Schizofrenia e Neuroimaging

1.

Nell’epoca delle immagini, non c’è da sorprendersi che anche le cosiddette malattie mentali possano diventare “spettacolari”. Nei Congressi di psichiatria, ormai, la proiezione di diapositive che evidenziano la corrispondenza funzionale neuroradiologica delle malattie è un fatto consueto.

Per non rischiare di essere frainteso, preferisco chiarire preliminarmente che, data l’inesistenza di qualunque prova certa delle cause che portano un soggetto ad avere un’esperienza che gli psichiatri riconducono nell’ambito della schizofrenia, qualunque tecnica che possa fornire elementi atti a chiarire la corrispondenza tra vissuti psichici, aree e funzioni cerebrali va accolta positivamente nell’ottica di pervenire ad una teoria psicosomatica integrata.

Il problema è che non è questa – dell’apertura scientifica a qualunque dato significativo – la via che la neopsichiatria va percorrendo.

L’intervista da cui prende spunto questo articolo è sufficientemente probante.

Nancy C. Andreasen è una ricercatrice estremamente accreditata negli Stati Uniti, della quale ho riportato, nel mio libro sulla schizofrenia, un lungo articolo pubblicato nel 1999 come editoriale del New England Journal of Medicine che faceva il punto delle ricerche e delle ipotesi biologiche sulle cause della malattia.

Riporto qui il commento all’articolo e alla linea di ricerca cui fa riferimento:

“Le ricerche effettuate sino ad oggi, con le tecniche genetiche, biochimiche, anatomiche e radiologiche più avanzate, non hanno consentito infatti di risolvere il ‘mistero’ dell'eziologia e della patogenesi della schizofrenia. La sproporzione tra la massa dei dati accumulati, in via di costante crescita esponenziale, e la povertà dei modelli che tentano, senza riuscirvi, di integrarli, è enorme.  L'ipotesi attualmente dominante è che la schizofrenia nasca dall'interazione di un corredo genetico caratterizzato dalla presenza di più geni ‘vulnerabili’ con i fattori ambientali. Esclusa un'ereditarietà mendeliana semplice, la predisposizione genetica è ricondotta ad un modello multifattoriale a soglia. Tale modello presuppone l'esistenza di un numero relativamente elevato di geni sfavorevoli, benché non necessariamente patologici, distribuiti a caso nella popolazione che, in alcuni corredi individuali, si combinerebbero tutti o quasi tutti dando luogo ad un effetto soglia, vale a dire ad una vulnerabilità ai fattori ambientali. I fattori ambientali potrebbero agire sia prima sia durante sia dopo la nascita contribuendo ad indurre una strutturazione neuroanatomica abnorme che sarebbe infine rivelata dai sintomi.

Si tratta di un'ipotesi legittima, le cui carenze epistemologiche vanno però sottolineate preliminarmente. Essa muove da un ragionamento sillogistico che comporta almeno una premessa incerta. Posto che alcuni soggetti manifestano dei disturbi del pensiero, dell'affettività e del comportamento e che tali disturbi non sono immediatamente comprensibili in rapporto alle circostanze ambientali, se ne deduce che essi interagiscono con l'ambiente in base ad un difetto costituzionale. La metodologia di ricerca conseguente al sillogismo è vantata com'empirica. In realtà si procede a tentoni. Si cercano, nel corredo dei pazienti e in quello dei loro parenti, i presunti geni sfavorevoli che determinerebbero l'effetto soglia. L'individuazione avviene sulla base del reperimento di minime anomalie cromosomiche. Il rapporto tra tali anomalie, peraltro incostanti e presenti in varia misura anche nella popolazione normale, e la schizofrenia è semplicemente presuntivo.

 La vulnerabilità, d'altro canto, sarebbe un fattore necessario ma non sufficiente ad attivare la malattia. I fattori ambientali, il cui ruolo risulta decisivo dal punto di vista eziologico, non possono essere generici, riconducibili cioè a circostanze comuni di vita, poiché, in tal caso, tutti i soggetti che hanno nel loro corredo gli stessi geni sfavorevoli (i gemelli monozigoti), allevati nello stesso ambiente, dovrebbero ammalare, mentre la concordanza non supera il 40%. Nonostante la loro importanza, però, tali fattori rimangono indefiniti. Le ipotesi avanzate a riguardo, nessuna delle quali è stata sinora confermata, spaziano da un'infezione virale fetale a non meglio specificati stress. Posto che, sulla base di una predisposizione genetica, sono i fattori ambientali a fenotipizzare la schizofrenia, il carattere incerto e contraddittorio di queste ipotesi getta una luce di discredito sul paradigma organicistico.

