Introversione e solitudine


1.

Il Forum della LIDI è ormai ingombro di messaggi che rilevano, soprattutto a livello giovanile, la condizione di solitudine in cui vivono gli introversi. E’ un vissuto di cui non si può non tenere conto, perché, in qualche misura, esso si perpetua spesso anche nell’esperienza degli adulti.

Penso di aver scritto, qua e là, affrontando sia situazioni psicopatologiche specifiche (attacchi di panico, depressioni, ecc.) sia nodi teorici di ordine generale (dipendenza/indipendenza) già abbastanza su questo tema, e di aver riversato parecchie riflessioni a riguardo nella recensione del libro di Storr.

Occorre evidentemente insistere perché, intorno al vissuto di solitudine, si aggregano gran parte delle tematiche proprie dell’essere introversi nel nostro mondo.

Parto da una considerazione che si può ritenere ovvia, e che invece, a mio avviso, non lo è.

Tranne Freud e alcuni psicoanalisti che, ancora oggi, si riconducono alle sue ipotesi pessimistiche sulla natura umana, che non riconoscerebbe nel suo corredo alcun autentico bisogno di relazione sociale, tutti gli studiosi di antropologia (intesa in senso lato) sono d’accordo sul fatto che l’uomo è un animale sociale, destinato a vivere dall’inizio alla fine in una condizione d’interazione con i simili ed animato dall’esigenza di essere riconosciuto dagli altri e di stabilire rapporti significativi con essi.

Se si parte da questo presupposto, la solitudine come conseguenza di uno scarso o assente riconoscimento sociale e/o di una difficoltà persistente di stabilire legami significativi affettivi, sembra immediatamente giustificare il senso di vuoto, di isolamento, di estraneità al mondo, di angoscia che pervadono l’esperienza di molti introversi.

Il problema, però, non è così semplice come potrebbe apparire.

Storr ha perfettamente ragione nel sostenere che l’evoluzione della personalità umana deve articolarsi sulla base di due obbiettivi: la capacità di stare con gli altri e quella di stare con sé, da soli.

Si tratta di obbiettivi entrambi importanti per quanto nel nostro mondo il secondo, sia a livello formativo che soggettivo, viene sistematicamente misconosciuto. Il motivo di questa “rimozione” è evidente. L’egemonia del modello normativo estrovertito dà un’estrema importanza all’acquisizione di moduli comportamentali che consentono di interagire con gli altri, con il mondo esterno nelle più varie circostanze e non ne dà alcuna all’acquisizione di strumenti che consentono di stabilire un rapporto significativo con se stessi, con il mondo interno.

Si può capire meglio questo aspetto se si tiene conto del modo in cui l’evoluzione della personalità viene oggi concepita, come passaggio da una condizione originaria di dipendenza radicale dai curanti ad una socializzazione che si avvia precocemente, attraverso l’istituzionalizzazione del bambino, e, in virtù del tragitto scolastico prima e dell’apertura poi, in epoca adolescenziale, ad una socialità spontanea, dà luogo, al termine dell’evoluzione, alla definizione di un io dotato di competenze sociali.

In questa ottica, dunque, il passaggio va da una dipendenza radicale originaria, imposta dall’inadeguatezza psicologica del bambino, all’indipendenza dell’adulto, che si muove a proprio agio nel mondo sociale. Essa non comporta alcun riferimento al fatto che, per evitare che la socialità giovanile o adulta sia semplicemente un trasferimento di dipendenza dal gruppo familiare al mondo extrafamiliare, si richiede lo stabilirsi di una relazione significativa con se stessi.

E’ fuori di dubbio che questa relazione non potrebbe darsi in difetto di un’interazione con il mondo sociale. Posto però che tale interazione si dia, il definirsi di un mondo interiore autonomo è o dovrebbe essere caratterizzato dal fatto che il soggetto, stando da solo, può raccogliersi dentro di sé, riflettere sulla sua esperienza individuale, parlare con se stesso dandosi del tu, ecc. Questa modalità di relazione con sé, per quanto possa comportare anche valutazioni critiche o la presa di coscienza di contraddizioni da risolvere, dovrebbe realizzarsi in associazione ad un’emozione di intimità e di familiarità. E’ solo raccogliendosi dentro di sé che il soggetto può procedere verso un livello maggiore di autenticità, prendendo coscienza delle sue qualità, dei valori intrinseci alla sua esperienza, delle contraddizioni che richiedono di essere risolte e dei limiti che egli deve accettare in quanto non sormontabili.

