Teen Depression

Teen depression è il titolo allarmato comparso in copertina nell'ultimo numero di settembre del settimanale statunitense Newsweeck, prontamente ripreso e commentato dalla stampa italiana (Repubblica 1 ottobre 2002 p. 19). Esso fa riferimento al fenomeno della depressione che sta diventando "epidemico" presso gli adolescenti statunitensi: dagli 11 ai 19 anni, infatti, ne risultano affetti l'8%. L'epidemia si sta diffondendo anche in Italia: sarebbero affetti da depressione il 5,3% di ragazzi dagli 11 ai 14 anni e il 13,8 dai 14 ai 19 anni, con una percentiuale doppia delle donne rispetto agli uomini.

Neesweeck lancia l'allarme, ma, nel consueto stile pragmatico statunitense, non dedica attenzione alle cause, che vengono ricondotte genericamente alle particolari vicissitudini della crisi adolescenziale in un mondo nuovo. Esso va immediatamente al sodo, segnalando la carenza di psichiatri dell'adolescenza. Negli Stati uniti, infatti, ce ne sono solo 7000 a fronte di una domanda di cura imponente. Che cosa dovrebbero fare gli specialisti? Ascoltare i ragazzi, ovviamente, visto che i genitori hanno sempre meno tempo o sono gravati di problemi psicologici per conto loro, e, naturalmente, somministrare gli psicofarmaci.

Un fenomeno psicopatologico che assume un carattere epidemico, come ho rilevato più volte, è anzitutto un fenomeno psicosociologico. La depressione degli adolescenti basterebbe da sola ad invalidare l'assunto neopsichiatrico per cui si tratta di una malattia genetica. Si dirà: casomai anche i genitori sono depressi. Il più delle volte è vero. Ma il problema è che anche le depressioni adulte sono andate incontro, negli ultimi venti anni, ad un'escalation epidemica. I due dati, che in sé e per sé non escludono una predisposizione genetica, contrastano col fatto che i fattori genetici siano piùimportanti di quelli ambientali. Anzi portano a pensare ragionevolmente il contrario.

Non ci si può aspettare dagli statunitensi un ripensamento sulla loro ideologia di fondo individualistica, che si riflette nell'ideologia neopsichiatrica. Dato un fatto, si pensa al rimedio e non all'interpretarlo. L'8% di teen-agers depressi, se smentisce l'ipotesi genetiche, non contrasta con il pensare che una minoranza regge comunque male le vicissitudini proprie dell'adolescenza nel mondo nuovo della tecnologia, della new-economy, del terrosimo e delle guerre preventive.

Riportando la notizia e aggiornadola in rapporto all'Italia, la Repubblica, che pure negli anni '90 si è fatta più volte portavoce delle scoperte neopsichiatriche, affida, in un sussulto di resipiscenza, il commento ad un uno psicoterapeuta esperto di adolescenti, il prof: Gustavo Charmet. Costui confuta che le categorie diagnostiche messe a fuoico dalla neopsichiatria, possano essere utilizzate per fare di tutt'erba un fascio. Egli dice:" La prima domanda che mi farei è se è possibile, in adolescenza, ricorrere a diagnosi psichiatriche che inquadrano e riflettono perfettamente il mondo degli adulti, La risposta è "no", fatta eccezione per casi espliciti quali ad esempio, la schizofrenia. Quella che notiamo tra i giovani è un'altra cosa: è una sofferenza mentale di titpo depressivo strettamente legata alla crisi evolutiva del periodo adolescenziale; una sofferenza che non viene nécapita né supportata e di cui poi si raccolgono i cocci." Ponendo tra parentesi il fatto che le diagnosi di depressione negli adulti siano perfette e che sia lecito diagnosticare una schizofrenia negli adolescenti, il discorso non fa una piega.

Si tratta dunque di capire la specificità della sofferenza adolescenziale, anziché etichettarla. E, di fatto, il prof: Charmet si inoltra prontamente sul sentiero interpretativo. Il difetto, come si dice, è nel manico, nell'atteggiamento che i genitori hanno nei confronti dei figli:"E' come se a questi figli tanto desiderati, a questi piccoli imperatori ai quali i genitori hanno offerto il meglio di loro stessi e della vita, non fosse riconosciuto il diritto di soffrire dentro. Ti ho dato tutto, perché non sei felice, che cosa ti manca? Lui che contava tanto da piccolo, lui che era il centro del mondo, ora si trova in un altro mondo, fuori della famiglia, dove non è facile farsi valere, avere valore… Parlerei più di genitori che hanno creato alte aspettative nel figlio che ha vissuto un'infanzia splendida, dorata. La separazione da questo mondo è un trauma, uno choc… Quando, nonostante tutti i privilegi con cui sa di essere stato crescituo, il figlio scopre che successo, riconoscimento, stima, consenso, non sono così facili da raggiungere arriva la mortificazione, la svalorizzazione di sé, il crollo del livello di autostima, la frustrazione. E il dolore".