         Nonostante lo stato della ricerca scientifica sulla schizofrenia imporrebbe ragionevolmente di dedicare, a fini preventivi, tempo e denaro allo studio dei fattori ambientali, che sembrano decisivi al fine di trasformare la predisposizione in malattia, e che, solo in spregio al buon senso, possono essere identificati con l’ambiente uterino, la neo-psichiatria procede ormai da anni sulla via d'una mistificazione ideologica che, nella comunicazione con i mass-media, raggiunge il livello della falsificazione propagandistica. Se essa infatti, sul piano scientifico, si fa scudo adottando il modello multidimensionale che ammette, per ogni disagio mentale, l'interazione di fattori genetici, psicologici e ambientali, e riconosce che, per quanto riguarda la schizofrenia, mancano ancora molti dati per rendere epistemologicamente attendibile tale modello, sul piano della propaganda rivolta all'opinione pubblica, che utilizza ampiamente i mass-media e la rete Internet, mette da parte ogni cautela ed esibisce un trionfalismo dogmatico che dà per scontato la natura genetica della schizofrenia e ne anticipa l'imminente soluzione medica.

Di questo trionfalismo dogmatico si potrebbero fornire prove molteplici. Mi limiterò a due documenti pubblicati su Internet. Il primo, del 1997, è un lungo articolo pubblicato dall'Istituto Nazionale per la Salute Mentale degli Stati Uniti (NIHM) che fa un bilancio delle ricerche biologiche sui disturbi mentali. L'articolo esordisce con l’asserzione che le malattie mentali gravi sono malattie del cervello. A ragione della loro diffusione epidemiologica, che il NIHM, sommando i dati che riguardano la schizofrenia, i disturbi dell'umore, gli attacchi di panico, i disturbi ossessivo-compulsivi, i disturbi del comportamento alimentare, ecc., valuta com'estesa al 12-15% della popolazione statunitense, le malattie mentali sono considerate un problema sanitario prioritario in conseguenza delle sofferenze che esse producono ai pazienti e alle famiglie e dei costi dell'assistenza e della previdenza. All’interno di questo insieme, univocamente considerato di pertinenza medica, la schizofrenia, per il suo lungo decorso e per gli esiti spesso devastanti, è considerata la frontiera della ricerca neurobiologica.

I dati acquisiti al 1997 su questa frontiera sono riportati in dettaglio. Da essi risulta ciò che è noto da tempo: il rischio di morbilità per i parenti di un soggetto affetto da schizofrenia, direttamente correlato al grado di parentela, e la non concordanza nella malattia che riguarda i gemelli monozigoti di genitori schizofrenici affidati a famiglie sane. Per quanto riguarda i geni vulnerabili, un'analisi dettagliata delle ricerche internazionali porta alla conclusione che i risultati sono attualmente inconsistenti. Ciononostante, gli autori, fondandosi unicamente sulla ereditarietà familiare, ritengono, senza porsi alcun altro problema, che essa, mettendo in luce una predisposizione, basti a definire la schizofrenia una malattia cerebrale.”

2.

A distanza di quasi dieci anni, le cose non sono cambiate. L’intervista concessa da Nancy C. Andreasen a Medscape ( che riporto in appendice) merita però di essere commentata per vari motivi.

Il primo, ovvio, è il continuare a dare per scontato che la schizofrenia sia una malattia del cervello, di un organo la cui disfunzione dà luogo alla sintomatologia.

La Andreasen continua ad esibire una sicurezza dogmatica che appare priva di fondamento. Posto, infatti, che si ammetta un difetto cerebrale alla base della schizofrenia, dovuto all’azione di geni disfunzionali (genomics),  le tecniche di neuroimaging potrebbero fornire i biomarkers (eidomics) che consentono di definire i meccanismi neurali coinvolti nella malattia:

“From my point of view, the future is, at least partially, to link genomics to eidomics…

We are just now in the process of using that to try to understand how schizophrenia arises at the level of genes and expresses itself in brain abnormalities.”

Understand: è l’ossessione della Andreasen, che ha utilizzato questo verbo per titolare l’articolo citato. Comprendere, però, richiede un’apertura alla verità che alla neopsichiatria difetta. L’ipotesi dell’esistenza di geni disfunzionali è per ora solo presunta. A maggior ragione, sembra ben poco giustificato ammettere, come insiste a fare la Andreasen, che essi incidono precocemente, a livello fetale, sullo sviluppo dei circuiti interneuronali.

