Relazione per la presentazione del saggio (11 marzo)


1.

Gran parte dei partecipanti a questo incontro hanno letto il libro. Alcuni, che mi conoscono da anni, sanno che il problema dell’ introversione è divenuto per me progressivamente una sorta di “ossessione”. La scrittura e la pubblicazione del saggio equivale ad una liberazione.

Il motivo di tanto interesse è semplice.

Nella mia attività terapeutica ho sempre privilegiato la fascia di giovani affetti da disturbi psichici seri, diagnosticati e trattati come “schizofrenici”. Interagendo con essi, non sono stato certo il primo a rilevare la singolare associazione tra sintomi psicopatologici apparentemente attestanti infantilismo, immaturità, irrazionalità, confusione tra fantasia e realtà, ecc., e potenzialità emozionali e intellettive sorprendentemente superiori alla media. A differenza di altri (per esempio di Ronald Laing), questa associazione però non mi sono limitato a rilevarla Ho inteso o mi sono proposto di spiegarla.

Esclusa l’ipotesi della casualità (per cui la malattia mentale, non diversamente da un cancro, è un processo morboso che si realizza in maniera del tutto indipendente dalle potenzialità psichiche di base), ne rimangono solo altre due.

Secondo la prima, una particolare ricchezza di doti emozionali e intellettive renderebbe più vulnerabili le persone nell’interazione con il mondo. Essa, dunque, sarebbe di per sé un fattore predisponente o frequentemente  associato ad una predisposizione ad ammalare. Luogo comune di antica data, quest’ipotesi è stata fatta propria dai neopsichiatri, secondo l’abitudine loro propria di accreditare come scientifiche le sciocchezze.

Secondo l’altra, quell’associazione significa semplicemente che, indipendentemente dai diversi contesti familiari e sociali, il mondo così com’è non offre a soggetti che vengono al mondo con doti emozionali e/o intellettive superiori alla media adeguate opportunità di sviluppo. Da questo punto di vista, l’ambiente sarebbe quasi univocamente nocivo.

Ho preso sul serio quest’ultima ipotesi. Nel corso degli anni, essa si è addirittura radicalizzata perché una dotazione fuori dell’ordinario l’ho riscontrata non solo nei giovani diagnosticati schizofrenici, ma in una stragrande maggioranza di soggetti affetti da disagio psichico.

Via via che questa ipotesi prendeva corpo, mi sono posto il problema di approfondire i vari aspetti che essa implicava. Che cosa significa, da un punto di vista genetico e psicologico, una dotazione psichica fuori dell’ordinario? In che senso il mondo così com’è può incidere negativamente su di essa? Come si realizza l’interazione tra un soggetto, ricco di potenzialità, e l’ambiente che porta allo sviluppo di un disagio psichico?

Il saggio sintetizza le risposte che sono giunto a dare a questi quesiti.

Un corredo emozionale superiore alla media, associato o no ad una vivace intelligenza, è una dotazione specifica dei soggetti che tradizionalmente si definiscono introversi.

Il mondo così com’è, almeno il nostro mondo, propone a tutti i soggetti un codice normativo estroverso, poco o per nulla compatibile con i tempi, i modi e la vocazione ad essere propria degli introversi.

Questi, infine, che, essendo una minoranza, non hanno consapevolezza della propria diversità, si confrontano con quel codice normativo, lo interiorizzano e, sia che lo rifiutino, sia che tentino di conformarsi ad esso, finiscono con lo stare male.

Giunto a questa conclusione, mi sono chiesto che cosa si potesse e si dovesse fare. Mi è venuto da pensare che non sarebbe stato male scrivere un libro, che portasse alla luce questo problema, e far leva su di esso per avviare un movimento atto a tutelare i diritti degli introversi: in breve, a proteggere gli introversi in fase evolutiva (bambini, adolescenti) dagli insulti ambientali, e a restituire agli introversi adulti la consapevolezza della propria diversità, del valore e dei limiti della loro condizione.

Siamo qui per verificare se questi intenti possono essere condivisi da un gruppo che se ne faccia carico e li trasformi in un progetto operativo.

2.

Potrei fermarmi qui e cedere la parola ai relatori e ai partecipanti.

Per rispetto di coloro che non hanno letto il libro, devo aggiungere però qualcosa, scusandomi per il fatto di contravvenire alla tradizione per cui, in occasione della presentazione di un libro, l’autore interviene dopo i relatori, in sede di dibattito.

