ADHD negli adulti


1.

Una casa farmaceutica (Eli Lilly) ha messo in commercio negli Stati Uniti un nuovo farmaco - lo Strattera – la cui indicazione univoca è una nuova sindrome psichiatrica identificata da poco: l’ADHD adulto.

Ho scritto qualche tempo fa un articolo sull’ADHD infantile. Occorre aggiornarlo perché se già questa categoria diagnostica, attribuita univocamente ad un disturbo cerebrale, è contestabile come un’invenzione psichiatrica, l’ADHD adulto è di sicuro una mistificazione ideologica spacciata come nuovo approdo della ricerca scientifica.

Il significato ultimo della mistificazione riesce immediatamente chiaro se si tiene conto che negli Stati Uniti l’ADHD colpirebbe il 7% della popolazione tra i due e i dodici anni, metà della quale è già assoggettata a cure con farmaci. Di questa popolazione, a differenza di quanto si pensava in passato, allorchè si riteneva la sindrome destinata a scomparire con l’adolescenza, più della metà – questa è la scoperta scientifica – non guarirebbe, ma svilupperebbe solo delle strategie atte a mascherare i disturbi di base. Sarebbe convolta dunque il 4% della popolazione adulta, vale a dire, solo negli Stati Uniti, dieci milioni di persone. Se la propaganda pubblicitaria, che si propone in termini di sensibilizzazione scientifica, riuscisse a cooptare una tale percentuale di pazienti, inducendola a curarsi, il fatturato della Eli Lilly lieviterebbe e, con esso, i guadagni degli psichiatri che, sponsorizzati dall’industria, si pongono come alfieri di questa nuova battaglia contro un altro male oscuro.

In questo caso, l’aggettivo, a differenza di quanto avviene con la depressione, laddove esso allude alla cupezza di una condizione talora non decifrata come malattia, non fa riferimento alla qualità della vita dei malati, bensì alla totale inconsapevolezza che essi hanno di essere tali. La sensibilizzazione non dovrebbe risultare difficile. I sintomi fondamentali dell’ADHD adulto sono fondamentalmente la disattenzione cronica, associata spesso all’impulsività e all’iperattività. Certo, la sindrome nella sua configurazione psichiatrica comporta una costellazione sintomatologica e comportamentale più complessa: i pazienti, in conseguenza della malattia, hanno una vita caotica, costellata da incidenti automobilistici, vita matrimoniale travagliata, prestazioni discontinue sul lavoro, abuso di sostanze (alcool, droga), frequenti raptus aggressivi, ansia, depressione, ecc. Sul piano della sensibilizzazione, però, sembra opprotuno ridursi all’essenziale, Non è un caso che il messaggio pubblicitario della Eli Lilly suona così "Ti senti disorganizzato? Continui a procrastinare, sei sempre agitato e perdi continuamente le cose?". Ovviamente, se la risposta è sì, il soggetto deve rivolgersi ad uno specialista perché probabilmente soffre di ADHD senza saperlo.

Messo in questi termini, il messaggio è insidioso, perché una risposta positiva potrebbe essere fornita, negli Stati Uniti, dove la nevrosi galoppa, da una percentuale di persone molto maggiore del 4%. In questo caso, spetterebbe agli psichiatri utilizzare le loro raffinate categorie diagnostiche per selezionare coloro che sono realmente affetti dalla malattia.

E’ prevedibile che questa nuova categoria diagnostica venga tra poco importata in Italia e che lo Strattera venga commercializzato. Può essere di una qualche importanza parlarne in anticipo.

2.

Si può cominciare da ripercorrere le tappe di questa invenzione, che sono espressive della metodologia che la neopsichiatria adotta da alcuni anni a questa parte.

La prima tappa è la raccolta di vissuti e comportamenti che non rientrano nella normalità sociologicamente definita e non sono inquadrabili nelle categorie nosografiche già riconosciute. Nel caso dell’ADHD adulto il vissuto ritenuto specifico è la disattenzione, vale a dire la difficoltà di concentrarsi sui compiti della vita quotidiana, di rimanere fedeli agli impegni assunti, di portarli a termine, ecc. Alla disattenzione seguirebbero o si associerebbero, come comportamenti specifici, l’iperattività e l’impulsività, vale a dire la tendenza ad agire freneticamente ma sotto la spinta di motivazioni o, meglio, di un tratto di carattere – l’impulsività appunto – che determinerebbe una difficoltà di organizzare il comportamento in maniera finalizzata al raggiungimento di determinati obiettivi, la tendenza a prendere, in buona fede ma istintivamente, decisioni di grande portata – inerenti lo studio, il lavoro, la vita affettiva, ecc. – che comportano continui cambiamenti : il vivere, insomma alla giornata e sostanzialmente alla rinfusa, senza un progetto identificabile e razionale.

