Il gene della timidezza


1.

E' fuori di dubbio che ogni individuo abbia delle caratteristiche caratteriali abbastanza stabili e durature che consentono di distinguerlo dagli altri. Tali caratteristiche, definite tratti, sono da tempo oggetto di ricerca nell'ambito della teoria della personalità. Una delle acquisizioni più significative maturate in quest'ambito è la distinzione, operata da Eysenck, tra estroversione e introversione. Ammettendo una base biologica per tale distinzione, Eysenck si può ritenere il precursore della genetica del comportamento, che si interessa al grado di ereditarietà dei tratti di personalità. Dopo un lungo dibattito, vivace negli anni '70, sull'influenza dei fattori genetici e di quelli ambientali sull'organizzazione complessiva e specifica delle singole personalità, sembrava che si fosse giunti alla conclusione che tali fattori sono entrambi importanti e che la loro combinazione determina uno spettro di varianza dei tratti.

Negli ultimi quindici anni, il determinismo biologico ha ripreso vigore e ha prodotto di nuovo la tendenza a stabilire rapporti di causalità tra un gene o un insieme di geni e tratti di personalità.

A questo modo un po' banale di affrontare i problemi tra fattori genetici e fenomenologia comportamentale va ricondotta la scoperta, realizzata presso l'Università vita e salute del S. Raffaele di Milano, ad opera di un equipe guidata dal professore di psicologia clinica Marco Battaglia, di un gene, denominato 5-HTTLPR, che, in una sua particolare versione, renderebbe i bambini che lo albergano più timidi e insicuri rispetto ai coetanei.

Per valutare adeguatamente questa scoperta, occorrerà attendere che essa sia pubblicata su di una rivista specialistica (Archives of General Psichiatry).

Le considerazioni che seguono sono pertanto estemporanee, fondandosi unicamente su ciò che ha riferito la stampa.

La ricerca in questione è stata effettuata selezionando un gruppo di 300 ragazzi lombardi tra i quali è stato individuato, attraverso lo studio del loro comportamento sociale nella vita di tutti i giorni, un sottogruppo di 49 bambini che manifestavano tratti più o meno rilevanti di timidezza. Il campione dei 300 ragazzi è stato sottoposto ad un test consistente nel fare scorrere su di un monitor immagini di altri ragazzi dalle diverse espressioni: allegre, rabbiose e neutre. Il risultato del test è stato che di fronte alle manifestazioni di gioia la reazione era uguale per tutti, mentre di fronte ad atteggiamenti di aggressività il sottogruppo reagiva in maniera differente, con maggior coinvolgimento emozionale, vale a dire con ansia. Questo attesterebbe una minore difesa in rapporto a situazioni sgradevoli.

L'analisi del DNA ha posto in luce, nei soggetti appartenenti al sottogruppo, l'esistenza di un gene variante, denominato per l'appunto 5-HTTLPR, assunto come causa del comportamento timido e insicuro.

Il Professor Battaglia conclude, trionfalisticamente: "La cosa nuova e chiara che è emersa è la relazione fra il gene della timidezza e il comportamento cerebrale, stabilendo un rapporto causale fra quel particolare gene e l'emotività."

La conclusione sembra francamente impropria. Posto che i controlli confermino l'esistenza del gene, ciò che la ricerca dimostra è che alcuni bambini hanno una particolare sensibilità nei confronti di atteggiamenti aggressivi. La timidezza sarebbe una conseguenza delle reazioni emotive determinate da tale sensibilità in rapporto ad un contesto sociale nel quale quegli atteggiamenti sono manifestati dagli altri. Sembra una sottigliezza, ma non lo è, in quanto modifica radicalmente il significato della scoperta.

2.

La timidezza è un tratto di personalità riconosciuto da tempo come caratteristico dell'introversione. Esso va valutato nel contesto del modo di essere introverso.

Nel saggio sull'introversione, pubblicato di recente da Franco Angeli, la cui introduzione può essere letta sul sito nella sezione Opere di psicopatologia, ho scritto:

"Gli aspetti più tipici dell'emozionalità introversa infantile sono molteplici. Essa comporta anzitutto una predilezione per la quiete, il raccoglimento, l'armonia, che comporta un certo rifiuto degli stimoli violenti (per esempio qualsivoglia forma di rumore), un grado di conservatorismo affettivo che identifica nei cambiamenti un fattore disturbante, una propensione innata per la natura. Il bambino introverso ama la tranquillità, e si abbandona precocemente a sogni ad occhi aperti.

