La proteina del sorriso e altre amenità sulla depressione


1.

Continuano ad arrivare dagli Stati Uniti buone notizie per i depressi.

La stampa annuncia che un premio Nobel per la Medicina, il professor Paul Greengard ha scoperto presso la Rockefeller University una proteina che rivoluzionerà la terapia antidepressiva, restituendo ai pazienti il sorriso e la voglia di vivere. L'annuncio della scoperta - l'ennesima definita rivoluzionaria - è stato dato dalla rivista "Science", che anticipa la pubblicazione integrale dell'articolo in cui si darà conto della ricerca.

Lo scoop si fonda sul prestigio del ricercatore e del laboratorio di neuroscienze molecolari che egli dirige dal 1983. Paul Greengard è un veterano delle ricerche psicofarmacologiche. Nella prima metà degli anni '60 è stato tra coloro che hanno fornito un contributo decisivo allo sviluppo dei farmaci antidepressivi triciclici (tipo Laroxyl, per intendersi), i primi impiegati in terapia. Il premio Nobel, a dire il vero, non l'ha ottenuto come psicofarmacologo, bens" per la scoperta che tutti i processi che hanno luogo nei neuroni sono modulati dalla fosforilazione di proteine. La ricerca in questione ha un nesso di continuità con questa scoperta, come vedremo.

Un dubbio, forse illegittimo, sorge dal fatto che, dalla metà degli anni Novanta, il laboratorio di neuroscienze della Rockefeller University si è trasformato in Centro di ricerca sulla malattia di Alzheimer. Nulla naturalmente può impedire ad uno scienziato di portare avanti più progetti di ricerca. Il problema è che Greengard, anche se gode di ottima salute, ha superato la soglia degli ottanta anni. E' probabile dunque che egli, dall'alto del suo prestigio, si limiti ormai a coordinare le ricerche e ad attirare gli investimenti necessari per realizzarle.

Il sospetto che la scoperta della proteina del sorriso corrisponda ad un "falso" scientifico - circostanza piuttosto frequente nell'ambito delle ricerche mediche e biologiche, da quando esse sono entrate nel circuito del capitale, è azzardato. Essa però cade troppo a puntino nell'ambito delle aspettative di mercato per non pensare che nella sponsorizzazione della ricerca e nella diffusione attraverso i mass-media dei suoi esiti, che ancora non hanno alcuna applicazione clinica, c'entrino le industrie farmaceutiche.

Prima di affrontare in sé e per sé il problema del valore scientifico della scoperta, occorre spendere due parole su quest'ultimo aspetto.

Il mercato degli antidepressivi è ancora molto florido, ma in fase di stagnazione. I picchi di prescrizioni raggiunti negli anni Novanta, allorché le industrie hanno spinto sull'acceleratore della pubblicità e della propaganda, assumendo (in senso letterale) i neopsichiatri come portavoci della buona novella secondo la quale la depressione è una malattia biologica che si può curare, nel 90% dei casi, con i farmaci adatti, si mantengono, assicurando guadagni imponenti. Ma non solo l'uso di antidepressivi non cresce secondo i grafici previsionali delle industrie; negli ultimi due anni, esso, nonostante le prescrizioni rivolte ai bambini, ha accusato una certa flessione.

I motivi del ristagno sono molteplici. Il primo è che le promesse inerenti l'efficacia terapeutica sono andate almeno per alcuni aspetti disattese. Dal 90% delle guarigioni si è passati, in virtù di ricerche serie portate avanti da centri autonomi, al 30%: una cifra appena un po' più elevata di quella delle guarigioni spontanee (sintomatiche) che intervengono in tutte le forme di disagio psichico. Ai pazienti depressi che non ottengono consistenti miglioramenti, i neopsichiatri si affannano a spiegare che continuare a tempo indeterminato la cura è necessario, almeno per evitare un aggravamento. Il problema è che gli antidepressivi di ultima generazione (Prozac, Sereupin, Seroxat, Efexor, ecc.), che sono i più prescritti, costano un occhio della testa per cui, particolarmente negli Stati Uniti, laddove essi devono essere acquistati di tasca propria, il criterio costi/benefici diventa economicamente proibitivo, e dà luogo spesso alla sospensione dei trattamenti.

