La Galassia dei Disturbi dell'Umore. Ideologia e realtà clinica


1.

Come ogni fronte specialistico, che ha bisogno di autoconvalidarsi, la neopsichiatria non riesce a stare ferma. Da anni, avendo sposato acriticamente il biologismo e non essendo in grado di porlo in discussione, essa non ha nulla di nuovo da dire. Le prove a favore della causalità genetica e biologica - quelle definitive, che potrebbero superare il vaglio scientifico - non vengono fuori. Si continuano ad accumulare indizi, peraltro eterogenei e contraddittori, con la pretesa che la loro somma risulti probante.

Nonostante il ristagno scientifico, la pressione e la sponsorizzazione delle industrie farmaceutiche, oltre che le ambizioni personali, richiedono che si facciano congressi e pubblicazioni, che servono poi ad alimentare l'informazione e la pubblicità. Seguire questo fronte nella sua ampiezza è impossibile nonché noioso. A che serve leggere una miriade di relazioni e di articoli che portano in capo l'atto di fede neopsichiatrico sull'origine biologica dei disturbi psichici e in coda l'auspicio che ulteriori ricerche chiariranno i problemi irrisolti e permetteranno di pervenire alla soluzione totale del problema (farmacologica o addirittura tributaria dell'ingegneria genetica)?

Ciononostante, una qualche attenzione alla pubblicistica neopsichiatrica va portata. Se non ci si può aspettare nulla di radicalmente nuovo, finché non interverrà un cambiamento paradigmatico, occorre mantenere viva l'attenzione per le ristrutturazioni che avvengono all'interno del paradigma organicistico, in quanto estremamente significative sotto il profilo ideologico. Una di tali ristrutturazioni riguardano il disturbo bipolare, vale a dire un sottoinsieme dei disturbi dell'umore caratterizzato dall'alternanza ciclica di episodi depressivi e di episodi di eccitamento. Che c'è di nuovo su questo fronte? Nulla sul piano scientifico, ma qualcosa di rilevante sul piano clinico, vale a dire ideologico.

Per una migliore comprensione dell'articolo, è necessario fornire preliminarmente alcune nozioni tecniche.

La psicosi maniaco-depressiva, caratterizzata da un'alternanza di episodi di depressione grave e di eccitamento maniacale, è stata identificata circa un secolo orsono. Il quadro classico della malattia comportava un primo episodio (depressivo, maniacale o misto), insorgente di solito tra i venti e i trent'anni, seguito da un intervallo asintomatico di alcuni anni, e dal ripresentarsi di cicli di malattia con intervalli sempre più brevi. Nel corso di una vita, i cicli erano una decina. La malattia si attenuava, per intensità e durata dei sintomi, dopo il quaqrto o quinto ciclo, vale a dire dopo i cinquant'anni. Rimanevano al di fuori di questo uadro, e nettamente distinte da esse, le depressioni nevrotiche, molto più frequenti che si titenevano, per influenza della psicoanalisi, di natura prevalentemente psicogena.

Il quadro kraepeliniano è rimasto immodificato sino a venti anni fa, con la sola differenza che, anziché di psicosi maniaco-depressiva, si è cominciato, sulla scorta del DSM, a parlare di disturbo dell'umore bipolare, differenziando al suo interno un tipo I, caratterizzato dall'alternanza di episodi depressivi e maniacali, dal tipo II, caratterizzato dall'alternanza di epèisodi depressivi e episodi ipomaniacali.

Verso la fine degli anni '80, è stata lanciata, sotto l'egida delle case farmaceutiche, la campagna propagandistica orientata ad identificare nella depressione un'unica malattia biologica, fondata su di una predisposizione genetica. Le conseguenze di questa campagna sono state due: l'eliminazione del confine tra depressioni psicotiche e depressioni nevrotiche, ricondotte univocamente dotto la categoria dei disturbi dell'umore, e la definizione di uno spettro depressivo che riconosce ad un estremo le depressioni gravi, psicotiche, e all'estremo opposto le depressioni reattive, che segnalano la vulnerabilità costituzionale allo stress.

L'unificazione sotto la categoria dei disturbi dell'umore, vantata come un progresso scientifico, ha però complicato le cose. Lo spettro ha infatti fatto affiorare una serie di problemi di classificazione diagnostica. Il perché è facile da capire. Per un verso, la definizione della depressione come malattia ha accentuato la tendenza a porre diagnosi di disturbo depressivo monopolare o bipolare. Ma le sindromi ricondotte sotto l'etichetta sono risultate più complesse rispetto allo schema kraepeliniano. In particolare, è venuto fuori che un certo numero di esse si presentano con cicli molto più rapidi rispetto a quello che si riteneva in passato: quatto o cinque volte in un anno; alcune addirittura, a cicli rapidissimi, riconoscono oscillazione dell'umore nel giro di una settimana o dello stesso giorno! Per un altro verso, si è preso atto che anche le depressioni un tempo definite nevrotiche comportano periodicamente dell'unore sul registri ipomaniacale. Si è definito poi il problema delle depressioni resistenti alle cure che, come ho detto in altri articoli, rappresentano non meno del 50% delle forme trattate. Infine si è preso atto che le depressioni non psicotiche, siano esse sensibili o resistenti al trattamento, riconoscono negli intervalli tra gli episodi una sintomatologia residua più o meno invalidante, comunque soggettivamente penosa. Ci si è trovati così di fronte al paradosso per cui le malattie più gravi (i disturbi di tipo I e II) riconoscono lunghi intervalli praticamente asintomatici, mentre le meno gravi - le depressioni nevrotiche - non riconoscono, se non in misura relativa, intervalli del genere. Che fare dunque? La cosa più semplice ed omesta scientificamente sarebbe di riconoscere che nell'impianto nosografico dei disturbi dell'umore, c'è qiualcosa di fondo che non va. Aspettarsi dai neopsichiatri un tale riconoscimento richiederebbe una rivoluzione culturale di là da venire. Ciò che di fatto avviene, è che essi si estenuano, nel corso dei congressi, a definire ulteriori tipi e sottotipi di disturbi dell'umore e, naturalmente, a promettere a coloro che ne soffrono una futura guarigione.

