La mistificazione genetica continua


1.

Science, la più prestigiosa, forse, tra le riviste scientifiche, pubblica, sull'ultimo numero, un bilancio dei più rilevanti progressi avvenuti nell'ultimo anno in campo medico. Tra questi sono citati, con una certa enfasi, i risultati conseguiti nell'ambito della genetica psichiatrica, in particolare per quanto riguarda la schizofrenia. L'articolo riconosce che si tratta di progressi parziali. Non è stato scoperto né un gene né un insieme di geni che si possano ritenere determinanti nel causare la malattia. La via per arrivare a una spiegazione eziologica è ancora lunga. La scoperta di nuovi geni ritenuti, in qualche misura, coinvolti nella patogenesi non solo, però, confermerebbe inequivocabilmente la fondatezza dell'ipotesi organicistica. Essa lascia pensare che la scoperta epocale (destinata - aggiungo io - ad assegnare un Nobel ad una branca della medicina il cui carnet è ancora fermo a quello conferito a Moniz per la psicochirurgia), è ormai nel mirino della ricerca. Tale scoperta aprirà la via a cure risolutive, farmacologiche e. forse, genetiche. Queste ultime potranno realizzarsi attraverso l'identificazione della predisposizione alla malattia a livello fetale, che porrà ai genitori il quesito se interrompere o no la gravidanza, o, al limite, con tecniche d'ingegneria genetica, volte a sostituire i geni anomali con geni normali.

Si tratta, insomma, del solito pastone che viene ammannito da anni, che non ha, per ora, alcun fondamento scientifico, e il cui intento ultimo è di fare apparire in movimento una branca della medicina che è, in realtà, in fase di stallo. Certo, le ricerche proseguono, sulle riviste specializzate si pubblicano un'infinità di articoli ogni mese, i congressi e i convegni si susseguono a spron battuto. Ma non c'è in realtà alcun dato nuovo e apprezzabile di significato scientifico. Ci si limita in gran parte a discettare di nuovi schemi nosografici, che lasciano il tempo che trovano, a ripetere all'infinito la vulgata per cui la malattia mentale è una malattia come le altre, a mettere a punto nuovi protocolli terapeutici, che privilegiano l'uno o l'altro psicofarmaco a seconda della munificenza dell'industria che lo produce, ecc.

Dispiace che una rivista come Science si riduca a portavoce e a megafono dell'ideologia neopsichiatrica. La cosa, però, non è sorprendente. La propaganda neopsichiatrica, infatti, da due-tre anni a questa parte, ha perduto la virulenza mediatica in conseguenza della quale qualche suo rappresentante era ospite fisso di trasmissioni televisive, concedeva interviste alla radio e ai giornali a getto continuo, ecc. L'acme della propaganda fu raggiunto quattro anni fa, allorché apparve sui quotidiani la singolare pubblicità, sponsorizzata dalle industrie farmaceutiche, che si rivolgeva ai depressi, sollecitandoli a rivolgersi agli specialisti in nome del fatto che, con i nuovi farmaci, si ottenevano l'80% di guarigioni. Dopo quest'acme, il fuoco d'artificio mediatico si è placato. Non già in virtù di una resipiscenza, che è estranea alla lobby neopsichiatrica, bensì dei fatti che valgono più delle parole.

I successi terapeutici nell'ambito delle depressioni, come ho scritto in altri articoli, sono calati rapidamente, in seguito a ricerche di controllo serie, dall'80% al 25%: un tasso quest'ultimo che, tra l'altro, evoca il dubbio che si tratti di guarigioni spontanee avvenute in corso di trattamento farmacologico. I nuovi antipsicotici, la cui efficacia terapeutica e i cui modesti effetti collaterali sono stati vantati, all'epoca del lancio sul mercato, come un netto progresso rispetto a quelli tradizionali, si stanno rivelando deludenti. L'efficacia terapeutica è pari a quella degli antipsicotici tradizionali, cioè modesta. Alcuni effetti collaterali, tra cui l'aumento ponderale, sono addirittura maggiori. L'unica differenza tangibile è il prezzo, del quale si avvantaggiano però le industrie.

La verità, dunque, è che, essendoci ben poco di nuovo sia nell'ambito della teoria che della pratica psichiatrica, costrette entrambe entro la camicia di forza di un organicismo radicale, non rimane altro che menare il can per l'aia, facendo riferimento alle "magnifiche sorti progressive" che si schiudono in virtù della genetica. Ma quanto c'è di vero in queste previsioni, avallate sorprendentemente da Science?

2.

Le previsioni scientifiche non sono pronostici o vaticini. Esse devono attenersi a criteri piuttosto rigidi: devono, in altri termini, fondarsi sui dati reali di cui si dispone e estrapolare da essi sviluppi concretamente possibili, vale a dire potenzialmente impliciti nei dati stessi. Nessuno di questi criteri è rispettato dalle previsioni neopsichiatriche, che sono semplicemente promesse rivolte ai pazienti e alle loro famiglie, perché continuino a credere nei farmaci e ad usarli, nonostante gli scarsi effetti, in attesa di quelli più efficaci che la ricerca è destinata a produrre.