Definire questa capacità di stare e di dialogare con sé come solipsistica è assurdo, poiché il raggiungimento di un rapporto di familiarità con il proprio mondo interiore (o con quello che si definisce il Sé) implica l’interiorizzazione di relazioni sociali significative che si mantengono sullo sfondo con il loro carico confermativo. Essa definisce il grado di autonomia che il soggetto ha raggiunto attraverso l’esperienza sociale, che lo pone in grado di prendere posizione su se stesso e sul mondo, di operare scelte significative, in accordo o in disaccordo con i codici normativi: in breve, di individuarsi (processo interminabile che, come noto, va ben al di là dell’acquisizione di uno statuto adulto di individuo, che implica solo l’adattamento al mondo così comìè e la capacità di agire convenientemente i ruoli sociali assegnati o scelti).

Se le cose stanno così, se cioè il raggiungimento dell’autonomia psicologica si può ritenere un momento fondamentale nello sviluppo e nella strutturazione della personalità, al di là del quale il soggetto dispone della capacità di relazionarsi con gli altri senza la necessità di aggrapparsi ad essi e, al tempo stesso, della capacità di relazionarsi con se stesso, c’è da chiedersi quale significato possa avere la solitudine angosciosa che pervade il nostro mondo e raggiunge il suo acme all’interno di alcune esperienze introverse.

2.

Occorre a questo punto riflettere sul termine solitudine. In sé e per sé il termine denota in termini neutrali lo star da solo, il non essere in compagnia: una condizione, insomma, che definisce uno dei possibili stati dell’essere umano in quanto dotato di un’identità individuale e, al limite, può essere espressiva di un bisogno. La connotazione corrente, che associa al termine, un significato negativo di condizione solitaria, isolata, deprivata di rapporti sociali e sostanzialmente angosciosa, è indiziaria di un modello di riferimento che assegna grande valore allo stare in compagnia o  con gli altri. Tale modello – estrovertito – non riconosce la solitudine, lo star con sé come un bisogno, complementare a quello sociale, ma solo come uno stato improprio e più o meno doloroso.

E’ un dato di fatto che, per molti soggetti nel nostro mondo, e in particolare per parecchi introversi, la solitudine viene vissuta alla luce di tale modello come una condizione drammatica di isolamento, perdita di rapporto con gli altri, emarginazione, vuoto esistenziale, insignificanza.

Ma se lo star da solo è un bisogno rappresentato nella natura umana e se si ammette che esso sia più intensamente rappresentato nel corredo introverso, come si può spiegare questo vissuto?

La spiegazione più semplice può ricondursi al fatto che, dalla notte dei tempi, l’emarginazione e l’esclusione dal contesto sociale, sia sotto forma di minaccia che di punizione, sono state adottati come strumenti fondamentali di controllo nei confronti dei “trasgressori”, vale a dire di coloro che non si conformavano immediatamente alle regole, ai valori e ai moduli di comportamento propri del gruppo di appartenenza. Ancora oggi l’incarcerazione, che al limite può confinare il soggetto in una cella d’isolamento, attesta che, al di là dell’eventuale contenimento della pericolosità sociale, la separazione dal gruppo è intesa come avente una valenza intrinsecamente afflittiva.

Il ritrovarsi da soli, dunque, può essere facilmente vissuto come conseguenza della propria incapacità di stabilire relazioni significative o come condizione conseguente al rifiuto e all’emarginazione da parte degli altri.

Questo riferimento può spiegare la componente affittiva cui si associa la solitudine introversa, ma non la valenza estremamente angosciosa di sospensione nel vuoto cosmico che talora essa assume. In realtà, questa valenza implica una dinamica più profonda che, forse, può essere illuminata dalla più perversa delle punizioni che la mente umana abbia inventato: la dannazione infernale.

Non intendo certo dilungarmi sulla teologia dell’inferno. Mi limito a rilevare che, se si mettono tra parentesi i riferimenti medievali alle punizioni corporali, la dannazione all’inferno fa psicologicamente riferimento alla consapevolezza del soggetto dell’incompletezza e dell’insufficienza ontologica del suo essere che, per essere colmata, richiederebbe un rapporto significativo con Dio. Quella consapevolezza implica però che tale rapporto non è più agibile e non lo sarà mai più per tutta l’eternità perché il soggetto ha agito in maniera tale da distruggerlo. E’ giusto, dunque, che paghi la colpa con una sofferenza psicologica omologabile all’astinenza di un tossicodipendente, e che consideri questa condizione destinata a durare per tutta l’eternità.

