Per un Commentario al saggio sull’introversione


1.

Ho in mente di scrivere un commentario analitico al saggio sull’introversione.

La stesura di un saggio obbliga in genere a sintetizzare e a condensare discorsi complessi. A ciò occorre aggiungere anche lo stile dell’autore, che è poco o punto modificabile. Tutti i saggi che ho scritto sinora sono particolarmente densi e quindi per alcuni aspetti, se non di difficile, di faticosa lettura, perché richiedono, proprio per la loro densità, una grande concentrazione. Nonostante l’impegno del lettore, peraltro, alcuni concetti condensati non posso essere adeguatamente colti in tutte le loro implicazioni.

Mi sono reso conto di questo problema via via che alcuni lettori del saggio, personalmente o attraverso il Forum del sito della LIDI, mi hanno posto domande le risposte alle quali ritenevo fossero già date nel testo. In realtà, per alcuni aspetti, lo erano, non già nel testo però bensì nella mia mente.

Se avvierò la compilazione del commentario, cercherò di seguire l’ordine testuale dall’inizio alla fine.

Per ora, in via sperimentale, fornisco un esempio di come la cosa potrebbe svilupparsi.

A pag. 54, in rapporto alla socializzazione forzata cui sono mediamente sottoposti gli introversi, ho scritto:

“Ai bambini introversi capita oggi di subire la stessa sorte riservata fino a qualche tempo fa ai mancini: di essere cioè assoggettati, a fin di bene e senza alcuna consapevolezza da parte degli educatori, ad una strategia correzionale che, non tenendo conto della loro vocazione ad essere decisa dalla natura, dei loro bisogni e dei loro tempi, finisce con l’incidere negativamente sullo sviluppo della personalità.”

Ritengo che, per quanto immediatamente comprensibile, questo paragone sia molto più denso di quanto si possa pensare.

Il mancinismo è stato vissuto sino ad alcuni decenni fa come una stortura, un disordine contronatura da correggere con pratiche che, a posteriori, possono apparire brutali e sadiche. L’influenza della religione a riguardo è stata inconfutabile, dato che in epoche remote del cristianesimo si produsse la convinzione che il mancinismo fosse l’indizio della persistenza del maligno nell’anima del soggetto. Poco confutabile è anche l’influenza della cultura borghese con il suo amore univoco per la Norma, la Razionalità, la Destrezza.

L’avvento della scienza non ha dissolto immediatamente i pregiudizi riguardo al mancinismo. Sulla base di dati in gran parte non analizzati correttamente, si convalidò originariamente l’associazione tra il mancinismo e una serie di disturbi neurologici.

Ancora oggi, la scienza non ha risolto tutti i problemi inerenti il mancinismo, che però viene assunto come un orientamento naturale, in alcuni casi ma non in tutti di natura ereditaria, che, in quanto tale non va contrastato.

Non è di scarso interesse rilevare il fatto che, attualmente, quasi tutti gli specialisti concordano sul fatto che, quando i bambini vengono al mondo, una netta prevalenza nell’uso della mano non è riconoscibile. L’ambidestrismo riguarda di fatto una componente rilevante di bambini. Ciò significa che la prevalenza destrimane o mancina si definisce con la crescita.

Tutti questi dati non hanno particolare importanza per quanto concerne il paragone cui fa riferimento la citazione.

Il nodo essenziale a riguardo è che le percentuali dei mancini e degli introversi sono sovrapponibili, essendo valutate tra il 4 e il 7%. Si tratta dunque di una minoranza che, in quanto tale, ha subito (per quanto riguarda il mancinismo) e subisce (per quanto concerne l’introversione) le conseguenze di essere tale, vale a dire di essere comparata con la maggioranza della popolazione.

Questo ha comportato, e comporta ancora in riferimento all’introversione, un orientamento sociale correzionale, che implica una certa difficoltà della cultura di accettare la diversità che si dà tra gli esseri umani.

Occorre, però, per capire meglio il senso del paragone, approfondire la condizione attuale dei mancini. La persecuzione è finita, per fortuna, ma sarebbe ingenuo non considerare che ancora oggi la condizione del mancinismo si può associare a qualche disagio. Il mondo degli oggetti, infatti, e in particolare degli oggetti che comportano un’impugnatura o sono fatti per essere maneggiati sono fatti per i destrimani.

