Sul Disturbo Bipolare


1.

Senza un approccio psicodinamico, che tenga oggi conto dei rapporti complessi tra fattori biologici, psicologici e socio-culturali (i quali riconducono da ultimo alla storia sociale), non è possibile capire alcunché nel campo del disagio psichico. La multidimensionalità dell’esperienza umana è riconosciuta ormai universalmente dalla psichiatria. Il problema è che, nelle pratica, si tiene conto solo dei fattori biologici: il mondo dell’esperienza soggettiva e sociale incide solo nella misura in cui esso, sottoponendo l’individuo alla prova dell’adattamento, vale a dire a fattori di stress comunemente tollerati da altri soggetti, rivela e attiva una predisposizione morbosa. Da questo punto di vita, la malattia mentale è una potenzialità intrinseca in alcuni individui il cui corredo genetico è difettoso. Dato questo dogma, quand’essa si realizza, le circostanze psicologiche, microsistemiche, ambientali e culturali, vengono messe tra parentesi. Il problema della cura si riduce infatti a riequilibrare un sistema neurobiologico che, attraverso i sintomi, rivela le sue carenze costituzionali. In quest’ottica il punto di vista psicodinamico, nella misura in cui pretende si definire nessi di comprensibilità tra l’esperienza vissuta del soggetto e i sintomi, è del tutto insignificante. Tali nessi infatti non spiegano mai la malattia, permettono tutt’al più ci comprendere perché essa, che è sempre latente in alcuni soggetti, si rivela.

Ho più volte scritto che il disturbo bipolare, che si presenta con un’alternanza di episodi di depressione e di eccitamento maniacale o con episodi solo monopolari di depressione o di eccitamento, rappresenta in assoluto la condizione psicopatologica più trasparente, dal punto di vista psicodinamico, per quanto concerne la struttura del conflitto che la sottende. Essa, infatti, rivela nelle sue polarità la tensione intrinseca alla natura umana tra doveri sociali e diritti individuali che, in rapporto a determinate circostanze, può facilmente tradursi in una scissione funzionale. Chi non ha letto i miei saggi, può avere difficoltà a capire un discorso del genere. Per renderlo più accessibile, preferisco procedere sulla base di un’esperienza clinica.

Il soggetto in questione, che chiamerò Stefano, è un ragazzo di diciotto anni che comincia repentinamente a stare male qualche mese prima del compimento della maggiore età. Il malessere si configura immediatamente come un episodio depressivo piuttosto serio. Stefano accusa tutti i sintomi classici della depressione: astenia profonda, apatia, anedonia, inappetenza, insonnia. Trascorre gran parte della giornata gettato su di un letto come un cencio, lamentandosi che la sua vita è finita. Nel giro di pochi giorni, alla depressione si aggiunge un’angoscia grave incentrata sull’aspettativa di qualcosa di catastrofico che sta per avvenire. Il contenuto dell’angoscia rimane oscuro finché egli non comincia a pensare che ci sono delle persone, non identificabili, che stanno progettando di fargli del male, forse addirittura di ucciderlo.

I genitori consultano uno psichiatra il quale, per via dei vissuti persecutori, avanza qualche sospetto sulla natura atipica della sindrome. Che sia in gioco un disturbo dell’umore, naturalmente di origine genetica, è fuori dubbio: potrebbe però trattarsi anche di una forma mista, vale a dire un disturbo dell’umore associato ad una schizofrenia. In conseguenza di questo, prescrive una cura con antidepressivi, neurolettici e ansiolitici.

Nel giro di qualche settimana la sintomatologia regredisce e tende a scomparire. La cura viene ridotta, ma lo psichiatra fa presente che essa va mantenuta per un lungo periodo perché la diagnosi è incerta. Stefano torna a scuola, ma non è più se stesso. E’ ingrassato di dieci chili, appare piuttosto intontito e privo di espressione, ha difficoltà persistenti a concentrarsi. Riesce alla bell’e meglio a portare a termine l’anno, programma una vacanza in un campeggio con un gruppo di coetanei (alcuni amici, altri sconosciuti), e decide autonomamente di sospendere le cure.