Il secondo motivo è che la scarsità degli effetti collaterali dei nuovi antidepressivi, vantata come criterio di scelta in rapporto a quelli tradizionali, si è rivelata, lentamente, non del tutto attendibile. Le notizie allarmastiche sulla crescita dei suicidi in pazienti trattati hanno, forse, enfatizzato un fenomeno raro. Gli effetti potenzialmente diabetogeni della paroxetina (Sereupin, Seroxat) e quelli incisivi sul desiderio e sulla funzione sessuale della fluoroxetina (Prozac) sono invece reali. In società sovralimentate e ossessionate dalla sessualità come quelle occidentali, tali effetti rappresentano un freno alla compliance dei pazienti nei confronti delle cure.

Il terzo motivo è che la propaganda per far passare la depressione come una malattia biologica, se ha avuto una certa incidenza sull'opinione pubblica negli anni Novanta, è venuta lentamente ad urtare contro una difficoltà imprevista: la iattanza dei neopsichiatri, che ripetono a pappagallo ai pazienti la storiella della sostanza biochimica che il loro cervello non produce. In conseguenza di questa verità di fede (assunta come verità scientifica), essi rifiutano di prestare una qualunque attenzione all'esperienza interiore e alle circostanze di vita con cui il soggetto interagisce (eccezion fatta per quelli eventi - lutti, separazioni coniugali, perdita di lavoro, difficoltà economiche, ecc - che vengono assunte come cause che inidoneo su di un terreno predisposto).

Riferisco a riguardo uno dei tanti episodi di cui sono venuto a conoscenza. Una mia paziente, prima di intraprendere la psicoterapia, dopo aver consultato tutti i "luminari" romani, decide di fare il viaggio della speranza a Pisa, dall'ineffabile professor Cassano. Deve attendere circa un mese e mezzo. Il giorno dell'appuntamento si presenta speranzosa e puntualissima. In sala d'attesa ci sono non meno di trenta persone. Viene invitata da un'assistente a raccogliere l'anamnesi, vale a dire l'elenco dei sintomi. Dopo due ore di paziente attesa, un po' sorpresa della rapidità con cui gli altri pazienti venivano liquidata, si trova in presenza del Professore, che ha già in mano la scheda redatta dall'assistente. Ha già fatto la diagnosi, e le rivolge solo due domande per verificare l'intensità di alcuni sintomi. Poi comincia a prescriverle la cura: due antidepressivi, uno stabilizzatore dell'umore, un ansiolitico e addirittura un neurolettico la sera. Mentre scrive, la paziente fa cenno alle difficoltà di rapporto con la madre e al grave disagio coniugale che sta sperimentando. Il professore alza appena gli occhi su di lei con un'espressione tra l'infastidito e l'ironico. Le dice che l'infelicità è una cosa - una dimensione esistenziale -, la depressione un'altra - una malattia del cervello. Il suo ruolo istituzionale è curare questa. Punto e basta.

Alcuni pazienti, terrorizzati dall'introspezione, sono riusciti ad accettare questa formulazione bizzarra dei problemi umani. I più hanno tentato di prestare ad essa fede, ma il buon senso li ha indotti a ritenere impossibile che un'esperienza vissuta come profondamente intrecciata con la loro vita pubblica e privata non abbia nulla a che vedere con essa.

E' subentrata insomma una certa disaffezione per le formulette neopsichiatriche, che, sempre più di frequente, porta i pazienti a rivolgersi a cure alternative: omeopatia, agopuntura, massaggi, ecc. Per quanto contestabile, tale scelta non è irragionevole: costa meno economicamente ed è meno pericolosa in termini di effetti collaterali.

Per tentare di trattenere i pazienti nel suo ambito, anche la medicina tradizionale si sta muovendo. All'annuncio della scoperta della proteina del sorriso, fa eco infatti la recente importazione in Italia di una singolare tecnica in via di sperimentazione negli Stati Uniti: la r-TMS (Stimolazione Magnetica Transcranica), una versione modificata della risonanza magnetica che consente di inviare impulsi ripetuti elettromagnetici su particolari aree del cervello. L'applicazione di questa tecnica alla depressione ha, al solito, un fondamento empirico. Essa infatti è nata dalla constatazione che alcuni pazienti depressi, dopo essersi sottoposti ad una normale Risonanza Magnetica, apparivano rinfrancati e di buon umore.

