Sull'effetto placebo

1.

Un dato da cui partire per riprendere il discorso già avviato sul rapporto tra medicina tradizionale e omeopatia è fornito da due ricerche recenti, i cui risultati, pubblicati anche sui quotidiani, sono in contraddizione.

La prima ricerca, dell’Università del Michigan, pubblicata sul Journal of Neuroscience, verte sull’effetto placebo, vale a dire sul vantaggio terapeutico che talora interviene in seguito alla somministrazione di sostanze inerti (per esempio acqua zuccherata) in pazienti convinti di assumere un nuovo farmaco. L’esperimento condotto è stato estremamente semplice. Gli autori hanno iniettato nella mascella di volontari una soluzione salina, che produce un intenso dolore, somministrando contemporaneamente loro un placebo fatto passare per analgesico. Con un apparecchiatura radiologica (PET) hanno poi seguito passo dopo passo l’attività cerebrale, scoprendo che, in seguito all’informazione ricevuta dai pazienti, i neuroni cominciavano a produrre endorfine, molecole chimiche che hanno una struttura e un’azione simile alla morfina. In conseguenza di questo, i volontari hanno di fatto sperimentato un dolore molto minore di quello che avrebbero dovuto sentire.

L’effetto placebo dunque non sarebbe riconducibile, come si è pensato per tanto tempo, alla suggestione — meccanismo puramente psicogenetico — bensì alla capacità delle credenze soggettive di modificare gli assetti biochimici del cervello, di mobilitare, in altri termini, potenzialità naturali terapeuitche.

Le credenze nell’esperimento in questione sono evidentemente due: la fiducia, di ordine ovviamente professionale non personale, accordata dai volontari ai medici, e la certezza che la sostanza iniettata fose un farmaco antalgico.

Il primo fattore è sicuramente in gioco in tutte le pratiche terapeutiche che non comportano la somministrazione di farmaci: è dunque il fattore necessario anche se non sempre sufficiente. Quando lo è, esso si avvicina molto all’efficacia simbolica nella quale Lévi-Strauss ha identificato il potere degli sciamani

La ricerca statunitense ha il merito di chiarire in termini scientifici i rapporti tra la sfera psicologica dei vissuti e quella somatica, evidenziando il potere a lungo negato della psiche nell’influenzare il corpo.

Essa è ovviamente destinata ad incidere sull’impianto ideologico della medicina tradizionale, che, ossessionata dal positivismo, ancora oggi stenta a prendere atto dell’influenza terapeutica del rapporto tra medico e paziente, laddove quest’ultimo assegni al primo fiducia e si senta considerato nella sua sofferenza e nella sua aspirazione a guarire.

La burocratizzazione e il tecnicismo che governano attualmente, fatte le dovute eccezioni, la pratica medica corrente giustificano la tendenza crescente dei pazienti a rivolgersi alla medicina alternativa, e in particolare all’omeopatia. Si calcola che attualmente in Italia una decina di milioni di pazienti si rivolgano agli omeopati, certi di un’attenzione personalizzata che solo di rado viene loro fornita dai medici tradizionali. Questa tendenza — stando alle statistiche — è addirittura più marcata nel contesto dei paesi europei.

L’antitesi tra medicina tradizionale e medicina omeopatica non è più, dunque, solo di ordine scientifico; essa coinvolge una quota rilevante di interessi economici. In questo caso, non si tratta tanto degli interessi industrie farmaceutiche, che non hanno difficoltà a produrre farmaci tradizionali e farmaci omeopatici (dai quali ricavano, in media, un profitto minore, ma pur sempre un profitto), quanto di quelli della classe medica tradizionale, che vede lentamente erodere i suoi cospicui guadagni a favore della corporazione degli omeopati.

Pochi dubbi si potevano nutrire riguardo al fatto che la contesa tra medicina tradizionale e medicina omeopatica, rimasta per decenni attestata sul registro di una reciproca critica in punta di fioretto, si sarebbe inasprita quando essa fosse giunta a toccare i portafogli.