Parte per il campeggio (naturalmente con i genitori in grande ambascia), ma non si trova a suo agio. Uno del gruppo manifesta un’evidente antipatia nei suoi confronti, lo punzecchia, lo prende in giro. Una sera, addirittura, in seguito ad un litigio, lo caccia dalla tenda di cui è proprietario.

Stefano passa la notte allo scoperto, inveendo tutta la notte ad alta voce contro il "prepotente di merda". E’ chiaro a tutti che sta andando fuori di testa. Gli amici provvedono a chiamare i genitori, che partono per raggiungerlo. Stefano però protesta di volere rimanere. Il giorno dopo, di sera, si reca in discoteca e manda giù una compressa di anfetamina. Dopo qualche ora, si sviluppa una crisi di eccitamento. Stefano gesticola per strada, urla e attacca tutti, poi si imbarca su di un treno mettendo scompiglio. E’ agitato, certo, ma perché ha paura. Sente nuovamente delle minacce aniamrsi introno a lui. Alla fine è bloccato dalla polizia e ricoverato in un Centro psichiatrico di diagnosi e cura. Il verdetto è implacabile: psicosi mista, vale a dire disturbo dell’umore e schizofrenia. L’anfetamina è stata solo il detonatore.

Questi i fatti, aggravati dal fatto che Stefano è stato assolutamente normale sino al presentarsi dell’episodio di depressione.

Sulla base di questi dati, a cos’altro pensare se non ad una malattia cerebrale rimasta latente per anni e infine esplosa?

2.

Su storie del genere si articolano le diagnosi psichiatriche e vengono stilate le statistiche epidemiologiche. Prima di affrontare il problema teorico, vediamo di arricchire la vicenda di Stefano di qualche elemento inerente la biografia interiore.

Stefano è stato un bambino tranquillo, giudizioso, benchè un po’ timido. Per la sua timidezza e una certa goffaggine, tipica degli introversi, è stato sistematicamente preso in giro dai coetanei sino alla fine della scuola media. Egli ricorda benissimo quell’esperienza. Non essendo aggressivo, non poteva reagire, anzi faceva finta di nulla, come se le prese in giro gli scivolassero addosso. Non ne ha mai parlato con i genitori perché li ha sempre percepiti come due esseri ansiosi e perché non capiva che tipo di aiuto avrebbero potuto dargli.

L’esperienza di un’ingiustizia reiterata, fondata sulla legge del più forte, lo ha orientato naturalmente, nel corso delle medie, a sviluppare un’ideologia di sinistra. Questo non ha creato alcun problema con i genitori se non in rapporto all’abbigliamento. Stefano infatti ha cominciato a vestirsi come un "zecca" (neologismo con cui a Roma si definiscono i ragazzi di sinistra, eredi del casual sessantottino). I problemi con la famiglia si pongono invece quando egli, a quattordici anni, comincia a rivendicare un po’ di libertà. I suoi sono, oltre che apprensivi, estremamente conservatori sul piano culturale. Vivono il figlio come un "ragazzino", tra l’altro un po’ ingenuo, e non accondiscendono alle sue richieste. Stefano avvampa nel suo intimo di rabbia, ma "abbozza".

Qunado comincia a frequentare il liceo, è un po’ più sicuro di sé e apparentemente affrancato dalla timidezza che lo ha perseguitato negli anni precedenti. L’impatto con la classe è però devastante. La maggioranza degli studenti è di destra. La persecuzione si ripropone. Anche tra le file dei professori, prevalgono quelli di destra. Una professoressa in particolare, quasi dichiaratamente fascista, lo prende di punta, lo critica, lo ridicolizza, lo penalizza sul piano dei voti.

Stefano comincia ad avvertire dentro di sé un odio smisurato contro i coetanei e contro la professoressa. La notte non dorme. Gli girano per la testa di continuo fantasie atroci di vendetta. Per un verso, egli è soddisfatto di avvertire una carica energetica così intensa, per un altro è terrorizzato dalla possibilità di perdere il controllo e di fare male a qualcuno.

