G. Rizzolatti, C. Sinigaglia

So quel che fai

Il cervello che agisce e i neuroni specchio

Raffaello Cortina Editore, Milano 2006

1.

In uno dei pochi articoli dedicati sinora alle neuroscienze sul sito, ponevo una questione metodologica a mio avviso decisiva per lo sviluppo della disciplina. Cito integralmente:

“C'è un difetto di fondo nelle neuroscienze quando esse affrontano il problema delle funzioni psichiche superiori: quello di considerarle espressive dell'attività di un cervello isolato. Si tratta di un difetto sorprendente se si tiene conto del fatto che molti neuroscienziati sono convinti che il salto dall'attività mentale degli animali superiori a quella umana sia dovuta al linguaggio. Certo, ogni uomo è dotato della capacità di apprendere una lingua e di usarla per esprimere i suoi contenuti psichici, casomai anche creativamente. Ma questa potenzialità in tanto si realizza e consente di parlare in quanto il soggetto è immerso in un ambiente sociale. Abbandonato a se stesso, un infante non sviluppa alcuna funzione psichica superiore rispetto agli animali.

Si dirà: il linguaggio è trasmesso attraverso la catena delle generazioni, ma all'inizio qualcuno deve averlo "inventato". E' ovvio, ma l'invenzione non è riconducibile ad un uomo ma ad un gruppo di uomini. Il linguaggio è una convenzione sociale, postula l'accordo di più persone nell'assegnare ad un determinato significante un determinato significato. Il linguaggio è dunque una funzione che emerge non solo dalla complessità strutturale di un organo, ma anche in conseguenza di un'esperienza sociale.

Sembra una banalità, e invece è un nodo di fondo epistemologico. Un cervello isolato, quello a cui fanno riferimento i neuroscienziati per risolvere il problema delle funzioni psichiche superiori, è un'astrazione: non esiste, e se esistesse sarebbe un cervello dotato di potenzialità inespresse e, forse, atrofizzate. Un cervello strutturalmente umano, ma funzionalmente infraumano...

La coscienza e le funzioni psichiche superiori non affiorano dalla complessità strutturale del cervello ma dall'interazione del cervello con altri cervelli e, forse, dallo sforzo e dalla necessità sociale di comunicare. Il cervello isolato delle neuroscienze non esiste: esistono solo soggetti interagenti tra di loro, la cui attività mentale s'intreccia indissolubilmente. E forse non è assurdo dire che la coscienza è anzitutto coscienza dell'altro e/o della relazione tra io e altro.”

Tali affermazioni sottolineano un difetto metodologico o, per dire meglio, un errore “ideologico” che ha inciso non poco sulle neuroscienze, il cui sviluppo è avvenuto sostanzialmente a partire da un modello di riferimento inerente l’attività mentale identificabile nel cognitivismo. Secondo tale modello, il cervello è un organo computazionale e la mente si costruisce e funziona come un elaboratore di informazioni. In questa ottica, la sorgente delle informazioni ha un valore secondario: essa è univocamente ricondotta all’ambiente, inteso come realtà esterna.

Questa impostazione non mi ha mai convinto perché mette tra parentesi il ruolo del tutto particolare svolto, a livello di organizzazione e di funzionamento mentale, dall’ambiente sociale e, in particolare, dalle relazioni interpersonali.

Da questo punto di vista, il saggio in questione, di cui ho già anticipato i contenuti di fondo in un articolo precedente, sembra configurare un salto di qualità di portata assolutamente rivoluzionaria. Come riportato nella quarta di copertina, uno studioso si è spinto ad affermare che “i neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia.” Forse il giudizio è prematuro. Quello che è certo è che, in virtù della scoperta dei neuroni specchio, le neuroscienze sembrano avere imboccato la via giusta: una via che permette già di valutare “quanto bizzarro sia concepire un io senza un noi.” (p. 4)

Data l’importanza dell’argomento, il lettore di questa recensione dovrà armarsi di un po’ di pazienza. Le ipotesi esposte nel saggio sono, infatti, sostanzialmente semplici, ma le argomentazioni su cui si fondano e i dati sperimentali che le corroborano hanno una certa complessità. Esse poi aprono un tale ventaglio di problematiche antropologiche e filosofiche che sarà difficile approfondire nei limiti di un articolo.