La cosa è regolarmente accaduta.

Una delle più prestigiose riviste mediche esistenti al mondo — The Lancet — ha pubblicato a fine agosto un’editoriale il cui titolo - La fine dell’omeopatia - è inequivocabile. Si tratta ovviamente di un desiderio della medicina tradizionale, che si fonda peraltro su di una puntigliosa metanalisi, pubblicata sullo stesso numero, effettuata dall’équipe svizzera di Matthias Egger sulla base di 110 diverse ricerche scientifiche sull’efficacia di altrettanti trattamenti omeopatici. La conclusione della metanalisi è che, in sé e per sé, le medicine omeopatiche non sono efficaci o, per essere più precisi, hanno un’efficacia pari al placebo.

L’editoriale prende spunto da questa conclusione per giungere ad affermare che dunque si tratta di "acqua fresca".

La contraddizione tra le due ricerche è evidente. Il placebo di fatto spesso è acqua fresca, ma il suo effetto terapeutico, per quanto non costante, è ormai riconosciuto, come pure il meccanismo psicobiologico che lo produce. Se il farmaco omeopatico funziona come un (costoso) placebo, omologarlo all’acqua fresca può essere giustificato da un punto di vista chimico, data l’estrema diluizione delle sostanze, ma non sotto il profilo terapaeutico. Tutt’al più si può sostenere che esso è meno efficace chimicamente di un farmaco tradizionale. Di sicuro, però, per quanto riguarda gli effetti collaterali, è anche meno dannoso.

Sulla base dei dati forniti dalla metanalisi, The Lancet giunge a due conclusioni.

La prima è che i medici che praticano l’omeopatia devono dire chiaro e tondo ai propri assistiti che le cure omeopatiche non danno alcun beneficio (dal punto di vista chimico). Da un punto di vista scientifico non si tratta di una novità. Il principio su cui si fondano i farmaci omeopatici è che una sostanza, per non arrecare danni all’organismo, deve essere estremamente diluita. Ma la diluizione delle sostanze curative è così estrema che nel prodotto finale non c’è praticamente traccia della sostanza originale. Tranne che a non volere invocare confusi concetti inerenti l’equilibrio energetico dell’organismo e il suo fondarsi su minimali rapporti tra sostanze biochimiche in opposizione, da un punto di vista chimico e farmacologico i prodotti omeopatici sono inerti.

La seconda conclusione, abbastanza sorprendente in quanto non scientifica in senso stretto, è che i medici tradizionali devono riflettere sulla richiesta di attenzione e di cure personalizzate avanzate, in maniera più o meno esplicita, dai loro pazienti. Questa conclusione implica che l’efficacia della medicina omeopatica che, entro certi limiti è inconfutabile, si fonda sulla capacità dei medici omeopati di accogliere e rispondere ai bisogni dei pazienti in un modo complessivamente più rispettoso della loro soggettività rispetto ai medici tradizionali.

2.

E’ facile prevedere che i medici omeopati non daranno ascolto alla sollecitazione etica di The Lancet. Se, infatti, i farmaci che essi prescrivono funzionano come un placebo, almeno in un certo numero di casi, in conseguenza del particolare tipo di rapporto che essi stabiliscono con i pazienti, comunicare a questi che essi prendono l’acqua fresca annullerebbe tale effetto. Se l’omeopatia è destinata a finire, è improbabile che finisca con un suicidio.

C’è da pensare, piuttosto, che la potente corporazione della medicina tradizionale, spalleggiata dalle industrie farmaceutiche, tenterà di attivarsi a livello politico per imporre una legge che regoli le pratiche terapeutiche, ostacolando al massimo grado il ricorso all’omeopatia (e alle altre tecniche alternative). La corporazione degli omeopati si difenderà, presumibilmente, accampando il diritto dei pazienti di scegliere liberamente il tipo di cura da effettuare.

La polemica, insomma, è destinata a protrarsi.