Cose del genere le ho ripetute tante volte che rischio di annoiare me stesso, oltre che l'eventuale lettore. Ritengo perciò che sia opportuno entrare nel merito della questione, anche se questo richiede un discorso per alcuni aspetti tecnico.

La genetica è andata incontro negli ultimi venti anni ad un cambiamento metodologico di vasta portata. Fino alla metà degli anni '80 le ricerche genetiche sulle malattie adottavano un metodo diretto. Posto che una malattia era riconosciuta come ereditaria e che la medicina avesse già scoperto la patogenesi, vale a dire uno o più "difetti" biochimici che permettevano di spiegare la sintomatologia, le ricerche si rivolgevano alla localizzazione e all'identificazione del gene o dei geni responsabili di quei difetti. Già all'epoca era chiaro che i risultati conseguiti laddove le malattie sono dovute ad un solo gene erano ben più rilevanti che non nel caso di malattie dovute a più geni (plurigeniche). Per questo motivo, in ambito psichiatrico, sulla base di un'ipotesi ereditaria piuttosto precaria, si cercava il gene della depressione, il gene della schizofrenia, ecc. Per questa via, non si è arrivati ad alcun risultato che sia stato convalidato dai controlli, nonostante i neopsichiatri fin da allora cominciavano a mentire, sostenendo periodicamente che quei geni erano stati scoperti.

La menzogna, amplificata dai mass-media, si fondava sul gioco delle tre carte. Esplorando il corredo genetico di pazienti affetti da depressione e da schizofrenia, i genetisti identificavano ogni tanto un gene anomalo. Prima che i controlli potessero verificare la presenza di quel gene in tutti i pazienti affetti dalla malattia, e prima ancora che si dimostrasse il potere patogeno specifico di esso, la notizia veniva sparata in prima pagina. Anche uno studente del primo anno di medicina, sa che la correlazione tra un gene anomalo e una malattia, se non è assolutamente costante e non permette di spiegare i meccanismi biochimici che producono i sintomi, non ha alcun significato causale. Abusivamente, profittando dell'ignoranza generale in rapporto alla genetica, la neopsichiatria trasformava la correlazione in un rapporto di causalità. Questa trasformazione permetteva ai neopsichiatri di dire, con sicumera, che l'origine genetica e biologica dela depressione e della schizofrenia era stata dimostrata.

Il peggio è avvenuto in seguito al cambiamento metodologico cui ho fatto cenno. Tale cambiamento ha portato la genetica ad adottare un metodo inverso anziché diretto. Non c'è più bisogno che la medicina chiarisca prima la patogenesi di una malattia. Basta la dimostrazione ch'essa è ereditaria per avviare la ricerca dei geni patogeni. Localizzati e identificati questi, si tratta poi di chiarire attraverso quali meccanismi biochimici essi producono la sintomatologia.

L'impresa si configura come più difficile rispetto al metodo diretto, perché i geni non portano scritti nella loro struttura le funzioni che svolgono, che spesso sono molteplici e s'intrecciano con l'azione di altri geni. L'adozione del metodo inverso è però vantaggiosa in previsione degli sviluppi dell'ingegneria genetica. Posto, infatti, che si riesca ad identificare un gene sicuramente responsabile di una malattia, al limite non ci sarebbe più bisogno di chiarire la patogenesi. Si potrebbe, infatti, sostituirlo a livello fetale con quello sano, mettendo l'organismo al riparo dalla malattia. Avveniristica, questa previsione non è fantascientifica.

Ciò non significa che il momento patogenetico non sia più importante. Esso, dato che le tecniche d'ingegneria genetica non sono ancora mature, rimane ancora primario nell'ottica di trovare farmaci adatti al caso. Solo se questo non risulterà possibile, si potrà procedere sulla via di una terapia genetica.

La prudenza è necessaria soprattutto per quanto concerne le malattie plurigeniche. Se un gene patogeno può essere sostituito con ottime probabilità che l'organismo ne ricavi più vantaggi che svantaggi, sostituire più geni che, oltre al loro valore patogeno, possono avere altre funzioni fisiologiche è un azzardo. La sostituzione potrebbe, infatti, rivelarsi un rimedio peggiore del male.

3.

Queste poche nozioni bastano a capire la ricaduta che il cambiamento metodologico avvenuto a livello di genetica ha avuto sulla psichiatria.

