Lo Stato dell'Arte in rapporto alla Schizofrenia

Nonostante il grande pubblico, sottoposto ad una propaganda inaudita negli ultimi anni, sia ormai assuefatto all'idea che la schizofrenia è una malattia del cervello di origine biologica, la consultazione della letteratura specialistica di orientamento organicistico (che è ormai egemone) rivela agevolmente che quella propaganda si fonda sull'aria fritta.

Non è piacevole consultare tale letteratura, che pretende di essere scientifica e insiste a ripetere luoghi comuni dell'ideologia neopsichiatrica. Non è neppure semplice perché sulla schizofrenia vengono pubblicati decine di articoli ogni giorno. Per fortuna, periodicamente qualcuno si sobbarca l'impegno di fare il punto della situazione.

Lo spunto di questa nota è fornito, di fatto, da un articolo pubblicato il 26 febbraio 2003 su di una rivista statunitense. L'autore dell'articolo, Lynn E DeLisi, è un professore universitario che lavora presso la Scuola di Medicina di New York.

Già il titolo dell'articolo è significativo poiché esso fa riferimento alle controversie esistenti nell'ambito della ricerca sulla schizofrenia. L'esistenza di controversie smentisce implicitamente la pretesa, propria della propaganda psichiatrica, che il più, nell'ambito delle ricerche sulla schizofrenia, sia stato fatto, per cui si tratterebbe solo di completare l'opera. In realtà, l'autore ammette che, nonostante i progressi fatti, attualmente è ancora in discussione addirittura che cos'è la schizofrenia, se essa è un'unica malattia o un insieme di sindromi diverse, quali sono i confini tra schizofrenia e psicosi, ecc.

Nonostante questo, che dovrebbe fare riflettere perché la scienza riconosce come prerequisito la definizione di un oggetto e la sua differenziazione rispetto al campo dei fenomeni cui appartiene, su di un dato l'accordo ormai è universale: si tratta di una malattia del cervello che si esprime con una sintomatologia psichica. Ciò posto, non sorprende che le ricerche non concedano più spazio alcuno alla soggettività. Il paziente in tanto esiste in quanto, essendo affetto dalla malattia, fornisce i dati in base ai quali viene fatta la diagnosi. Fatta la diagnosi, scattano le procedure terapeutiche farmacologiche. Ma da quel momento in poi, l'interesse della psichiatria prescinde dalla persona e si ricolge all'organo malato che essa alberga.

C'è qualcosa di inquietante e di imbarazzante in questa impostazione radicalmente organicistica. Se anche infatti si ammette che la schizofrenia è una malattia d'organo, dovrebbe rimanere almeno il fatto che il soggetto convive con questo organo e che egli esperisce il mondo attraverso di esso. Realizza cioè un'esperienza particolare sulla base di un malfunzionamento cerebrale. Tale esperienza, che rappresenta il mondo vissuto dal soggetto, è comunque una realtà fenomenologica di cui si dovrebbe tenere conto.

Nell'ottica della neopsichiatria, invece, l'oggettivazione è totale. Le ricerche vertono sul cervello isolato dalla totalità dell'esperienza soggettiva. Questa ossessione si potrebbe giustificare se, in virtù di essa, si fossero raggiunti consistenti risultati. Il problema è che la rassegna del prof. De Lisi pone, ancora una volta, di fronte al fatto che la montagna continua a produrre un topolino. Le controversie cui fa riferimento il titolo non rientrano nell'ambito di una normale dialettica scientifica (come continua ad accadere per esempio a livello della fisica per la relatività e a livello della biologia per l'evoluzionismo). Esse attestano che, tranne il riferimento univoco alla natura organica della malattia, di fatto tra gli psichiatri non c'è accordo su nulla, perché di fatto nulla si sa di positivo.

Si continuano a scoprire, a getto continuo, geni che si presume siano coinvolti nell'etiologia della schizofrenia e, dato il loro numero, si ammette ormai comunemente un'etiologia poligenetica. Nessuno però è in grado di indicare una o più configurazioni poligenetiche specifiche.

Si continua ad indagare la strttura del cervello con tecniche neuroradiologiche e, in un certo numero di casi, si conferma una riduzione dei lobi frontali e temporali. Il problema è che il dato è assolutamente incostante, non appare facilmente correlabile al quadro clinico,e, tra l'altro, potrebbe essere interpretato in termini non etiologici, essendo ormai assodato che il funzionamento cerebrale non si basa sul volume dei lobi ma sul tipo di connessioni che si stabiliscono all'interno di essi.

Si scoprono, con metodiche neuropsicologiche ulteriori alterazioni percettive. Oltre a quelle auditive e visive, sono state rilevate alterazioni olfattive. Ma, nel valutare queste alterazioni, sembra che gli psichiatri ignorino del tutto il fatto che, dall'epoca della scoperta freudiana dell'isteria, è comunemente ammesso che stati di squilibrio emozionale possono interferire potentemente con tutte le funzioni fisiologiche e psicologiche.

Si rispolverano addirittura ipotesi sulla partecipazione degli ormoni alla genesi della schizofrenia. Un segno questo che rende evidente lo stato confusionale dei neopsichiatri e anticipa, forse, l'ammissione dei limiti delle ipotesi fondate sui neurotrasmettitori in auge da anni.

Un solo dato appare certo, ma si tratta di una convenzione intervenuta tra gli psichiatri: Posta la diagnosi, l'evoluzione della malattia è determinata, in una certa misura, dalla somministrazione di psicofarmaci a dosi terapeutiche protratte nel tempo.

Ho già detto più volte che l'uso degli psicofarmaci in pazienti schizofrenici deve essere molto prudente. Primo, perché il principio del trattamento precoce può fondarsi solo su di un sospetto, quando addirittura non su di un errore diagnostico. Di recente, ho preso in cura un ragazzo di diciassette anni visitato da uno psichiatra che aveva detto ai genitori che la sintomatologia - un ritiro dal mondo seguito ad un attacco di panico - comportava solo un sospetto di schizofrenia incipiente. Egli, però, aveva ugualmente prescritto una cura con neurolettici a dosi elevate sulla base del principio per cui, se quel sospetto corrispondeva alla verità, un non trattamento precoce avrebbe potuto determinare la cronicizzazione della schizofrenia nel giro di un mese! E' superfluo aggiungere che il sospetto era infondato. Sarebbe bastato chiedere al paziente il motivo del suo ritiro dal mondo per venire a sapere che egli aveva un'angoscia perpetua di morte, esasperata dall'esposizione sociale.

Il secondo motivo per essere farmacologicamente prudenti è legato al fatto che, se è giusto aiutare il paziente a soffrire di meno, può essere pericoloso indurre con i farmaci una rimozione completa dei sintomi (che all'epoca delle prime crisi è talora possibile). Il venir meno della sintomatologia, infatti, non significa la risoluzione dei conflitti psicodinamici che li hanno generati. In assenza di sintomi il paziente non ha più alcun interesse a capire quello che è avvenuto nel suo intimo. La rimozione farmacologica della sintomatologia è uno dei fattori fondamentali nell'avviare un processo di cronicizzazione.

L'autore conclude l'articolo affermando che i risultati della ricerca, per quanto riguarda il 2002, non sono esaltanti, benchè pur sempre di progressi si tratti. Contento lui…