La definizione della polarità introversione/estroversione come tratto universale della personalità, e in assoluto il più importante, che consente di differenziare due categorie tipologiche fondamentali, si deve a Jung. Perché questa definizione sia intervenuta solo nel 1920 è un mistero, forse non insolubile.

Da sempre, da quando è comparso sulla faccia della Terra, l’uomo vive con la sua coscienza nell’interfaccia tra due mondi: quello esterno, tangibile a apparentemente dotato di oggettività, e quello interno, intangibile e per alcuni aspetti imperscrutabile, dal quale però ricava la consapevolezza di esserci, di sentire e di avere un’identità.

Da sempre, dunque, si sono date esperienze caratterizzate da una forte suggestione esercitata dal mondo esterno e altre caratterizzate da una forte attrazione per il mondo interno. Semplificando un po’ le cose, si può dire che sono esistiti sempre esseri dediti prevalentemente all’azione e esseri inclini alla riflessione.

La polarità introversione/estroversione, che è difficile non attribuire a fattori genetici, è uno spettro. In nessun individuo si dà un’introversione pura, e in nessuno un’estroversione pura. In ogni soggetto, le due tendenze si combinano secondo una varietà di formule intermedie tra i tipi puri, che sono meramente teorici.

Dato che l’umanità ha la necessità primaria di sopravvivere, e dunque di agire sul mondo esterno per trasformarlo e adattarsi ad esso, non c’è da sorprendersi che la natura, nel ricombinare il materiale genetico, si sia attenuta al principio di privilegiare statisticamente l’estroversione rispetto all’introversione. Lo spettro introverso, vale a dire quello nel quale la componente introversa prevale più o meno su quella estroversa, è stato sempre presumibilmente minoritario.

Il problema è che, al di là della sopravvivenza materiale, l’uomo è costretto anche a riflettere sulla sua condizione e sullo stato di cose esistente, vale a dire sulla realtà naturale, sull’organizzazione sociale, su ciò che è bene ed è male, sul suo destino, sul senso della sua esperienza: insomma, su ciò che gli frulla nella testa.

E’ a questo livello che intervengono storicamente gli introversi con i loro contributo essenziale all’evoluzione culturale dell’umanità. Essi sono per eccellenza, per vocazione, dei rompiscatole, che non possono fare a meno di romperle a se stessi e agli altri.

Non la faccio lunga per non tediare i partecipanti.

Dato lo spettro introverso/estroverso, ogni cultura opera le sue scelte privilegiando l’uno o l’altro atteggiamento.

E’ un po’ ridicolo pensare che l’introversione abbia riconosciuto il suo momento di gloria solo presso le popolazioni primitive, che, non avendo grandi problemi di sopravvivenza (perché si rimettevano alla generosità della Grande Madre Terra), hanno organizzato culture lente e fredde, aperte alla riflessione, a una socialità non competitiva, alla fantasia, agli affetti, ecc., governate di solito da sciamani che erano la quintessenza dell’introversione.

Tutta la civiltà orientale ha operato, in epoca remota, una scelta tipicamente introversa, privilegiando la meditazione, il contatto mistico con la realtà, il rispetto degli esseri viventi, ecc.

Nella nostra stessa civiltà, l’affermazione dell’introversione riconosce un momento fondamentale con l’avvento del Cristianesimo, il suo privilegiare gli uomini di pensiero (i sacerdoti) rispetto a quelli di azione (i guerrieri), l’esaltazione del monachesimo, ecc.

Dunque, se è vero che l’estroversione è stata sempre statisticamente maggioritaria, spingendo le persone ad adattarsi al mondo e a darsi da fare in esso, non è vero che essa è stata sempre culturalmente dominante.

Il dominio è da ricondurre all’avvento della borghesia imprenditoriale (quella per la quale il tempo è denaro), della civiltà industriale che accelera di continuo il suo ritmo di sviluppo (fino al surriscaldamento dell’ambiente e delle teste), del modello normativo estroverso dell’uomo che mira all’autorealizzazione narcisistica, ecc.

