La resa dei conti.

Sulla crisi del sistema capitalistico

1.

Nella postilla all’articolo precedente rilevavo che, di fronte ad una crisi di liquidità che prende origine dai mutui subprime ma investe tutto il sistema bancario occidentale, che ha fatto montagne di denaro vendendo ad ignari piccoli investitori titoli il cui valore nominale non corrispondeva a quello reale (titoli-spazzatura), e rischia di innescare una reazione a catena recessiva a livello mondiale, tutti coloro che, direttamente o indirettamente, sono coinvolti in questo nuovo scandalo cercano di prendere le distanze, di giustificarsi o di procurarsi un alibi.

L’elenco dei personaggi – banchieri, manager, speculatori, ministri del tesoro, ecc. – sarebbe lungo. Un posto di spicco, però, spetta all’ineffabile Alan Greenspan che, andato in pensione con il titolo di salvatore della Patria, ha subito sfruttato l’onda positiva per produrre un libro di memorie costato all’editore una cifra esorbitante. Nel libro, Greenspan prende le distanze dalla politica economica dell’Amministrazione Bush, che gli sarebbe in qualche misura stata imposta: affermazione ridicola perché negli Stati Uniti il Presidente della FED risponde del suo operato solo al Congresso e non al Presidente o al suo staff. Non contento di ciò, Greenspan aggiunge di non essere intervenuto ad arginare la bolla speculativa immobiliare perché non è stato in grado di valutarne l’entità e le conseguenze. Affermazione anche questa falsa: primo, perché a quella bolla egli ha fatto riferimento più volte negli ultimi due anni del suo mandato; secondo, perché, se fosse vera, implicherebbe un’incapacità di controllo della FED sulle banche che da essa dipendono assolutamente inquietante; terzo, perché la bolla borsistica del 2001, ampiamente prevista dall’interessato, non è stata in alcun modo scongiurata.

A questo singolare personaggio, Naomi Klein ha dedicato grande attenzione nel suo ultimo libro. In un’intervista, essa riassume così le sue idee a riguardo:

“Il libero mercato che piace a Greenspan

Allo slanciato studente in visita negli Stati Uniti dalla Svezia la mia battuta non è bastata. Voleva una risposta come si deve. "Non è pensabile che siano guidati dall'avidità e dal potere. deve esserci qualcosa di più nobile, ma che cosa?". Non sottovalutate mai potere e avidità - avevo replicato - hanno portato alla creazione di imperi. Ma lui ha insistito, voleva saperne di più. "Che ne pensa della possibilità che siano convinti di costruire un mondo migliore?".

Da quando ho iniziato a promuovere il mio libro 'Shock economy' in giro per il Paese, mi è capitato più volte uno scambio di battute come questo con il pubblico, un dialogo che verte sempre su uno stesso interrogativo di fondo: "Quando i leader politici di destra e i loro consiglieri danno vita a un'aggressiva terapia economica shock, credono sul serio, in tutta onestà, che gli effetti di ricaduta porteranno a una società più equa, oppure creano di proposito le condizioni per un'ulteriore frenetica concorrenza tra le varie aziende?". Volendo essere più chiari: da trent'anni a questa parte il mondo è stato trasformato da una nobile ideologia o da meschina avidità?

Una risposta definitiva a questo interrogativo richiederebbe di leggere nel cervello di uomini quali Dick Cheney e Paul Bremer e, di conseguenza, io tendo a svicolare. L'ideologia in questione afferma che il motore che spinge la società ai suoi più eccelsi risultati è l'interesse personale. Perseguire il proprio interesse (e quello dei benefattori delle proprie campagne) non è compatibile con quella filosofia? Questo è il bello: non devono scegliere. Purtroppo tutto ciò di rado soddisfa gli studenti già laureati che cercano un significato più profondo. Per fortuna, però, adesso ho trovato una scappatoia: posso citare Alan Greenspan.