Il modo migliore per non farsi coinvolgere dagli interessi in campo consiste nel mettere da parte le argomentazioni dei medici tradizionali e di quelli omeopati (che sono peraltro entrambe da sempre stereotipiche) e approfondire le tematiche che stanno a monte.

Il problema del rapporto dell’uomo con la malattia è ovviamente un problema originario. Per quanto la comparsa evolutiva della specie umana sia avvolta ancora da una fitta nebbia, nessuno pone in dubbio che essa è stata caratterizzata dall’acquisizione di un certo grado di consapevolezza inerente la vulnerabilità, l’esposizione al dolore e la fatalità della morte. A tale consapevolezza, mai accettata pienamente come conseguenza dell’essere un organismo biologico, l’umanità ha opposto interpretazioni atte a negarla e soluzioni immaginarie.

Per quanto riguarda le prime, basta pensare che il concetto di morte naturale, che oggi sembra ovvio, si è imposto solo da alcuni secoli con la nascita della scienza. Per un periodo sterminatamente lungo della sua storia, l’umanità ha "preferito" pensare che la morte fosse dovuta all’azione di spiriti maligni o ad una decisione inappellabile, punitiva o "provvidenziale" (vale a dire imperscrutabile nelle sue ragioni), degli dei o di un Dio.

Su questo sfondo, non c’è da sorprendersi che le soluzioni cui l’umanità si è rivolta nel corso del tempo siano state magico-religiose. Come attestano ancora oggi gli studi di antropologia medica, che analizzano le pratiche terapeutiche sciamaniche ancora diffuse per esempio in Africa, gli esseri umani hanno assolutamente bisogno di credere che qualcuno abbia un potere atto a contrastare i mali che incombono sull’esistenza.

Identificare nella medicina la scienza che ha operato un passaggio radicale dal modo magico-religioso di affrontare le malattie al modo positivistico è improprio. Primo, perché se l’impianto teorico della medicina è di tipo biologico, nella pratica quotidiana essa utilizza ampiamente l’effetto placebo.

Non è un mistero che, degli oltre diecimila farmaci attualmente in commercio in Italia, quelli la cui efficacia è certa scientificamente sono non più di cinquecento. Per gli altri si ammette uno spettro di efficacia chimica che declina lentamente sino ad arrivare ad un’area piuttosto ampia laddove quell’efficacia si può ritenere ragionevolmente inesistente. Gli epatoprotettori, i ricostituenti del sistema nervoso, i prodotti polivitaminici sono solo alcune delle categorie che rientrano in tale area. I pazienti che ne ricavano vantaggio, lo ricavano presumibilmente dall’effetto placebo.

Il secondo aspetto è ancora più complesso. Ormai è universalmente ammesso che due terzi dei pazienti che si rivolgono ai medici soffrono essenzialmente di sintomi psicosomatici o addirittura psicogeni. In teoria, essi non dovrebbero ricavare alcun vantaggio da prescrizioni terapeutiche che spesso si fondano su diagnosi prive di qualunque scientificità. In un numero consistente di casi, il vantaggio invece si dà.

E’ evidente che la medicina positivistica sfrutta ampiamente l’effetto placebo, anche se stenta a riconoscerlo. Il problema è che tale effetto dipende, come accennato, dal rapporto di fiducia che il paziente ha nei confronti del medico.

Se si dà, a livello di psicosociologia contemporanea, un aspetto sorprendente, è il persistere di quella fiducia nonostante il comportamento dei medici, quasi universalmente ormai affannati a tutelare i loro interessi, lo metta a dura prova. Il rivolgersi verso pratiche terapeutiche alternative, per quanto sia un indubbio segno del declino della fiducia nei confronti della classe medica allopatica, è un fenomeno crescente, ma sostanzialmente ancora minoritario. Il bisogno di credere nella medicina tradizionale è, dunque ancora elevato.

3.