E’ in rapporto a questi vissuti che si realizza repentinamente l’episodio depressivo.

Una conseguenza della "malattia", naturalmente, è che i genitori incrementano il loro atteggiamento ansioso e iperprotettivo, e questo crea qualche problema con il figlio. C’è anche uno sfondo che permette di comprendere la tensione che sopravviene. Come ho accennato, i genitori di Stefano sono di mentalità piccolo-borghese: per il loro unico figlio, sognano l’università e il posto fisso. Stefano, nonostante la timidezza, ha una spiccata sensibilità artistica, ed è attratto dal mondo dello spettacolo: teatro, cinema, televisione. Nonostante sia una vocazione seria e sostenuta da un progetto di formazione, i genitori non riescono a capirla, la ritengono una stranezza. La somma della loro apprensione e dell’orientamento normativo ha prodotto episodicamente qualche tensione, esitata qualche mese prima dell’episodio depressivo in una fuga da casa durata qualche giorno. Il clima familiare è di fatto un po’ oppressivo. La decisione di Stefano di andare in vacanza da solo — libertà che non si è mai concessa — corrisponde anche al desiderio di sottrarsi ad esso.

Quello che avviene nel corso del campeggio è una sintesi della carriera relazionale di Stefano. Egli, infatti, si confronta con l’atteggiamento pregiudixiale derisorio di uno del gruppo nei suoi confronti. Quando si realizza la cacciata dalla tenda — un comportamento chiaramente offensivo -, Stefano rivive repentinamente tutte le offese subite in passato da parte dei coetanei, alle quali non ha mai reagito. E’ la goccia che fa traboccare un vaso pieno da tempo, rimasto precluso alla coscienza perché Stefano, pur essendosi infinite volte arrabbiato, ha sempre pensato che il suo buon carattere gli permetteva di smaltire le offese abbastanza rapidamente. Evidentemente così non è stato.

3.

Non penso che occorrano particolari competenze per intuire i nessi psicologicamente comprensibili tra la storia sociale e interiore di Stefano e le crisi psicopatologiche che egli ha sviluppato. Certo il convivere di una rabbia smisurata con istanze di colpevolizzazione così intense da dare luogo a vissuti persecutori implica una struttura profonda della personalità scissa tra la rivendicazione della dignità e dei diritti individuali e una tendenza altrettanto spiccata a drammatizzare, come criminali, le rabbie e le fantasie di rabbia e di vendetta. Tale scissione è un problema serio sotto il profilo psicoterapeutico perché essa di fatto contiene potenzialità dinamiche tali da indurre ulteriori crisi psicopatologiche. Per questo aspetto, nulla vieta di ritenere che, nel corso dell’esperienza psicoterapeutica, in alcuni momenti si richieda un sostegno farmacologico.

Il problema è che la neopsichiatria si confronta con queste situazioni negando una comprensibilità che è evidente (posto che s’indaghi nella vita interiore del soggetto), formulando una diagnosi senza scampo (tale che la disperazione di Stefano dopo il ricovero era dovuta alla prospettiva di dover curare vita natural durante una malattia mentale!), e istaurando un trattamento farmacologico ad alte dosi, con l’effetto di indurre rapidamente sintomi collaterali, in particolare l’aumento di peso e la facies dell’intontito, che alterano la percezione che il soggetto ha di sé e quella che gli altri hanno di lui: trasformando insomma in etichetta percettibile socialmente una vicenda privata, e, in pratica, handicappando il soggetto.

Mi chiedo da molti anni quanta buona fede e quanto difetto di competenze minimali c’è nell’affrontare problemi del genere alla luce di un protocollo standardizzato, che oggettiva la malattia (intesa come cerebrale) e pone tra parentesi l’esperienza di colui che l’alberga. La risposta, purtroppo, è che la buona fede c’è, ed essa è a tal punto salda che il difetto di competenze non viene avvertito. Fare una diagnosi corretta è l’ossessione dei neopsichiatri. Ma che ci vuole a fare una diagnosi, quando il paziente sviluppa una depressione franca, un episodio di eccitamento inconfutabile e, nel corso di entrambe le situazioni, si sente perseguitato? E’ evidente che si tratta di una psicosi mista. Il problema è che questo non significa nulla in rapporto alla sua genesi e ai contenuti di esperienza che la sottendono.

