti corrispondenti. In conseguenza di questo sentire, anche le banali ‘prepotenze’ perpetrate dai grandi sui piccoli li colpiscono profondamente.

Al di là della prima infanzia, lo sviluppo degli introversi comporta alcune caratteristiche differenziali rispetto alla media. La prima caratteristica è che il bisogno di socialità rivolto ai coetanei matura lentamente ed appare caratterizzato da un orientamento selettivo e intensivo. Un bambino medio, fin dall’età di due-tre anni, ama stare con i coetanei, e più il gruppo è allargato, meglio sta. Un bambino introverso comincia a sentire il bisogno di socialità coetanea intorno ai cinque–sei anni. Ciò è dovuto al fatto che le sue esigenze di socialità, originariamente rivolte verso gli adulti, hanno bisogno per esprimersi che dall’altra parte ci sia un partner con una personalità almeno minimamente strutturata, con il quale s’instauri un feeling. In conseguenza di ciò, il bambino introverso tende ad avere un atteggiamento selettivo: tende a legarsi con uno o due bambini con i quali avverte una qualche affinità.

A partire dai cinque-sei anni, si definisce uno scarto nello sviluppo della personalità. La precoce maturità emozionale e intellettiva appare in contrasto con il ritardo nello sviluppo di competenze sociali. Valutato in rapporto a come sente e a come elabora la realtà, il bambino introverso appare costantemente in anticipo rispetto ai bambini medi. Valutato sulla base dei comportamenti sociali, egli appare in ritardo. Di fatto, rispetto agli altri, è meno comunicativo, poco incline allo scherzo, più impacciato. Ciò è dovuto a due diversi fattori. Per un verso, il bambino introverso non riesce a partecipare dello stile di vita proprio dei bambini medi, fortemente incentrato sulla motilità e sulla libera espressione verbale. Egli non gradisce tutto ciò che è squilibrato e squilibrante: i movimenti disordinati, il rumore, la confusione, ecc. Per un altro verso, il senso di giustizia e l’empatia lo rendono scrupoloso, sempre preoccupato di potere fare del male e danneggiare gli altri. L’introversione comporta una naturale tendenza a rispettare l’altro profondamente. Essendo vissuta come naturale, questa tendenza, vissuta come universale promuove l’aspettativa che tutti – coetanei e grandi – si comportino scrupolosamente. L’infondatezza di quest’aspettativa è una delle cause principali per cui i bambini introversi si sentono profondamente feriti dalle circostanze più varie della vita quotidiana, e sviluppano precocemente un sentimento di diversità rispetto agli altri.

La percezione che un bambino introverso ha di sé è ambivalente. Per alcuni aspetti, egli convive con l’intuizione intima d’essere superiore agli altri. E’ inevitabile però che l’esperienza sociale lo metta di fronte ad alcune incompetenze che inducono anche un sentimento d’inadeguatezza e d’inferiorità.

Tranne rari casi, dovuti a richieste genitoriali a tal punto eccessive da evocare una risposta opposizionistica, i bambini introversi hanno una vocazione intellettuale che spesso li porta a primeggiare nello studio. Anche quando non primeggiano, essi sviluppano interessi intellettuali particolari. Si dedicano alla lettura, manifestano una spiccata predilezione per la natura, si interessano vivamente degli animali, ecc. Il gioco solitario, che permette loro di abbandonarsi ad esprimere una fantasia straordinariamente ricca, li attrae costantemente più dei giochi di gruppo, caratterizzati da una competitività che non suscita il loro interesse.

L’adolescenza è uno snodo di particolare significato nell’esperienza introversa. La dilatazione degli orizzonti coscienti, che si apre sull’infinito, e gli interrogativi che tale dilatazione comporta esercitano spesso un effetto di cattura culturale. Gli adolescenti introversi sono naturalmente ‘filosofi’. S’interrogano di continuo sui perché ultimi dell’esistenza, e spesso sono spinti alla lettura e alla meditazione. Quest’effetto di cattura culturale coincide, quasi sempre, con un ritardo nella maturazione dei bisogni affettivi e sessuali. Il privato, negli introversi, ha un ruolo sempre secondario rispetto alla comprensione del mondo e della vita. L’isolamento che consegue allo schiudersi di una ricca problematica esistenziale è spesso accentuato da due circostanze. La prima concerne gli adulti. E’ in questo periodo che la fede cieca in essi viene compromessa definitivamente. L’idealizzazione degli adulti che, negli introversi, di solito si protrae alquanto rispetto alla media, s’imbatte, infatti, nella scoperta dei limiti degli adulti, vale a dire di contraddizioni, incoerenze, errori, atteggiamenti autoritari, che la dissolvono. La soggezione alle loro aspettative permane, ed è confermata da un atteggiamento adultomorfo e da un rendimento scolastico eccellente. La delusione comporta però spesso l’esigenza di diventare migliori degli adulti, e questo porta molti adolescenti introversi ad intrappolarsi in un modello di perfezionismo intellettuale e morale.

L’altra circostanza è legata al rapporto con i coetanei. Critico da sempre, questo rapporto diventa spesso apertamente conflittuale in questo periodo. L’adolescente introverso, che spesso non ha consapevolezza della sua diversità, assume spesso nell’intimo un atteggiamento di disprezzo per i comportamenti e gli stili di vita dei coetanei, che ritiene superficiali e insignificanti. Il suo comportamento, chiuso e per alcuni aspetti scostante, dà luogo ad un’interazione di gruppo emarginante. In questa fase, la solitudine totale è spesso scongiurata da una o due amicizie particolari, che si stabiliscono con coetanei affini e assumono un timbro particolare, talora ossessivo, d’intensità comunicativa e emozionale.

Ciò di solito non basta a salvaguardare l’introverso da un modo di sentire riguardo a sé che oscilla da un senso di superiorità assoluta ad un senso grave d’inadeguatezza. Per quanto il senso di superiorità, morale e intellettuale, non venga mai meno, spesso esso, confrontandosi con lo stato di cose esistente nel mondo, vale a dire con richieste comportamentali tutte incentrate sul modello estroverso, viene sormontato dal senso di inadeguatezza.

L’evoluzione ulteriore della personalità introversa dipende da variabili che è difficile organizzare in un discorso sistematico. Se i danni legati all’interazione sociale, di cui parlerò ulteriormente, non sono consistenti, e se l’intuizione della propria vocazione ad essere, pur non riconosciuta socialmente, si mantiene, l’evoluzione può essere positiva. Sia pure con un netto ritardo rispetto alla media, il bisogno di socialità privata affiora e si realizza in virtù di rapporti intensivi, ridotti di numero ma sempre molto partecipati e profondi. L’evoluzione della personalità può indurre poi un adattamento formale alle richieste dell’ambiente, in conseguenza del quale possono essere acquisiti moduli comportamentali almeno relativamente adattivi. I successi nello studio e nel lavoro possono promuovere conferme sociali che rimediano alle disconferme del passato. La diversità, infine, anche senza una piena consapevolezza del suo significato, può essere vissuta in positivo, come espressione della propria vocazione ad essere.

