Neurotecnocrazia


Neurotecnocrazia è un neologismo, dovuto a Steven Rose, che definisce il progetto neopsichiatrico di egemonizzare il campo delle scienze umane e sociali sulla base delle scoperte e dei progressi della neurobiologia. Antesignana e promotrice di questo progetto si può ritenere la sociobiologia, che però, in rapporto ai suoi limiti epistemologici e teorici, ha perso smalto e terreno negli ultimi anni. La neopsichiatria ha recuperato tale progetto cercando di convalidarlo su di un terreno più limitato e insidioso: quello della devianza sociale che va dai disturbi psichici alla criminalità.

La critica della neurotecnocrazia, dei suoi presupposti teorici, della sua metodologia e dei suoi sviluppi attuali, è un impegno obbligato per una nuova scienza del disagio psichico.

Il neologismo, suggestivo, è di Steven Rose, uno dei pochi neurobiologi che è riuscito a mantenere un atteggiamento critico nei confronti della scienza che egli pratica, non da ultimo in conseguenza di una cultura storica e filosofica ideologicamente connotata - di sinistra- che traspare ed è esplicitata in gran parte dei suoi lavori, e comporta un salutare scetticismo nei confronti di banali conclusioni sulla natura umana ricavate dalla fenomenologia comportamentale individuale e collettiva. E' evidente che l'intero spettro dei comportamenti umani realizzatisi nel corso della storia della specie umana (e anche di quelli che si realizzeranno ulteriormente senza manipolazioni genetiche...) debba essere ricondotto a potenzialità intrinseche alla natura umana. Ma la riduzione di un qualunque comportamento agito da un soggetto appartenente ad un contesto culturale, nell'interazione con il quale si è definita la sua vicenda personale, ad un determinismo genetico contrasta meno con il buon senso che con i dati acquisiti della neurobiologia: per esempio, con le scoperte di Changeux sulla potatura sinaptica e sul rilievo ad esse accordato da Edelman che ne ha ricavato la teoria del darwinismo neuronale.

Il termine Neurotecnocrazia definisce l'orientamento prevalente dei neurobiologi contemporanei, statunitensi ed europei, i quali, refrattari all'impatto filosofico di quei dati e immunizzati da ogni contagio con le scienze umani e sociali, dall'antropologia alla psicoanalisi, assumendo il determinismo genetico come una verità inconfutabile e vedendone le prove in tutti i comportamenti devianti, si assumono l'onore e l'onere di programmare un mondo nuovo affrancato dall'incidenza, individuale e sociale, di quei comportamenti e caratterizzato da una normalità universale, identificata nel rispetto delle regole, delle norme e dei valori propri del contesto di appartenenza. La realizzabilità di tale programma è totalmente affidata allo sviluppo delle scienze neurobiologiche, le quali, via via che definiscono i determinismi genetici e biochimici dei comportamenti devianti, dovranno provvedere a produrre anche i rimedi adeguati: neurofarmaci, psicofarmaci e eventuali interventi sul corredo genetico.

Preconizzando l'uomo a una dimensione come prodotto della cultura dominante borghese, Marcuse ha commesso l'errore di attribuire alla cultura un potere che essa non ha: la diffusione sociale di quel modello infatti è risultata e risulta direttamente proporzionale all'aumento statistico dei comportamenti devianti. Tale dato dovrebbe far riflettere sia sulle potenzialità ambivalenti, normalizzanti e nel contempo devianti, di ogni codice culturale dominante (potenzialità intrinseche e evidentemente latenti), sia ad una qualche oscura resistenza che la natura umana, identificabile con un patrimonio genetico che di fatto è la somma dei corredi genetici individuali (notoriamente, eccezion fatta per i gemelli omozigoti, unici e irripetibili), oppone alla riduzione fenomenica della sua varietà comportamentale, peraltro necessaria perché si dia cultura. Si potrebbe pensare che le scienze neurobiologiche tanto sono incapaci di recepire il primo aspetto, quanto sono sensibilizzate al secondo. Ma si tratta di una sensibilità del tutto pregiudiziale, poiché esse colgono in quella resistenza solo un aspetto negativo, quello drammaticamente restituito dai comportamenti devianti nocivi perché inducono sofferenza in chi ne è affetto o nei membri del gruppo cui egli appartiene. Da ciò, l'ossessione di estirparla per il bene dell'individuo o della società, e, posta la causalità genetica e la relativa impotenza della cultura, il progetto di soluzione biologica.