Cercherò dapprima di riassumere  la trama concettuale del saggio, che si fonda su di una ricca messe di dati sperimentali. Successivamente esporrò alcune riflessioni teoriche di ordine personale.

2.

Benché costituito da sette capitoli, il saggio riconosce una prima e una seconda parte facilmente distinguibili. Nella prima, rappresentata dai tre capitoli iniziali, viene ridefinito il tipo di rapporto che le scimmie intrattengono con gli oggetti e con lo spazio. La ridefinizione si basa sull’attribuzione al sistema motorio di funzioni molto più complesse rispetto a quelle ad esso tradizionalmente attribuite: funzioni incentrate non sui singoli movimenti, ma sugli atti motori, e che pertanto appaiono dotate di valenze precognitive e pragmatiche.

La seconda parte, dal quarto all’ultimo capitolo, è dedicata alla scoperta dei neuroni specchio nella scimmia e nell’uomo e alla valutazione del loro significato funzionale.

E’ quest’ultima indubbiamente la parte più interessante del saggio, ma è pur vero che essa si articola sulle premesse illustrate nella prima.

Il saggio si inaugura sulla base di una rivisitazione del concetto di movimento e delle aree cerebrali tradizionalmente ad esso associate. Tale rivisitazione ha il fine di sormontare una concezione tradizionale secondo la quale il sistema motorio è un’unità funzionale meramente esecutiva, “vero e proprio punto d’arrivo dell’informazione sensoriale elaborata dalle aree associative e in sé e per sé privo di ogni valenza percettiva e cognitiva” (p. 10). In questa ottica, esso esisterebbe nel cervello soltanto per tradurre pensieri e sensazioni in movimenti.

Da sempre questa concezione è venuta ad urtare contro un limite ad essa intrinseco. Posto in termini interrogativi, il limite è il seguente: se il sistema motorio è meramente esecutivo, come e dove si effettua la traduzione del pensiero e della percezione in movimento?

La risposta all’interrogativo che gli autori forniscono si fonda su una più sottile messa a fuoco delle aree cerebrali e delle funzioni che partecipano al sistema motorio. Le aree considerate all’interno della concezione tradizionale erano solo due: l’area motoria primaria, posta sulla faccia laterale dell’emisfero, nella parte posteriore del lobo frontale, e l’area motoria supplementare, posta sulla faccia mesiale. Le indagini neuro-anatomiche e funzionali hanno permesso, invece, di stabilire che “lungi dall’essere organizzata in due sole aree, la corteccia motoria risulta formata da una costellazione di regioni diverse.” (p. 12)

Se si considerano, poi,  le connessioni che queste diverse regioni intrattengono tra loro e con altre aree corticali (lobo prefrontale, lobo parietale, ecc.), oltre ovviamente con i centri sottocorticali e con il midollo spinale, si giunge alla conclusione che “il sistema motorio non [è] in alcun modo periferico e isolato dal resto delle attività cerebrali, bensì [consiste] di una complessa trama di arre corticali differenziate per localizzazione e funzioni, e in grado di contribuire in maniera decisiva a realizzare quelle traduzioni o, meglio, trasformazioni sensorimotorie da cui dipendono l’individuazione, la localizzazione degli oggetti e l’attuazione dei movimenti richiesti dalla maggior parte degli atti che scandiscono la nostra esperienza quotidiana.” (p. 21)

Questa integrazione funzionale tra diverse aree cerebrali lascia pensare che il sistema motorio non sia “programmato” per eseguire singoli movimenti, ma atti motori, “cioè movimenti coordinati da un fine specifico.” (p. 25)

L’ipotesi è comprovata dalla scoperta nei primati di un’area motoria (F5) i cui neuroni “si attivano quando la scimmia compie un atto motorio (per esempio afferrare un pezzetto di cibo), indipendentemente dal fatto che esso sia eseguito con la mano destra, sinistra o addirittura con la bocca.” (p. 25) E’ evidente dunque che “la descrizione dell’attività di questi neuroni in termini di puri movimenti risulta [...] inadeguata.” (p. 25) Di fatto le ricerche hanno accertato che tali neuroni possono essere distinti in classi specifiche. Si danno neuroni-afferrare-con-la-mano-e-con-la-bocca, neuroni-afferrare-con-la-mano, neuroni-tenere, neuroni-strappare, neuroni-manipolare, ecc.