Un secondo aspetto, che riguarda l'emozionalità sociale, è caratterizzato da una certa predilezione per le figure adulte piuttosto che per i coetanei. Il bambino introverso è letteralmente affascinato, dalla maturità, dalla compostezza, dall'assennatezza e dalla capacità di ragionare degli adulti (doti, spesso, attribuite in virtù dell'idealizzazione più che reali). L'irrequietezza motoria, la fisicità, l'imprevedibilità dei coetanei lo disturba.

L'emozionalità sociale comporta anche, a partire da un'intuizione "viscerale" della propria dignità, una percezione quasi drammatica dei diritti e della sensibilità dell'altro, con cui il bambino introverso s'identifica. La conseguenza negativa di quest'aspetto è una propensione alla scrupolosità, vale a dire al sentirsi in colpa per qualunque comportamento può evocare in qualcuno fastidio, dispiacere o dolore. Si tratta di un'emozionalità incentrata sulla "legge" di non fare agli altri ciò che il soggetto non vorrebbe che si facesse a lui. Per quest'aspetto, l'introversione implica una moralità naturale. Laddove gli altri, in genere, devono sforzarsi per non fare del male, l'introverso può farlo solo se si violenta.

Nella misura in cui l'identificazione con l'altro muove da una percezione innata della dignità umana, l'emozionalità sociale comporta però anche un'estrema reattività sul registro della rabbia. Il bambino introverso è dotato di uno spiccato senso di giustizia. In conseguenza di questo, tutto ciò che, nei rapporti interpersonali viene vissuto come ingiusto, arbitrario, prepotente, prevaricante scatena una rabbia senza limiti

L'inserimento precoce in una struttura asilare non corrisponde mai ad un bisogno del bambino introverso, la cui maturazione sociale ha tempi più lenti in rapporto alla media. Pacato e riflessivo, animato da un desiderio incoercibile di quiete e d'intimità, egli non tollera l'affollamento, l'animazione, la confusione, il vociare perpetuo, l'interazione sul piano fisico. L'inserimento asilare, di conseguenza, lo mette a disagio e rivela un tratto estremamente significativo di comportamento: il suo essere praticamente sprovveduto sotto il profilo dell'aggressività, anche per quanto riguarda quella componente sana a cui alcuni psicologi evolutivi annettono importanza. In conseguenza di questo, egli appare spesso come un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro.

Praticamente inerme, il bambino introverso subisce le interazioni "aggressive" e, non avendo altro metro di misura che se stesso, rimane sorpreso e, talora, sconvolto dai comportamenti dei coetanei che, ai suoi occhi, appaiono rozzi e superficiali, se non addirittura "prepotenti" e "selvaggi". In conseguenza di questo, egli nel suo intimo si arrabbia. Il riferimento alla dignità inviolabile dell'essere umano è costitutivo dell'introversione: si tratta di un modo di sentire originario che si manifesta ben prima dell'acquisizione dei concetti corrispondenti. Che sia in gioco un senso di giustizia innato, è comprovato dal fatto che il bambino introverso si arrabbia anche quando vede altri bambini subire delle prepotenze. Nonostante la sua soggezione, neppure i grandi sono al riparo dalla rabbia, quando essi agiscono ingiustamente. E' intrinseco all'introversione, insomma, un orientamento donchisciottesco

La socializzazione precoce, che somma alla perdita della possibilità di raccogliersi con se stesso un'interazione prevalentemente negativa con l'ambiente asilare, è la causa di un atteggiamento chiuso, talora incupito, che viene spesso rilevato dai coetanei i quali, non riuscendo a coinvolgere il bambino introverso e a comunicare con lui, tendono ad isolarlo quando non addirittura, profittando della sua inermità, a prevaricarlo."

Questi aspetti, in parte dovuti al corredo genetico, in parte all'ambiente, spesso si accentuano a livello di scolarizzazione elementare e media, perché la turbolenza e l'aggressività dei coetanei cresce di anno in anno e non è raro che l'introverso divenga un facile bersaglio su cui scaricarle.

La scuola, purtroppo, a partire dalle elementari, sta diventando un Far West che mette a dura prova anche gli insegnanti. In questo contesto, i bambini introversi stanno diventando vasi di coccio in mezzo a vasi di ferro.

Il sottogruppo oggetto della ricerca in questione, identificato sulla base dell'osservazione del comportamento, probabilmente comporta una prevalenza di bambini introversi. Parlo di prevalenza perché, in percentuale, i ragazzi che ad esso appartengono rappresentano oltre il 16% del campione: un 10% in più rispetto alla mia valutazione dell'incidenza dell'introversione sulla popolazione. Questo scarto lo ricondurrei alla diffusione, a livello elementare e medio, di un modello comportamentale incentrato sulla legge del più forte che, probabilmente, intimidisce anche soggetti che hanno una componente introversa non spiccata.