Se si tiene conto di come parecchi introversi vivono la solitudine, si capirà immediatamente la pertinenza del discorso. Per un verso, infatti, essi l’avvertono come una condizione atroce che mortifica e impedisce di soddisfare un bisogno radicale. Per un altro, la proiettano nel tempo vivendola come destinata a durare per sempre.

Pochi dubbi, dunque, si possono avere riguardo al fatto che la solitudine introversa, quando viene vissuta angosciosamente, rappresenti l’espressione di un inconscio bisogno di punizione che si esprime attraverso la convinzione di essere destinati a finire soli.

Questo bisogno solo raramente è rappresentato a livello cosciente. Capita anche che alcuni introversi riconducano la loro condizione all’inadeguatezza, alla timidezza, al non saper stare con gli altri: in breve al loro modo di essere o ai loro difetti vissute come colpe che giustificano l’allontanamento degli altri.

Più spesso, però, e non necessariamente in antitesi al vissuto precedente, essi sono arrabbiati con il mondo, dal quale si sentono emarginati semplicemente perché non riescono ad adeguarsi al modello normativo dominante. La rabbia è impregnata, di fatto, anche di una carica più o meno consapevole di disprezzo nei confronti dei normali. Siamo, insomma, nell’ambito della sindrome di Robespierre, le cui implacabili valenze di colpa ho descritto già sufficientemente per ritornare su questo tema.

La qualità angosciosa della solitudine introversa è, dunque, da ricondurre al viverla come una condizione di emarginazione radicale e definitiva rispetto al mondo, sia essa dovuta alla propria “difettosità” o alla rabbia e all’odio contro tutto e contro tutti.

3.

Già solo in rapporto a quanto è stato detto finora, il fatto che gran parte degli introversi banalizzino il problema riconducendolo all’assenza di qualche legame significativo e, particolarmente a livello giovanile, tentino affannosamente di costruirlo con esiti quasi sempre deludenti, la cui conseguenza è un incremento del vissuto di inadeguatezza e delle emozioni di rabbia, è inquietante. Ma c’è di più.

L’autonomia psicologica cui ho fatto riferimento, e che si esprime nell’avvertire come un bisogno ogni tanto lo stare con sé, è uno stato che, nel nostro mondo, si può ritenere piuttosto raro. Di fatto, molte personalità mantengono il proprio equilibrio perché utilizzano le relazioni sociali come protesi di una dipendenza (patologica), che viene occultata sotto l’apparenza dell’estroversione.

Come ho chiarito in un articolo, il concetto di dipendenza patologica è piuttosto ostico, perché in genere, partendo dal fatto che l’uomo è un essere sociale il cui bisogno di relazione è universale, le persone ritengono che la dipendenza sia sempre e comunque “normale”. Per chiarire la differenza tra normale dipendenza e dipendenza patologica, utilizzo di solito una metafora fisiologica che mi sembra pregnante. Il bisogno di ossigeno è assolutamente universale, ma aspirarlo con i propri polmoni o attingerlo ad una bombola con un respiratore definisce due diverse condizioni, rispettivamente di autonomia e di disautonomia (la quale implica l’inefficienza dell’organismo). Applicata al bisogno di relazione, la metafora significa che la dipendenza normale fa riferimento ad un io che, avendo raggiunto uno statuto autonomo, si sente arricchito dalle relazioni che intrattiene, mentre la dipendenza patologica definisce un io il cui statuto s’identifica con il mantenersi della relazione, venendo meno la quale esso tende a collassare.

Non è una differenza di poco conto, perché l’io autonomo tollera l’eventuale perdita di una relazione significativa, pur soffrendo, perché questa circostanza non pone in gioco la sua capacità di relazione, mentre l’io disautonomo vive la perdita come segno della propria incapacità di relazione, della propria non amabilità. Ne ricava, dunque, una definizione ontologica del proprio essere la cui conseguenza è il sentirsi destinato ad una solitudine infinita.

L’obbiettivo dell’autonomia psicologica è intrinseco alla programmazione evolutiva dell’essere umano. Occorre riconoscere però che, nella nostra società, esso è raramente raggiunto per una serie di motivi su cui, per ora, non mi soffermo. Si danno, dunque, molti soggetti il cui equilibrio personale si fonda sul mantenersi di una rete di relazioni sociali, i quali non hanno consapevolezza della loro disautonomia o ne hanno una consapevolezza occasionale. Basta pensare al numero di adolescenti e di giovani che vivono in un’interazione costante, fisica e telematica, con un gruppo, rifuggendo sistematicamente lo star da soli.

