Depressioni e farmacoterapia


Uno dei luoghi comuni più abusati della neopsichiatria, che rappresenta il cavallo di battaglia della propaganda mass-mediatica, è quello secondo il quale la depressione è una malattia cronica, in quanto dovuta ad un difetto genetico, che però si può (anzi si deve) curare con gli psicofarmaci che, determinando la remissione dei sintomi e prevenendo le ricadute, consentono ai pazienti collaborativi, se non di guarire, di vivere come se non fossero malati. Di recente (cfr Libri) anche Giovanni Jervis, sostenitore in passato di una psichiatria critica, ha aderito a questo luogo comune, radicalizzandolo com'è costume di tutti i pentiti fino al punto di definire come criminoso un intervento centrato primariamente sulla psicoterapia. Ho scritto altrove che si tratta di una mistificazione che non ha alcuna corrispondenza nella realtà clinica, ed è pericolosa. A livello di propaganda mass-mediatica rivolta al pubblico, infatti, non si parla di remissione bensì di guarigione. Dalla depressione si può guarire, è lo slogan il quale comporta come conseguenza che coloro i quali non traggono giovamento dai farmaci si radicano nella convinzione (già spesso presente spontaneamente a livello di vissuto) di essere destinati a soffrire per sempre. In quale misura questa convinzione concorra a determinare i suicidi che intervengono in corso di terapia farmacologica non è accertabile. Il dubbio però che alcuni di essi siano iatrogenetici s'impone.

E' noto, peraltro, da sempre che un certo numero di depressioni non risponde agli psicofarmaci. Questo non viene mai detto esplicitamente attraverso i mass-media: è un segreto corporativo. Il perché è ovvio. Si tratta del punto debole di un'ideologia organicistica che basta da solo a farla crollare. Se infatti si dà per scontato che la depressione è una malattia biologica, le cui cause biochimiche sono ormai note, non si capisce perché gli psicofarmaci, in un numero di casi del tutto simili per sintomatologia agli altri, funzionino come acqua fresca.

Per spiegare questo strano fenomeno, si è fatto ricorso ad un armamentario di argomentazioni rivolte a minimizzarne l'impatto sull'ideologia organicista. Qualcuno ha ipotizzato errori diagnostici, qualcun altro dosaggi farmacologici inadeguati, qualche altro ancora una scarsa collaborazione da parte dei pazienti. Tutte queste argomentazioni sono state smentite da ricerche eseguite in ambito universitario. Per quanto sponsorizzate dalle industrie farmaceutiche, tali ricerche hanno confermato indubbiamente l'esistenza di depressioni resistenti. La manipolazione dei dati ha comportato, sino a qualche tempo fa, una valutazione riduttiva del fenomeno, che avrebbe riguardato non più del 25% dei casi. Di fronte all'evidenza di pazienti che non migliorano o migliorano di poco, e di ricadute non scongiurate dagli equilibratori dell'umore, la neopsichiatria, per evitare di dovere giustificare la stolta propaganda portata avanti negli ultimi dieci anni, sta tentando di correggere la rotta. Comincia in breve a prendere atto dell'entità del fenomeno ma, anziché procedere ad un'autocritica, lo oggettiva. Ne fa in breve un "mistero" che le neuroscienze devono affrontare e risolvere: con nuovi psicofarmaci, ovviamente.

Assumo come riferimento un articolo di Giulio Perugi e Leonardo Moretti, dedicato per l'appunto alle depressioni resistenti e pubblicato su di una rivista (Facts News Views vol. 3 n°2 maggio 2002 pp. 1-4) che è l'Organo ufficiale della Società Italiana di Neuropsicofarmacologia. Esso cerca di fare il punto della situazione, e di rimediare alla confusione attestata da una letteratura che offre dati eterogenei.

Cito testualmente:

"Definendo come "migliorato" un soggetto che, alla fine della terapia, mostri una riduzione pari ad almeno il 50% della sintomatologia iniziale, valutata con una rating scale di riferimento come la Hamilton-D, si stima che circa il 30-50% dei pazienti con depressione maggiore non ottenga un miglioramento sostanziale al primo trattamento farmacologico praticato.