Se siamo destrimani possiamo facilmente sperimentare il disagio dei mancini imponendoci volontariamente di usare la sinistra per qualche tempo svolgendo le attività quotidiane usando per esempio un paio di forbici, un mouse ergonomico, un apriscatole, un cavatappi, ecc.). Avvertiremo senz’altro un disagio maggiore rispetto ai mancini, che sono assuefatti, ma intuiremo che cosa significa non essere destrimani in un mondo organizzato per essi.

Come esempio estremo, che, però, non può dare luogo ad una sperimentazione, si può immaginare di guidare la macchina e di usare la sinistra per cambiare marcia. mentalmente ci riusciamo e, presumibilmente, ci riusciremmo anche sul piano reale, ma non sarebbe certo un piacere.

Mi sono dilungato su questo aspetto perché, a ben vedere, gli introversi si trovano in una condizione analoga, ma non in rapporto agli oggetti, bensì ad un mondo sociale che, per molti aspetti, è organizzato sulla base dei bisogni degli estroversi.

Non ha senso identificare in questo stato di cose un arbitrio o un complotto. C’è una spiegazione storica.

2.

La civiltà borghese è sostanzialmente una civiltà mercantile e urbana. In teoria il commercio dovrebbe basarsi sulla bontà del prodotto. In pratica esso postula che il commerciante riesca a smerciarlo avvalendosi anche delle sue doti comunicative e persuasive. Basta andare in un qualunque mercatino per rendersi conto di questo: i venditori ambulanti pubblicizzano i prodotti gridando, facendo battute, ecc. Anche i piccoli commercianti che hanno bottega tentano in ogni modo di accattivarsi il cliente mettendolo a suo agio, intavolando qualche discorso generico, cercando di ispirargli fiducia e simpatia. Le grandi aziende commerciali, laddove il contatto si dà tra dipendenti e clienti, hanno in genere un’aria più sobria, ma non per caso puntano molto sulla pubblicità che, a livello televisivo, punta sull’enfasi o sulla comicità.

Il luogo stereotipico della civiltà borghese è, peraltro, la Borsa, che, nonostante l’avvento dell’informatica, riproduce il clima dell’originario mercato, la fiera: c’è agitazione, frenesia, frastuono, ecc. Al clima da fiera, si aggiungono il ronzio dei computer, gli squilli perpetui dei telefonini, le conversazioni brevi e urlate, per farsi sentire dall’interlocutore. E’ la bolgia della Borsa lo specchio più fedele della civiltà borghese, che ne rivela anche lo sfondo emozionale che oscilla tra l’esaltazione del Toro - che sopravviene quando i valori azionari salgono - e la depressione dell’orso - quando essi calano.

Una società mercantile è per forza di cose affannata, frettolosa, instabile: il suo problema di fondo è far girare il più velocemente possibile il denaro trasformandolo in capitale produttivo di merci che vanno vendute rapidamente per ottenere nuovamente denaro da investire.

Una società mercantile è anche totalizzante. I ruoli che essa assegna sono solo due: produttori e venditori per un verso, consumatori per un altro. Essa forza necessariamente la psicologia degli individui nella direzione dell’economicismo, vale a dire dello scambio reciprocamente o unilateralmente vantaggioso.

Via via che l’economicismo si radica a livello inconscio la civiltà borghese si afferma sostituendo le tradizioni contadine o di paese. In conseguenza di questo ogni cittadino, quale che sia il suo ruolo, diventa imbonitore di se stesso: sapersi vendere, saper valorizzare le proprie qualità ricavandone il massimo vantaggio in termini di conferme sociali diventa una virtù.

L’estroverso estrovertito, in qualche misura inesorabilmente narcisista, è l’esemplare tipico della società borghese. L’uomo di successo è tanto più apprezzato se riesce a conseguirlo al di là del suo autentico valore.

La società mercantile però è anche una società urbana, di massa, che modella se stessa sul ritmo del ciclo del denaro. Tutto, nella città, si svolge all’insegna della fretta, della confusione, della competitività.

