L'epidemia depressiva


1.

In SMT ho riportato le stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanità che, nel 1996, valutavano intorno ai 350 milioni il numero dei pazienti affetti da depressione in tutto il mondo, due terzi dei quali residenti nei paesi occidentali. Un aggiornamento recente dedicato ai disturbi mentali - il World health report - attesta che il fenomeno continua a crescere. Nel 2000 si calcolava una crescita che, nel 2020, avrebbe raggiunto l'11,6%. Il World healt report aggiorna la stima portandola al 15%. Ciò significa che, nel 2020, i disturbi mentali si istalleranno al secondo posto nella classifica delle patologie, subito dopo le malattie cardiocircolatorie. Data la stabilità statistica della schizofrenia (che affligge l'1% della popolazione mondiale), la crescita dei disturbi mentali è riconducibile in gran parte alla diffusione delle sindromi ansiose e, soprattutto, di quelle depressive.

Cifre del genere dovrebbero inquietare i cittadini e i governanti ben più della SARS. Perché questo non accade? Presumibilmente per due motivi.

Primo, perché la gravità delle malattie viene identificata dal senso comune con il pericolo di mortalità. Di ansia e depressione non si muore. E' vero, anche se un certo numero di depressi si toglie la vita. Si tratta però di un criterio estremamente rozzo. La depressione invalida anche per lunghi periodi. Utilizzando un indice messo a punto dall'OMS (il "disability-adjusted life years") che consente di valutare il costo sociale di una malattia, è stato calcolato che la depressione disabilita più del tumore e delle malattie cardiocircolatorie. Ha insomma un elevato costo individuale, in termini di sofferenza, e un elevatissimo costo sociale, in termini economici.

Il secondo motivo è che almeno la metà dei pazienti affetti da depressione non si rivolge ai medici. Questa circostanza porta a pensare che, eccezion fatta per i suicidi, vivere con la depressione non si configuri come un problema intollerabile. Non è vero: la depressione è una delle esperienze più frustranti che possa occorrere ad un essere umano. Il fatto che essa non si traduca in una richiesta di aiuto dipende dalla sfiducia profonda che il depresso nutre riguardo alla possibilità di stare meglio.

Per motivi che risultano chiari da tutti gli scritti, io sono l'ultimo ad augurarsi che tutti i depressi si rivolgano ai medici e agli psichiatri. Nonostante la propaganda delle industrie farmaceutiche e di alcuni psichiatri lautamente sponsorizzati, i risultati delle cure farmacologiche, come ho riferito nella sottosezione dedicata agli psicofarmaci, sono sostanzialmente deludenti. Il rapporto costi/vantaggi dell'uso dei farmaci è totalmente squilibrato a favore delle case farmaceutiche.

Le statistiche però inducono a pensare che una richiesta di aiuto, che non pregiudichi la risposta in termini medici, sarebbe essenziale al fine di porre il problema della depressione nei suoi giusti termini che sono quelli di un dramma, nello stesso tempo, individuale e sociale. La neopsichiatria, assumendo la depressione come una malattia individuale, misconosce il secondo aspetto, che è, dal punto di vista interpretativo e preventivo, il più importante.

Il termine epidemia, per quanto suggestivo, è metaforico. Non dandosi un virus della depressione, cercare di capire perché essa si diffonde a macchia d'olio è essenziale. La teoria neopsichiatrica imperante sostiene che, data una predisposizione in termini di vulnerabilità allo stress, i cambiamenti sociali che si stanno realizzando da due decenni a questa parte - a livello di vita familiare, ambienti di lavoro, ritmi di vita, ecc. - sono sufficienti a trasformare la predisposizione in malattia. Si tratta al solito di uno schema privo di valore scientifico. In cosa consiste la presunta predisposizione alla depressione? Che significa, in termini psicobiologici e psicologici, stress?

2.

Per rispondere a queste domande, ritengo necessaria una digressione che dovrebbe risultare illuminante. Un situazione tipica di stress è la guerra che, oltre a morti e distruzioni, provoca conseguenze psicologiche rilevanti in una quota della popolazione civile e di quella militare. La valutazione dei danni psicologici a carico della popolazione civile è ovviemente resa difficoltosa dal numero delle persone coinvolte. Più semplice, invece, essa risulta per quanto riguarda i militari, che possono rivendicare assistenza, cure e risarcimenti da parte dello stato.

Nell'ambito della psichiatria di guerra, è stata identificata ormai da parecchi anni una sindrome che riguarda i reduci etichettata come Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD). Di cosa si tratta? I soggetti affetti dalla sindrome, in pratica, non riescono a dimenticare ciò che hanno visto, ciò che hanno fatto e ciò che hanno visto fare. Soffrono d'insonnia, incubi notturni, attacchi di panico, depressione, inclinano spesso all'abuso di alcol e di droghe, non riescono più ad adattarsi alla vita civile, ai doveri familiari e lavorativi. Alcuni di essi diventano disadattati sociali e talora agiscono comportamenti antisociali.