Gran parte di coloro che, tra i 15 e i 25 anni, manifestano una sintomatologia che frettolosamente i neopsichiatri diagnosticano come schizofrenia hanno in precedenza uno sviluppo normale, anche se frequentemente indiziario di un’introversione di base: sono, insomma, bambini e ragazzi di eccellenti qualità, che appaiono spesso intellettivamente e moralmente più maturi rispetto alla media, hanno un buon rendimento scolastico, ecc.

Certo, si può ammettere che le cose filano lisce finché essi non si imbattono in problemi che fanno affiorare la loro vulnerabilità. Ma com’è possibile che uno sviluppo difettoso dei circuiti neuronali, che interverrebbe addirittura in epoca fetale, si traduca in un’evoluzione della personalità apparentemente del tutto normale sino ad una certa epoca?

Evidentemente, i neopsichiatri partono dai fatti che attivano il loro interesse, vale a dire dall’affiorare di sintomi che possono essere ricondotti ad un’esperienza psicopatologica. Ciò che avviene prima della loro comparsa è insignificante, ovvero né più né meno un periodo di latenza della malattia (che evidentemente c’è fin dai primi mesi di vita fetale).

Di fatto, sarebbe imbarazzante spiegare una latenza così lunga di un disturbo originario nella strutturazione del cervello. Certo, nell’ambito della neurologia, si danno casi anche più rilevanti, come per esempio accade con la corea di Huntington. Nessuno però pensa che i geni della corea entrino in azione a livello fetale.

3.

Il secondo punto è l’uso delle tecniche di neuroimaging per creare un ponte tra presunto difetto genetico a alterazioni strutturali e funzionali del cervello.

Qui si impone una riflessione metodologica.

L’uso delle tecniche di neuroimaging rappresenta senz’altro una frontiera che può fornire contributi importanti alla conoscenza del cervello: essa però riconosce un limite che sarebbe ingenuo sottovalutare.

Le immagini corrispondono a stati funzionali del cervello riferiti a determinate aree anatomiche che risultano più o meno attive. Laddove la ricerca verte su funzioni ben note psicologicamente, la corrispondenza risulta significativa. Per esempio è fuor di dubbio che le ricerche di Le Doux abbiano consentito di identificare nell’amigdala una struttura coinvolta nella modulazione della paura.

Laddove invece le tecniche di neuroimaging vengono utilizzate per analizzare stati funzionali che corrispondono a sintomi e vissuti psicopatologici, occorre essere molto cauti. Primo, perché quegli stati coinvolgono complessi equilibri tra la sfera conscia e quella inconscia che la neuradiologia non è in grado di valutare, essendo impossibile definire cosa compete alla coscienza e cosa all’inconscio. Secondo, perché tali equilibri comportano di sicuro l’entrata in azione di meccanismi di inibizione e disinibizione funzionale che non attestano un difetto cerebrale, bensì uno sforzo dinamico di adattamento alla complessa esperienza del soggetto.

Questa riflessione porta al terzo punto, il più significativo. I dati forniti dalla neuroradiologia sono interessanti, ma vanno interpretati su di una base clinica e psicodinamica. Partendo dal presupposto organicistico per cui il cervello è malato, il rischio costante è che essi vengano fraintesi e distorti.

I dati più interessanti tratte da tecniche di neuroimaging su soggetti schizofrenici sono riassunti dalla Andreasen in questi termini:

“To vastly oversimplify, what has come out of that is the recognition that several brain regions tend to be hypofunctional in people with schizophrenia. One is the prefrontal cortex. The other is the temporal lobe.

We have also found that the thalamus is consistently hypoactive…

If you asked a research psychiatrist 10 years ago what part of the brain is involved in schizophrenia, that person might have said the frontal lobes, or the temporal lobes. Today, those of us who are at the cutting edge are saying schizophrenia is a disease of distributed circuits and it is a disease in which distributed circuits are misconnected. They are not functioning together in an organized way. They are getting information, but they are sending it to the wrong place, or they are sending it to the right place but not quickly enough, or they are not using it efficiently in that place once it gets there.”

In breve, la corteccia prefrontale, il lobo temporale e il talamo sono ipofunzionanti, e l’attività dei circuiti interneuronali è disorganizzata e sconnessa.

Adottando un criterio organicista, i dati confermerebbero che alla diagnosi degli psichiatri corrisponde qualcosa che non va nella struttura cerebrale.