La sua autobiografia, 'L'età della turbolenza', è stata reclamizzata come la soluzione a un mistero: l'uomo che da capo della Federal Reserve si è morso la lingua per 18 anni finalmente rivela al mondo in che cosa crede davvero. Greenspan non ha deluso: ha usato il suo libro e la relativa campagna promozionale alla stregua di una piattaforma per la propria ideologia 'libertaria repubblicana'. Ha criticato George W. Bush per aver abbandonato la crociata per lo 'small government', e ha rivelato che è diventato un politico che prende decisioni perché convinto di poter portare avanti meglio la sua ideologia radicale "da addetto ai lavori, piuttosto che da scrittore di pamphlet". Tuttavia, ciò che più interessa del libro di Greenspan è quanto esso rivela sull'ambiguo ruolo delle idee nella crociata del libero mercato. Considerando che Greenspan è probabilmente l'ideologo vivente del libero mercato più potente al mondo, è significativo che il suo attaccamento nei confronti dell'ideologia paia abbastanza inconsistente e di circostanza, più un comodo pretesto che uno scrupoloso principio.

Buona parte del dibattito sull'eredità di Greenspan ha riguardato la questione dell'ipocrisia, quella di un uomo che se da un lato predicava il 'laissez faire' (principio proprio del liberismo economico, favorevole al non intervento dello Stato, ndr), al contempo interveniva ripetutamente nel mercato per salvarne i protagonisti più facoltosi. L'economia che Greenspan ha lasciato dietro di sé difficilmente è ritenuta conforme alla definizione di mercato libertario, ma pare molto affine a un ulteriore fenomeno descritto nel suo libro: "Quando i leader di un governo scovano regolarmente singoli individui o aziende del settore privato e in cambio di sostegno politico accordano loro favori, si dice che la società è nella morsa del 'capitalismo nepotista'". Con questa frase Greenspan si riferiva all'Indonesia sotto il regime di Suharto, ma il mio pensiero è volato immediatamente all'Iraq sotto l'Halliburton.

Greenspan sta attualmente mettendo in guardia il mondo dalla pericolosa e incombente reazione violenta contro il capitalismo. Apparentemente, ciò non ha assolutamente nulla a che vedere con le politiche di negligente deregulation che erano il suo segno distintivo. Niente a che vedere neanche con le retribuzioni stagnanti dovute al libero commercio e ai sindacati più deboli. Niente a che vedere neppure con le pensioni andate in fumo per il caso Enron o il crollo delle dot-com, o le abitazioni confiscate per la crisi dei mutui subprime. Secondo Greenspan, infatti, la sempre più evidente e marcata sperequazione sarebbe provocata da scuole superiori che fanno schifo (e anche questo non ha nulla a che vedere con la sua guerra ideologica alla sfera pubblica). Ho parlato di Greenspan nel programma 'Democracy Now!' qualche tempo fa: ero profondamente impressionata da questo signore che predica la dottrina della responsabilità personale, ma si rifiuta di assumersi le proprie.

Nondimeno, le contraddizioni ideologiche sono rilevanti soltanto se Greenspan è uno che ci crede veramente. Io non ne sono convinta. Greenspan scrive che quando era studente non nutriva granché interesse per i grandi ideali. A differenza dei suoi compagni di studi che erano stregati dal keynesianismo e dalla relativa promessa di realizzare un mondo migliore, Greenspan molto semplicemente era bravo in matematica. In seguito ha iniziato a svolgere ricerche per potenti corporation e ha avuto successo, ma non ha mai rivendicato un contributo sociale maggiore.

Successivamente ha scoperto la scrittrice e filosofa Ayn Rand. "Ciò che ha significato per me. è stato comprendere perché il capitalismo sia non soltanto valido e pratico, ma anche morale", disse nel 1974. Le idee di Rand sull''utopia dell'avidità' permisero a Greenspan di continuare a fare ciò che stava facendo, ma infusero un potente e nuovo senso di missione nel servizio che egli svolgeva per le corporation. Guadagnare non era un bene soltanto per lui: lo era per la società nel suo complesso. Naturalmente, sull'altra faccia della medaglia c'è un cinico disinteresse per quanti restano indietro. "Fermezza senza tentennamenti e razionalità portano a gioia e a soddisfazione", scrisse Greenspan da novello convertito pieno di zelo: "I parassiti che eludono continuamente la fermezza o la ragione soccombono, come è giusto che sia". È stato questo modo di ragionare ad aiutarlo quando si dichiarò favorevole alla terapia shock in Russia (72 milioni di persone si impoverirono) e in Asia Orientale dopo la crisi economica del 1997 (24 milioni di persone si ritrovarono disoccupate)?