Se questo è vero, ciò che hanno scoperto i ricercatori di Milano è la tendenza dei bambini dotati di un certo grado di introversione ad interagire negativamente a livello emozionale con atteggiamenti aggressivi da parte degli altri. Questa reazione fa capo per un verso al loro viscerale rifiuto dell'aggressività altrui e, per un altro, all'intuizione della propria inermità.

Se si muove dal presupposto per cui una componente di sana aggressività è costitutiva degli esseri umani ed è positiva nella misura in cui concorre a dotare la personalità di una capacità di affermazione competitiva, il gene in questione (se esiste) è disfunzionale. Il problema è che quel presupposto è ideologico. Sono convinto che, nel sottogruppo identificato, parecchi bambini dovrebbero eccellere nel rendimento scolastico, visto che gli introversi, quando non sono precocemente inibiti dall'ambiente, tendono regolarmente a primeggiare. Essi sono dunque provvisti della capacità di farsi valere quando si tratta di competere su di un terreno che esclude la prevaricazione e la violenza: in breve, non se la cavano quando si tratta di destreggiarsi fisicamente o di usare le mani.

3.

Illustrando il significato della scoperta, il Professor Battaglia fa presente che spesso i bambini che manifestano timidezza e insicurezza nel rapporto coi coetanei sono destinati spesso a sviluppare, da adolescenti o da adulti, forme varie di disagio psicologico, dalle nevrosi depressive all'alcoolismo. Sia pure tra le righe, egli sembra alludere ad un rapporto di causalità tra il tratto di timidezza che si manifesta precocemente e le sue conseguenze disadattive.

In realtà, il problema è molto più complesso. Inermi dal punto di vista comportamentale, vale a dire più o meno sprovvisti della capacità di agire comportamenti aggressivi sia pure difensivi, i bambini introversi, come risulta chiaro dalle citazioni, sono dotati di un'emozionalità fin troppo viva. Di fronte all'aggressività altrui, essi reagiscono con paura e con rabbia. Nel corso dello sviluppo ulteriore della personalità, la paura viene percepita spesso come espressione di una debolezza e di un'inadeguatezza per cui i soggetti sviluppano un sentimento più o meno rilevante di inferiorità rispetto agli altri. La rabbia, viceversa, tende ad incrementarsi via via che il soggetto, crescendo, si trova di fronte a comportamenti sociali, egoistici, insensibili e aggressivi, che sono agiti disinvoltamente dai più, ma che egli non riesce a comprendere e ritiene, nel suo intimo, intollerabili. E' superfluo dire che, in anime particolarmente sensibili, una rabbia costante e inespressa dà luogo a sensi di colpa più o meno rilevanti.

Questa complessa esperienza interiore può avere esiti diversi. I due più frequenti sono un progressivo ritiro dal mondo, nel quale si esprime un nodo di frustrazioni, di autosvalutazioni, di sensi di colpa e di inferiorità, e un tentativo di omologarsi agli altri, che determina lo sviluppo di un falso io. Si tratta in entrambi i casi di esperienze psicodinamicamente complesse, che è ridicolo icondurre tout-court al tratto della timidezza.

Detto questo in merito alla scoperta del gene della timidezza, devo aggiungere che io non ho alcun dubbio che l'introversione riconosca una componente genetica complessa, non riferibile ad un gene ma ad un insieme di geni. Ritengo però che essa non sia una dimensione disfunzionale in sé e per sé, ma che lo divenga solo in conseguenza dell'interazione con un mondo nel quale l'introverso viene precocemente pregiudicato e spesso ferito nella sua diversità. Che al pregiudizio, già diffuso, concorrano anche gli psicologi non sorprende più di tanto, dato che essi assumono, nelle loro ricerche, la normalità come un metro di riferimento univoco.

Consiglierei all'équipe del Professor Battaglia di fare una ricerca sull'aggressività infantile nelle scuole. Probabilmente scoprirebbe il Far West che consente di comprendere la timidezza di alcuni bambini in termini più dialettici.

Sul tema della genetica comportamentale che, negli ultimi anni, ha formulato le ipotesi più sorprendenti e arbitrarie, riuscendo a conseguire una vasta eco sui mass-media, tal che la gente è venuta a sapere che esiste un gene per quasi ogni comportamento umano (criminalità, omosessualità, tossicodipendenza, gioco d'azzardo, gelosia, tendenza al tradimento coniugale, ecc), oltre che, naturalmente per le "malattie mentali", tornerò ulteriormente.

Per ora la recensione del libro di Jordan (Gli impostori della genetica) rimane un validissimo punto di riferimento.