Il Modello Multifattoriale


Il modello attualmente dominante in psichiatria è quello multifattoriale. In realtà, non si tratta di un modello scientifico (con questo termine intendendosi una ricostruzione teorica di un qualunque "oggetto" reale che ne spieghi la genesi, la struttura intrinseca e la forma), bensì di un’ipotesi che, adottata universalmente, è diventata già una formula passe-partout, un luogo comune. Esso recita che qualunque esperienza di disagio psicopatologico riconosce tre fattori concausali, concorrenti e interagenti: uno biologico, uno psicologico e uno sociale. Il fattore biologico viene ricondotto univocamente ad una predisposizione di origine genetica, che rende alcuni individui più vulnerabili in rapporto alle circostanze di vita, usuali o occasionali, che richiedono una capacità di adattamento. Il fattore psicologico viene identificato con le interazioni interpersonali (a partire da quelle familiari) e con le modalità cognitive che il soggetto costruisce per interpretare il mondo e per orientarsi in esso. Il fattore sociale, infine, viene riferito a tutte le circostanze sociali - di ordine generico o dovute ad eventi di vita particolari (lutti, separazioni, disoccupazione, sfratti e via dicendo) - che mettono alla prova la capacità individuale di far fronte alle richieste dell'esistenza. Il peso di queste tre variabili è ovviamente diverso da esperienza ad esperienza. Si ammette che ad un estremo si diano persone che ammalano nonostante l’ambiente di sviluppo e le circostanze sociali siano nel complesso favorevoli; all’estremo opposto, che le persone cedano in conseguenza di storie familiari particolarmente disagiate e di circostanze ambientali o eventi di vita sfavorevoli. Nel primo caso, la predisposizione genetica ad ammalare è ritenuta ovvia. Ma anche nel secondo caso la si ammette, perchè, dato lo stesso ambiente e le stesse circostanze di vita, altri individui riescono ad adattarsi.

Sfrondato del suo carattere eclettico, il modello multifattoriale, così come è stato messo a punto negli anni ‘90, postula in ultima analisi che la predisposizione genetica sia il fattore necessario nella genesi delle esperienze di disagio, determinante in alcuni casi o attivato in altri dai fattori concausali psicologici e ambientali. Apparentemente aperto agli apporti di tutte le scienze - dalla neurobiologia alla sociologia - che hanno rapporto con l’uomo, esso non serve ad altro che a riproporre il pregiudizio organicista da cui è nata la psichiatria. Questo pregiudizio ratifica il carattere di specializzazione medica della psichiatria stessa e sancisce il prevalente potere terapeutico degli psichiatri, cui compete la prescrizione di psicofarmaci ritenuti l’unico strumento atto ad incidere sul substrato biologico. Dati gli esiti parziali dei trattamenti psicofarmacologici, lo stesso pregiudizio giustifica l’aspettativa che le ricerche sul genoma umano individuino i geni predisponenti alla malattia mentale in manierat tale da potere intervenire preventivamente su di essi con l’ingegneria genetica.

Il pregiudizio genetico non esclude la partecipazione causale dei fattori psicologici e sociali, ma ne riduce al minimo il peso. Le interazioni familiari patologiche vengono infatti ricondotte a disturbi delle personalità genitoriali dovute alla predisposizione che viene trasmessa ai figli. Le interpretazioni cognitive dei pazienti, che amplificano il disadattamento alla realtà, sono attribuite a disfunzioni emozionali e cognitive di base. Gli eventi negativi di vita - lutti, separazioni, malattie, perdita di lavoro, trasferimenti residenziali e via dicendo - rientrano nella lotteria dell’esistenza. Per quanto non si esclude che i pazienti possano essere sfortunati, ci si attiene sempre al principio per cui quelli stessi eventi risultano meglio tollerati da soggetti non predisposti. L’organizzazione sociale, sia nei suoi assetti istituzionali (famiglia, scuola, ambienti di lavoro, ecc.) che nei suoi aspetti culturali, non viene mai criticata poichè la si considera il prodotto di un processo storico che per i più viene ritenuto positivo.

Il modello multidimensionale neopsichiatrico, insomma, è più realista del re. Sembra aperto sulla carta all’apporto di tutte le scienze umane e sociali, ma il suo nocciolo duro riduce tale apporto a ben poco: a una concausalità che fenotipizza psicopatologicamente una predisposizione assunta come certa. Anche accettando questo presupposto, si sarebbe indotti a pensare che l’analisi dei fattori psicologici e sociali dovrebbe essere considerata importante, sia perchè essi agiscono come fattori scatenanti sia perchè, entro certi limiti, intervenire su di essi, una volta individuati, potrebbe risultare più praticabile nell’immediato rispetto alla prospettiva della manipolazione genetica. Questa infatti, posto che le conoscenze scientifiche la rendano possibile (e si è attualmente mille miglia lontano dall’obbiettivo), dovrà fare i conti con problemi bioetici, culturali e politici di enorme portata. Il problema è che la neo-psichiatria, in ordine al pregiudizio di cui si è parlato, ha ormai identificato nella manipolazione genetica la soluzione totale dei disturbi psichiatrici gravi. In un recente convegno, il portavoce italiano della neopsichiatria, Giovan Battista Cassano, ha affermato con certezza che, nel giro di alcuni decenni, le psicosi saranno risolte dalla genetica e agli psichiatri rimarrà il trattamento dei disturbi della personalità e delle nevrosi da stress.