2.

E' giusto chiedersi se questo bailamme non possa essere inquadrato in un'ottica diversa. La risposta è ovviamente positiva. Lo spettro dei disturbi dell'umore esiste realmente, ma esso corrisponde a diverse configurazioni di ordine psicodinamico.

La categoria dei disturbi dell'umore è servita ad eliminare il confine, che si è mantenuto per più di un secolo, tra depressioni endogene e depressioni nevrotiche: le prime, apparentemente immotivate e incomprensibili, le seconde, in genere resistenti ai farmaci, di natura psicogenetica. Che quel confine di fatto sussista è attestato dal fatto che, come si è documentato in altri articoli, la quota delle depressioni resistenti ai farmaci persiste. Gran parte delle depressioni resistenti, come ho detto in una altro articolo, sono di origine psicogena e non migliorano con le cure farmacologiche perché sono sottese da un bisogno inconscio di soffrire. Posto che un soggetto alberga delle motivazioni per cui, inconsciamente e talora consciamente, non si ritiene meritevole della felicità, è evidente che la sua condizione, per effetto dei farmaci, può migliorare, ma non superare un confine al di là del quale il soggetto stesso potrebbe godersi la vita. C'è evidentemente un'economia psicodinamica che è più forte dei farmaci.

Se questo è vero, come spiegare gli intervalli liberi che intervengono nei disturbi bipolari più gravi?

La spiegazione è semplice: quegli intervalli, checchè dicano gli psichiatri, non sono affatto liberi. Nel corso di essi, i soggetti vivono apparentemente normalmente, ma, se si analizza il loro regime di vita, ci si ritrova di fronte al fatto che esso è un regime mortificato, con inibizioni sempre notevoli della vitalità e della capacità di provare piacere. Come si è definito l'equivoco? E' semplice spiegarlo. I soggetti, che rievocano le atroci sofferenze della depressione grave, si sentono miracolati e valutano la loro condizione assumendo la depressione come metro di misura. In rapporto ad essa, di fatto stanno bene. Ma, se si chiede ad uno di loro, che ha avuto un episodio maniacale, quando ha sperimentato il maggior benessere della sua vita, la risposta è univoca: nei primi giorni dell'episodio stesso.

C'è un altro dato di interesse.

L'eliminazione del confine tra depressioni maggiori e depressioni nevrotiche ha posto la neopsichiatria di fronte ad una realtà clinica nota da sempre in ambito psicodinamico: quella per cui la depressione si associa quasi sempre a fluttuazioni dell'umore, episodiche o periodiche, di segno opposto.

Anche questo dato può essere facilmente spiegato in un'ottica psicodinamica. Se è vero che un numero rilevante di depressioni si fonda su di un inconscio senso di colpa, il bisogno di soffrire attraverso il quale si realizza la punizione riconosce un limite - variabile da caso a caso - superato il quale esso viene più o meno repentinamente sormontato da una rivendicazione inconscia di felicità. E' come se il soggetto, avendo sofferto troppo, sentisse di avere scontato le colpe e di poter tornare nuovamente a vivere in piena libertà. Di fatto, ciò avviene sotto forma ipomaniacale o maniacale, ma si tratta di una fluttuazione di breve durata (da qulche ora a poche settimane), dopo di che i sensi di colpa si ripropongono e, con essi, la depressione. Gli organicisti che sostengono che il disturbo bipolare deve corrispondere qualche squilibrio biologico non hanno torto. Solo che essi ignorano: primo, in quale misura le dinamiche conflittuali possono essere squilibranti nella misura in cui si esprimono attraverso le funzioni cerebrali; secondo, la possibilità che gli squilibri biochimici, attivati psicosomaticamente, possano, in qualche misura, retroagire positivamente autonomizzandosi dai conflitti.

Insomma, se c'è un ambito psicopatologico che rende le vicissitudini conflittuali quasi trasparenti (per chi ha occhi per vedere), questo è l'ambito dei disturbi bipolari. Non solo le rende trasparenti, ma permette di capire in quale misura gli assetti del mondo interno incidono sugli equlibri cerebrali.

Una futura psichiatria, affrancata dal verbo organicistico, non potrà organizzarsi che sulla base di un modello psicosomatico.