Quando Jung “scopre” la polarità introversione/estroversione, la società è già da tempo avviata sulla strada dello sviluppo frenetico. Jung coglie il pericolo di un’estroversione spinta all’estremo, che fa sì che l’uomo si adatta passivamente al mondo così com’è, e diventa una pedina nell’ingranaggio. Al tempo stesso, per sue vicissitudini personali, su cui non mi soffermo, egli, critico nei confronti dell’estroversione spinta all’eccesso, non riesce a celare, nel saggio Tipi psicologici, un sottile pregiudizio nei confronti dell’introversione. Ai suoi occhi, è Freud un esemplare tipico dell’introverso geniale ma chiuso in se stesso, intellettualmente acuto ma emotivamente suscettibile e rancoroso.

A mala pena mascherato nell’opera di Jung, il pregiudizio nei confronti dell’introversione diventa una costante delle Teorie della Personalità che maturano nell’ambito della Psicologia. Da Cattel a Eysenck, l’oggettività scientifica cede il campo al pregiudizio. L’introversione viene univocamente ricondotta ad una condizione che comporta sì la riservatezza, una certa delicatezza scrupolosa nei rapporti sociali, una sensibilità sempre troppo viva, ma anche la chiusura al mondo, l’isolamento, la difficoltà di adattamento al nuovo, la rigidità, ecc.

3.

Scienza e senso comune, insomma, nel nostro mondo, si sono alleate per mantenere in vita lo stereotipo dell’introverso-orso, asociale, ripiegato su se stesso, inibito e inadeguato, disadattato o, al limite, psichicamente disagiato.

In conseguenza di questo, l’introversione è divenuta una dimensione psicologicamente fobica. Chi ce l’ha come tratto prevalente della personalità, cerca di mascherarla o di liberarsene (di cambiare pelle); chi ce l’ha come tratto secondario (tutti gli altri), tende a non coltivarla, a negarla e a rimuoverla.

Se qualcuno ritiene che quest’affermazione sia eccessiva, non deve fare altro che rivolgersi al mondo adolescenziale per trovare una conferma. L’adolescente-tipo, quello che per qualche anno, in seguito allo sviluppo fisico, dovrebbe apparire un po’ impacciato fisicamente, un po’ vergognoso per il suo non essere più bambino e non ancora adulto, contraddittorio con i suoi slanci idealistici e le sue impuntature egocentriche, emotivamente poco equilibrato, conteso dal conflitto tra ciò che si dà sopra e sotto la cintola, avvampante di imbarazzo e di rabbia, ora tenero, ora cinico, ecc., non esiste quasi più. Alle soglie dell’adolescenza, i ragazzi si trovano di fronte al modello adultomorfo nella versione aggiornata che comporta la sostituzione dei vecchi valori (serietà, posatezza, responsabilità, ecc.) con dei nuovi valori (intraprendenza, spigliatezza, capacità reattiva, disincanto, apertura alla novità e alla trasgressione, negazione di ogni debolezza e paura, ecc.). L’alternativa è secca: accettare la sfida, e mascherarsi da uomini e donne fatte, o passare la mano, e rimanere in bambola, accettando un ruolo subordinato, umiliante, esposto alla presa in giro, ecc.

Il modello estroverso, che non dà comunque tempo ai ragazzi di seguire un tragitto evolutivo, e fa abortire la loro adolescenza, non danneggia solo gli introversi, che ne rimangono solitamente traumatizzati. Esso danneggi anche gli estroversi spingendoli nella direzione di un’estroversione alienata, il cui sintomo elettivo, destinato ad accompagnare le persone per tutta la vita, è l’autofobia, la paura di stare da soli, di stare e di fare i conti con se stessi. Acquisita la maschera, e fatta violenza alla propria natura, rimuovendo le istanze introverse, non rimane altro che continuare a vivere in maschera e coltivare l’esposizione sociale, come conferma della propria identità. E’ più facile, infatti, ingannare gli altri che se stessi.