Il numero di soggetti affetti da PTSD sembra variare in rapporto alla durata e all'atrocità della guerra. Non è un caso che la sindrome, che esiste da sempre, sia stata identificata dopo la guerra del Vietnam. Si dà però per ogni guerra un tasso minimo di PTSD che sembra costante: uno zoccolo duro valutabile intorno al 10%.

L'interpretazione neopsichiatrica della PTSD è scontata. Ammalano, e talora cronicizzano, i soggetti vulnerabili, quelli che, per costituzione, non sono in grado di tollerare lo stress. Ora, lo stress in questione è piuttosto particolare. La guerra implica uccidere per non essere uccisi, vedere uccidere, assistere a violenze e crudeltà di ogni genere, vedere morire, oltre ai militari, donne e bambini innocenti. Se una quota di militari reagisce a situazioni del genere portandosi dentro una memoria incancellabile e penosa, se non riesce a dimenticare e rimane sconvolta dalla pietas, dall'angoscia e dai sensi di colpa, si tratta di soggetti vulnerabili o non piuttosto di soggetti la cui sensibilità sociale non cede alla logica della guerra? La loro sindrome denuncia un difetto costituzionale o non piuttosto la protesta e il rifiuto, talora del tutto inconsci, nei confronti di una situazione disumana e intollerabile, che dovrebbe essere riconosciuta da tutti come tale? Coloro poi che, avendo partecipato alla guerra, ritornano con uno stato d'animo sereno e talvolta orgoglioso, vanno ritenuti campioni di normalità o non piuttosto degli esseri la cui sensibilità è stata anestetizzata dal patriottismo, dalla legge della sopravvivenza e del più forte, dalla logiva vita mea mors tua?

Il significato della digressione dovrebbe essere chiaro. Assumere come indizio di normalità l'adattamento a qualunque situazione di vita implica l'identificare quello con l'integrazione sociale, vale a dire scambiare come prova di buona salute psichica l'adeguarsi a qualunque dovere o valore normativo proposto dalla società o dallo Stato. In alcune situazioni, come la guerra, si può ritenere viceversa che il disadattamento, nella misura in cui implica una protesta inconscia contro una situazione disumana e disumanante, sia un indice potenziale, se non di buona salute mentale, di una più viva e ricca sensibilità che non cede all'assuefazione culturale.

3.

Che cosa ha a che vedere questo discorso con la crescita della depressione? Per capirlo, occorre prescindere dall'ottica sterile della malattia e penetrare il significato psicodinamico univoco della depressione. In qualunque contesto privato o pubblico, interpersonale o sociale, si realizza, la depressione è univocamente l'indizio di un conflitto più o meno grave tra l'io e l'altro. Da questo punto di vista, non si dà alcuna differenza tra l'adolescente oppresso dalle aspettative perfezionistiche dei suoi, il giovane che si vede precocemente votato all'emarginazione dal mondo del lavoro, la ragazza repentinamente lasciata da un partner che rivendica la libertà, la casalinga oppressa dal fare la serva al marito e ai figli, il lavoratore che vive sotto la minaccia costante di licenziamento per scongiurare il quale deve fornire prestazioni sempre maggiori, il capo-famiglia che deve subire l'onta di uno sfratto che destina sé e i suoi figli al pendolarismo, il pensionato abbandonato dai figli e dalle nuore, ecc. In ogni caso, il soggetto è arrabbaito con qualcuno o, al limite, con tutto il mondo.

Dato che l'istaurarsi della depressione appiattisce la percezione delle emozioni, non c'è da aspettarsi che i depressi dicano di essere arrabbiati. Di fatto, basta ricostruire la loro carriera di vita e i motivi della rabbia si trovano sempre. La ritorsione della rabbia contro il soggetto, che attiva la depressione, è una delle prime dinamiche messe in luce da Freud. Essa avviene sulla base di un senso di colpa inconscio, che può trarre origine sia dal fatto che la rabbia, inconsciamente, viene significata come espressione di cattiveria, sia dal fatto che essa, per la sua intensità, viene significata come eccessiva e sproporzionato rispetto a ciò che il soggetto ha o pensa di avere subito da parte degli altri.

Finora questa dinamica non è mai stata smentita dalla realtà clinica. Il problema è che per apprezzarne il significato causale in rapporto alla depressione, essa va ricercata ricostruendo la carriera interiore e sociale dei soggetti. Solo se questo non viene fatto, la depressione può essere giudicata come ingiustificata e incomprensibile.

Se applichiamo questa formula molto semplice alla crescita delle depressioni, vien fuori che, al di là delle singole circostanze d'interazione sociale, il fenomeno attesta un aumento delle tensioni e dei conflitti intepersonali e sociali sia a livello privato che pubblico, vale a dire una crescente difficoltà di dare al rapporto con l'altro o con gli altri un significato positivo, o, meglio, la tendenza a vivere le relazioni sociali come oppressive, minacciose, intollerabili. Si starebbe insomma realizzando, soprattutto nei paesi occidentali, la formula sartriana secondo la quale "l'Inferno sono gli altri".