Questi aspetti non investono solo il lavoro, ma la vita nella sua totalità. Si compete nel traffico, nel far la fila, nello shopping, nell’acquisto dei saldi, nell’assicurarsi un tavolo al ristorante, nel vedere un film appena uscito prima degli altri, nello scegliere la scuola migliore per i figli, nell’esibire una nuova macchina, un televisore gigantesco al plasma, nell’acquisto dell’i-Phone, ecc.

Se un alieno assistesse ai riti della vita urbana, senza capire il significato ultimo di un modo di vivere caratterizzato da un’assillante “volontà” di potenza che compensa e maschera l’insignificanza esistenziale di soggettività monadiche e in perpetua lotta tra loro, egli potrebbe facilmente omologare la società borghese ad un formicaio. Sbaglierebbe, però, perché le formiche sono animali sociali che cooperano, mentre gli esseri umani sono animali sociali per i quali il socius, nella misura in cui può costantemente frapporsi tra i propri desideri e la loro realizzazione, è il rivale, l’inferno di cui parlava Sartre.

3.

Vivere in una società del genere e interagire con essa è un problema costante per gli introversi, perché, non diversamente dai mancini, la loro percezione è che essa sia organizzata contro di loro, se non addirittura a loro danno. E’ questo l’equivoco che va risolto per non giungere ad eccessi di esasperazione e di rabbia.

Nella misura in cui la civiltà borghese ha bisogno di una tipologia umana estrovertita, essa si organizza per dare ai suoi membri l’impressione di essere dentro una realtà significativa e non immersi in uno dei peggiori sogni che l’umanità abbia mai fatto.

Tranne rare eccezioni, che non ricavano peraltro grandi vantaggi da un tentativo di mimesi o di mascheramento, gli introversi rimangono psicologicamente in conflitto con questa realtà che, per un verso, mortifica e squalifica le loro potenzialità, e, per un altro, opera una costante pressione selettiva. Il rischio, come accennato, è che giungano a pensare che il mondo è fatto “apposta” per evidenziare impietosamente le loro carenze, i loro limiti, la loro inadeguatezza. E’ la stessa cosa che può pensare ancora oggi un mancino costretto a dare la mano destra a qualcuno che gliela porge con naturalezza, a manovrare una leva del cambio che non sta dove dovrebbe stare o ad usare una forbice scoprendo che le lame sono messe al contrario.

Occorre neutralizzare questa percezione, sostanzialmente persecutoria. Il mondo non è fatto contro gli introversi, bensì per coloro di cui il sistema ha bisogno per perpetuarsi e riprodursi.

Rimane il problema di come sopravvivere in una società che ha operato una scelta di campo estrema. Ovviamente, tale problema non riconosce una soluzione ottimale. In alcuni momenti e in alcune circostanze, anche l’introverso più “risolto” può avvertire un qualche disagio, non in termini di vergogna o di inadeguatezza, bensì di essere costretto a fare qualcosa che non gli va a genio.

Si tratta dunque di trovare soluzioni parziali, che ammortizzino l’impatto della realtà sociale sul mondo interiore.

Ritengo che questo sia possibile ma al prezzo di una grande creatività. Occorre ritagliarsi un proprio mondo all’interno della società: un mondo fatto di rapporti significativi, di pratiche di vita che consentono di oggettivare e di godere delle proprie qualità, di interessi culturali ampi che permettono di comprendere sempre meglio, in termini storici, il mondo così com’è, riducendo le valenze di rabbia.

Per quanto si possa essere creativi, l’interazione con il mondo sociale non può essere comunque azzerata. Si possono, però, adottare strategie che minimizzano il disagio.

Occorre operare scelte selettive che riducono la possibilità di ritrovarsi in situazioni interattive che, mettendo a disagio, provocano umiliazione o rabbia. Se ci si affranca dal bisogno di mettersi alla prova per verificare se si riesce ad essere normali come gli altri, obiettivo irrealizzabile e insignificante, si scopre che, per quanto totalizzante, il modello di vita attualmente dominante comporta molteplici alternative.

Si tratta semplicemente, per fare riferimento al quotidiano, di andare controcorrente. La società urbana è organizzata sulla base di scansioni temporali che inducono comportamenti massificati. Si fa la spesa nel mezzo della mattina o il sabato pomeriggio, si sciama per tutto il mese di dicembre alla ricerca di regali, si fa lo spuntino al bar tra le 13 e le 14, si va in pizzeria o al ristorante ad ora di cena, ci si muove la domenica per andare fuori città intorno alle dieci, si va al cinema alle 20 o alle 22, ecc.