L'uomo della strada ricondurrebbe questo effetto a motivazioni semplici: l'essere scampati alla prova del loculo, l'aver dissolto i dubbi sull'esistenza di un tumore cerebrale, ecc.

Gli specialisti ne sanno una più del diavolo. Hanno modificato l'apparecchio e, applicando impulsi ripetuti a pazienti depressi, hanno scoperto che alcuni di questi ricavano un consistente vantaggio. Il sospetto che si tratti di un banale effetto placebo, quindi transitorio, non li sfiora. Hanno preso la cosa sul serio e si sono messi a sperimentare "scientificamente" la nuova tecnica, giungendo a produrre articoli che sono stati ospitati sul prestigioso ´American Journal of Psychiatryª. In tali articoli i ricercatori sostengono che la TMS è particolarmente efficace nei casi di depressione resistenti agli psicofarmaci.

Per evitare che si crei un conflitto tra psichiatria chimica e psichiatria elettromagnetica, sono scesi i campo gli italiani. Ricercatori di un'Università privata milanese hanno, infatti, pubblicato sul Journal Clinical Psychiatry il risultato di una sperimentazione la quale attesta che la TMS, oltre ad essere utile nelle depressioni resistenti, potenzia anche ed accelera l'effetto degli antidepressivi.

Si tratta, per fortuna, di una tecnica non invasiva e, alllo stato attuale delle cose, senza effetti collaterali. L'unico problema è che ogni seduta, che dura da venti a trenta minuti, costa qualche centinaio di euro. Occorre infatti ammortizzare il costo dell'apparecchio, prodotto per ora da una sola società statunitense che sta spingendo parecchio sull'acceleratore della propaganda.

Le industrie psicofarmaceutiche, che, come ogni industria, non possono rinunciare ad espandersi sul mercato, hanno capito, anche solo in conseguenza di una lieve flessione, l'aria che tira tra i consumatori attuali e potenziali di antidepressivi. Non è sorprendente che, avendo fatto il pieno con i farmaci di ultima generazione, esse stiano programmando un rilancio propagandistico. Cosa di meglio, da questo punto di vista, dell'annunciare una nuova, rivoluzionaria scoperta che - se ne può star certi - coinciderà con l'immissione sul mercato quanto prima di qualche altro antidepressivo vantato come miracoloso? A tal fine, però, occorre sensibilizzare l'opinione pubblica, rianimare speranze deluse, ravvivare la fiducia nelle terapie chimiche.

La scoperta di Greengard giunge, per l'appunto, al momento giusto. Potrebbe trattarsi di un caso fortuito. L'analisi dell'annuncio di Sciente porta a pensare che non sia così.

2.

L'ipotesi che va per la maggiore riguardo alla causa biochimica della depressione verte su di un difetto del sistema serotoninergico, vale a dire di uno dei sistemi che producono le sostanze biochimiche attraverso le quali avviene la trasmissione degli impulsi tra le cellule neuronali. Nella vulgata rivolta al grande pubblico, e che i neopsichiatri hanno ammannito attraverso i mass-media fino alla nausea, la depressione è dovuta ad una carenza di serotonina. In termini scientifici in realtà le cose sono più complesse. Il difetto della serotonina solo raramente è attribuibile ad un difetto di produzione. In molti casi la produzione è normale, ma per alimentarla, servono i mattoni chimici. Nelle persone normali, una volta svolto il loro compito attraverso il rilascio nelle fessure sinaptiche, i mattoni necessari per produrre la serotonina vengono nuovamente riassorbiti dal neurone che li ha rilasciati (reuptake). Nei depressi, invece, il riassorbimento avverrebbe lentamente. In conseguenza di questo, la produzione rallenta e si esaurisce.

L'ipotesi è stata arricchita tenendo conto che, per svolgere la sua funzione di neurotrasmettitore, la serotonina deve legarsi a recettori presenti sulla membrana del neurone che riceve l'impulso. Si può ammettere che, anche in presenza di una produzione e di un reuptake normali, il difetto di trasmissione dipenda da una scarsa o alterata sensibilità dei recettori. Dato che ne esistono più di uno, le possibilità di una disfunzione ovviamente si moltiplicano.