Non occorre un grande sforzo di fantasia per capire quanto di realistico, e non psicoanalitico, ci sia in questo assunto. Basta circolare un'ora in macchina in una grande città per rendersi conto del tasso d'inciviltà cui è giunta la nostra società e, essendo costretti, mutatis mutandis, come il soldato in guerra, a vivere sulla pelle la logica del mors tua vita mea, a recepire nelle viscere (se funzionano per difetto di adattamento) l'onda d'urto di fantasie antisociali e dei sensi di colpa ad esse associati. Certo, fatte rare eccezioni, non ci si deprime per lo stress da traffico. Ma il traffico è l'indizio di un inselvatichimento della vita sociale che si riscontra ovunque: nei rapporti amicali e affettivi, nella vita familiare, negli ambienti di lavoro, nei rapporti istituzionali, ecc. tale inselvatichimento, poi, come se non bastasse, è aggravato dalla precarietà, dall'insicureza, dalla paura del futuro, dalla crisi economica, dalla guerra interminabile proclamata contro il terrorismo.

Questo discorso, che i neopsichiatri etichettano sprezzantemente come sociologismo, non avrebbe senso se non si considerasse il fatto che l'equilibrio psicologico umano è vincolato di fatto, sia sul piano intepersonale che interiore, alla relazione con l'altro e con il mondo sociale. C'è un limite alla conflittualità che, peraltro è costitutiva dei rapporti umani, al di là del quale l'equilibrio è reso instabile e può venire meno. La crescita delle depressioni significa che tale limite è stato superato.

Certo, la depressione investe per ora un quinto della popolazione. Se si aggiungono ad essa, la cui crescita è esponenziale, gli altri disturbi psichici, compresi quelli psicosomatici, la percentuale arriva ormai a sfiorare la metà della popolazione. E' questo il prezzo da pagare sull'altare del progresso? Si può considerare un progressivo il progressivo imbarbarimento delle relazioni sociali?

In SMT ho scritto che il nostro mondo è tecnologicamente avanzato e psicosociologicamente handicappato, economicamente ricco e umanamente miserabile. I dati del World report dell'OMS non fanno che confermanre questa triste verità.

4.

Data la situazione, c'è da chiedrsi cosa si può fare.. A questo riguardo, la ricetta dell'OMS - incrementare la ricerca psichiatrica a livello pubblico - appare francamente deludente, tanto più che i centri di ricerca universitari sono ormai da anni colonizzati dalle industrie farmaceutiche. Essi, da almeno quindici anni a questa parte, si limitano a testare i farmaci e a ribadire che la depressione è una malattia di origine genetica. Di fronte al dato della crescita esponenziale dei pazienti affetti da depressione, tutto ciò che gli accademici sanno dire è che solo in alcuni casi i fattori genetici determinano la malattia; negli altri essi agiscono come fattori predisponenti che determinano una vulnerabilità allo stress.

Confidare nella ricerca psichiatrica significa non prendere atto che la neopsichiatria utilizza un paradigma che non porta da nessuna parte. E dunque?

Io ritengo che, per la loro diffusione, sono i disturbi ansiosi e quelli depressivi il terreno su cui può avvenire una svolta radicale di una nuova scienza o di un nuovo sapere inerente il disagio psichico. Si tratterebbe in breve di mettere da parte lo stereotipo della malattia, e di sollecitare le persone a riflettere sulla loro condizione in termini non meramente privati. Certo, sul piano individuale, l'adolescente oppresso dal perfezionismo genitoriale deve chiarire e risolvere il debito che avverte nei confronti della famiglia; l'adolescente nihilista, approfondire il senso della sua aspettativa che la vita sia una passeggiata; la ragazza lasciata dal partner , interrogarsi sulla sua dipendenza da una conferma maschile; la casalinga frustrata, trovare modo di sottrarsi al suo inconscio spirito sacrificale; il lavoratore taglieggiato da richieste di prestazioni maggiori, arrivare a capire che il manager che lo taglieggia è come lui una pedina dell'ingranaggio, ecc. Casomai, transitoriamente, ciascuno di essi può aver anche bisogno di mandare giù qualche compressa di psicofarmaco per limitare i danni e la sofferenza.

E' chiaro però che, per questa via - psicoterapeutica e farmacoterapeutica - non si esce dal tunnel. La produzione sociale della depressione toglie credibilità ad ogni progetto d'intervento sui singoli individui. E allora?

Forse la soluzione sta nel riattivare una vituperata formula del '68, secondo la quale chi libera sé libera gli altri. Che significa questa formula aggiornata? Non certo che gli ex-depressi (che tali tra l'altro non sono), come è accaduto sinora, si mettano a fare pubblicità per le industrie farmaceutiche e eleggano a salvatori dell'umanità psichiatri la cui competenza si riduce alla prescrizione di una trentina di farmaci. Occorrerebbe piuttosto il riconoscimento, da parte dei pazienti e degli ex-pazienti, che la loro sofferenza è una forma di protesta contro l'inselvatichimento dei rapporti interpersonali e della vita sociale che, naturalmente, si riflette anche nella loro mente sotto forma di rabbie, odi e vendette senza limite. A che servirebbe questa presa di cocsienza sociale? Forse a nulla. Chissà…