Evidentemente, se la neopsichiatria riabilita il luogo comune della tara ereditaria, l'orientamento psicoterapeutico, senz'altro meno pericoloso, non scherza. Che i bambini e i ragazzi di oggi siano viziati, abituati ad avere tutto e intolleranti di ogni frustrazione; che il passaggio alla condizione adulta, mediato dalla crisi adolescenziale, debba avvenire in nome dell'accettazione del principio di realtà, sono luoghi comuni. Che, infine, il crollo di alcuni adolescenti esprima di fatto un'immaturità rispetto agli altri che, bene o male, se la cavano è quantomeno pregiudiziale.

Se si assume l'evoluzione della personalità come un fatto privato che coinvolge essenzialmente il rapporto tra soggetti e genitori, e l'affacciarsi al mondo reale come prova della funzionalità o meno di tale rapporto, si rimane in un'ottica psicologista.  In un'ottica dunque poco esplicativa.

Le dinamiche cui fa cenno il prof. Charmet, almeno in un numero limitato di casi, sono facilmente riconoscibili. Ma esse mettono in gioco l'incidenza che, nel rapporto con i figli, hanno la percezione e la visione del mondo dei genitori.

La tendenza di alcuni di questi a realizzare per i figli un'esperienza dorata esprime un senso drammatico della vita adulta. Sentendosi colpevoli di averli messi al mondo e di destinarli all'infelicità, essi indorano la pillola, rimandano la presa di coscienza di quella che è la vita degli adulti.

La tendenza di altri genitori a sfruttare perfezionisticamente il capitale umano che la sorte affida loro corrisponde né più né meno ad una visionde del mondo incentrata sul darwinismo sociale, vale a dire sul principio per cui, in una società competitiva, o si domina o si è dominati.

Si tratta di visioni del mondo troppo drammatiche? Non di certo per chi conosce la realtà sociale. Che, prendendo atto di come stanno le cose, alcuni adolescenti sviluppino un malessere non implica, da questo punto di vista, il rifiuto del principio di realtà, ma molto più semplicemente di una determinata realtà storico-sociale.

A questo occorre aggiungere che la realtà dorata e mistificata cui fa riferimento il prof. Charmet è un'astrazione. La famiglia non vive in vitro, separata dalla società. Si tratta comunque di un'istituzione in crisi, attraversata da tensioni, malumori, frustrazioni, conflitti di ogni genere. Altrove ho cercato di demistificare il mito della famiglia felice e dei figli viziati (Miti d'oggi. L'educazione dei bambini).

La nostalgia regressiva dell'età dell'oro è presente in alcune espeirenze adolescenziali, ma si tratta spesso di una "copertura" dell'esperienza realmente vissuta. Gran parte degli adolescenti albergano dentro di sé molteplici motivi per raggiungere il più presto possibile l'autonomia, affrancarsi dalla famiglia e - talora - chiudere i ponti con essa. Questa spinta diviene drammatica, e potenzialmente nevrotizzante, nel momento in cui essi scoprono che la realtà del mondo verso la quale si orientano è, per alcuni aspetti, peggiore di quella da cui fuggono.

E' distorta questa percezione o presa di coscienza? Non si direbbe considerando il tasso di disagio psichico che investe il mondo degli adulti, che negli Stati Uniti riguarda un cittadino su due e in Europa un cittadino su tre.

Il malessere degli adolescenti denuncia il sentire di non avere scampo né dietro di sé né avanti a sé. Questo riguarda solo gli esseri più vulnerabili? E se riguardasse, invece, quelli più sensibili e più capaci di capire intuituitivamente lo stato di cose esistente nel mondo? Dovrebbero vivere con gioia la possibilità di "finire" come il padre e la madre che o sono perpetuamente stressati  o sono immersi nella falsa coscienza della normalità? Dovrebbero essere felici di entrare in un mondo che, oltre ad essere aspramente competitivo, è caratterizzato quasi univocamente da una rozzezza una superficialità nelle relazioni interpersonali che è agghiacciante?

La teen depression, eccezion fatta per rare situazioni che attestano una disfunzione locale, familiare, non sarà un ulteriore indizio di una protesta contro l'ordine di cose esistente che, per difetto di consapevolezza e di strumenti interpretativi, non trova altro modo di esprimersi che sotto forma di sordo e oscuro malessere?