Rispetto a questa popolazione la condizione introversa si differenzia perché, dandosi nel corredo genetico un bisogno d’individuazione sempre spiccato (più o meno, comunque in misura superiore alla media), l’obbiettivo dell’autonomia psicologica, di avere uno statuto identitario che riconosce un centro di gravità interno e di avere la capacità di stare con se stessi, è assolutamente irrinunciabile. Questo aspetto può  sembrare contrastante con il fatto che numerosi introversi farebbero (e fanno) carte false pur di avere una qualche relazione significativa. Ma è un caso che, finché dura questa ossessione, essi non riescano a realizzarla?

Talvolta può apparire un caso legato ad un difetto di interazione tale per cui l’occasione di costruire una relazione non si presenta che raramente o addirittura mai.

Il problema, però, riesce più chiaro nei casi in cui relazioni si danno ma finiscono regolarmente con l’esaurirsi in un nulla di fatto, che restituisce il soggetto alla sua atroce solitudine. Situazioni del genere sono interpretabili tenendo conto di due diverse circostanze, correlate tra loro.

La prima si riconduce alla scelta di un partner (amicale o affettivo) con cui l’introverso ha ben poco da spartire: una scelta, dunque, a vicolo cieco, la cui non casualità è confermata dal fatto che, laddove il soggetto incontra un essere con cui si danno affinità, sulla cui base, la costruzione di un rapporto è possibile, o non avverte alcun interesse di entrare in relazione o addirittura ne rifugge.

L’altra circostanza è legata ad una serie di strategie relazionali che vengono agite in buona fede, ma non possono esitare che nello scioglimento del rapporto. Tali strategie vanno dall’aggrappamento e da una ricerca di conferme asfissiante al sottoporre il partner ad una pressione costante perché egli si trasformi, più o meno radicalmente, in un altro, che corrisponderebbe per filo e per segno ai propri bisogni.

Che significano queste circostanze? Semplicemente che l’introverso, per quanto aspiri ad uscire dalla solitudine, in realtà, a livello inconscio, rifiuta le relazioni per tre diversi motivi: primo, perché pensa di non meritarle; secondo, perché teme di illudersi e di essere poi abbandonato dall’altro quando questi prende coscienza della sua inadeguatezza; terzo, perché non tollera la dipendenza angosciosa che si mette immediatamente in movimento quando entra in relazione.

Questo terzo motivo è il più complesso e merita una riflessione. La dipendenza patologica è imprescindibile dal fatto che, stando da solo, il soggetto sta male, perché avverte il vuoto, la freddezza, l’aridità e l’insignificanza del suo essere. Il problema è che egli sta male anche quando entra in relazione, perché questa è investita immediatamente dalla paura dell’abbandono e della perdita del rapporto. Questo vissuto è ingannevole, perché può essere con facilità razionalizzato. Non è normale – si pensa – che se si tiene ad una relazione si ha paura di perderla? Certo che è normale. Ma una cosa è valutare la possibilità della perdita come inerente ogni relazione umana, vale a dire come una possibilità statistica la cui realizzazione dipende dalla qualità del rapporto; un’altra è viverla come una fatalità destinata inesorabilmente a realizzarsi.

Questo è il modo in cui parecchi introversi vivono la paura della perdita del rapporto. E’ superfluo aggiungere che la fatalità condensa il bisogno d’indipendenza frustrato e la giusta punizione che tocca a chi si attribuisce un disvalore o una negatività radicale.

4.

La solitudine angosciosa sperimentata dagli introversi, insomma, è una mistificazione nella misura in cui razionalizza e naturalizza, in rapporto all’universalità del bisogno di relazione, una serie di dinamiche inerenti l’immagine interna, la dipendenza, la concezione meritocratica dei rapporti, ecc. Si tratta di dinamiche che, finché rimangono attive a livello profondo, spesso inconscio, non comportano alcuna soluzione relazionale perché la struttura reale del rapporto e il comportamento del partner, quali che siano, non incidono se non transitoriamente su di esse e non ne consentono il superamento.

Ovviamente l’assenza di una soluzione relazionale non significa che si tratti di problemi insolubili. Al di là della fase evolutiva, essi possono essere risolti solo sul fronte soggettivo della relazione che il soggetto intrattiene con sé, il suo mondo interiore, il suo carico di memorie, ecc.

E’ un’aspra verità, ma fare finta che le cose non stiano così non porta da nessuna parte.