Il panorama psichiatrico, egemonizzato dal modello multidimensionale, è dunque inquietante. Esso lascia spazio ad un solo spiraglio critico; l’analisi delle sue contraddizioni intrinseche, dalla quale si può pensare di riproporre il problema psichiatrico in termini di dialettica tra biologia e società. Tali contraddizioni, per fortuna, sono implicite nel modello stesso.

Nel campo delle scienze che hanno l’uomo e i fatti umani come oggetto - campo nel quale il confine tra sapere scientifico e ideologia è sempre precario -, un modello che non incontra un’opposizione critica tende infatti inesorabilmente al trionfalismo, fino al punto di presumere di spiegare tutti i fenomeni cui esso si riferisce. Questa tendenza, che per un certo periodo può risultare vincente, espone però il modello in questione al rischio di rivelare le sue contraddizioni e di esasperarle fino al punto che esse stesse rendono necessario un suo superamento.

Ciò è già accaduto con l’antesignano del modello multidimensionale, il rozzo organicismo positivista che ha dominato la psichiatria dalla metà dell’800 sino agli anni sessanta del nostro secolo, e che ha determinato la diffusione dei manicomi e della logica manicomiale. Tale modello assumeva come oggetto di cura la malattia, estraniata dalla concreta esperienza personale e sociale del paziente. In conseguenza di questa estraneazione, la cura si riduceva all’internamento coatto e alla somministrazione di cure biologiche, fisiche e chimiche. La pressoché totale indifferenza nei confronti del paziente come persona dava luogo, nella maggior parte dei casi, a una cronicizzazione della malattia e a una regressione più o meno rilevante della personalità che tendeva alla disgregazione. Colta la disumanità di un trattamento che trascurava del tutto il contesto ambientale e il fattore umano, il movimento antistituzionale ha avuto buon gioco nel dimostrare che un cambiamento delle condizioni oggettive di vita - l’umanizzazione del manicomio prima, la residenza territoriale dei pazienti poi - produceva effetti terapeutici di gran lunga più rilevanti del trattamento manicomiale e farmacologico.

I fautori del modello multidimensionale si guardano bene dal riproporre la pratica dell’internamento manicomiale. Essi ne ripropongono però la logica intrinseca: la medicalizzazione dei fenomeni di disagio psicopatologico, che reifica nuovamente la malattia come fatto eminentemente (se non esclusivamente) biologico, il cui fattore necessario, per quanto non sempre sufficiente, è una predisposizione genetica, e postula che la sua cura si avvalga anzitutto di strumenti biologici (gli psicofarmaci). Le psicoterapie e l’assistenza sociale non sono bandite, come avveniva in passato, bensì tollerate (anche se con scetticismo) e ritenute comunque collaterali al processo terapeutico, essenzialmente medico. Questa tolleranza, più formale che sostanziale, sembra rendere il modello multidimensionale poco o punto attaccabile, in quanto esso non rifiuta di integrarsi con principi e pratiche assistenziali psicologiche o sociali. Ciò cui tiene soprattutto è la natura primariamente biologica dei fenomeni psicopatologici e, di conseguenza, il primato del potere terapeutico della psichiatria intesa come branca specialistica della medicina.

Il punto debole del modello multidimensionale è il suo imperialismo, in gran parte riconducibile al patto di acciaio che esso ha stretto con l’industria psicofarmaceutica, i cui massicci investimenti, più che i progressi scientifici, gli hanno consentito di superare la bufera della contestazione antipsichiatrica e della lotta antistituzionale, e di riorganizzarsi in virtù di un uso spregiudicato dei mass-media, che ha propagandato come verità acquisite scientificamente ipotesi che rimangono da dimostrare, oltre a una serie di vere e proprie falsificazioni. L’imperialismo consiste nell’aver esteso a tutto il campo psicopatologico l’ipotesi della predisposizione costituzionale, sicchè il confine tra grande e piccola psichiatria, tra psicosi e nevrosi, è rimasto meramente clinico: riguarda insomma la diagnosi, non l’eziologia. Le conseguenze di questa estensione sono due. La prima è il misconoscimento della possibilità che si diano disturbi meramente funzionali, psicogeni o sociopsicogeni. La seconda è la generalizzazione del paradigma biologico, che è avvenuta sulla base di un sillogismo. Posto infatti che laddove si dà un sintomo psicopatologico si ammette l’esistenza di un processo causale biologico, tutte le esperienze psicopatologiche sono riconducibili a malattie.