Che la schizofrenia e i disturbi dell'umore siano malattie ereditarie è un presupposto della psichiatria che non è stato ancora dimostrato. E' vero: in alcune famiglie si danno un numero di pazienti maggiore rispetto alla media. Ma questo non significa molto perché, se si trasmettono i geni, si trasmettono anche i valori culturali, gli stati d'animo, i modi di sentire e di pensare, che sono fattori ambientali. E' vero: i gemelli monozigoti di genitori affetti da schizofrenia manifestano una notevole concordanza (80%) nello sviluppo della malattia, che si riduce però al 40% quando vengono allevati in ambienti diversi. Tutto ciò significa che, se esiste una predisposizione, non si può escludere che essa sia di fatto attivata dall'ambiente (il che contesterebbe una predisposizione univoca alla malattia), e, se si ammette l'ereditarietà, deve trattarsi di un'eredità plurigenica.

Ora, cos'è accaduto a livello neopsichiatrico? Semplicemente che il rigore scientifico è stato messo da parte. Ci sono stati tentativi di avanzare ipotesi patogenetiche, facendo riferimento ai neurotrasmettitori. Ma di ipotesi ne sono state avanzate tali e tante che si sono annullate a vicenda. I genetisti non potevano correre dietro agli psichiatri che non sapevano indicare loro cosa cercare. Con l'avvento del metodo inverso, il problema è stato superato.

Pur senza dati probanti, gli psichiatri hanno dato per scontato che la schizofrenia è una malattie genetica. Ciò significa che basta la diagnosi a consegnare i pazienti alla ricerca. Sono insomma i genetisti a doversi dare da fare per scoprire i geni anomali presunti.

Il problema è che la diagnosi di schizofrenia, nonostante l'apparente rigore del manuale statunitense, il DSM-4, che è assunto come una Bibbia, viene posta, come ho scritto e dimostrato altrove, con estrema disinvoltura. Basta che un ragazzo si ritiri nella sua camera, cambi umore e diventi mutacico per qualche tempo a fare scattare l'etichetta. Se poi egli ha dei fenomeni proiettivi, per cui si sente guardato male dagli altri o, peggio ancora, sente le "voci", la diagnosi assume un carattere di certezza. Tutto ciò naturalmente, avviene ponendo tra parentesi l'ambiente familiare, la carriera sociale del soggetto, la sua storia interiore.

Ricevuta la consegna, i genetisti si mettono al lavoro. Si tratta di trovare i geni anomali associati alla "schizofrenia". Ora - anche questo è bene saperlo - nell'organismo umano geni anomali se ne danno a bizzeffe. Per fortuna, gran parte di essi sono silenti, vale a dire non hanno alcun potere patogeno. Non si tratta dunque di localizzarli e di identificarli, bensì di dimostrare che essi hanno quel potere in rapporto alla malattia in questione

Dato che chi cerca nel patrimonio genetico, trova sempre qualche gene anomalo, non c'è da sorprendersi che, da quando è stato adottato il metodo inverso, geni sospetti di avere un ruolo causale nella schizofrenia ne sono stati identificati almeno una ventina. Né per uno di essi né per un insieme di essi, è stata dimostrata la presenza costante in tutti i pazienti. Allo stato attuale dei fatti, dunque la ricerca genetica si può considerare non probante.

Certo, non c'è motivo di scoraggiarsi. La localizzazione e l'identificazione anche di un solo gene anomalo talora richiede anni. Ma, per quanto riguarda la schizofrenia, il problema, come è già accaduto per i neurotrasmettitori, è che se ne trovano troppi, non troppo pochi.

Come affrontano questo problema i neopsichiatri? Al solito modo: menando il can per l'aia, ipotizzando cioè che la schizofrenia potrebbe non essere una malattia unica, ma un insieme di malattie con una causalità e una biochimica diverse. Non li sfiora neppure il dubbio che le loro diagnosi potrebbero essere inficiate dal voler fare di tutt'erba un fascio.

4.

Il progresso segnalato da Science, dunque, non esiste. E' vero: nel corso dell'anno sono stati scoperti ben tre geni anomali. Ma è probabile che, quando si eseguiranno i controlli, che richiedono tempo, essi saranno archiviati come gli altri: come sospetti, ma non "colpevoli".

Si tratta in breve dell'ennesima mistificazione. Non sarebbe un problema, sotto il profilo scientifico, dato che su queste basi, nessuno oserà sperimentare tecniche di ingegneria genetica. Il problema si pone nel momento in cui si pensa all'infinito numero di pazienti (una quindicina di milioni su di un "bacino di utenza" di cinquanta) che devono sottoporsi a diagnosi, trattamenti e ricerche senza che mai nessuno s'interessi veramente della loro storia e della loro esperienza interiore.

La genetica è una scienza seria. Essa non è, di certo, immune dalle debolezze e dalle contraddizioni che contraddistinguono, oggi, tutte le scienze, in gran parte dovute a motivi di prestigio personale e d'interesse. Cionondimeno, si deve continuare a ritenerla una scienza fondamentale ai fini della costruzione di un nuovo sapere sull'uomo. Il problema sta nel conoscerla a fondo e nel non usarla ad usum delphini.