Nessuno può negare alla scienza il diritto di perseguire le linee di ricerca che essa ritiene adeguate alla spiegazione di un oggetto, né di formulare - se crede (ma secondo Feyerabend lo fa sempre anche se non consapevolmente) - le ipotesi più azzardate e apparentemente incompatibili con il senso comune e con il buon senso: nessuno che non faccia riferimento a valori oggettivi, trascendenti il potere umano, può subordinare lo sviluppo della scienza a principi ideologici che interferiscano con l'etica sua propria. Ma intanto, dopo Popper, si può ritenere necessario che quelle ipotesi risultino falsificabili; in secondo luogo, finché non si raggiungono risultati certi e convalidati, esse non devono invalidare o giungere a ritenere insignificanti le ipotesi alternative; in terzo luogo, esse non possono corroborarsi in rapporto alla presa che riescono ad esercitare sull'opinione pubblica. La neurobiologia, che dovrebbe aprire la strada alla Neurotecnocrazia, non rispetta alcuno di questi requisiti. Non le si può chiedere, data la sua modesta attrezzatura epistemologica e culturale, e il disprezzo esplicito che manifesta nei confronti dei dibattiti degli anni '70, di soffermarsi a riflettere sui rapporti problematici tra normalità e devianza; né di dover assumere, tra i suoi oggetti di ricerca, alcuni aspetti assolutamente misteriosi della normalità (come, per esempio la totale assenza di rimorso di molti militari in guerra o il cinismo di finanzieri le cui speculazioni possono ridurre alla disperazione torme di piccoli risparmiatori). Ma nel momento in cui la neurobiologia sostiene l'origine genetica e biologica - almeno in termini di predisposizione - dei disturbi psicopatologici, delle tossicomanie (dal tabacco all'alcool, alle droghe pesanti), dell'omosessualità, dei comportamenti criminali, e si propone di accertare definitivamente quell'origine per trattarla adeguatamente, come si può prendere sul serio dal punto di vista scientifico siffatta impostazione? E, se la si prende sul serio nel suo intento di affrancare la società e la storia da tutti i comportamenti socialmente nocivi, perché mai non far rientrare in questa categoria anche la guerra, la sete di potere, i pregiudizi razziali, ecc.?

Il perché è chiaro: la neurobiologia si interessa dei comportamenti devianti individuali che assumono statisticamente un rilievo e di conseguenza un'incidenza sociologica, non dei comportamenti collettivi, quindi normali per quanto criticabili, che hanno pure pesanti ricadute sull'esperienza di infinite persone. Si tratta di una necessità ideologica: gli uni, infatti, potendo essere ascritti alla patologia, sono curabili, gli altri no. Ma se normalità e devianza sono le due facce di una stessa medaglia, sia nel senso di riconoscere correlazioni profonde rispetto al piano fenomenico dei comportamenti sia nel senso di definirsi e alimentarsi reciprocamente - l'una fondandosi il più spesso sulla fobia dell'altra e viceversa -, il sogno neurotecnocratico, nonché irrealizzabile, sarebbe pericoloso: affrancata magicamente dal suo doppio, la normalità sarebbe costretta a riprodurlo. Con buona pace dei neurobiologi, e nell'attesa che essi, dopo aver comunicato con i geni e le molecole biochimiche, si arrendano alla triste necessità di comunicare con gli oggetti che vanificano le loro teorie: gli esseri in carne e ossa.