E’ difficile negare che, nel nostro mondo, il numero di esperienze soggettive caratterizzate da questi due aspetti sia in crescita e che esse definiscano, almeno oggettivamente, un problema iscrivibile nell’ambito del disagio psichico. Il problema riguarda l’interpretazione di quegli aspetti.

La seconda tappa della neopsichiatria consiste tout-court nell’assumerli come sintomi, vale a dire come conseguenze di una disfunzione cerebrale che inciderebbe sull’attenzione e sul controllo del comportamento, ritenuti immediatamente espressivi della normalità.

Attenzione/disattenzione, riflessività/impulsività si configurano per questa via come categorie che sanciscono, sulla base del funzionamento cerebrale, la differenza tra normalità e anormalità.

Non è banale forse soffermarsi sul fatto che quest’antitesi semplifica molto i problemi in gioco.

Che cos’è l’attenzione? Secondo la psicologia generale, si tratta di una funzione propria della coscienza che serve a focalizzare, a selezionare e ad integrare il flusso sovrabbondante di informazioni (o di stimoli) da cui ogni soggetto è investito. Nel bambino questa funzione appare già attiva, ma labile: egli tende facilmente a distrarsi e ad essere attratto da nuovi stimoli. Nel corso della maturazione evolutiva, tale funzione tenderebbe a stabilizzarsi, fino al punto di automatizzarsi. L’adulto può concentrare volontariamente la sua attenzione su di un determinato insieme di informazioni che vemgono selezionate rispetto al flusso cui esse appartengono, tale meccanismo – di filtro o di selezione – di sicuro però si realizza anche al di fuori del controllo della coscienza, secondo automatismi inconsci. Come avviene questo salto di qualità dalla disattenzione propria dell’infante alla capacità dell’adulto di concentrare, consciamente e inconsciamente, l’attenzione su determinate informazioni? Secondo i neopsichiatri, esso esprime solo un processo di maturazione delle strutture cerebrali. Si può ritenere questa una semplificazione e una banalizzazione del problema.

La selezione delle informazioni non è infatti solo un problema cognitivo. Essa implica infatti, per un verso, che le informazioni siano processate, a livello conscio e inconscio, emotivamente, e che assumano un determinato valore o una qualità, e, per un altro, che siano integrate con il patrimonio culturale delle informazioni già acquisite. Tra i due aspetti si dà un’intima relazione, poiché queste ultime dipendono dalla qualità emozionale che ne ha consentito l’acquisizione. La selezione o la mancanza di selezione delle informazioni dipende, dunque, dalla maturazione delle strutture cerebrali non meno che dalla strutturazione dell’identità personalità e culturale di un soggetto.

Se è vero, i fenomeni di disattenzione "patologica" non possono prescindere dalla storia interiore del soggetto.

Per quanto riguarda poi il problema dell’iperattività o dell’impulsività, considerata dai neopsichiatri come espressione di un difetto di controllo delle pulsioni da parte dei centri di coordinazione razionali e coscienti, che risulterebbero disfunzionali nell’ADHD adulto per una presumibile anomalia delle strutture corticali, valgono considerazioni analoghe. Il comportamento agito da un soggetto è riferibile sempre e comunque ad una sorta di ordinamento gerarchico delle diverse motivazioni che egli, a livello cosciente e inconscio, alberga. Tale ordinamento può essere ricondotto alla maturazione dei centri corticali, ma esso non può prescindere dalla valutazione della carica emozionale associata alle diverse motivazioni. La motivazione dominante, quella che si esprime attraverso il comportamento, non è necessariamente la più ragionevole, bensì quella associata a più intense valenze emozionali. Anche per quest’aspetto un comportamento disordinato e caotico può risultare comprensibile se si ricostruisce la storia interiore del soggetto, perché essa può permettere di capire l’ordinamento gerarchico delle motivazioni in esso presente, anche se esso può apparire irragionevole.

Finezze del genere sono del tutto estranee all’orientamento neopsichiatrico, che considera le funzioni psichiche dipendenti solo dalla maturazione dei centri cerebrali. La possibilità che si possano dare disfunzioni della condotta, psicodinamicamente comprensibili, in assenza di un difetto organico, è semplicemente negata in conseguenza di un rozzo organicismo.