Come è possibile che si continui a definire scienza una disciplina così schematica e rozza?

Ho già varie volte affrontato questo problema. La neopsichiatria è di fatto un’ideologia fondata sull’ipotesi che i sintomi psicopatologici sono null’altro che l’espressione di disturbi cerebrali. Qualunque ipotesi è legittima in ambito scientifico: essa, però, ha bisogno di essere comprovata per trasformarsi in certezza. Ora solo nell’ambito della neopsichiatria accade che le ipotesi si trasformano in dogmi sulla base di indizi che non hanno valore probatorio e sulla base del consenso maggioritario degli esperti che assegna ad esse tale valore.

La conseguenza di questa falsificazione scientifica è che, dato un dogma, si procede come se si trattasse di una verità positiva, e si deducono da questa conseguenze teoriche e operative di una certa portata.

Lo schema costante è il seguente: posto che esiste una determinata malattia mentale di origine genetica, la quale dunque è presente in forma latente anche quando non si è ancora espressa (questo è il dogma), si tratta di mettere a fuoco procedure tecniche per identificarla il più presto possibile e, quando ciò risulti possibile, procedere sul piano della prevenzione o dell’intervento precoce.

Come esempio dell’applicazione di tale schema, riporto in appendice un aggiornamento pubblicato nella sezione psichiatrica di Medscape sul disturbo bipolare. Il grassetto è mio, e vale a rilevare i punti che ritengo salienti.

Il dogma è enunciato preliminarmente. L’ereditarietà del Disturbo Bipolare sarebbe stata documentata dall’incidenza dello stesso in più membri della stessa famiglia, dagli studi sui gemelli e da quelli su soggetti con ascendenti malati adottati da famiglie sane. La documentazione di fatto esiste, ma non equivale ad una prova scientifica. Come hanno argomentato genetisti seri (per esempio R. Lewontin) i dati epidemiologici potrebbero essere interpretati anche in termini interattivi con l’ambiente. Si può ammettere, alla luce di essi, che esista qualcosa di particolare nei soggetti che sviluppano sintomi bipolari. Ma si tratta di una predisposizione specifica, come pensano i neopsichiatri, o di una norma di reazione il cui spettro, che comporta altre possibilità di sviluppo, viene mortificato dall’interazione con l’ambiente? Nel caso specifico, è una particolare vulnerabilità emozionale di Stefano agli stress a determinare reazioni interiormente drammatiche alle "ingenue" prese in giro dei coetanei o non piuttosto un senso di dignità viscerale che rende intollerabili comportamenti di fatto incivili e intollerabili, sui quali la scuola chiude gli occhi?

La verità, almeno allo stato attuale dei fatti, è che non esiste alcuna prova scientificamente inoppugnabile a favore del fondamento genetico difettoso del Disturbo Bipolare. Cionondimeno, l’ipotesi neopsichiatrica, sulla base di labili indizi, si è trasformata in un dogma.

In conseguenza di questo ci si è posti alla ricerca dei markers biochimici e dei sintomi precoci dell’esistenza del disturbo. Markers biochimici attendibili, ovviamente, non ne sono stati trovati. Nella ricostruzione delle carriere dei pazienti è stato possibile identificare, a partire dall’adolescenza, alcuni disturbi psichiatrici. Questo però non significa alcunché, perché anche dal punto di vista psicodinamico, e a maggior ragione, si ammette una lunga gestazione dei conflitti che, infine, esitano in una sintomatologia bipolare.

Per questa via, però, si giunge al ridicolo. Si aggancia infatti il Disturbo Bipolare, entità clinica reale ma che si ammette latente prima che si manifesti, all’ADHD, entità clinica fittizia per la quale si ammette una predisposizione genetica. Il ridicolo sta nel fatto che, per curare l’ADHD, si utilizzano ormai comunemente farmaci ad effetto anfetaminico. Se fosse vero che essa rappresenta una sindrome premonitrice del Disturbo Bipolare, le anfetamine dovrebbero dare luogo, almeno in una certa percentuale, a episodi di eccitamento maniacale precoci. Così non è.