A questo punto, per approfondire il discorso, occorre fare un salto di qualità concettuale. Nell’immaginario collettivo, la medicina e il suo armamentario diagnostico e terapeutico rappresentano un patrimonio nel quale l’umanità legge una delle espressioni più elevate della solidarietà sociale. Sulla base di un’universale vulnerabilità, tale per cui ogni organismo può essere "aggredito" dal male, la medicina si pone come espressione di un sapere rivolto, nella pratica, a fornire aiuto da parte di chi sta bene a coloro che ne hanno bisogno. E’ dunque, culturalmente, uno dei modi attraverso i quali l’appartenenza e il legame sociale si configurano come un orizzonte non trascendibile dell’esperienza umana e definiscono un codice di diritti e di doveri assoluti. Chi sta male ha diritto ad essere curato, e chi sta bene il dovere di curare.

Il diritto alla salute, di cui si parla tanto nel nostro mondo, è in realtà un bisogno sociale recepito dalla collettività in nome del fatto che tutti gli uomini sanno di essere esposti al rischio di ammalare e di potersi trovare in condizione di avere bisogno di aiuto.

Questa osservazione sembra ovvia. Di fatto lo diventa solo nel momento in cui ci si ferma a riflettere. Peraltro, nella sua ovvietà, essa implica non pochi problemi.

Per portarla alle estreme conseguenze, occorre intanto mettere da parte un’interpretazione psicologista del rapporto del paziente con la medicina. Secondo tale interpretazione, questo rapporto rievoca quello originario tra infante e caretaker (la madre, il padre o chi si prende cura di lui). In questa ottica, la malattia induce comunemente una regressione simbolica per cui il curante assume, nell’immaginario soggettivo, la stessa illusoria onnipotenza dei caretakers.

E’ difficile negare quanto c’è di vero in questo, se non altro perché ciascuno può toccare con mano la regressione che sopravviene in rapporto ad una qualsivoglia malattia. Ma non è tutta la verità. Se ci si affranca da un’ottica psicologista, infatti, risulta immediatamente chiaro che la relazione tra infante e caretaker è la prima forma in cui il legame sociale si esprime sotto forma di aiuto ad un essere a tal punto bisognoso (se si vuole, ontologicamente malato) da essere destinato a morte se non lo riceve. Tale forma è straordinariamente importante, ma, depurata delle valenze affettive che la caratterizzano, essa implica che un soggetto in stato di bisogno naturalmente si rivolge all’Altro come referente da cui ricevere aiuto.

Tenendo conto di questo, non sorprende che, via via che la società si è complessificata, le pratiche di aiuto si sono istituzionalizzate.

Ciò è accaduto in primis a livello di religione, che ha preteso e pretende di curare il male radicale dell’uomo, il suo sentirsi un fuscello nella corrente turbolenta del tempo, destinato a finire. Prima dell’avvento della classe sacerdotale, i riti religiosi, che miravano univocamente a scongiurare i mali e a corroborare la vita, erano officiati nello spazio domestico dal Padre.

Analogo sviluppo è accaduto in rapporto ai problemi della salute, via via che gli uomini hanno preso atto dell’insufficienza della religione. Le pratiche terapeutiche collettive, su cui ha tanto insistito Illich, sopravvivono ancora sotto forma di consigli che vengono dati a chi sta male. Originariamente, anche lo sciamano, all’interno del gruppo, era in ultima analisi uno di famiglia.

Il progresso della medicina ha prodotto la definizione del ruolo sociale del medico, vale a dire di un tecnico cui ci si rivolge anche senza che si dia alcun precedente rapporto. A questa burocratizzazione del legame sociale di aiuto, gli uomni hanno opposto sempre e continuano ad opporre qualche resistenza. La nostalgia del medico di famiglia, di colui che sapeva vita, morte e miracoli di tutti i membri, e quindi era avvantaggiato nel decifrare le malattie che potevano occorre, è suficientemente indiziaria della tendenza a personificare la relazione con il curante. Non meno lo è il fatto che la scelta del medico cui affidarsi passa attraverso la consultazione della rete parentale e amicale, finalizzata a stabilire una fiducia preliminare sulla base dell’esperienza di altri che hanno avuto vantaggio dalla cura.