Nell’area F5, però, non ci sono solo neuroni che rispondono selettivamente ad atti motori e non a singoli movimenti. Una porzione di essi risponde selettivamente anche a stimoli visivi. Essi, cioè, pur essendo motori, si attivano anche solo in presenza di determinati oggetti senza che si dia una risposta motoria. Considerando non solo la corteccia motoria prefrontale, ma anche un’area ad essa adiacente – parietale -, si è accertata l’esistenza di neuroni a dominanza motoria, neuroni visuo-motori e neuroni a dominanza visiva.  Da questa constatazione viene fuori un quesito cruciale: “se l’interpretazione motoria è quella corretta, che cosa significa avere una risposta motoria in assenza di movimento?” (p. 31)

La risposta è che i neuroni visuo-motori e quelli a dominanza visiva innescano “veri e propri atti motori potenziali. Ora, la scelta di come agire non dipenderà soltanto dalle proprietà intrinseche dell’oggetto in questione (forma, taglia, orientamento), bensì anche da quello che intendiamo fare di esso, dalle funzioni d’uso che gli riconosciamo, ecc.” (p. 36) Ciò significa che “l’analisi a livello corticale dei meccanismi neurali connessi con atti come l’afferrare non può [...] prescindere dal considerare i processi che sottendono l’elaborazione di questo genere di informazioni che appaiono più legate a istanze motivazionali e decisionali.” (p. 36)

L’area F5 dunque contiene “una sorta di vocabolario di atti motori, le cui parole sarebbero rappresentate da popolazioni di neuroni.”(p. 45)

Se questo è vero, è come se i neuroni in questione “reagissero non al semplice stimolo in quanto tale, cioè alla sua forma, al suo aspetto sensoriale, bensì al significato che esso riveste per il soggetto in azione – e reagire a un significato equivale a comprendere” (p. 49) Il cervello che agisce – quello motorio – è dunque anche e innanzitutto un cervello che comprende. Si tratta certo di una comprensione pragmatica, non semantica, vale a dire preconcettuale e prelinguistica. Essa però “riveste un ruolo decisivo nella costituzione del significato degli oggetti, [in difetto del quale] gran parte delle cosiddette funzioni cognitive di “ordine superiore” difficilmente potrebbe avere luogo.” (p. 50)

3.

Già questa sola conclusione, che, in un certo senso, riabilita il primato dell’azione rispetto alla percezione e al pensiero, è notevole sia sul piano neuroscientifico che filosofico. Ma essa è solo la premessa di una ricerca che va molto più in profondità.

Un’ulteriore scoperta, infatti, è sopravvenuta allorché “ci si è accorti che, soprattutto nella convessità corticale di F5, vi erano neuroni che rispondevano sia quando la scimmia effettuava una determinata azione (per esempio, afferrava del cibo) sia quando osservava un altro individuo (lo sperimentatore) compiere un’azione simile.” (p. 80) A tali neuroni è stato dato il nome di neuroni specchio (mirror neurons).

Quale mai può essere la funzione di tali neuroni? Gli autori non hanno dubbi a riguardo: la loro attività è alla base “del riconoscimento e della comprensione degli “eventi motori”, ossia degli atti degli altri.” (p. 96) Anche in questo caso il termine comprensione non implica “la consapevolezza esplicita (o addirittura riflessiva) da parte dell’osservatore (la scimmia) dell’identità o della somiglianza tra l’azione vista e quella eseguita” (p. 96), bensì piuttosto la “capacità di riconoscere negli “eventi motori” osservati un determinato tipo d’atto, caratterizzato da una specifica modalità di interazione con gli oggetti, di differenziare tale tipo da altri ed eventualmente di utilizzare una simile informazione per rispondere nel modo più appropriato.” (p. 96)

I neuroni specchio sottendono dunque la comprensione delle azioni altrui, “vincolata alle azioni potenziali iscritte in quel vocabolario d’atti che in ogni individuo regola e controlla l’esecuzione dei movimenti.” (p. 104) In breve: “Il possesso da parte di un individuo del significato dei propri atti e la conoscenza motoria che gli deriva dalla convalida delle loro possibili conseguenze appaiono così condizioni necessarie, ma anche sufficienti, per garantire una comprensione immediata di quelli degli altri.” (id.)