C’è infine la ciliegina sulla torta: la prevenzione. E’ solo a questo livello che la neopsichiatria prende in esame la possibilità di intervenire sull’ambiente familiare e sociale, che potrebbe sottoporre l’individuo predisposto a stress che egli non è in grado di tollerare. Rimane fermo il fatto che i fattori di stress in tanto agiscono in quanto incidono su di un terreno predisposto geneticamente. L’analisi di come questi fattori agiscono potrebbe comunque aprire la via a qualche ripensamento. Ma ciò non è possibile, perché la psicoterapia viene solo considerata come sostegno della cura di base farmacologica. Essa dunque deve essere unicamente di tipo cognitivo, vale a dire aiutare il paziente a modificare grossolani errori interpretativi sulla sua condizione. Solo in conseguenza di quest’opzione il dogma può essere mantenuto. Come dimostra la storia di Stefano, adottando un approccio psicodinamico, insorgono infatti forti dubbi sulla sua pertinenza.

4. Psicodinamica e neurobiologia

Il limite della psicodinamica, secondo i neopsichiatri, consiste nel suo tenere conto solo dei fattori psicogeni, trascurando il loro intreccio con i fattori neurobiologici. C’è del vero in questa critica, ma essa riguarda piuttosto il passato che non l’attualità.

Recensendo il libro di Le Doux (Il Sé sinaptico) ho rilevato la confluenza tra pensiero psicodinamico e pensiero neurobiologico. Non è un caso che Le Doux sia uno dei fondatori di una recente corrente interdisciplinare di studio che va sottoil nome di neuropsicodinamica.

L’elemento differenziale tra l’approccio organicistico e quello psicodinamico è rappresentato dal fatto che il primo riconduce i sintomi tout-court ad una patologia cerebrale, biochimica o strutturale, il secondo, viceversa, li interpreta come disturbi funzionali. In altri termini, da un punto di vista organicistico la patogenesi è somatopsichica, il disturbo psichico essendo una conseguenza del processo morboso organico; dal punto di vista psicodinamico, essa è psicosomatica, il disturbo psichico essendo la conseguenza di conflitti psichici che determinano una disfunzione neurobiologica.

La teoria psicosomatica o funzionale dei disturbi psichici si può ritenere, oggi, un orientamento che, già fromulato in passato su basi intuitive, può avvalersi dei risultati della recente ricerca neurobiologica in maniera infinitamente più sottile rispetto all’organicismo neopsichiatrico corrente. Per questo aspetto, rimando il lettore agli articoli sul Significato funzionale dei sintomi, che cominciano a comparire sul sito questo mese.

 

Appendice

Sul disturbo bipolare

1) Basic Genetics and Heritability of Bipolar Disorder

2) Early Detection of Bipolar Disorder

3) Early Intervention Studies

4) Conclusion

Posted 09/24/2004

Kiki D. Chang, MD; Kim A. Gallelli, PhD

1) Basic Genetics and Heritability of Bipolar Disorder

The high heritability of bipolar disorder (BD) has been well documented through familial incidence, twin, and adoption studies.[1] For example, the concordance rate of BD in monozygotic twins (indicating the chance that if one twin has BD, so will the other) is between 40% and 70%. Despite general acceptance that BD is therefore a disorder with a strong genetic basis, no specific gene has been identified as the one "bipolar gene." Nevertheless, linkage studies have implicated the involvement of several chromosomal regions in BD, including 4p16, 12q23-q24, 16p13, 21q22, and Xq24-q26. Chromosome 18 has also been an area of high focus, with up to 3 possible regions implicated.[1,2] Recent areas of interest have included chromosome 6q[3] as well as the G-protein receptor kinase 3 gene, located at 22q12.[4] There are also data suggesting that relatively common polymorphisms of genes coding for the serotonin transporter protein and brain-derived neurotrophic growth factor may contribute somewhat to the development of BD. Because of these variable findings in very different chromosomal regions, it is likely that BD is caused by the presence of multiple genes conferring susceptibility to BD when combined with psychosocial stressors (see below). Thus, inheritance of a specific set of these genes could lead to one phenotypic presentation of the disorder, whereas a different set of genes would lead to a slightly different clinical presentation within the bipolar spectrum of illness.