Se si volesse, però, cogliere il significato profondo della medicina come riconoscimento del diritto che il soggetto ha di essere aiutato dal gruppo cui appartiene, occorrerebbe ricondursi ad una situazione esemplare.

Un criminale assalta una banca e nello scontro a fuoco con la polizia uccide e viene ferito. In quanto reo, egli ha il dovere di pagare penalmente ciò che ha fatto: subirà un processo e sconterà il suo debito nei confronti della società. In quanto soggetto ferito egli è però trasportato immediatamente in ospedale, ove riceve le cure di cui ha bisogno le quali prescindono da ciò che ha fatto. Il suo diritto, insomma, ad essere curato, vale a dire ad avvalersi della disponibilità del gruppo nei confronti di chi ha bisogno di aiuto, prevale immediatamente rispetto al suo debito.

4.

Le considerazioni fatte orientano a capire le valenze complesse che sottendono il rapporto che i soggetti intrattengono con il male per un verso e con la medicina per un altro.

In questa ottica, l’effetto placebo non è misterioso. Esso attesta semplicemente che alcune potenzialità terapeutiche intrinseche all’organismo psicofisico si attivano e si realizzano solo laddove esse vengono promosse da un legame sociale che, a livello inconscio, si configura come benefico. Da questo punto di vista, le competenze tecniche del medico sono significative, ma, tranne i casi in cui si realizza una situazione di urgenza tale per cui il rapporto tra paziente e medico diventa insignificante (per esempio incidenti stradali che portano il paziente privo di coscienza in sala operatoria), esse sono efficaci o maggiormente efficaci se e solo se il soggetto le vive come cure che l’Altro presta a lui.

Non si stenta a capire perché in una società competitiva come la nostra, nella quale la relazione con l’Altro si configura sempre più spesso come potenzialmente nociva o, nella migliore delle ipotesi, disturbante e frustrante, il bisogno di credere che il legame sociale possa essere anche benefico si incrementa e, in virtù di ciò, si incrementa l’effetto placebo.

Trasformandosi in una tecnica che, al limite, estrapola dal rapporto tra paziente e medico quello tra il curante e l’organo malato che egli intende guarire, la medicina tradizionale manifesta una certa incompetenza su come è fatto l’uomo e suoi suoi significati storici, culturali e simbolici.

Non è superfluo aggiungere che, se l’oggettivazione del male, come ente di cui il paziente è affetto e portatore e da cui il tecnico deve affrancarlo, induce effetti negativi in tutto l’ambito della pratica medica, promuovendo nei pazienti la ricerca di pratiche terapeutiche che valorizzano il legame sociale, nell’ambito psichiatrico essa è assolutamente nefasta. Pure è proprio in questo ambito, nel quale più che in ogni altro la sofferenza del soggetto si intreccia con l’intera sua esperienza di vita, che la neopsichiatria porta alle estreme conseguenze quella oggettivazione. I neopsichiatri, infatti, si fanno carico del disturbo cerebrale che produce la malattia e intendono curarlo con le medicine che prescrivono come si fa con gli antibiotici in caso di polmonite.

Quasi tutti i casi di resistenza nei confronti delle cure, che, nel caso della depressione e della schizofrenia sono statisticamente rilevanti, possono essere attribuiti alla protesta inconscia dei pazienti nei confronti del modo in cui i neopsichiatri si rapportano ad essi: un modo impregnato spesso da un sottile disprezzo, dato che essi sono i sacerdoti della normalità corrente.

Se questo è vero, non lo è di meno il fatto che un numero consistente di miglioramenti che sopravvengono in seguito a cure farmacologiche, disssociate da qualunque interesse per la vita reale e interiore del paziente, si può ricondurre ad un effetto placebo. E’ la fede dei pazienti nel legame sociale di aiuto a smuovere la montagna dell’indifferenza dei neopsichiatri.