Definiti i sintomi come conseguenza di un difetto cerebrale, si tratta solo – ed è la terza tappa – di accertare quale sia il difetto in questione. Qui le cose si complicano, come in ogni altro ambito della psichiatria organicistica. Non esiste alcuna prova che le persone etichettate come affette da ADHD abbiano un disturbo cerebrale. In difetto di prove, si avanzano ipotesi. Alcuni ammettono un’ipoattività del lobo frontale, che assicura il controllo cognitivo e morale dei centri subcorticali ove esistono potenti spinte pulsionali. Altri ipotizano che, anziché i lobi frontali, sia in causa il cervelletto. Per i più comunque, l’ADHD è una questione chimica. Sarebbero in gioco, da questo punto di vista, due mediatori: la dopamina e la norepinefrina. Il disturbo sarebbe dovuto al fatto che le cellule che trasmettono tali mediatori, liberandoli a livello di sinapsi, avrebbero una tendenza a riassorbirli fuori del normale. Tale riassorbimeto darebbe luogo ad una carenza ei mediatori stessi.

L’unico conforto a favore di tale ipotesi è quella ex-juvantibus, legata all’efficacia dei farmaci. I prodotti anfetaminici (Dexedrine, Adderall) aumenterebbero la produzione di dopamina, rendendo meno incisivo funzionalmente il riassorbimento. Altri psicostimolanti (Ritalin, Concerta e Metadate) rallenterebbero il processo di assorbimento. Altri ancora non-stimolanti, come per l’appunto lo Strattera, favorirebbero la disponibilità a livello di sinapsi della norepinefrina.

Quanto vale scientificamente questo criterio si può ricavare da una semplice considerazione. Per giungere a prescrivere ai bambini farmaci stimolanti, si è dovuta sormontare una notevole resistenza da parte dell’opinione pubblica e dell’Istituzione statunitense preposta ad autorizzare la messa in commercio dei farmaci stessi. Tale resistenza è stata scalzata dalla previsione che le cure, per quanto pericolose e quindi da somministrare sotto l’assiduo controllo medico, sarebbero risultate risolutive. La scoperta di un 4% della popolazione adulta affetta da ADHD, vale a dire più della metà dei soggetti affetti da ADHD infantile, molti dei quali trattati farmacologicamente, vanifica quella previsione. Che significa questo? Per i neopsichiatri, che la malattia è più seria di quanto si potesse pensare e il suo fondamento genetico più certo!

3.

Nei testi classici di psicopatologia si leggeva che "mentre il rilievo semeiologico dei disturbi dell’attenzione è facile e frequente, il suo valore clinico-nosologico è praticamente nullo. Il disturbo è diffusissimo e non esistono quadri clinici che possano venire caratterizzati ed individuati in base alle qualità intrinseche del disturbo" (L. Bini e T. Bazzi, Psicologia medica, Vallardi, Milano 1971, p. 409). La neopsichiatria sembra impegnata a colmare le lacune della psicopatologia classica, inventando malattie dapprima inesistenti. L’ADHD adulto sembra rientrare perfettamente in questo sforzo di ricondurre a difetti del cervello tutti i vissuti e i comportamenti che non rientrano nell’ambito della normalità.

Se si pone tra parentesi l’intento della neopsichiatria di iscrivere nelle sue griglie nosografiche tali vissuti e comortamenti, ciò non significa ovviamente che questi non esistano. Posto che l’ADHD adulto è un’invenzione ideologica, è senz’altro vero che, nella nostra società, sono in crescita esperienze umane caratterizzate da una vita intera all’insegna di difficoltà che non rientrano nell’ambito delle categorie diagnostiche note. Si tratta di persone la cui esistenza di fatto è caratterizzata da una disorganizzazione pressoché completa, vale a dire dall’incapacità di portare a termine un tragitto di studi, di reggere per lunghi periodi un impegno lavorativo, di assolvere i doveri della vita quotidiana (dal tenere in ordine la casa al pagare le bolette e le tasse), di avere una vita di relazione sociale minimamente stabile, di reggere il peso dei vincoli affettivi — siano essi riferiti al partner o ai figli -, di sviluppare e oggettivare le proprie qualità sulla base di un progetto di autorealizzazione. Il grado di difficoltà, come pure gli ambiti in cui esso si esprime, è diverso da persona a persona, ma la sua incidenza sulla qualità della vita (propria e degli altri) è fuor di dubbio. Questo aspetto è ancora più sorprendente se si considera che i soggetti interessati hanno di solito una buona se non ottima intelligenza, un’emozionalità piuttosto vivace, che proprio per questo deborda, e, non di rado, un certo tasso di creatività. Perché queste potenzialità vanno, in misura più o meno rilevante, letteralmente sprecate? Secondo i neopsichiatri, perché il loro cervello è affetto da un disturbo di base — la disattenzione e/o l’iperattività — che le frustra.