E’ naturale chiedersi se queste considerazioni, ricavate dallo studio del cervello delle scimmie, valgano anche per l’uomo. Ora, dagli esperimenti finora condotti, è stato accertato non solo che nel cervello umano sono presenti neuroni specchio, ma che la loro organizzazione neuroanatomica e  funzionale è più complessa di quanto si dà nella scimmia. Nell’uomo, infatti, “il sistema dei neuroni specchio comprende, oltre all’area di Broca, larghe parti della corteccia premotoria e del lobo parietale inferiore.” (p. 120) Tale sistema, inoltre, “non è limitato ai movimenti della mano, e neppure agli atti transitivi, ma risponde anche agli atti mimati.” (p. 120)

Esso, dunque, per un verso “appare più esteso nell’uomo che nella scimmia” (p. 121), per un altro “possiede proprietà non riscontrabili nella scimmia: esso codifica atti motori transitivi e intransitivi; è in grado di selezionare sia il tipo d’atto che la sequenza dei movimenti che lo compongono; infine, non necessita di un’effettiva interazione con gli oggetti, attivandosi anche quando l’azione è semplicemente mimata.” (p. 121)

L’importanza di questo sistema a livello di vita di relazione è intuibile: “Non appena vediamo qualcuno compiere un atto o una catena d’atti, i suoi movimenti, che lo voglia o meno, acquistano per noi un significato immediato; naturalmente, vale anche l’inverso: ogni nostra azione assume un significato immediato per chi la osserva. Il possesso del sistema dei neuroni specchio e la selettività delle loro risposte determinano così uno spazio d’azione condiviso, all’interno del quale ogni atto e ogni catena d’atti, nostri o altrui, appaiono immediatamente iscritti e compresi, senza che ciò richieda alcuna esplicita o deliberata “operazione conoscitiva”.” (p. 127)

A tale comprensione, ovviamente, si può pervenire anche “tramite processi intellettivi basati su di un’elaborazione più o meno sofisticata dell’informazione sensoriale in generale, e di quella visiva in particolare. Tuttavia vi è una profonda differenza tra queste due modalità di comprensione. Solo nella prima, infatti, l’evento motorio osservato comporta un coinvolgimento in prima persona da parte dell’osservatore che gli consente di averne un’immediata esperienza come se fosse lui stesso a compierlo, e di coglierne così appieno il significato. Estensione e portata di questo “come se” dipendono dal patrimonio motorio dell’osservatore, sia esso proprio dell’individuo o della specie.” (p. 134)

E’ quasi superfluo aggiungere che “il sistema dei neuroni a specchio svolge un ruolo fondamentale nell’imitazione, codificando l’azione osservata in termini motori e rendendo in tal modo possibile una sua replica.” (p. 139) Attraverso l’imitazione, esso influenza potentemente l’apprendimento. Il sistema dei neuroni specchio avrebbe anche fornito “il substrato neurale necessario per la comparsa delle prime forme di comunicazione interindividuale.” (p. 150)

Tenendo conto, infine, che gran parte delle emozioni si esprimono, consciamente o inconsciamente, attraverso un’espressione facciale, ci si può chiedere se il sistema dei neuroni specchio non abbia qualche rapporto con il riconoscimento degli stati d’animo altrui. Allo stato attuale delle ricerche, la cosa sembra certa: “L’osservazione di volti altrui che esprimono un’emozione determinerebbe un’attivazione dei neuroni specchio della corteccia premotoria. Questi invierebbero alle aree somatosensoriali e all’insula una copia del loro pattern di attivazione (copia efferente), simile a quello che inviano quando è l’osservatore a vivere quella emozione. La risultante attivazione delle aree sensoriali, analoga a quella che si avrebbe quando l’osservatore esprime spontaneamente quell’emozione (“come se”), sarebbe alla base della comprensione delle reazioni emotive degli altri.” (p. 179)

In altri termini: “le nostre percezioni degli atti e delle reazioni emotive altrui appaiono accomunate da un meccanismo specchio che consente al nostro cervello di riconoscere immediatamente quanto vediamo, sentiamo o immaginiamo fare da altri, poiché innesca le stesse strutture neurali (rispettivamente motorie o viscero-motorie) responsabili delle nostre azioni o delle nostre emozioni. Nel caso delle azioni avevamo sottolineato come tale meccanismo di risonanza non fosse l’unico modo in cui il cervello può afferrare atti o intenzioni degli altri. Lo stesso vale per le emozioni: è possibile che esse vengano comprese anche sulla base di un’elaborazione riflessiva degli aspetti sensoriali connessi alle loro manifestazioni sul volto o nei gesti degli altri. Ma tale elaborazione, presa di per sé, senza cioè alcuna risonanza viscero-motoria, resta a livello di quella pallida percezione che per James era priva di qualunque genuina coloritura emotiva.