L’introverso adulto realizzato, per quanto sufficientemente adattato alla vita sociale, conserva però alcuni tratti tipici. L’inquietudine esistenziale e intellettuale non viene mai meno. Vita natural durante, l’introverso ha una naturale tendenza ad interrogarsi sulla realtà umana e sociale. Tale tendenza è imprescindibile dall’intuizione dei mondi possibili, che si traduce in un atteggiamento critico nei confronti del mondo così com’è. La sensibilità sociale comporta quasi sempre un atteggiamento scrupoloso al di sotto del quale urge la paura di potere danneggiare, sia pure involontariamente, gli altri. Il senso di giustizia e di pari dignità tra gli esseri umani, persistendo, pone sempre il problema di capire quel tanto d’insensibilità, di competitività e di ‘cattiveria’ che è propria della vita quotidiana.

Il senso del valore personale, anche quando è vivo, comporta, in conseguenza di un’intuizione profonda e irreversibile della potenziale grandezza umana, una tendenza all’umiltà, se non addirittura a una svalutazione di sé, che spesso determina riconoscimenti sociali al di sotto dei meriti personali. Ciò si associa costantemente alla sorpresa per la tendenza opposta, propria delle persone medie, a sopravalutarsi e ad esigere riconoscimenti sociali superiori ai loro meriti. La sorpresa è accentuata dal fatto che tali riconoscimenti, grazie alla furbizia, alla competitività, all’affiliazione clientelare, sono spesso conseguiti. Negli introversi si ritrova spesso un riferimento ad una meritocrazia assoluta associato all’aspettativa di un’autorità che la realizzi. E’ superfluo soffermarsi sulle delusioni che conseguono a tale aspettativa utopistica.

Nei rapporti privati, l’introverso mantiene un assetto comportamentale poco espressivo della profondità e dell’intensità dei suoi sentimenti. Ciò non esclude, anche se non rende facile, la possibilità che l’interazione con affini dia luogo a rapporti amicali, affettivi e familiari di eccellente qualità.

Un ultimo tratto di particolare significato è il potenziale evolutivo intrinseco all’introversione. Le persone mediamente dotate raggiungono, più o meno precocemente, un assetto di personalità destinato a durare negli anni. L’introverso di solito evolve con tempi molto più lenti ma con una progressione che dura tutta la vita. In nome della sua ricca interiorità e della sua tendenza ad interrogarsi di continuo sulla realtà, egli può andare incontro a sorprendenti salti di qualità anche in età matura.

Queste sono le caratteristiche proprie dell’introversione come espressione di un particolare corredo genetico. Com’è evidente, si tratta di caratteristiche diverse dalla norma, ma che hanno un loro significato. La descrizione, oggettiva e neutrale, ha ridotto al minimo le variabili dell’interazione con l’ambiente. Essa consente di capire che si danno delle difficoltà intrinseche nel modo di essere introverso, riconducibili essenzialmente al convivere con un mondo nel quale la maggioranza ha delle caratteristiche più o meno spiccate estroverse. Si tratta, però, sulla carta, di difficoltà minimali, ampiamente compensate dalla coltivazione delle potenzialità emozionali e intellettive, che può dare luogo a gratificazioni intense e esitare infine in una capacità di relazione sociale intensiva ma profonda e significativa.

Si tratta ora di capire quali sono di fatto le carriere degli introversi nel nostro contesto sociale, e le ragioni per cui esse, con una frequenza impressionante, danno luogo a problemi e disagi psicologici di vario genere, ma talora gravi, che vanno al di là di quelli propri di una condizione di diversità minoritaria.

 

3. Le carriere introverse

Le carriere degli introversi nella nostra società sono contrassegnate da vicissitudini varie che dipendono dai contesti d’interazione (famiglia, scuola, quartiere, ecc.) Cercherò di descrivere tali vicissitudini nelle varie fasi dello sviluppo della personalità, le cui conseguenze si rivelano talora a livello adolescenziale, giovanile o anche adulto. Tali conseguenze dipendono ovviamente dalla somma delle vicissitudini. Data la prevalenza normativa accordata al modello estroverso, nessun introverso nasce sotto una buona stella, ma i prezzi pagati alle ‘scelte’ della natura sono, ovviamente diversi.

Le fasi primarie dello sviluppo, data la natura quieta e naturalmente ordinata dei bambini introversi che dormono, mangiano regolarmente e piangono poco non sono problematiche.

Altro è il discorso per i rari bambini introversi la cui ricchezza emozionale, realizzando un effetto di turbolenza neuropsicologica, induce precocemente difficoltà inerenti il sonno e l’alimentazione. In questi casi, inesorabilmente, data la struttura nucleare della famiglia, la cui conseguenza è che il peso dell’allevamento ricade pesantemente sulle spalle della madre, si realizzano precocemente interazioni disturbate. Sottoposta ad uno stress continuo, la madre tende rapidamente ad esaurirsi e a reagire ai comportamenti del figlio con atteggiamenti d’insofferenza che, al limite, possono arrivare all’avversione e al rifiuto. Gli psicoanalisti hanno coniato, per circostanze del genere, la definizione di ‘bambini matricidi’. In realtà, questi bambini non hanno colpa alcuna del loro essere. Tanto è vero che i loro disturbi di comportamento sono dovuti ad una ricchezza emozionale che non trova modo, data la struttura ancora embrionale della personalità, di canalizzarsi, che dopo un periodo di tempo che va dai sei ai dodici mesi, quei disturbi tendono a scomparire e i comportamenti a refluire nell’alveo proprio dell’introversione. Purtroppo, questo accade di rado. Le reazioni avversative, consce e inconsce, dei genitori determinano, infatti, spesso una cronicizzazione dei disturbi comportamentali che assumono il significato di una protesta del tutto inconscia contro il ‘maltrattamento’.

L’esito della cronicizzazione dei disturbi comportamentali è che, non appena il bambino comincia a prendere coscienza di sé, egli, in nome della sua sensibilità empatica, si sente precocemente in colpa, di peso e cattivo. La memoria di questa ‘cattiveria’, spesso rievocata nel corso dell’analisi, induce poi quasi sempre, in un arco di tempo che va dai cinque ai dieci anni, un atteggiamento riparativo. Anche questi bambini, di solito, finiscono col diventare figli-modello, ma convivendo con una percezione di ‘cattiveria’ che persiste nel tempo.

Tranne questi casi, piuttosto rari, i bambini introversi incontrano le prime difficoltà dal momento in cui acquisiscono la stazione eretta, la deambulazione e l’uso del linguaggio. Talora queste difficoltà sono legate ad un difetto di sintonia con i genitori, la cui aspettativa univoca è quella di un figlio affettivamente espansivo e tenero nei loro confronti. Il comportamento del bambino introverso, che nutre sentimenti molto profondi ma non è incline ad esprimerli, tradisce queste aspettative e spesso dà luogo ad una disaffezione genitoriale che, talora, si esprime in un’aperta predilezione nei confronti di un altro figlio. Tale disaffezione fa sì che a questi, estroverso ma anche indocile, tutto viene perdonato, mentre il figlio introverso si sente investito inconsciamente da un giudizio costantemente negativo, nonostante si comporti bene.

