Arsenico e vecchi merletti. Sui nuovi antipsicotici

 

Il trattamento della schizofrenia corrisponde ormai ad un protocollo standardizzato. Formulata la diagnosi, spesso con una sconcertante superficialità, si instaura una terapia farmacologica con neurolettici che viene mantenuta, casomai con qualche aggiustamento di dosaggio, nel corso degli anni. Il presupposto di fondo da cui muove il protocollo è che la schizofrenia sia una malattia cronica del cervello, dovuta a disturbi biochimici o addirittura a difetti strutturali di origine genetica non correggibili. Una sorta insomma di cancro psichico che, dal momento in cui si manifesta, va lottato continuativamente con tutti i mezzi di cui si dispone.

Nel saggio sulla schizofrenia (Miseria della neopsichiatria) ho cercato di dimostrare che questo presupposto è scientificamente infondato e sostanzialmente pericoloso. Il pericolo, che si realizza costantemente, è che, curando i sintomi e trascurando le dinamiche conflittuali che li sottendono, sempre trasparenti nelle fasi di esordio, la neopsichiatria trascura del tutto l'incremento continuo di queste ultime la cui conseguenza sono le recidive, i peggioramenti e, infine, il deterioramento della personalità. Da questo punto di vista, se il disagio che l'avvia è di origine psicodinamica, e coinvolge la storia interiore e sociale del soggetto, la schizofrenia è una malattia iatrogenetica, vale a dire l'esito di un approccio terapeutico sostanzialmente sbagliato.

Il problema che qui intendo affrontare non riguarda però la standardizzazione della terapia farmacologica della schizofrenia, bensì la sua pericolosità sul piano medico.

Che i neurolettici, a partire dal capostipite - il Largactil -, fossero notevolmente tossici e dessero luogo a effetti collaterali piuttosto seri, è noto da sempre. Introdotti come farmaci miracolosi per il loro potere deliriolitico verso la fine degli anni '50 del secolo scorso, e utilizzati senza remora alcuna nei manicomi, essi avrebbero prodotto, secondo gli psichiatri, un'autentica rivoluzione, anzi l'unica realizzatasi sinora, permettendo a molti pazienti di fuoriuscire dal tunnel del delirio e di recuperare un certo contatto con la realtà.

Si tratta di un mito, come ben sa chi, come me, si è ritrovato a lavorare nei manicomi dopo due decenni dall'adozione di queste cure miracolose. Nonostante, infatti, in quei decenni la gamma dei neurolettici si fosse estesa per via dell'introduzione di nuove molecole di sintesi, la popolazione manicomiale comportava due sole categorie: i pazienti sedati, "rincoglioniti" e incartapecoriti dai neurolettici, che spesso concludevano la loro carriera come cronici tranquilli, vale a dire come automi; e i pazienti furiosi che, nonostante dosaggi elevatissimi di farmaci, apparivano incontenibili e necessitavano di elettroshock a raffica e di contenzioni fisiche. Al di là di questo, gli effetti collaterali erano seri. Alcuni, mortali, venivano ascritti alla cirrosi epatica o al collasso cardiocircolatorio: eufemismi per mascherare una iatrogeneticità indubbia. Almeno un quarto dei pazienti deceduti nei manicomi erano, di fatto, vittime delle terapie farmacologiche. Altri effetti collaterali, come i parkinsonismi (irrigidimenti dei muscoli spesso associati a tremori) le discinesie (movimenti involontari del distretto facciale, delle mani, del tronco), erano invalidanti e irreversibili.

La psicofarmacoterapia della schizofrenia è rimasta vincolata ai neurolettici di prima generazione per un lungo periodo. Solo qualche anno fa si cominciò a parlare di nuovi antipsicotici: molecole di sintesi a detta degli psichiatri molto più potenti di quelli di prima generazione e con effetti collaterali molto minori. Oggi, dopo più di un decennio dall'introduzione e dall'uso di questi nuovi farmaci, cominciano ad affiorare dati che contestano entrambe le attribuzioni, confermando che degli psichiatri non ci si può mai fidare.

Per quanto riguarda l'efficacia terapeutica, il confronto tra pazienti trattati con i "vecchi" neurolettici e pazienti trattati con i nuovi pone di fronte al fatto che non si dà alcuna rilevante differenza tra i loro effetti. L'unica reale differenza, che permette di comprendere la straordinaria diffusione dei nuovi antipsicotici, è che questi costano in media da tre a quattro volte di più di quelli vecchi. A parità di efficacia, sia il budget delle industrie farmaceutiche che i portafogli degli psichiatri, da quelle lautamente sponsorizzati, si sono notevolmente gonfiati.