E’ possibile un’interpretazione alternativa? Io penso di sì.

Due aspetti tipici orientano verso quest’intepretazione. Il primo è che i soggetti in questione hanno una bassa o bassissima autostima, vale a dire convivono con un’immagine interna cosciente e inconscia negativa, caratterizzata da vissuti più o meno radicali di inadeguatezza e di inferiorità rispetto agli altri. La loro esperienza, sostanzialmente inconcludente e spesso fallimentare sia sotto il profilo affettivo che professionale, sembra confermare quest’autovalutazione. Il problema è che essa, preesistendo al fallimento, sembra piuttosto la causa che non la conseguenza di esso. E’ ovvio infatti che se un soggetto dà per scontato il suo scarso valore, qualunque impegno egli assume fa affiorare ad un certo punto la convinzione di non esserne all’altezza, e di dovere rifuggire da esso per non trovarsi di fronte alla prova oggettiva della propria inadeguatezza.

Il vissuto d’inadeguatezza permette di comprendere anche l’iperattività. Il soggetto, infatti, sposta freneticamente la sia attenzione da un ambito all’altro della vita, alla ricerca del terreno sul quale testare la sua efficienza. Perseguitandolo, quel vissuto lo costringe però a cambiare di continuo, rendendo la sua vita caotica e improduttiva.

L’altro aspetto è più sottile. In qualunque direzione si orientino, a livello di studio, di lavoro, di affetti, i soggetti sembrano preda di un altro vissuto costante: quello di essere ingabbiati e di perdere la loro libertà. Questa può essere recuperata solo sospendendo l’attività in questione o mettendosi al di fuori di essa, alla ricerca di un’altra che faccia sentire liberi.

A quale conclusione porta la somma di questi due aspetti? La conclusione è che il presunto ADHD adulto sia riconducibile alla "nevrosi" più tipica del nostro mondo, peraltro misconosciuta: la "nevrosi" claustrofobica così come l’ho descritta in un capitolo di Star Male di Testa, estendendo il concetto di claustrofobia dal suo ambito di riferimento tradizionale, spaziale, alla totalità dei rapporti che un soggetto intrattiene con il mondo laddove essi vengono vissuti come oppressivi, limitativi della libertà personale, coercitivi e, da ultimo, emotivamente intollerabili. Nello stesso capitolo, per interpretare tale "nevrosi", ho fatto presente che le persone affetta da questa claustrofobia generalizzata di solito hanno un’infrastruttura di personalità caratterizzata da una notevole rigidità di tipo perfezionistico, per cui affrontando i diversi impegni della vita essi s’impongono senza sapere degli obiettivi irrealizzabili che li schiacciano sotto il peso della loro inadeguatezza e li costringono alla fuga. Anche se non ho prove certe del fatto che quest’aspetto sia universale in coloro che sarebbero affetti da ADHD, alcuni di essi, nei quali tale aspeìtto è dinamicamente attivo, rientrerebbero nella categoria del perfezionismo trasgressivo che ho analizzato in un recente articolo.

L’ADHD potrebbe dunque essere interpretato come una ribellione inconscia nei confronti di un mondo che propone standard comportamentali sempre più elevati, e sarebbe dunque da ricondurre alla quota di soggetti che tali standard li interiorizzano precocemente e, nel contempo, sono preda di una ribellione viscerale nei loro confronti. Se ciò fosse vero, questa nuova sindrome sarebbe la prova di un’ulteriore interazione tra una storia sociale che ha maturato eccessive pretese nei confronti degli esseri umani e una quota di soggetti che tali pretese le interiorizzano senza potersi piegare ad esse, anzi protestando inconsapevolmente contro di esse fino alpunto di rovinarsi la vita.

Ma il cervello, il cervello, - protesteranno i neopsichiatri — non c’entra nulla. Certo che c’entra. Il problema è che esso, per come è fatto, non può servire due padroni, non ce la fa a reggere il peso della follia del mondo, che si riproduce nelle pieghe della soggettività, amplificandosi, come se essa intendesse essere compresa…