Con un po’ di buona volontà, ci si può sottrarre a queste scansioni temporali abitudinarie, scoprendo che i flussi comportamentali di massa possono essere anticipati o posticipati. Se si va in un supermarket tra le 14 e le 15 lo si trova solitamente deserto, se ci si presenta al ristorante intorno alle 19 si mangia tranquilli, se ci si avvia fuori città la domenica alle 7 si viaggia tranquilli, ecc.

La selezione può riguardare anche gli esercizi commerciali. Ci sono esercizi regolarmente affollati e altri di solito vuoti. E’ un luogo comune pensare che i primi offrono beni o servizi migliori o con un rapporto qualità-prezzo ottimale. Il successo commerciale spesso è dovuto a variabili che non hanno un significato economico.

L’andare controcorrente riguarda naturalmente anche la socialità spontanea. Se si sa che una determinata situazione (meeting, festa, ecc.), che pone a contatto con persone estranee o non congeniali, mette a disagio, occorre rifiutare di partecipare. Non sempre questo risulta possibile, ma, se ci si attiene al principio di rimanere fedeli a se stessi, si scopre che le possibilità sono maggiori di quanto si pensa.

Rimane naturalmente il problema della socialità obbligata: l’andare a scuola per i piccoli introversi, il prendere i mezzi pubblici per andare al lavoro e l’interazione nell’ambiente di lavoro per i grandi. A questi livelli la strategia dell’andare controcorrente è in pratica irrealizzabile.

Per quanto riguarda i bambini introversi sono i genitori a doverla perseguire, cercando l’ambiente scolastico più adeguato ai loro bisogni e non avendo paura di cambiare classe o scuola laddove si configurano problemi interattivi.

Per quanto riguarda gli adulti introversi, il discorso è complesso. Se essi rifiutano la massificazione, devono progettarsi tenendo conto del fatto che tutte le situazioni lavorative istituzionali che richiedono l’accettazione di un ruolo dipendente o l’interazione con un gruppo di colleghi scelti dal caso possono essere disagevoli. Finché le cose nel mondo non cambieranno, la progettazione introversa va orientata precocemente verso attività autonome e individuali.

Spinoza nel suo umile laboratorio di orologiaio, che lavorava su minuscoli ingranaggi e rifletteva sull’infinito, è un esempio di scelta di vita introversa consapevole e saggia.

Si può naturalmente ipotizzare anche qualche progetto che, in futuro, consentirà agli introversi di vivere in maniera più tranquilla. Non è azzardato, per esempio, considerare che possa essere istituita una scuola materna o elementare per introversi. Il pericolo dell’isolamento e della ghettizzazione esiste, ma sarebbe molto meglio per i bambini introversi vivere i primi anni della loro evoluzione in maniera tale da accedere al mondo più sereni e preparati, consci delle loro potenzialità, che non ritrovarsi, come accade oggi, isolati, emarginati e frustrati nel contesto delle scuole “normali”.

Si potrebbe creare anche un Centro sociale per gli introversi adolescenti, che sia per essi un ambiente liberamente frequentabile, all’interno del quale rapportarsi sintonicamente agli altri o svolgere attività di loro interesse.

Il Centro sociale potrebbe anche organizzare vacanze natalizie o estive che consentano ai giovani introversi di sottrarsi ai terribili riti vacanzieri.

E’ utopistico, ma non irragionevole, pensare che possano essere organizzati dei servizi commerciali per gli introversi adulti: un ristorante ove si parli a bassa voce e si ascolti musica, una libreria ove si possano realizzare acquisti e scambi culturali, un laboratorio professionale di scrittura, di musica, di teatro e - perché no - di artigianato.

Gli introversi, insomma, devono attrezzarsi per pagare prezzi minori alla struttura sociale in cui vivono e allo stile di vita corrente, e per ricavare maggiori soddisfazioni dal loro singolare modo di essere.

Proporrei di assumere l’introversione come un mancinismo caratteriale, come un orientamento psicologico naturale la cui diversità rispetto alla norma è evidente, ma che, non di meno, può dare luogo ad un’esperienza di vita soddisfacente e, per alcuni aspetti, anche integrata.