Con questi assunti, inattaccabili in quanto non falsificabili, e fondati peraltro su di un dato di realtà inconfutabile per cui ai fenomeni psichici corrispondono degli eventi biologici, il modello multidimensionale ha posto nondimeno le premesse di una sua inesorabile crisi. Si dà il fatto che, a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso in poi, alcune patologie - gli attacchi di panico, le depressioni atipiche, i disturbi del comportamento alimentare, le sidromi border-line, ecc. - hanno riconosciuto, nelle società occidentali, una diffusione epidemiologica che metaforicamente si può definire epidemica. Sono cresciute insomma con una modalità statisticamente esponenziale, che appare del tutto inspiegabile partendo dall’ipotesi dell’eredità costituzionale. O si ammette infatti che tale eredità dipende in larga misura, per quanto riguarda la sua fenotipizzazione clinica, dal contesto socio-culturale (ma, in tal caso, si può opporre l’ipotesi che, dato un contesto adeguato, quell’eredità potrebbe non esprimersi, e dunque che la causalità dei fenomeni psicopatologici è sempre e comunque contestuale); oppure, per tener fermo il postulato della predisposizione, occorre arrampicarsi letteralmente sugli specchi. E’ quanto ha tentato di fare la neopsichiatria. Anzitutto contestando fino ad epoca recente l’aumento epidemiologico del disagio psichico e riconducendolo ad una minore difficoltà dei pazienti di ricorrere agli psichiatri, e dunque alla rivelazione sociale di un fenomeno dapprima sommerso. Di fronte ai dati statistici inconfutabili, essa è stata poi costretta ad articolare delle ipotesi compatibili con la predisposizione genetica francamente ridicole. L’aumento degli attacchi di panico con agorafobia, che investe in misura rilevante soggetti femminili, è stato spiegato in rapporto a cambiamenti sociali che, richiedendo a un numero sempre maggiore di donne di abbandonare il loro tradizionale ruolo domestico, rivela una vulnerabilità all’esposizione sociale confermata, nel suo fondamento ereditario, dal fatto che spesso le madri delle pazienti soffrono di attacchi di panico. L’aumento delle depressioni, con una disinvoltura scientifica singolare, è stato ricondotto all’aumento della prolificità dei depressi dovuto al miglioramento indotto dalle cure antidepressive! I disturbi del comportamento alimentare adolescenziale vengono ricondotti ad influenze culturali che agiscono solo su soggetti geneticamente predisposti.

L’incidenza epidemiologicamente costante delle psicosi sembra, in un’ottica critica, lo scoglio più duro da superare. Ma, anche a questo riguardo, non mancano dati significativi. L’esordio della schizofrenia, per esempio, si va di sicuro precocizzando, se è vero che un numero crescente di diagnosi riguardano soggetti dai 14 ai 18 anni. Le depressioni maggiori sono in lieve ma costante aumento. Gli episodi di eccitamento maniacale si manifestano per la prima volta dopo i quarant’anni in una misura maggiore rispetto al passato. Si può ritenere che questi dati siano riconducibili a delle modalità diagnostiche più fini e a una accresciuta domanda di cure psichiatriche. Ma si può anche avanzare il dubbio che essi siano indiziari di cambiamenti psicopatologici significativi sotto il profilo epidemiologico, e non interpretabili su base genetica.

E’ vero che cogliere queste contraddizioni non significa molto. Intanto perchè il modello neoorganicista è stato acquisito dall’opinione pubblica in misura rilevante, sicchè la critica ad esso può risultare uno sterile esercizio di dialettica scientifica destinato a rimanere chiuso all’interno del campo degli addetti ai lavori. In secondo luogo, poichè, al di là della critica destruens, occorre opporre ad esso un altro modello, necessariamente più comprensivo, e dunque tale da dare il giusto valore agli aspetti biologici. Ci si può chiedere donde debba muovere questo modello. La risposta può essere ricavata proprio dal dato che confuta l’ipotesi neo-organicista: dalle patologie il cui aumento esponenziale pone il problema di capire che cosa sta avvenendo nel terreno in cui esse attecchiscono e che le alimenta, il contesto socio-storico. Si può pensare che tale risposta, riguardando solo tali patologie, non possa avere alcun significato in rapporto allo zoccolo duro della psichiatria, le psicosi. Ma non è così: prendere atto che alcuni fenomeni psicopatologici, ricondotti univocamente alla predisposizione genetica, fluttuano in rapporto a cambiamenti sociali e culturali non può non avere conseguenze su tutta la psicopatologia. Nessuno oggi infatti, anche per la schizofrenia e i disturbi dell’umore, può sostenere l’ipotesi di un determinismo genetico in senso stretto. Anche le psicosi dunque sono fenotipizzazioni di determinati genotipi. Si pone dunque il problema di definire in senso rigoroso, laddove esiste, una predisposizione che non può più essere considerata unicamente aperta allo sviluppo morboso.