Genes may also contribute to the age at onset of BD and a phenomenon called genetic anticipation. Anticipation refers to the phenomenon of an illness occurring in successive generations with earlier ages of onset and/or increasing severity. In a recent study using registry data of bipolar subjects, age at onset of first illness episode was examined in 2 successive cohorts: subjects born from 1900 through 1939 and from 1940 through 1959. The median age at onset of the first episode of bipolar illness was lower by 4.5 years in subjects born during or after 1940. The proportion of subjects with bipolar disorder presenting with a prepubertal onset was also significantly higher in the later birth-year cohort, thus supporting the notion of genetic anticipation.[5]

Some research results have suggested that unstable trinucleotide repeats (eg, CAG), which are transmitted in greater lengths to successive generations, may be the biological basis of genetic anticipation.[6] For example, an increase in mean CAG repeat length was associated with a diagnosis of BD[7,8] and with anticipation of BD in a few studies of families with BD.[9,10] However, there have been no replications of these studies and several negative reports.[11-14] Furthermore, these repeat sequences have not been successfully linked to meaningful gene regions.

Methodologic limitations such as the phenotypic heterogeneity of BD and reliance of retrospective reports of onset and severity of bipolar symptoms may be partially responsible for the difficulty in isolating gene regions consistently associated with BD and replicating positive findings. Longitudinal, prospective studies examining parents with BD and the genetics and phenomenology of their high-risk offspring might help address such limitations.

Epidemiologic and phenomenologic studies of bipolar offspring also support the high heritability of BD. A meta-analysis of studies conducted before 1997 found bipolar offspring to be at 2.7 times higher risk for developing any psychiatric disorder, and at 4 times higher risk for developing a mood disorder, than children of parents without psychiatric illness.[15] Recent cross-sectional studies have reported about 50% of bipolar offspring meet criteria for at least one DSM-IV psychiatric disorder.[16-18] In these studies, the presence of a bipolar spectrum disorder (bipolar I, II, and cyclothymia) ranged from 14% to 50%. However, one study from The Netherlands found a much lower incidence (2.8%) of BD in bipolar offspring.[19] The authors suggest that a much lower use of antidepressants and stimulants to treat children in European countries might account for this discrepant finding. Of note, this study still identified a 27% incidence of mood disorders in these offspring, raising the possibility that these symptomatic offspring might still be in early phases of the illness. It therefore seems important to identify which children may truly be in the prodromal stages of BD.

 

2) Early Detection of Bipolar Disorder

Retrospective studies of adults with BD help provide insight into the early expression of BD. Thirty-one percent of adults enrolled in a BD support group reported the onset of significant mood symptoms before the age of 15 years and 17% before the age of 10 years.[20] More recently, it has been reported that up to 65% of adults with BD had an initial mood episode before age 18 years, with 28% occurring before age 12 years.[21] In another study of adults with BD hospitalized for their first psychotic episode, 67% reported a childhood onset of psychiatric disturbances, with 21% reporting specific disruptive-behavioral disorders.[22] Although retrospective in nature, these studies suggest that development of BD usually begins in childhood, with either disruptive behavior disorders or mood episodes as initial presentations of BD.

Attention-deficit/hyperactivity disorder (ADHD) specifically has been proposed as a common initial presentation of BD, especially early-onset BD. In studies conducted since 1988, approximately 27% of bipolar offspring have met criteria for ADHD or significant behavioral or attention problems.[23] These findings, in conjunction with the high comorbidity of ADHD and BD in childhood,[24] have led to the suggestion that ADHD in children with strong family histories of BD may be the first sign of a developing BD. Furthermore, family studies of probands with ADHD and BD suggest this comorbidity represents a familial type of early-onset bipolar disorder.[24,25] In one study of bipolar offspring, 7 of 8 offspring with BD had met criteria for ADHD before obtaining a diagnosis of BD.[16] Furthermore, parents with BD who had retrospectively reported a history of ADHD during their own childhood were more likely to have children diagnosed with BD compared with bipolar parents without a history of ADHD, supporting the concept of ADHD as one initial presentation of a familial early-onset BD.