La disaffezione può avere anche origini sociali. L’esibizione dei bambini a parenti, amici e conoscenti è una pratica costante nel nostro mondo, finalizzata alla gratificazione dei genitori. I bambini introversi da questo punto di vista rappresentano una ‘merce’ poco pregiata. Comunicano poco, e interagiscono negativamente con l’eccessiva familiarità degli adulti nei loro confronti. Ciò si spiega tenendo conto che, per comunicare, hanno bisogno di familiarizzare a lungo con le persone, e che, precocemente, valutano il comportamento altrui in termini di autenticità/inautenticità. L’atteggiamento degli adulti nei loro confronti, di fatto, spesso è rituale, formale, e viene interagito come tale. Ciò è confermato dalla predilezione che talora manifestano nei confronti di adulti riservati e parchi nelle manifestazioni mimiche e gestuali, nei quali riconoscono immediatamente una qualche affinità. In conseguenza del loro comportamento, il giudizio sociale di solito sottolinea il loro essere buoni, ma implica una sfumatura vagamente denigratoria, che fa riferimento al non essere simpatici.

L’acquisizione e l’uso del linguaggio rappresentano un motivo quasi costante d’interazione negativa con l’ambiente. Come si è detto, lo scarto tra emozionalità e strumenti espressivi fa sì che i bambini introversi parlano poco e, spesso, tardivamente (tra i due e i tre anni). L’importanza che la comunicazione verbale ha assunto nel nostro mondo fa sì che questo problema venga ad essere regolarmente drammatizzato dalle famiglie. Anche quando i pediatri confermano che lo sviluppo psicomotorio è normale, le famiglie leggono nell’uso tardivo del linguaggio un indizio di ritardo, e solitamente si affannano ad aiutare il bambino a parlare, con l’effetto di sottolineare negativamente questo comportamento.

L’inserimento dei bambini introversi nella scuola materna è programmato di solito precocemente, indipendentemente dalle esigenze familiari, in nome dell’aspettativa che l’interazione con i coetanei possa aiutarli a normalizzarsi. Si tratta di un errore di valutazione i cui effetti sono, di solito, molto incisivi sullo sviluppo.

Il bisogno di una socialità estensiva non fa parte del corredo di bisogni proprio di un bambino introverso, che intorno a tre anni predilige stare coi grandi, da solo nella sua cameretta a fantasticare o a giocare, e tutta’al più con uno o due bambini che abbiano qualche affinità con lui. Ciò spiega le reazioni spesso drammatiche d’attaccamento alla figura genitoriale che caratterizzano i tentativi d’inserimento scolare. Solo di rado, tali reazioni inducono i familiari a desistere. Più spesso, esse sono interpretati dai genitori e dagli insegnanti come indizi d’immaturità che confermano la necessità della socializzazione.

L’immersione in un ambiente affollato, nel quale non si dà alcuno spazio d’intimità, caratterizzato da comportamenti motori piuttosto vivaci, da un certo disordine, da un vocio continuo che talora realizza un vero e proprio inquinamento acustico, la necessità di partecipare ad attività e a giochi che non interessano realizzano un impatto soggettivo drammatico. I bambini introversi si sentono letteralmente violentati nel loro essere, costretti ad un’esposizione sociale penosa, sgradevole e insignificante. In analisi sovente quest’esperienza viene rievocata nei termini come di un angoscioso incarceramento. La reazione più comune è l’isolamento e il definirsi spesso di un atteggiamento chiaramente espressivo di un malessere profondo.

Le insegnanti segnalano regolarmente quest’atteggiamento ai familiari come un problema. Non di rado, cercano di capire esse stesse che cosa non funziona nel nucleo familiare, dando per scontato che il comportamento del bambino sia indiziario di una situazione di disagio familiare. Con notevole frequenza consigliano di consultare uno psicologo. Questa lettura pregiudiziale, che muove dal riferimento al comportamento del bambino medio e mediamente estroverso, induce ad adottare, a fin di bene, da parte delle insegnanti stesse e dei familiari, strategie che sono rimedi peggiori del male. Tali strategie sono univocamente riconducibili ad una sorta di socializzazione forzata. A scuola le insegnanti s’impegnano ad evitare l’isolamento costringendo il bambino a partecipare alle attività di gruppo e ai giochi. I familiari per conto loro tentano il più possibile di farlo stare coi coetanei, organizzando incontri con altre famiglie, festicciole, ecc. La conseguenza di tutto ciò è che alcuni bambini introversi subiscono la socializzazione forzata come un martirio e sviluppano, nel loro intimo, un desiderio sempre maggiore d’isolamento, una sorta di angoscia claustrofobica incentrata sulla fantasia di fuggire il più lontano possibile, e, purtroppo, un odio indifferenziato, conscio e inconscio, nei confronti del mondo.

Se mi si consente un paragone, che rende l’idea di questo dramma misconosciuto, verrebbe da dire che capita oggi ai bambini introversi di subire ciò che fino a qualche tempo fa subivano i mancini: di essere cioè assoggettati, a fin di bene e senza alcuna consapevolezza da parte degli educatori, ad una strategia correzionale che, non tenendo conto della loro vocazione ad essere decisa dalla natura, dei loro bisogni e dei loro tempi, finisce con l’incidere negativamente sullo sviluppo della personalità.

La strategia correzionale si prolunga talora nel corso degli anni. La tendenza all’isolamento, che al di là dei sei anni assume spesso il carattere di un raccoglimento con sé che comporta una precoce dedizione alla lettura, lo sviluppo di interessi particolari (come per esempio l’amore per gli animali) è sistematicamente ostacolata. Oltre agli incontri con altre famiglie alle festicciole, il bambino introverso viene spesso obbligato a praticare uno sport, inviato in parrocchia o, d’estate, in colonia.