Il problema è che questo qualcosa corrisponde anche all’esperienza vissuta dai soggetti che, di fatto, delirano, vale a dire hanno una percezione globalmente riferibile ad uno stato di cose nel mondo esterno minaccioso o persecutorio.

Se si tiene conto di questo aspetto, non c’è da sorprendersi dell’ipofunzionalità del talamo, che chiaramente ha un significato difensivo rispetto a “stimoli” che il soggetto sente provenire dall’esterno. Anche l’ipofunzionalità della corteccia prefrontale e del lobo temporale sono di facile interpretazione. Il soggetto che delira è continuamente impegnato a dare senso a ciò che accade nel mondo esterno. Dato che questo impegno serve solo a far crescere l’ansia, perché gli eventi deliranti muovono dall’interno, non c’è da sorprendersi che le aree cognitive, dopo un certo periodo, vadano incontro ad un’inibizione funzionale.

Il dato che sorprendentemente la Andreasen non riferisce, e che è affiorato ormai in numerosissime ricerche svolte con tecniche di neuroimaging è il contrasto tra l’ipoattività delle aree cognitive e l’iperattività delle aree emozionali.

Alla luce della psicodinamica, tale dato risulta facilmente comprensibile.

Il delirio non è un’esperienza cognitiva bensì, nella sua origine, emozionale. E’ lo squilibrio emozionale, insomma, che innesca i vissuti persecutori e attiva di conseguenza la necessità di dare ad essi senso.

In misura direttamente proporzionale allo squilibrio emozionale si realizza una situazione globalmente angosciosa che disorganizza l’attività cognitiva.

La chiave della schizofrenia sta, dunque, nel capire perché un soggetto umano giunge ad avere – lo sappia o no – una relazione conflittuale e persecutoria con il mondo sociale, con l’Altro e perché, posta questa relazione, egli dia per scontato di dovere subire delle rappresaglie.

In termini psicodinamici, il mistero è un segreto di Pulcinella. Ma questo la neopsichiatria non può capirlo.

Essa si aspetta che, nonché attivarsio disattivarsi nelle sue varie aree, il cervello parli e ci dica quello che sperimenta.

A tal fine, però, non c’è bisogno di impiegare diavolerie tecnologiche: basterebbe chiederlo al soggetto.

 

Appendice

 Nancy C. Andreasen, MD, PhD

Schizophrenia and Neuroimaging: An Expert Interview with Nancy C. Andreasen, MD, PhD

Posted 04/24/2007

Medscape: A great deal of your work, Dr. Andreasen, has had to do with neuroimaging. Could you tell us a bit about that?

Dr. Nancy Andreasen: Well, people are trying to understand the neural mechanisms of all the major mental illnesses to explore treatment and ways of prevention.

 The use of neuroimaging began in the 1970s with computed tomography (CT). CT is a relatively crude tool that does not permit someone to see great detail. CT has been largely supplanted by Nuclear Magnetic Resonance Imaging (MRI or MR). In the mid-1980s, we did the first qualitative study of any mental illness, the results of which were published in 1986.[1] MR is now used in a variety of ways to explore the brain.

Then, there was functional magnetic resonance imaging (fMRI). The first studies using these techniques were very simple. For example, an image showing that when the visual system is stimulated, increased activity in the visual cortex is seen. From those early experiments, scientists have gone on to use fMRI to study language production, social cognition, memory, and creativity.

Today, much research uses positron emission tomography (PET), which creates images based on the detection of radiation from the emission of positrons. It was developed in the 1970s, but it really was not widely used until the 1980s or 1990s. There are many differences between PET and fMRI. PET measures cerebral blood flow quantitatively. Also, it provides a much nicer environment for the patient. MR scanners are narrow hollow tubes and can induce claustrophobia.

Mostly, what needs to be acknowledged is that PET scanning has led the field of neuroimaging. From this technique, we can crank through tons of data and it has led to a whole bunch of surprises.

Medscape: What has PET taught you and the experts in the industry?

Dr. Andreasen: PET, more than any other imaging technique, has helped those of us in cognitive neuroscience and psychiatry understand how the brain works. PET has taught us that the brain is an organ comprised of distributed circuits that contain multiple nodes. For any given task, maybe 3, 4 or 5 different brain regions are all active; for example, when we talk, it is not just a certain language region in the brain that is active. There are 3 or 4 different regions involved.

Take another example -- memory. Before PET, experts believed that the major memory machine in the brain was the hippocampus. PET scans revealed that memory-related activities were rarely activating the hippocampus. Rather, activations in other regions such as the frontal cortex, and even the cerebellum were demonstrated. Experts had to rethink how the brain learned to remember.