As many children with ADHD, even those with familial loading for BD, would likely not develop this disorder, biological markers associated with BD would help identify those at high risk for developing the illness. Although no such markers have been identified in adults or children, there exists promising ongoing work in the fields of neuroimaging and genetics research. Volumetric magnetic resonance imaging (MRI) studies suggest that patients with BD may have prefrontal, temporal, cerebellar, ventricular, and deeper structural (striatum and amygdala) volume changes, as well as white matter abnormalities as indicated by white matter hyperintensities.[26] Adults and children with BD have been found to have lower prefrontal concentrations of n-acetylaspartate, an indirect marker of neuronal density.[27] Positron emission tomography and functional MRI studies of patients with BD have implicated the prefrontal cortex, limbic structures, striatum, and thalamus in the neuropathophysiology of BD.[28] Euthymic children with familial BD have also been reported to have overactivation of prefrontal and limbic brain areas in response to cognitive and affective tasks, suggesting overactivation as a possible marker of pediatric-onset BD.[29]

Further neuroimaging investigations of bipolar offspring are necessary to establish whether these abnormalities exist prior to the onset of the illness. If so, these markers could identify those at highest risk for BD development, who may then be candidates for preventive interventions.

 

3) Early Intervention Studies

In addition to the presence of early psychopathology, psychosocial stressors such as dysfunctional family environments, stressful life events, and ineffective coping strategies may also interact with genetic predispositions to induce the full expression of BD in high-risk individuals.[30] These stressors may effect neurobiological change that not only leads to mood episodes but may also create vulnerability to future, more frequent episodes. This concept of kindling in BD suggests that early identification and intervention are essential to not only lessen future morbidity in individuals with BD, but to possibly prevent full illness onset.[23]

It has been hypothesized that medications that have been effective in treating patients with BD, such as mood stabilizers and antipsychotics, may also halt or reverse the full development of the illness in high-risk subjects. In a study of bipolar offspring with mood and/or disruptive behavioral disorders, but not bipolar I or II disorder, 79% of 24 offspring improved clinically after a 12-week open trial of divalproex monotherapy.[31] Although improvements were seen in mood symptoms and overall functioning, the prophylactic utility of divalproex or other medications in preventing the full expression of BD needs to be examined through longitudinal studies lasting years rather than weeks.

As psychosocial stressors likely interact with biological predispositions to induce illness expression, early interventions aimed at improving dysfunctional family communication and coping skills and educating at-risk families about early signs of BD may prevent full expression of BD in the at-risk child.[23] Though never tested for its prophylactic utility, family-focused therapy (FFT) has been shown to reduce relapse rates, enhance stabilization of mood symptoms, improve medication compliance, and decrease stressful family interactions in adults with BD.[32] It is currently being applied to adolescents with BD. Studies of psychosocial strategies such as group cognitive therapy and family psychoeducation in offspring of depressed parents also reduce depressive symptoms and problematic behaviors of the offspring.[33,34] Thus, it is hoped that psychosocial and psychotherapeutic interventions such as FFT and cognitive therapy will be studied in high-risk populations to determine their efficacy in preventing the full expression of BD. These studies should aim not only to develop and examine the efficacy of psychosocial interventions, but also to identify the mediating pathways most effective for prevention.

4) Conclusion

Although the high rates of heritability of BD have been widely accepted, much work remains to be done in gaining a more exact understanding of the mechanisms involved. Given that BD is being increasingly diagnosed in children and adolescents, it has become imperative to understand the genetic basis, identify potential biological markers, and identify early stages of this debilitating illness. Such knowledge will not only inform the development of more effective treatment interventions, but also help identify, and perhaps prevent, the onset of BD in at-risk individuals.