La comprensione immediata, in prima persona, delle emozioni degli altri che il meccanismo dei neuroni a specchio rende possibile, rappresenta, inoltre, il prerequisito necessario per quel comportamento empatico che sottende larga parte delle nostre relazioni individuali” (p. 181)

Il significato complessivo del saggio, che riassume tutti i dati sperimentali e le ipotesi ad essi conseguenti, è esposto in termini molto efficaci nella premessa (che diventa  peraltro pienamente comprensibile dopo la lettura del testo): “il sistema dei neuroni specchio appare decisivo per l’insorgere di quel terreno di esperienza comune che è all’origine della nostra capacità di agire come soggetti non soltanto individuali ma anche e soprattutto sociali. Forme più o meno complicate di imitazione, di apprendimento, di comunicazione gestuale e addirittura verbale, trovano, infatti, un riscontro puntuale nell’attivazione di specifici circuiti specchio. Non solo: la nostra stessa possibilità di cogliere le reazioni emotive degli altri è correlata ad un determinato insieme di aree caratterizzate da proprietà specchio. Al pari delle azioni, anche le emozioni risultano immediatamente condivise: la percezione del dolore o del disgusto altrui attivano le stesse aree della corteccia cerebrale che sono coinvolte quando siamo noi a provare dolore o disgusto.

Ciò mostra quanto radicato e profondo sia il legame che ci unisce agli altri.” (p. 4)

4.

L’importanza del saggio consiste nell’aver dimostrato in maniera poco confutabile che esiste una modalità di comprensione della realtà (sia essa rappresentata da oggetti che da altri individui, addirittura appartenenti a specie diverse) che si realizza, sulla base dei neuroni visivi e di quelli  specchio presenti nel sistema motorio, su di un registro precognitivo, preriflessivo, prelinguistico. Si tratta di una scoperta straordinaria perché essa porta a pensare al cervello come ad un organo strutturato originariamente per stabilire rapporti significativi con il mondo, e in particolare aperto ad una manipolazione intenzionale degli oggetti e all’identificazione empatica con l’altro, prima ancora dell’intervento delle capacità cognitive e delle funzioni psichiche superiori.

Non dunque un organo solipsistico, non un congegno meramente computazionale, bensì un apparato primario di comprensione oggettuale e interindividuale.

Che questa comprensione dipenda dal sistema motorio, ritenuto in passato meramente esecutivo, e quindi subordinato alle percezioni e al pensiero è assolutamente sorprendente, ma suffragato da prove poco o punto confutabili.

Si tratta dunque di una verità scientifica destinata a riverberare in tutto l’ambito delle neuroscienze e, forse, della concezione che l’uomo ha di se stesso e del suo essere al mondo.

In questa nuova ottica, infatti, il primato non è del logos, bensì dell’azione: la praxis, l’agire, precede il logos, di cui rappresenta il supporto. Il cervello che agisce comprende pragmaticamente il mondo prima ancora che intervenga l’attività simbolica. E’ una proto-cognizione o una  pre-cognizione, in difetto della quale però le funzioni psichiche superiori non avrebbero, presumibilmente, la fluidità che hanno.

Se questo è il significato globale del saggio, non si può non considerare che il suo impatto a livello di concezione della natura umana è ancora più straordinario. I neuroni specchio che sottendono l’imitazione e l’apprendimento sulla base dell’imitazione nulla di nuovo, tranne che una convalida scientifica, aggiungono a ciò che la psicologia e la pedagogia hanno già acquisito.

Diverso è il discorso per i neuroni a specchio che promuovono la comprensione degli atti motori dell’altro e dei suoi stati d’animo. Qui non si ha solo la prova che l’intersoggettività è una dimensione intrinseca al cervello e alla mente, e che, al di fuori di un contesto sociale condiviso, non avrebbe modo di definirsi l’io. Si ha anche la prova che esiste un meccanismo neurale deputato a promuovere l’identificazione empatica dell’altro.