L’avvio della scolarizzazione elementare ha un’importanza particolare. Si danno due diverse circostanze che dipendono da quanto è accaduto negli anni precedenti. Alcuni bambini introversi, che nel loro intimo sono già in guerra con un mondo che richiede prestazioni che essi non sono in grado di fornire, arrivano alla scuola elementare già incupiti e attestati su di un registro d’opposizionismo inconscio. Tranne l’eventualità rara dell’incontro con un insegnante che intuitivamente coglie le loro qualità e le valorizza, l’opposizionismo si traduce in un rendimento molto stentato che sembra confermare un’ipodotazione rispetto alla media. Anche in questo caso, le reazioni dei familiari sono decisive. Esse di solito muovono da una valutazione errata della situazione che riconduce le difficoltà nello studio ad una carenza intellettiva o ad una sorta d’innata, incoercibile pigrizia, confermata dalla tendenza all’isolamento e dal rifiuto delle attività fisiche. Questa valutazione misconosce il dramma emozionale e cerca di risolvere il problema in virtù di un aiuto tecnico. Un genitore o un ripetitore s’impegna ad aiutare il bambino nell’esecuzione dei compiti. Spesso ciò significa che egli si ritrova inchiodato al tavolino tutto il pomeriggio, impedito nel raccogliersi con sé e nel dedicarsi alle sue attività preferite, che quasi sempre implicano un bisogno spiccato di sapere o una qualche curiosità. La conseguenza di questa strategia è che il rendimento declina ulteriormente, e l’aiuto si incrementa. S’instaura un circolo vizioso che spesso approda ad una sorta d’istupidimento. E’ inevitabile, in tali casi, che il bambino stesso interiorizzi il giudizio sociale e giunga a ritenere di essere poco dotato o poco portato per lo studio. E’ ovvio che ciò coincide col vivere l’esperienza scolastica come un incubo che espone a brutte figure. I casi analizzati magistralmente da Alice Miller di bambini introversi considerati handicappati rientrano in quest’ambito.

Più spesso, la scolarizzazione elementare realizza un effetto di sblocco delle potenzialità intellettive. Sensibili alle aspettative familiari e al giudizio degli insegnanti, i bambini introversi spesso scoprono di potere con facilità raggiungere risultati scolastici eccellenti, e che l’isolamento nello studio, che li pone al riparo dalla socialità, è autorizzato dai familiari. Tali risultati, non sempre previsti, realizzano spesso però paradossalmente un circolo vizioso non meno pericoloso di quello analizzato in precedenza. Posto, infatti, che questi bambini, silenziosi e appartati, possono primeggiare nello studio, riscattando le loro manchevolezze caratteriali, le aspettative genitoriali e degli insegnanti diventano elevate. L’interiorizzazione di tali aspettative configura, nella mente del bambino, un obbligo assoluto, al quale egli si presta, talora per anni, volentieri per gli effetti sociali gratificanti che ne derivano. Tali effetti riguardano però esclusivamente i grandi, al cui giudizio il bambino tiene infinitamente. Per quanto riguarda i coetanei, lo stereotipo del primo della classe inviso e dileggiato, anche per invidia, purtroppo è una triste realtà, incrementata dal fatto che, oltre al rendimento, i bambini introversi manifestano anche una condotta inappuntabile, da ometti maturi. Per questo motivo, essi sono spesso dileggiati come ‘lecchini’ o presi in giro per la loro incompetenza negli sport e nelle attività ludiche di gruppo.

La conferma da parte dei grandi è un rimedio parziale a questa ‘persecuzione’, che, se già non c’è, incrementa la rabbia e l’odio sociale contro un mondo coetaneo rozzo e violento. Essa inoltre, a lungo andare, produce dei problemi. L’aumento progressivo del carico di studio alimenta nel bambino la paura di potere deludere le aspettative degli adulti e di perdere la loro stima. L’apparente facilità con cui egli raggiunge risultati eccellenti depista gli adulti dal capire il carico di ansia che grava nella sua anima. Si realizza, per questi motivi, uno scarto tra l’apparenza e l’esperienza interiore. Ciò che appare all’esterno, infatti, naturale – l’eccellente rendimento – e quindi non dovuto a sforzi particolari, spesso corrisponde a una tensione perpetua e ad un’applicazione costante allo studio, che induce il bambino introverso ad ignorare ogni altro suo bisogno, e a sviluppare la sua personalità, dotata sempre di una qualche grado di creatività, in maniera unilaterale. In alcuni casi, ricostruiti attraverso l’analisi, l’attività di studio, originariamente gratificante, si trasforma in una penosa ma inevitabile coercizione che fa sì che il bambino studia senza né partecipazione né passione, come una macchina obbligata a fornire prestazioni.

Anche quest’aspetto partecipa spesso ad incrementare una rabbia indifferenziata contro il sociale. Un ulteriore motivo di accumulo della rabbia è dovuto al fatto che il bambino si sente del tutto indifeso dai grandi, per i quali sacrifica la vita, per quanto riguarda la ‘persecuzione’ cui è sottoposto da parte dei coetanei. Una difesa costante contro questa persecuzione, a livello conscio e inconscio, è un disprezzo più o meno accentuato che il bambino avverte nei confronti dei coetanei che, oltre che rozzi e superficiali, giunge a vivere come irresponsabili, pigri e colpevolmente svogliati nell’esecuzione dei loro doveri. Tale disprezzo, ovviamente, non migliora di certo l’interazione con i coetanei.

L’isolamento, come si è accennato, è talvolta sormontato in virtù dello stabilirsi di relazioni particolarmente significative con uno o due coetanei con cui si dà una qualche affinità. Si tratta di circostanze spesso fondamentali nel permettere al soggetto di esprimere le sue emozioni e la sua affettività in un ambito privato ed esclusivo. Ma esse comportano qualche rischio. I bambini introversi, infatti, sono esigentissimi per quanto riguarda gli affetti. Essi li sacralizzano e li idealizzano aspettandosi dagli altri costantemente comportamenti conformi ai loro, che sono corretti e scrupolosi. L’idealizzazione dell’amico o dell’amica del cuore è spesso fonte di delusioni gravi, che sopravvengono anche per futili motivi nei quali l’introverso legge un tradimento, e la cui conseguenza può essere una chiusura totale all’affettività.

L’adolescenza degli introversi può risultare travagliata per molteplici motivi. Il ritardo nella maturazione dei bisogni affettivi e degli interessi sessuali accentua la loro diversità comportamentale rispetto ai coetanei. Nei rari casi caratterizzati da un rendimento scolastico mediocre, tale diversità sembra comprovare un difetto di base della personalità. Nei casi molto più frequenti di un rendimento scolastico elevato, essa viene percepita socialmente come una ‘stranezza’. Una differenza importante di cui tenere conto, a questo livello, è l’identità sessuale. Le ragazze introverse, che spesso sviluppano tardivamente e sembrano permanere in una sorta di limbo innocente per quanto riguarda l’altro sesso, incorrono in un giudizio familiare più sereno. Esse sono, infatti, vissute come ragazze ‘virtuose’, destinate a non creare problemi. Il rapporto con le coetanee, che in genere, cominciano ad interessarsi ai ragazzi, a curare l’aspetto estetico, a leggere riviste infarcite di pettegolezzi e di rubriche superficiali, ad ascoltare la musica leggera di moda, si deteriora ulteriormente. La ‘stranezza’ dei ragazzi viene invece spesso colta con preoccupazione e crea qualche dubbio su di un loro presunto orientamento sessuale anormale. In alcuni casi, caratterizzati dal fatto che i genitori sono appagati dal primato scolastico del figlio, questa preoccupazione rimane latente. In altri casi, essa diventa ossessiva e dà luogo a strategie correzionali. Il figlio è sollecitato ad uscire di casa, a stare coi coetanei, viene spesso interrogato sulla sua vita privata – se sente o non sente interesse per le ragazze -, e investito da un’ansia normativa alla quale gli riesce difficile dare senso.