Another important finding from PET, prior to the development of fMRI, was that the cerebellum, previously thought to only perform motor functions, is active in almost every mental task we do. It is active in speech, memory, facial recognition. It is not merely a motor organ.

These findings have reconceptualized how the brain works.

PET has also taught us that the old notion of left brain/right brain has been way over emphasized. For example, language is considered a classic left brain function. PET has shown that with language perception and language production, there is strong activation in language regions of the left hemisphere, but there is a mirror activation, albeit slightly less prominent, in the right hemisphere. So hemispheric specialization has become much less of a dogma based on PET scanning.

 

Medscape: How has the use of PET furthered schizophrenia research?

Dr. Andreasen: We have been able to do studies in which we compare brain use in people who have an illness like schizophrenia with healthy, normal volunteers. To vastly oversimplify, what has come out of that is the recognition that several brain regions tend to be hypofunctional in people with schizophrenia. One is the prefrontal cortex. The other is the temporal lobe.

We have also found that the thalamus is consistently hypoactive. This is interesting because the thalamus sits right in the center of the brain. Almost all the information we deal with flows first into the thalamus, which sends that information out to whichever part of the brain needs to have it.

Another surprising region that is hypoactive in people with schizophrenia is the cerebellum. We are doing a series of studies just to look at cerebellar function and hypofunction in schizophrenia.

If you asked a research psychiatrist 10 years ago what part of the brain is involved in schizophrenia, that person might have said the frontal lobes, or the temporal lobes. Today, those of us who are at the cutting edge are saying schizophrenia is a disease of distributed circuits and it is a disease in which distributed circuits are misconnected. They are not functioning together in an organized way. They are getting information, but they are sending it to the wrong place, or they are sending it to the right place but not quickly enough, or they are not using it efficiently in that place once it gets there.

That story about the true nature of schizophrenia began with PET studies, although it has now expanded substantially with fMRI studies.

 

Medscape: What do you think is on the horizon for psychiatric research?

Dr. Andreasen: I believe that the future in psychiatry has to be integrative. The big pay off is going to be integrating information from genetics and genomics with information from imaging studies and other measures. There are many new terms that have been created in the past 5 to 10 years. We have had genomics, which is the application of genetics to understanding how genes function together and exert their effects. Because a lot of that involves the production of protein, there is now the term proteomics.

Lately, people have begun to use the word phenomics, which came about because people working in genetics began to realize that they could use all the technology in the world, but they needed somebody to link genomic data to the phenotype. A colleague of mine here has coined another variant of the omics: eidomics. eidomics is the use of imaging technology to develop brain biomarkers that may inform diagnosis or treatment or the identification of neural mechanisms.

From my point of view, the future is, at least partially, to link genomics to eidomics. I have actually written a book on that subject called Brave New Brain: Conquering Mental Illness in the Era of the Genome, published by Oxford University Press. This is the area of focus for my laboratory group, and we have been doing it for the past 8 or 9 years. We draw blood on everybody who gives consent and is in any of our studies; we now have lots of blood samples, lots of clinical data, and lots of imaging data. We are just now in the process of using that to try to understand how schizophrenia arises at the level of genes and expresses itself in brain abnormalities.

We are particularly interested in genes that are known to regulate brain development. For example, there is a gene called brain-derived neurotrophic factor (BDNF). We have been doing a lot of work looking at the relationship between BDNF, brain measures in schizophrenia, and changes in the brain over time in those with schizophrenia. The next step will be to translate what we know about the role of those genes in schizophrenia to how they affect treatment with different kinds of medications. Using the example of BDNF, one might say "Okay, this gene is polymorphic and I know that people who carry one of the alleles are more prone to have a tissue loss than others." Then you can go on and see if having a certain allele affects their response to treatment.

This is really just the beginning. Very little work like this has been done yet, but that is very much the direction we are moving in -- that is, ultimately leading to more targeted treatments. A person comes in; the clinician looks at his or her genetic profile and can say that this person is much more likely to respond to drug x than to drug y. Not only that, but this person also needs a higher dose of drug x because of the way he or she metabolizes drugs.

To date, we have not had rational dosing strategies, nor have we had rational drug selection strategies. That is where it has ultimately got to go.

 

Medscape: That sounds like individualized, tailored treatments. How exciting! Thank you very much, Dr. Andreasen, for your time and for all of this information.

Dr. Andreasen: Thank you.

 Medscape Psychiatry & Mental Health.  2007; ©2007 Medscape