Quale significato può avere questo meccanismo nella cornice di una nuova scienza dell’uomo?

Sarebbe ingenuo enfatizzarlo come prova di una naturale socievolezza. Esso sicuramente fa capo ad un bisogno sociale, ma, in ultima analisi, tale bisogno si può esprimere secondo uno spettro comportamentale che va dall’assunzione dell’altro come partner collaborativi e/o affettivo all’assunzione dell’altro come rivale e, infine, nemico.

Il problema è di capire quanto, nella definizione di tale spettro, si dia di naturale e quanto di condizionato culturalmente.

Da questo punto di vista, c’è da augurarsi che la ricerca sui neuroni a specchio che consentono di comprendere le emozioni possa andare avanti. Qualche indizio significativo già è affiorato. Ma se la ricerca dovesse giungere ad attestare (come io penso) che l’emozione più immediatamente e precognitivamente compresa è il dolore e la sofferenza in tutte le sue forme, questo sarebbe un bel passo in avanti sulla via di una nuova scienza dell’uomo.

Occorrerebbe in tal caso chiedersi quali fattori incidono su questa modalità primariamente empatica fino al punto di indurre l’estraneazione e la cosificazione dell’altro, presupposti di comportamenti antisociali, aggressivi e al limite sadici. Sarebbe difficile non pensare che questi, che pure fanno capo al repertorio comportamentale umano, sarebbero dovuti ad un’inibizione dell’empatia legata alla vita sociale e a fattori culturali.

Un altro spunto di riflessione, suggerito dal saggio, concerne il rapporto tra neuroni a specchio e emozionalità sociale. Gli autori rilevano che è la comprensione immediata, precognitiva dell’altro prodotta dai primi a dare ad essa una coloritura emotiva che non avrebbe se la conoscenza dell’altro si basasse solo sulla concettualizzazione e sulla razionalità.

Il problema, a mio avviso, è che attribuire ai neuroni specchio, che appartengono comunque al sistema motorio, una capacità emozionale sembra francamente eccessivo. E’ più probabile, dunque, - e dovranno essere ulteriori ricerche a confermarlo - che il sistema motorio intrattenga dei rapporti reciproci e interattivi con quello emozionale.

Una scoperta del genere non sarebbe sorprendente, perché già da tempo l’emozionalità viene intesa come una forma di intelligenza primaria, precognitiva.

L’eventuale intreccio funzionale tra due sistemi – quello dei neuroni specchio e quello emozionale – entrambi capaci di indurre una comprensione preriflessiva e non concettuale della realtà, non farebbe altro che comprovare che il cervello dispone di due diverse modalità di conoscenza del mondo: l’una per l’appunto empatica, e dipendente da meccanismi neurali primari, l’altra cognitiva, fortemente influenzata dalla cultura.

C’è un altro problema, però, da considerare. I neuroni specchio promuovono la comprensione degli stati d’animo altrui nella misura in cui essi sono espressi dal movimento, vale a dire dalla mimica o dai gesti. Si tratta senz’altro di una comprensione empatia, che però non ricopre pienamente la categoria dell’empatia. Occorre ammettere, infatti, che esistono altre potenzialità mentali, genericamente riconducibili all’intuizione, che consentono non solo di mettersi nei panni dell’altro, ma anche di registrare e decifrare i suoi stati d’animo consci e inconsci, che non sempre si esprimono attraverso la mimica e la gestualità.

L’intuizione è una capacità difficile da definire. Sicuramente espressiva di un’elevata emozionalità sociale o sensibilità, essa comporta forse una sorta di registrazione diretta dello stato d’animo altrui, alla cui base verrebbe da ammettere una comunicazione tra inconscio e inconscio.

Occorrerebbe, dunque, ammettere che, anche sotto questo profilo, la capacità empatica dei neuroni a specchio e quella dell’emozionalità convergerebbero e si sommerebbero nell’attivare e nel potenziare l’identificazione con l’altro.

La natura umana sembra, in breve, per più aspetti organizzata a livello cerebrale per valorizzare questa identificazione.

A partire da questo, occorre spiegare i fallimenti dell’empatia, che sono sotto gli occhi di tutti.