Se non sono più efficaci, è almeno vero che i nuovi antipsicotici danno minori effetti collaterali? Per quanto riguarda il parkinsonismo e le discinesie, sì. Riguardo al resto i dati più recenti non sono affatto confortanti. Ne cito due particolarmente significativi.

Il Leponex (clozepina) è stato immesso in commercio una quindicina d'anni dopo la sua scoperta. All'epoca, constatata la sue elevata tossicità per il sistema midollare, l'Organo statunitense preposto ad autorizzare la commercializzazione, ne aveva vietato l'uso. La casa farmaceutica lo ha tenuto in naftalina. Poi, alcuni anni fa, passata la linea per cui la schizofrenia è un "cancro psichico" e che dunque ad essa, come al cancro, si può applicare il principio che rende leciti estremi rimedi per mali estremi, il farmaco è stato riproposto con la scorta di una documentazione universitaria (ovviamente prezzolata) che ne attestava la grande efficacia terapeutica. E' probabile che anche l'Organo di controllo, secondo una moda piuttosto diffusa negli Stati Uniti per cui i controllori sono spesso azionisti o consulenti delle società che dovrebbero controllare, si sia fatto corrompere. Il Leponex è entrato in commercio, e la sua tossicità per il midollo osseo è stata puntualmente confermata. Esso produce una grave leucopenia nell'1-2% dei pazienti che lo usano, e il 40% di questi vengono a morte per agranulocitosi. Una strage inutile che, nonostante sia documentata, non ha prodotto il ritiro del farmaco dal commercio.

Il secondo dato riguarda lo Zyprexa (olanzapina), messo sul mercato pochi anni fa nell'intento di contendere il primato del Risperdal (risperidone). Di esso, oltre all'assenza di effetti collaterali extrapiramidali, si vantava la scarsa tossicità e la capacità di incidere sui sintomi negativi della schizofrenia, risocializzando i pazienti.

Una recente, vastissima ricerca condotta in Gran Bretagna e pubblicata sul British Medical Journal ha però dimostrato che, oltre ad un aumento ponderale costante, un aumento di colesterolo nel sangue e di una tossicità a carico del cuore, lo Zyprexa può scatenare il diabete nel 4,4 per mille dei pazienti trattati.

Certo, volendo essere maliziosi, non si può escludere che questa ricerca sia stata sponsorizzata dalla industria farmaceutica che produce il Risperdal. La concorrenza tra le industrie comporta spesso strategie del genere. Anni fa, una di esse, desiderosa di mettere fuori mercato un ansiolitico diffusissimo, il valium, per fare spazio al suo, non esitò a fare pubblicare con un certo risalto dai giornali (ahimé anch'essi non insensibili a certi incentivi) la notizia che in laboratorio il valium risultava cancerogeno. La notizia era vera, però imprecisa. Per fare venire il cancro ai ratti era infatti necessario dargliene una dose in rapporto al peso corporeo tale che, per produrre lo stesso effetto nell'uomo, il paziente avrebbe dovuto ingollare un quartino di valium al giorno. In tal caso, però, sarebbe presumibilmente morto d'intossicazione prima di sviluppare un tumore.

Il dubbio si può dissolvere tenendo conto del fatto che la ricerca, se attesta il potere diabetogeno dello Zyprexa che il Risperdal ha in misura molto minore, non è, forse involontariamente, molto tenera con gli antipsicotici. Il numero enorme di pazienti che essa ha utilizzato, infatti, al di là dei diversi effetti collaterali dei diversi neurolettici, ha posto di fronte ad un dato univoco: la sopravvivenza degli schizofrenici è nettamente inferiore rispetto alla media della popolazione. Certo, per spiegare questo dato si può fare riferimento a vari fattori. Gli schizofrenici, in genere, mangiano male (ora troppo, ora troppo poco), spesso fumano in continuazione, stanno di frequente chiusi in casa, non praticano sport, ecc. Fanno insomma una vita insana. Il problema è che, tutto compreso, il loro regime di vita non è tanto diverso dalla media della popolazione bulimica, sedentaria e stressata. Il dubbio dunque che gli psicofarmaci possano entrarci con la diminuizione della sopravvivenza è legittimo.

A mali estremi, estremi rimedi. Curare gli schizofrenici con alti dosaggi di neurolettici serve a far soffrire di meno loro e quelli che li circondano. Forse serve anche a produrre la fine, un po' anticipata, delle loro sofferenze. Il titolo dell'articolo trova in questa umanitaristica e non imputabile eutanasia il suo senso.