Se per stabilire la risposta, si considera il conseguimento di una opiena remissione sintomatologica, la quota di quadri depressivi che possono essere definiti resistenti sale al 50-70%. Infatti, il 50% di coloro i quali raggiungono un soddisfacente miglioramento clinico lamenta la persistenza di una significativa sintomatologia residua.

Infine, a prescindere dalla variabilità delle stime riportate, influenzata dall'utilizzo di criteri più o meno restrittivi per definire la remissione, un numero elevato di pazienti riferisce la persistenza di una compromissione rilevante del funzionamento familiare, sociale e lavorativo, anche dopo un miglioramento sul piano sintomatologico ritenuto clinicamente significativo."

L'interpretazione oggettiva di questi dati è abbastanza semplice. La terapia farmacologica delle depressioni, vantata come causale, è semplicemente sintomatica. In un ridotto numero di casi, essa consegue un effetto episodico risolutivo, che può essere ricondotto anche ad un processo spontaneo di guarigione favorito dai farmaci. In tutti gli altri casi, l'effetto è sintomatico nel senso stretto della parola, con uno spettro che, al suo limite, riconosce una quota piuttosto rilevante di depressioni persistenti.

Questa interpretazione invalida l'ideologia organicistica secondo al quale alla base della depressione c'è un disturbo biochimico geneticamente determinato. Se infatti il disturbo biochimico, che la neopsichiatria sostiene da tempo di avere accertato, riguarda la serotonina e la noradrenalina, non si capisce come mai l'uso di inibitori selettivi di questi due mediatori (rispettivamente SSRI e NaRi), spesso ormai associati, non consegua risultati rilevanti. Gli autori dell'articolo, che non hanno evidentemente alcun dubbio sulla natura biologica della depressione, affrontano il problema consapevoli che le argomentazioni consuete (riconducibili ad errori diagnostici, dosaggi terapeutici inadeguati e difetto di compliance da parte dei pazienti) non sono più adeguate. Essi però ne aggiungono altre dello stesso tenore, invocando l'età d'insorgenza precoce, la familiarità per disturbi dell'umore, il sesso femminile, la cronicità, la gravità della sintomatologia, l'imprecisione diagnostica e la comorbidità, vale a dire l'associazione con altri disturbi mentali o con disturbi della personalità o con malattie fisiche. Con ciò, essi rivelano una contraddizione della'ideologia neopsichiatria di non poco rilievo, che consiste nel semplificare i problemi a livello di propaganda mass-mediatica (laddove vale il verbo secondo cui la depressione è tout-court una malattia come le altre) e di complicarli a livello nosografico, pseudoscientifico, per giustificare gli insuccessi delle terapie biologiche.

Altrove ho scritto che una nuova scienza del disagio psichico, che riconduce la sofferenza al gioco complesso delle passioni e dei bisogni umani nell'interazione con l'ambiente, non solo non rifiuta di fare i conti con gli aspetti neurobiologici, ma è in grado di valutarli in maniera più propria e più profonda in rapporto alla neopsichiatria. Il problema delle depressioni resistenti, per questo aspetto, è un terreno ottimale di confronto.

La clinica struttural-dialettica muove infatti dal presupposto che la depressione riconosca come sua matrice primaria vissuti psicodinamici univoci ( sensi di colpa, bisogno espiatorio di soffrire, aspettativa punitiva del male) la cui presenza a livello inconscio attesta una conflittualizzazione dell'esperienza del soggetto in rapporto al mondo sociale che, per effetto delle emozioni negative (rabbia, odio, vendetta), supera un livello critico di là del quale si realizza una catastrofe psicologica: Tale catastrofe è riconducibile alla percezione della propria negatività, vale a dire ad una convinzione il cui spettro va dall'inadeguatezza a vivere alla cattiveria morale e alla pericolosità sociale. Una catastrofe del genere non può non avere conseguenze sugli equilibri biochimici. Essa comporta infatti per un verso un'attivazione dei centri emozionali nella direzione dell'allarme e dell'aspettativa del male e per un altro un'inibizione dei circuiti cortico- subcorticali funzionale a mantenere un certo livello di rimozione della negatività e a scongiurare la traduzione comportamentale delle emozioni negative.