Il problema è che, se gli estroversi subiscono una violenza che può essere compensata dal vantaggio sociale della maschera, gli introversi subiscono una violenza interiormente catastrofica. Essi infatti giungono all’adolescenza con un carico interiore già pesante. Le pratiche pedagogiche, univocamente incentrate sul modello estroverso, già hanno indotto o un’evoluzione lineare (quella dei “figli d’oro”) che ha compensato i tratti introversi con le conferme degli adulti o un’evoluzione turbolenta e oppositiva. Il passaggio dell’adolescenza è spesso decisivo nel porre i presupposti di un disagio psichico. Alcuni proseguono il loro tragitto lineare sormontando l’adolescenza senza crisi, e destinandosi a sperimentarla con gli interessi successivamente. Altri si insabbiano, come una macchina che ad alta velocità finisce su una spiaggia (senza le quattro ruote indipendenti). Altri ancora, che hanno avuto un’infanzia turbolenta, si cristallizzano in un modo di essere ossessivo e perfezionistico, come se dovessero scontare le colpe del passato. Altri, infine, proseguono il loro tragitto turbolento finendo sul terreno della devianza o del disagio psichico.

Fondare un movimento che si faccia carico dei diritti degli introversi a me sembra non solo un atto di giustizia (dato che essi non hanno colpa della scelta della natura e tanto meno di quella della cultura), vantaggioso non solo per gli introversi ma per la società tutta, che può arricchirsi se il loro capitale umano è ben impiegato. Mi sembra anche una necessità al fine di prevenire situazioni di disagio psichico anche gravi, del tutto prevedibili, ma che, se si realizzano, non sono tutte destinate ad evolvere positivamente, tanto più se incappano, come spesso accade, nella terribile spirale del circuito psichiatrico (tradizionale o “alternativo”, ormai fa poca differenza).

E’ una mia radicata convinzione che un intervento preventivo nelle scuole e sulle famiglie, che ponga gli introversi al riparo dal subire gli effetti di una normalizzazione forzata (la quale spesso consegue l’effetto di squilibrarli), potrebbe contribuire a diminuire del 60 o forse 70% la produzione del disagio psichico adolescenziale e giovanile: una produzione che non risulta nelle statistiche del PIL, ma che è nel nostro mondo la meno esposta al rischio di una recessione.

L’intervento, nel rispetto delle regole istituzionali, richiederà forse a formazione di operatori. Ma esso non risulterà efficace se non avrà alle sue spalle e alla base la partecipazione di tutti gli introversi adulti, diciamo di buona volontà. Alcuni di essi non possono fare forse molto per sé, se non liberarsi da uno stigma pregiudiziale assorbito con l’aria che si respira e mirare ad una maggiore autenticità, sottesa dalla percezione del proprio valore. Essi possono, però, fare molto per gli altri, dando spazio ad un bisogno di solidarietà empatia che è uno dei tratti più specifici dell’introversione.

In un libro ormai rimosso dall’orizzonte culturale (Il negro e l’altro), Frantz Fanon, dopo aver scandagliato il peso del pregiudizio sociale nei confronti degli uomini di colore, riconduce la loro sofferenza psicopatologica non solo alla realtà di una società che li pregiudica, ma anche alla loro interiorizzazione del pregiudizio, la cui conseguenza è che essi giungono a sentirsi esseri inferiori, inadeguati, carenti, la cui unica chance di salvezza è quella di sbiancarsi la mente, di assumere una maschera bianca.

Agli introversi, in genere, capita la stessa cosa, anche se in gioco non è il colore della pelle, l’appartenenza razziale, ma quei sottili indizi comportamentali da cui i normali ed essi stessi ricavano la loro irrimediabile “anormalità”.

Fanon sostiene che il superamento del pregiudizio razziale non è vantaggioso solo per gli uomini di colore, ma anche per la civiltà bianca che, attraverso il confronto con la cultura di cui essi sono depositari, può recuperare ciò che essa ha irrimediabilmente perduto. Egli scrive: “La sfortuna e l’inumanità del bianco sono d’avere ucciso l’uomo.” Se, a posto del bianco mettiamo la cultura occidentale estroversa, il prodotto non cambia. Questa cultura, infatti, non rischia solo di devastare tutte le altre con cui si confronta. Al suo stesso interno, rischia di porre a morte il “sogno” di cui gli introversi sono depositari e testimoni: il sogno di un mondo ideale nel quale i comportamenti umani siano governati da valori elevati quali la pari dignità, la giustizia, il rispetto reciproco, la solidarietà, la tendenza ad astenersi da comportamenti socialmente nocivi; il "sogno" di un universo umano qualitativamente superiore a quello reale, storico: un universo di ET, vale a dire di esseri intelligenti, riflessivi, pacati, solidali e inoffensivi.

Rinunciare a questo sogno, per noi introversi, significherebbe morire.