Il ritardo nella maturazione affettiva e sessuale è associato costantemente con una maturazione intellettuale di gran lunga superiore alla media. L’adolescente introverso non può fare a meno di interrogarsi sulla vita, sulla morte, sullo stato di cose esistente nel mondo, sulla sua diversità, che vive nettamente, sul modo di essere degli altri, ecc. Questi interrogativi, ai quali non riesce a dare una risposta, promuovono spesso un livello di ansia piuttosto elevato. L’impossibilità di comunicare con qualcuno riguardo a questa problematica, che non interessa i coetanei e che gli adulti non ritengono pertinente, promuove spesso, in questa fase la scoperta, attraverso la lettura, di anime grandi con le quali l’introverso scopre una profonda affinità. Si definiscono pertanto interessi intellettuali che riguardano la letteratura, l’arte, la filosofia, la musica, la religione che talora assorbono completamente l’introverso, e lo fanno sentire sempre più lontano dal modo di essere corrente. Associata allo studio, la pratica degli interessi intellettuali, che talora esita anche in tentativi di esprimersi attraverso la poesia, la pittura, la musica, accentua l’isolamento sociale.

Riguardo a quest’aspetto, non si può non considerare il fatto che il giudizio sociale, che sottolinea questo isolamento come negativo, non ne coglie il senso. Esso, infatti, condizionato da un criterio banale di normalità, identifica la socialità con l’interazione interpersonale, e di conseguenza trascura il fatto che l’amore per la cultura esprime un bisogno di socialità qualitativo che, non potendosi realizzare nel contesto d’interazione, imbocca la via della comunicazione con le anime grandi che hanno consegnato il loro mondo interiore a prodotti sopravvissuti nel tempo. Molti adolescenti introversi che si dedicano alla cultura sentono di comunicare con mondi di esperienza soggettivi che hanno una qualche affinità con il loro, nei quali si riconoscono e che capiscono intuitivamente. Il loro isolamento sociale attesta dunque un bisogno di socialità intenso ma qualitativamente elevato, troppo diverso rispetto alla media dei coetanei e spesso degli adulti.

Talora l’adolescente introverso trova nella religione la risposta ai suoi problemi. Ma questa risposta, che per alcuni anni può riuscire soggettivamente appagante, comporta altri problemi. Tre in particolare vanno rilevati. Il primo fa capo al fatto che la sensibilità religiosa dell’introverso lo induce facilmente ad adottare come modello di sé il modello di perfezione proposto dalla religione, e quindi ad ingabbiarsi in un perfezionismo morale che gli impone obblighi coercitivi morali rilevanti. Il secondo va ricondotto alla difficoltà di accordare la pratica delle virtù, e in particolare l’altruismo, con una percezione del mondo sociale caratterizzata da quote più o meno rilevanti di rabbia e d’odio. Il terzo infine riguarda il corpo e la sessualità. L’orientamento religioso, adottato nella dimensione moralistica propria del nostro contesto, induce, infatti, un disprezzo per tutto ciò che è materiale che orienta l’adolescente introverso verso pratiche di vita ascetiche. Tutto ciò non avviene unicamente nel foro soggettivo. L’influenza di alcuni familiari, profondamente religiosi, è rilevante, come pure il contatto con ambienti religiosi. Come gli insegnanti trovano spesso negli introversi gli alunni che, con le loro prestazioni, possono ripagarli di molteplici frustrazioni, così alcuni religiosi (suore, sacerdoti) profittano della loro sensibilità religiosa per avviarli nei vicoli ciechi della perfezione morale e dell’altruismo sacrificale. E’ vero che la pratica religiosa, che si realizza spesso attraverso la partecipazione alla comunità parrocchiale, ha un effetto socializzante. Ma i suoi risultati sono solitamente negativi, perché essa finisce col sovrapporre il vangelo dell’amore indifferenziato per il prossimo ad una soggettività che, per arrivare a praticarlo, deve risolvere il problema di capire il senso della ‘persecuzione’ sociale cui è stata sottoposto e il senso ultimo della sua rabbia nei confronti del mondo.

Se il perfezionismo intellettuale, morale e religioso è la trappola nella quale più costantemente finiscono gli introversi, che li candida a sviluppare qualche forma di disagio, non si può ignorare un’altra, più rara, possibilità evolutiva. Oppressi dalla loro diversità, incapaci di dare ad essa senso e intimamente desiderosi di liberarsene per diventare come gli altri e sfuggire al giudizio sociale negativo, alcuni adolescenti introversi fanno proprio il modello di normalità corrente e, dopo avere interagito nell’intimo opposizionisticamente con tutte le strategie correzionali adottate dagli educatori, ne adottano una essi stessi. Talora questo cambiamento avviene consapevolmente. L’adolescente introverso s’impone pertanto di imitare i comportamenti e gli stili di vita degli estroversi, s’intruppa in comitive di coetanei, adotta il loro linguaggio, tenta di stabilire un rapporto con l’altro sesso. Quasi sempre questo cambiamento coincide con un netto decremento del rendimento scolastico. In alcuni casi, lo studio, ritenuto responsabile dell’isolamento, viene addirittura rifiutato.

Altre volte, il cambiamento sopravviene inconsapevolmente sotto la spinta di un’esasperazione che induce l’adolescente ad affrancarsi non solo dal perfezionismo, che rappresenta di fatto una schiavitù dalla volontà e dalle aspettative altrui, bensì anche dalla sua sensibilità e scrupolosità. Accade di conseguenza che un adolescente sino allora timido e inibito si trasformi in un essere spigliato ma duro e cinico che, caratteristicamente, gode di far soffrire i più deboli, prendendoli in giro o attaccandoli; o che un’adolescente riservata e ritrosa si lanci in avventure amorose molteplici, prenda a frequentare cattive compagnie, ecc.

Tranne questi casi, piuttosto rari, l’evoluzione dell’introverso dai quindici ai vent’anni è caratterizzata da un senso penoso di diversità che spesso viene sottolineata impietosamente dai coetanei. In alcuni casi il difetto di conferme trasversali radicalizza la dipendenza dagli adulti che viene coltivata attraverso un comportamento conforme alle loro aspettative. In altri casi, l’emarginazione viene compensata da una pratica religiosa che assume spesso una configurazione ossessiva. Non di rado, la solitudine orienta verso interessi del tutto particolari – psicologia, filosofia, arte, musica, scrittura, ecc. – la cui coltivazione, non potendo essere condivisa, induce spesso uno stato d’animo leopardiano, vale a dire l’intuizione di una grandezza interiore del tutto inutile.

Non si può a questo punto non fare riferimento al problema dell’estrazione sociale e del contesto d’interazione. Sempre problematica, la condizione introversa, quando si realizza in un contesto acculturato, può per molti anni essere compensata dallo studio e dalla pratica di interessi vari. Ma, ignorando la genetica le differenze di classe, avviene con altrettanta frequenza che un introverso si trovi ad evolvere in un contesto estremamente povero di stimoli culturali, in una situazione abitativa sovraffollata, senza alcuno spazio fruibile di intimità, in un quartiere periferico disgregato o in un ambiente provinciale dove la socializzazione estensiva è un obbligo rituale. Queste condizioni, del tutto sfavorevoli, determinano quasi sempre il definirsi precoce di una qualche patologia.