Questi vissuti si traducono a livello cosciente in sintomi che sono espressivi per un verso e difensivi per un altro. I sintomi espressivi sono quelli che denunciano direttamente (autosvalutazione, autorimproveri) o indirettamente (astenia, apatia, inappetenza nella misura in cui realizzano un'automortificazione) i sensi di colpa. I sintomi difensivi sono quelli che servono a scongiurare la possibilità di agire le emozioni negative (astenia e apatia nella misura in cui "disarmano" il soggetto).

In difetto di consapevolezza del significato dei sintomi, i pazienti sono indotti ad interpretarli in maniera errata. La brusca modificazione della qualità della vita che la depressione comporta viene infatti costantemente colta come l'espressione di una malattia grave senza possibilità di guarigione. In questa interpretazione si esprime la criticità del cambiamento avvenuto e la previsione di un destino di dolore che rappresenta l'intuizione soggettiva di dovere soffrire per sempre, vale a dire dei sensi di colpa. In conseguenza di questa interpretazione si avvia un'ideazione depressiva catastrofica che si autoalimenta. In pratica, più il paziente sta male più è indotto a pensare catastroficamente, più pensa catastroficamente peggio sta. Si dà insomma un feed-back psicobiologico che muove dall'inconscio e viene amplificato dalla coscienza. L'incidenza di questo feed-back sugli equilibri biologici è ovvia. Basta pensare all'insonnia per capire in quale misura uno stato di coscienza depressivo può andare incontro ad un continuo peggioramento.

L'effetto sintomatico degli antidepressivi è riconducibile alla loro capacità di incidere su questo feed-back, che è un aspetto importante ma terminale non primario. Talora, raramente, questa incidenza è tale non solo da allentare i sintomi ma da incidere sull'ideazione depressiva. In tali casi la remissione può sopravvenire. La persistenza di una compromissione del funzionamento sociale, familiare e lavorativo attesta però che l'esperienza depressiva, in conseguenza delle dinamiche che la determinano, lascia a livello soggettivo una sorta di marchio, di allarme persistente. Una volta attivatisi, i sensi di colpa non possono essere azzerati dai farmaci. Anche quando i sintomi migliorano, essi sullo sfondo persistono e determinano il paradosso per cui il soggetto sta apparentemente meglio ma, nel suo intimo, continua ad avere un disagio.

L'incidenza dei farmaci è direttamente proporzionale all'entità dei sensi di colpa e al bisogno inconscio di stare male per punirsi che essi determinano. Se questo bisogno è intenso, i farmaci non conseguono alcun risultato poiché il paziente, anche se desidera guarire, "deve" continuare a soffrire. Il mistero delle depressioni resistenti riconosce la sua spiegazione in questa dinamica (cfr Mortificazione).

Questo significa che, nelle depressioni, gli assetti psicodinamici sono decisivi non solo nel generare il disagio bensì anche nel determinarne l'evoluzione e la risposta ai farmaci. La neopsichiatria, che non può riconoscere questo aspetto, continuerà pervicacemente ad urtare contro un muro.

Rimane da capire perché la neopsichiatria, dopo anni di propaganda incentrata sul trionfalismo, comincia a prendere atto e a denunciare i limiti dell'intervento farmacologico. Probabilmente per due motivi. Il primo è legato al fatto che il numero dei pazienti che hanno accettato il trattamento farmacologico senza trarne vantaggio o ricavandone effetti parziali è in aumento. Il timore neopsichiatrico è che il loro peso testimoniale possa risultare ben maggiore dei casi, solitamente legati a persone di successo, che, nel corso degli ultimi anni si sono prestati ad esibirsi a livello mediatico sponsorizzando le cure farmacologiche. Il secondo motivo è la necessità di preparare il terreno alla messa in commercio di nuovi farmaci che, con ogni probabilità, saranno vantati come infinitamente più efficaci di quelli che essi sono destinati a sostituire. Solite, tristi ricorrenze di una pseudoscienza incapace di prendere atto di ciò che la clinica attesta.