L'ipotesi serotoninica ha cominciato a fare acqua allorché ci si è venuti a trovare di fronte alle cosiddette depressioni resistenti. Come mai - ci si è chiesto - se la depressione è dovuta ad un difetto di serotonina, in un numero rilevante di casi la risposta agli antidepressivi serotoninergici è praticamente assente? La risposta è stata che la serotonina è una solo, anche se forse il più importante, dei neurotrasmettitori coinvolti nella genesi della depressione. E' stata avanzata l'ipotesi che, oltre ad essa, siano coinvolte anche le catecolamine. Sono stati prodotti di conseguenza farmaci serotoninergici e catecolaminergici nel contempo. Ciò nonostante, il numero delle depressioni resistenti è rimasto immutato. Anzi, un'analisi dei risultati a distanza dei trattamenti farmacologici ha messo di fronte al fatto che, in una quota che ormai si considera attorno al 60-70%, il miglioramento della sintomatologia non coincide con la scomparsa di una depressione di fondo, caratterizzata dall'apatia, dall'anedonia e da una scarsa sensibilità affettiva, che non impedisce ai soggetti di svolgere una vita apparentemente quasi regolare, la cui qualità però è piuttosto modesta.

Gli antidepressivi, insomma, anche quando funzionano, sembrano incidere più sulle inibizioni comportamentali che rendono socialmente percettibile la depressione che non sui vissuti interiori, che rimangono al di sotto della soglia minima della capacità di provare piacere nel vivere.

Questa circostanza che, alla luce dei dati statistici, sembra ormai innegabile, è infinitamente interessante sotto il profilo psicodinamico. Essa infatti attesta che se i conflitti sottostanti la fenomenologia depressiva non si risolvono, il sintomo più specifico della depressione - la mortificazione -, che l'analisi interpreta come la conseguenza di sensi di colpa inconsci più o meno intensi, tende a persistere, anche se nella forma frustra che io definisco fobia della felicità.

Alle orecchie dei neopsichiatri e, ovviamente, delle industrie farmaceutiche, cose del genere risultano prive di senso. La resistenza ai farmaci, dal loro punto di vista, è null'altro che l'espressione di una conoscenza ancora incompleta dei meccanismi biochimici coinvolti nella genesi della depressione. Questo approccio giustifica le ricerche che tentano di chiarire in maniera esauriente e definitiva tali meccanismi.

In questo contesto si iscrive la scoperta del Professor Greengard, che dovrebbe rappresentare il punto di approdo di tali ricerche.

L'équipe del professor Greengard ha scoperto una proteina (denominata P11) che interagisce con i recettori della serotonina e ne controlla la quantità. Se i livelli di P11 sono scarsi anche i recettori per la serotonina lo sono. Dunque la sintomatologia depressiva potrebbe essere riconducibile ad un difetto di P11. Se la cosa fosse confermata, si aprirebbe la prospettiva terapeutica di farmaci atti a modificare i recettori per la serotonina più che ad agire, come quelli in uso, sul reuptake.

Per ora le conferme di laboratorio ci sono, ma questo è già un aspetto critico della scoperta. Gli animali nei quali, infatti, è stato accertato che un basso livello di P11 coincide con uno stato depressivo, che si risolve allorché il livello viene ripristinato nella norma, sono comuni topolini.

Ora, nel gran teatro del mondo, non si può escludere che anche i topolini abbiano le loro ambasce. Si tratta però di stati fisiologici o neurofisiologici che li rendono meno vivaci del solito, rallentano i loro movimenti, determinano una minore reattività a stimoli alimentari e sessuali. Tali stati potrebbero essere ricondotti ad uno stress (casomai dovuti allo stare in gabbia e all'essere manipolati). Definirli in termini di depressione dà la misura della bestialità (epistemologica) cui si arriva adottando la categoria della malattia.

Non è solo questo aspetto peraltro che permette di dubitare della validità della scoperta. Il problema è che essa accredita univocamente l'ipotesi serotoninica che, di fatto, si è già rivelata insufficiente a spiegare l'intero spettro della fenomenologia depressiva. Questo significa che, nella migliore delle ipotesi, si produrranno altri farmaci che potranno risultare più incisivi di quelli in commercio. Pensare però che il problema della depressione sia prossimo ad una soluzione farmacologica è, come al solito, un'illusione.