4. Introversione e disagio psichico

La frequenza con cui, nel corso della psicoterapia, si ricostruisce una carriera introversaa è a tal punto elevata che è difficile considerarla casuale. A livello della fascia di età che va dai quindici ai venticinque anni, su dieci giovani che chiedono aiuto per una situazione di disagio psicopatologico conclamata (vale a dire caratterizzata da sintomi, vissuti e comportamenti che incidono sull’organizzazione della vita e spesso sono socialmente visibili), cinque o sei di fatto hanno alle spalle una carriera del genere. Per quanto riguarda gli altri, notevole è anche la frequenza con cui si ricostruisce una carriera riconducibile ad un’iperdotazione estroversa. Si dà poi una quota residua di soggetti normodotati che, nel loro tragitto evolutivo, si sono imbattuti in circostanze ambientali particolarmente sfavorevoli. Se si considera la bassa incidenza statistica dell’orientamento introverso e la frequenza con cui esso si riscontra nei soggetti giovanili che sviluppano un disagio psichico, non si può non rimanere sorpresi.

Venire al mondo con un corredo genetico introverso, quasi sempre iperdotato, è un fattore di rischio. Ciò si può spiegare solo o ipotizzando che l’iperdotazione si associ costantemente ad una ‘vulnerabilità’ costituzionale o ritenendo che il mondo sociale, organizzato a livello istituzionale e culturale in maniera tale da promuovere lo sviluppo e l’inserimento del cittadino medio, non offra adeguate opportunità di sviluppo a coloro che, geneticamente, hanno una vocazione ad essere che non coincide con tale modello.

Ciò che si è detto nel capitolo precedente ha fornito alcuni dati sulle interazioni degli introversi con l’ambiente. Si tratta, ora, di capire come tali interazioni possano promuovere un disagio psichico. Occorre, a tale fine, cercare di mettere a fuoco, al di là delle singole situazioni, la dinamica d’ordine generale che sottende un disagio psichico.

La programmazione che sottende lo sviluppo e l’evoluzione della personalità, come si è accennato, si fonda su due programmi genetici. Trattandosi di programmi che rappresentano, a livello psicobiologico, gli equivalenti degli istinti, dal cui allentamento essi hanno tratto presumibilmente origine, ho ritenuto lecito definirli come bisogni. Il programma socializzante può, di conseguenza, essere denominato più propriamente bisogno di appartenenza/integrazione sociale; il programma individuante più propriamente bisogno di opposizione/individuazione. Questa terminologia chiarisce meglio la loro funzione.

Il bisogno di appartenenza/integrazione sociale è deputato a promuovere l’identificazione col gruppo, l’acquisizione dei valori culturali e dei moduli comportamentali sui quali si fonda la sua identità e la sua coesione e, infine, sulla base della maturazione affettiva e dell’acculturazione, l’assunzione di una serie di ruoli che favoriscono l’inserimento sociale. Per quanto tale bisogno sia rappresentato in tutti i corredi genetici individuali, è evidente che la sua funzione è di canalizzare le potenzialità individuali in una direzione compatibile con lo status quo e con l’equilibrio del sistema sociale. Di fatto su tale bisogno si struttura una funzione, costantemente attiva a livello inconscio e sempre più debolmente rappresentata a livello cosciente, che la psicoanalisi ha denominato super-io. Per quanto linguisticamente brutto, il termine ha una sua densità di significato. Esso attesta, infatti, che nella struttura della soggettività, se ne renda o no conto l’individuo, il sociale è rappresentato in termini antropomorfici, vale a dire nella forma di una ‘volontà’ altrui, collettiva, che richiama il soggetto al rispetto dei valori culturali interiorizzati e valuta i suoi comportamenti in rapporto ai ruoli assegnati. Il super-io adotta dunque una logica sistemica, in nome della quale la libertà individuale è subordinata all’identità e alla coesione del gruppo di appartenenza. Come Jung ha intuito, la personalità di base che si costruisce sul bisogno di appartenenza/integrazione sociale è una ‘maschera’ che funziona in nome della necessità di assicurarsi conferme sociali, ed è dunque immediatamente connivente con le aspettative ambientali, quali che siano. Solo in circostanze eccezionali, tale personalità comporta un dispiegamento completo delle potenzialità individuali. Più spesso, richiede il sacrificio di una quota di esse.

Il bisogno di opposizione/individuazione è deputato, viceversa, a promuovere la definizione di un’identità individuale differenziata da tutte le altre. Esso riconosce la sua matrice nella vocazione ad essere propria di un determinato corredo genetico. Dato che l’acquisizione di una minimale coscienza di sé dipende dalla socializzazione e che in nessun caso le aspettative ambientali possono coincidere puntualmente con quella vocazione, il processo d’individuazione non può avviarsi che sulla base dell’opposizione della volontà propria a quella altrui, reale e interiorizzata. Solo nel corso dello sviluppo della personalità, l’individuazione si realizza, attraverso l’assimilazione dei valori culturali, in virtù di un modo di sentire, di pensare e di agire nel quale l’io si riconosce e che può essere più o meno corrispondente alle aspettative ambientali. Sul bisogno di opposizione/individuazione si struttura una funzione, attiva a livello inconscio a partire da una minimale organizzazione dell’io e sempre più debolmente rappresentata a livello conscio, che ho denominato io vocazionale o antitetico. Questa qualificazione serve a mettere in rilievo le sue radici psicobiologiche, che affondano nelle potenzialità proprie del corredo genetico individuale, e, nello stesso tempo, un’univoca componente antitetica che lo caratterizza il cui grado dipende dal rapporto di compatibilità o incompatibilità delle aspettative ambientali rispetto a quelle potenzialità. A differenza del super-io, che fa riferimento da una logica sistemica, l’io antitetico si fonda su di una logica che privilegia i diritti individuali rispetto ai doveri sociali.