Il riduzionismo ha reso infiniti servigi alla scienza, anche in ambito psichiatrico. Nessuno può negare che l'effetto sintomatico degli psicofarmaci, se usati con buon senso, può essere utile per ridurre la sofferenza soggettiva. Il buon senso impone però, per l'appunto, di assumerli come sintomatici e non come terapeutici in rapporto ad una presunta malattia.

E' questo buon senso che ai neopsichiatri difetta. Essi danno per scontato che se una sostanza chimica, che agisce sulle cellule neuronali, almeno in alcuni casi, produce dei cambiamenti a livello di vissuti psicologici, soggettivi, ciò significa che tali vissuti sono determinati dal funzionamento del cervello. Dato poi che considerano questo organo come fondamentale nel permettere l'adattamento alle circostanze ambientali, un difetto di adattamento significa una disfunzione biologica. C'è per esempio che ammala di depressione dopo un lutto, vale a dire una circostanza piuttosto frequente che di solito viene sormontata nel giro di alcuni mesi. Cos'altro può significare questo se non che la causa esterna incide su di un terreno cerebrale predisposto alla malattia?

E' difficile confrontarsi con argomentazioni di questo genere senza provare irritazione per la loro rozzezza epistemologica e filosofica. Occorre però continuare a farlo.

3.

Per non cadere in una forma di sterile materialismo riduzionismo, per cui tutto ciò che avviene nel nostro spazio mentale è una conseguenza del funzionamento del cervello, non c'è bisogno di spostarsi su di un registro spiritualista. Basta tenere ferma la distinzione tra organo e funzione. Nel caso del polmone, del rene, dello stomaco, ecc., questi due aspetti sono intimamente correlati. Il gorgoglio della bronchite che rende faticosa l'inalazione è senz'altro l'espressione di un processo infiammatorio che produce una quantità di muco che ostacola l'ispirazione.

Per quanto concerne il cervello, invece, questi aspetti interagiscono tra loro in forme complesse. Il cervello ha una sua fisiologia che si intreccia con l'esperienza soggettiva, la quale si dispiega a due livelli: quello conscio e quello inconscio.

Faccio un esempio assolutamente banale per chiarire questo assunto.

Tre soggetti si svegliano alle quattro di notte: l'uno in conseguenza di uno stato di allarme le cui cause gli sono del tutto ignote, l'altro in conseguenza del trillo della sveglia che ha programmato, il terzo per effetto del rombo di una macchina che passa sotto casa.

In tutti e tre i casi, un processo fisiologico come il sonno viene interferito da una causa che determina il risveglio. Nel primo, però, la causa è interna, e corrisponde ad una qualche preoccupazione ansiosa che scorre a livello inconscio; nel secondo, essa è esterna e corrisponde ad una decisione presa dal soggetto; nel terzo, infine, la causa è del tutto accidentale.

Che cosa significa questo esempio? Che, a differenza di quanto avviene per gli altri organi, la cui fisiologia può risultare alterata solo in conseguenza di una causa patologica, il funzionamento del cervello può essere interferito da carie cause. Lo stesso effetto - il risveglio notturno -, che interviene quando il cervello in sé e per sé ha ancora bisogno di dormire, può essere dovuto alla dissociazione tra il livello conscio e quello inconscio dell'esperienza soggettiva, ad una decisione del soggetto che si impone rispetto alla fisiologia cerebrale, o, infine, a cause contingenti.

La funzionalità del cervello è dunque espressiva della sua attività come organo, ma secondo nessi causali complessi e diversi rispetto a qualunque altro organo. Se questo è vero per il funzionamento normale, perché dovrebbe essere diverso quando tale funzionamento scarta rispetto alla "normalità"?

In un articolo sul significato funzionale dei sintomi psicopatologici cercherò di illustrare, come ho fatto per gli attacchi di panico, ciò che di fatto è la depressione da un punto di vista psicodinamico: una situazione complessa, ma tutt'altro che misteriosa.

Ciò non basterà a indurre un po' di buon senso nei neopsichiatri, per i quali lo stato dell'umore è solo la conseguenza del brodo chimico in cui è immerso il cervello. Il brodo nella loro testa, purtroppo, continua ad essere difettoso di sale.