L’intuizione dell’importanza del processo d’individuazione spetta a Jung che ne ha colti pressoché tutti gli aspetti. Egli scrive: " (L’individuazione) è il processo di formazione e di particolarizzazione dell’individuo, in particolare dell’individuo psicologico come essere distinto dall’insieme, dalla psicologia collettiva. L’individuazione è dunque un processo di differenziazione che ha per scopo lo sviluppo della personalità individuale ed è una necessità naturale; ostacolarla con regolamentazioni rigide o esclusive, secondo le norme collettive, pregiudicherebbe molto l’attività vitale dell’individuo. Ora, l’individualità è già data fisicamente e fisiologicamente: ne deriva la sua corrispondente espressione psicologica ed ostacolare il suo sviluppo equivale a deformare artificialmente il soggetto. Un gruppo sociale composto di unità deformate non potrebbe essere un’istituzione né sana né vitale: solo la società che può conservare contemporaneamente la sua coesione intima e i suoi valori collettivi, ed accordare all’individualità la maggiore libertà possibile, può sperare in una durevole vitalità; l’individuo non è soltanto unità, la sua esistenza stessa presuppone rapporti collettivi, così che il suo processo d’individuazione non porta all’isolamento, ma ad una coesione sociale più intensa ed universale…

L’individuazione non può mai costituire l’unico scopo dell’educazione psicologica; l’educazione, prima di avere come scopo l’individuazione, deve averne raggiunto un altro: l’adattamento al minimo di regole collettive necessario all’esistenza… l’individuazione è sempre più o meno in opposizione con la norma collettiva, perché è separazione e differenziazione dall’insieme, formazione dell’originalità, non di un’originalità ricercata, ma di quella che è data a priori nella disposizione del soggetto. Però la sua opposizione alla norma collettiva è solo apparente: a ben guardare si nota che il punto di vista individuale non è opposto alla norma collettiva, ma ha semplicemente un altro orientamento." (op. cit. pp. 419-420)

Le intuizioni di Jung non hanno avuto un adeguato sviluppo teorico perché egli, in polemica con Freud, non ha mai accettato una concezione strutturale della personalità umana. Il suo modello psicologico e psicopatologico, pertanto, benché ricco, articolato e suggestivo, presenta notevoli lacune epistemologiche. La teoria dei bisogni intrinseci, a mio avviso, risolve tali lacune, poiché essa porta immediatamente a considerare la personalità come una dimensione trifunzionale.

Il super-io e l’io antitetico rappresentano substrutture dell’io dotate ciascuna di una propria logica e capaci dunque di produrre flussi di pensiero, di emozioni e spinte comportamentali consequenziale a tale logica e ai sistemi di valori culturali che la integrano. All’io è delegato il compito di mediare l’intrinseca tensione costitutiva delle substrutture, vale a dire di cercare un qualche equilibrio tra i doveri sociali e i diritti individuali. Questo compito dipende però dalla valenza dinamica delle substrutture. C’è un punto critico al di là del quale la tensione tra di esse si trasforma in conflitto o addirittura in scissione, e la cui conseguenza è il definirsi di una situazione d’instabilità strutturale della personalità che può rimanere latente anche molto a lungo, ma prima o poi è destinata a tradursi in fenomeni psicopatologici.

Qualunque conflitto strutturale contrappone irriducibilmente, sia pure con uno spettro diverso d’intensità, due orientamenti, due stili di vita, due modi di essere, di sentire, di pensare e di agire poco o punto compatibili. L’uno, infatti, promosso dal super-io, tenta di subordinare il soggetto al rispetto dei valori culturali propri del gruppo di appartenenza, vale a dire di conformarlo ai ruoli e ai moduli comportamentali dettati da tali valori; l’altro, promosso dall’io antitetico, tenta di affermare i diritti dell’individuo nella forma di una rivendicazione di libertà che, in misura più o meno rilevante, trascende quei ruoli e quei moduli. Il super-io si avvale del potere di rappresentare, all’interno della soggettività, la società, Dio o un ordine cosmico supremo. L’io antitetico può opporre a tale potere solo il riferimento da una vocazione ad essere vissuta visceralmente come irrinunciabile. Il primato del sociale interiorizzato a livello inconscio è però tale che l’io antitetico, frustrato nel suo dispiegamento, assume spesso una configurazione anarchica, trasgressiva, asociale e antisociale che promuove processi di colpevolizzazione di ogni genere.

Il corredo genetico introverso è già di per sé esposto al rischio di una scissione in virtù del fatto che entrambi i bisogni sono in esso rappresentati con una particolare intensità dovuta alla ricchezza delle emozioni. Se questo dato è comune a tutti gli introversi, non si può negare che esista uno spettro caratterizzato dalle più varie combinazioni dei bisogni.

I limiti estremi dello spettro sono comprovati da due tragitti di esperienza che esitano entrambi in un disagio psicopatologico. Il primo è caratterizzato dal fatto che la sensibilità sociale, inducendo un’identificazione precoce con le figure adulte e la registrazione delle loro aspettative consce e inconsce, dà luogo ad una strutturazione superegoica molto rigida che obbliga il soggetto a funzionare in nome della volontà altrui e frustra, in maniera talvolta radicale, qualunque espressione oppositiva del bisogno d’individuazione. Si realizzano in conseguenza di ciò le esperienze dei ‘bambini d’oro’ che, benché un po’ riservati e impenetrabili, sono però docili, ubbidienti, ossequiosi nei confronti degli adulti, perfettamente rispondenti alle loro aspettative, e spesso molto educati anche nei rapporti con i coetanei, improntati da una certa scrupolosità. Si tratta di bambini che non danno alcun problema, vivono interiormente come un dramma la possibilità di essere di peso, di dare fastidio, di deludere i grandi, e la cui evoluzione lineare, che non riconosce alcuna fase di turbolenza, comporta uno sforzo interiore costante che non trapela all’esterno. Per questo motivo, facilmente si può essere indotti a pensare che la loro docilità, il comportamento precocemente maturo, le prestazioni scolastiche spesso eccellenti vengano loro naturali. L’apparenza però inganna. L’esperienza interiore dei ‘bambini d’oro’, com’è attestato dalla ricostruzione che se ne fa nel corso dell’analisi, è drammatica. Per un verso, infatti, essi sono costantemente angosciati dalla possibilità di non riuscire ad essere sempre all’altezza delle aspettative degli adulti, di poterli deludere e di perdere repentinamente la loro stima. Per un altro, la sensibilità empatica li spinge a riferire a sé tutti gli stati d’animo negativi degli adulti, a sentirsene in colpa e ad avvertire l’obbligo di essere sempre migliori. Nel corso della crescita, questo orientamento, che quasi sempre esita nel perfezionismo, si associa però inevitabilmente alla presa d’atto che gli altri, nel loro comportamento quotidiano, prescindono, in misura più o meno rilevante, dal rispettare i valori culturali e morali a cui il soggetto si sente obbligato a tenere fede. Tale scoperta, che riguarda sia i coetanei sia gli adulti, ha un effetto dirompente. Essa non induce, se non rarissimamente, un allentamento del perfezionismo, ma associa ad esso una rabbia vivissima per lo stato di cose esistente nel mondo e una tendenza a giudicare gli altri in termini severamente negativi.

C’è poi un aspetto del tutto inconscio, decisivo sotto il profilo psicopatologico. La frustrazione radicale del bisogno d’opposizione dà sempre luogo al definirsi di un io antitetico che identifica l’affrancamento dalla schiavitù relazionale con l’autosufficienza, l’insensibilità, l’egoismo e il cinismo, e promuove un orientamento spiccatamente ostile ai doveri, alle regole, alle norme e ai valori sociali e morali.

Le conseguenze del conflitto tra un super-io perfezionista, che impone di vivere in una condizione innaturale di ‘virtù’ e d’innocenza, e un io antitetico che rivendica la libertà in termini egoistici e trasgressivi dipendono da una serie di variabili due delle quali sembrano di particolare importanza. La prima concerne il contesto familiare. Se, infatti, il contesto, che pure ha trasmesso i valori superegoici, è affettivamente caldo e se gli adulti stessi sacrificano la loro vita sull’altare di quei valori, il debito di gratitudine potenzia a dismisura il super-io. In conseguenza di ciò i richiami al dovere che da esso provengono possono essere vissuti coscientemente dal soggetto come assoluti e inappellabili. Se viceversa il contesto familiare è freddo e autoritario e gli adulti trasgrediscono i valori che hanno trasmesso, l’io antitetico può potenziarsi sino ad assumere una configurazione aggressiva e vendicativa.

La seconda circostanza riguarda la carriera sociale del soggetto. Se egli, infatti, è stato universalmente gratificato per il suo comportamento, il senso di colpa per la rabbia repressa e per l’orientamento anarchico si configura come intenso e grave. L’io antitetico può, in tali casi, essere facilmente percepito intuitivamente come espressione di una natura ‘tarata’ e malvagia. Se, viceversa, il soggetto è stato esposto, in particolare da parte dei coetanei, ad una ‘persecuzione’ fatta di prese in giro, dileggi e prepotenze fisiche, la rabbia inconscia giunge ad essere giustificata e il soggetto può sentirsi autorizzato a vendicarsi.

Le conseguenze del conflitto sono varie. In alcuni casi esso viene ad essere congelato in virtù dello strutturarsi di una personalità disturbata. Occorre considerare a riguardo due possibilità. La prima concerne lo strutturarsi di una personalità ossessiva, che rimane perfettamente adeguata all’ambiente ma in virtù di un regime interiore caratterizzato da un ritiro pressoché completo delle emozioni, soprattutto di quelle empatiche. In conseguenza di ciò, il soggetto appare nella vita quotidiana normale e inappuntabile. Il disturbo dovuto all’anestesia emozionale affiora però periodicamente, soprattutto entro spazi privati, sotto forma di comportamenti del tutto inconsapevoli oggettivamente inopportuni, insensibili e cinici.

La seconda possibilità è caratterizzata dallo strutturarsi di una personalità narcisistica, apparentemente poco o punto sensibile socialmente, che non si abbandona pressoché mai all’affettività, e coltiva un implacabile egoismo.

Laddove il conflitto non viene ad essere congelato da una struttura caratteriale, esso si può esprimere in forme psicopatologiche le più varie.

La prevalenza dinamica del super-io, che implica livelli molto intensi di colpevolizzazione, può dare luogo a degli attacchi di panico o a delle depressioni, che conseguono l’effetto di scongiurare l’entrata in azione dell’io antitetico e fanno pagare al soggetto le sue presunte colpe. Frequente è anche l’insorgenza di una sindrome ossessivo-fobica che cristallizza, attraverso i rituali, i comportamenti nei moduli prescritti dai valori superegoici, impone, attraverso la scrupolosità, una preoccupazione costante per le conseguenze dei propri atteggiamenti a carico degli altri, e, spesso, fa balenare all’orizzonte dell’esperienza soggettiva il fantasma dell’esclusione dal contesto sociale (morte, manicomio, carcere). In alcuni casi, per effetto dei sensi di colpa e della fobia dell’esposizione sociale, si realizzano anche forme di insabbiamento giovanile che, a lungo andare, possono avere sviluppi psicotici. Il primato del sociale interiorizzato sull’individuo può giungere, infine, ad esprimersi d’emblée sotto forma di delirio persecutorio. L’esperienza del deliro ha una particolare importanza teorica. Esso, infatti, determinando spesso un orientamento autistico, sembra confermare il carattere dereistico della personalità su cui si impianta, il suo distacco dal mondo. Nello stesso tempo, però, il delirio pone in luce una drammatica apertura comunicativa al sociale che si traduce nell’impossibilità del soggetto di schermare e privatizzare la sua esperienza in rapporto alle influenze esterne.

La prevalenza dinamica dell’io antitetico può dare luogo, soprattutto a livello adolescenziale, a repentini cambiamenti comportamentali che portano il soggetto dalla normalità al confine della devianza, e talora al di là di essa. Attribuiti ad un cambiamento di carattere, tali situazioni sono di solito caratterizzate dalla ricerca quasi ossessiva di rapporti con gruppi coetanei ‘alternativi’ il cui stile di vita in precedenza era stato sempre criticato e rifiutato. Animato dalla volontà di un cambiamento radicale di vita, il comportamento del soggetto appare spesso duro, arrogante e tracotante. La negazione della sensibilità comporta spesso una tendenza spiccata a far pagare ai più deboli, in termini di derisione, ciò che il soggetto ha subito in passato. Con notevole frequenza, l’arginamento dei sensi di colpa, che, in profondità si accumulano, richiede il ricorso alle droghe, almeno leggere. La parabola di queste esperienze è varia, ma molto spesso esse vengono interferite dall’insorgenza di attacchi di panico o da una depressione. Più di rado, finiscono con l’attivare un episodio psicotico.

In altri casi, la rottura comportamentale avviene più subdolamente sotto forma di progressiva inadempienza dei doveri sino allora eseguiti alla perfezione, di atteggiamenti aggressivi rivolti verso i familiari, di perdita di soggezione nei confronti dell’autorità e del giudizio sociale. La differenza tra queste situazioni e le normali crisi adolescenziali è che esse tendono a cronicizzare e a radicalizzarsi, associandosi quasi sempre a dei sintomi intercorrenti di carattere depressivo o ossessivo, e non sono compensate dalla ricerca di rapporti con coetanei.

Non poche esperienze introverse procedono al di là dell’adolescenza senza che si manifestino rilevanti sintomi psicopatologici. In questi casi, però, nonostante una condotta di vita apparentemente normale, i soggetti continuano ad avvertire con un senso di diversità rispetto alla media delle persone che dà luogo ad una fluttuazione nella valutazione di sé tra superiorità e inferiorità. La normalità apparente è ricorrentemente posta in dubbio da crisi di depersonalizzazione nel corso delle quali i soggetti sentono di non essere nella loro pelle, non si riconoscono nei ruoli sociali assunti. Talora questo vissuto può arrivare alla percezione del mondo come una realtà illusoria o falsa. Nella vita quotidiana, gli introversi osservano attentamente gli altri, rimanendo sorpresi della loro superficialità e della facilità con cui agiscono comportamenti ingiusti e/o insensibili. Talora li invidiano per la fluidità della loro esperienza, che sembra immune dagli scrupoli da cui essi sono affetti, talaltra li disprezzano. Sono in genere severissimi nel giudizio, non perdonando errori né a sé né agli altri. Nutrono un sentimento elevato della vita che, non trovando riscontro nella realtà quotidiana, determina spesso delusioni, frustrazioni, rabbie, ecc. Sulla base di questi vissuti inapparenti, si possono realizzare anche in età adulta manifestazioni psicopatologiche.