Rand ha avuto questa stessa funzione di incitamento all'avidità per innumerevoli discepoli. Secondo il 'New York Times', il suo romanzo 'La rivolta di Atlante', che si conclude con il protagonista che traccia nell'aria il segno del dollaro a mo' di benedizione, resta "uno dei più autorevoli libri d'affari mai scritti". Considerato però che Rand è semplicemente un'esasperazione di Adam Smith, il suo ascendente su uomini come Greenspan fa intravedere un'interessante possibilità. Forse il vero obiettivo di tutta la letteratura sulla 'trickle down theory' (teoria secondo la quale il denaro pubblico distribuito attraverso le grandi imprese ha più effetti positivi di quello distribuito direttamente ai cittadini, ndr), consiste nell'affrancare gli imprenditori affinché perseguano il loro più piccolo vantaggio nel momento stesso in cui affermano di avere motivazioni altruistiche globali. Non si tratterebbe pertanto di una filosofia economica, quanto piuttosto di un'elaborata logica retroattiva.

Ciò che Greenspan ci insegna è che la 'trickle-down theory' non è davvero un'ideologia, tutto sommato. È più simile all'amico che chiamiamo dopo esserci lasciati andare a qualche imbarazzante eccesso affinché ci dica: "Non sentirti in colpa, te lo meritavi".

copyright Naomi Klein - 'L'espresso' traduzione di Anna Bissanti”

2.

Al di là della sua adozione nella cornice della teoria delle scelte razionali, secondo la quale gli agenti economici si attengono comunque a regole di impiego razionale delle risorse di cui dispongono, la psicoeconomia non ha avuto alcuno sviluppo significativo all’interno delle scienze e conomiche. Certo, lo spostamento dell’interesse dall’offerta (produzione) alla domanda (consumo) ha portato le aziende a cooptare valanghe di sociologi e psicologi nello studio delle motivazioni che muovono i consumatori; il problema dell’efficienza produttiva ha indotto le grandi aziende a inserire nella loro struttura psicologi e addirittura filosofi al fine di motivare sempre più i dipendenti; le ricorrenti fluttuazioni dei cicli economici e della Borsa hanno attivato un vivo interesse sulla psicologia degli investitori; ecc.

Si tratta, però, in tutti questi casi, di un impiego strumentale delle discipline psicologiche, vale a dire del loro uso all’interno della logica di un sistema autoperpetuantesi.

Il problema del come e perché un modello socioeconomico i cui svantaggi, considerati sulla scala globale della sua incidenza sui destini dell’umanità, sia giunto ad affermarsi e a prevalere su tutti gli altri, avvalendosi di connivenze ad ogni livello del corpo sociale (compresa purtroppo la classe operaia e quella degli intellettuali), rimane un mistero denso e inquietante.

Per sondarlo occorrerebbe, al solito, ricondursi alla lezione di Marx, che descrive il capitalismo come un enorme ingranaggio il quale, una volta avviatosi sulla base della scoperta di poter sfruttare le risorse naturali in una misura incommensurabile rispetto al passato, per via della razionalizzazione dei processi produttivi, sfugge al controllo degli apprendisti-stregoni che lo hanno creato – i capitalisti -, che diventano essi stessi pedine dell’ingranaggio.

Le osservazioni di N. Klein su Greenspan sono puntuali, ma esse, in ultima analisi, pongono in luce la tendenza che tutti gli uomini hanno ad adattare la loro ideologia alla pratica della vita e a giustificare i loro comportamenti associando ad essi valori positivi (almeno in senso soggettivo), vale a dire a sviluppare un’immagine di sé e del mondo più o meno mistificata. Leggere dietro questa tendenza una consapevolezza e un’intenzionalità, ammettere cioè che essi mentano sapendo di mentire è un’ingenuità, che soddisfa il bisogno di privilegiare comunque i livelli di coscienza rispetto alla realtà psicologica dell’essere umano.

Per quanto questo articolo ha come intento di analizzare la crisi del sistema in termini oggettivi, economici e storici, non penso sia possibile prescindere dal fatto che i comportamenti degli agenti economici riconoscono per un verso livelli elevati di mistificazione ideologica e per un altro livelli di condizionamento coercitivo da parte del sistema contro cui essi nulla (o quasi) possono.

Se è vero, come sostiene Fromm, in Psicoanalisi della società contemporanea, che nel corso dell’ultimo secolo è avvenuta una transizione da una cultura gerarchica che comportava il riferimento ad un’Autorità personale ad una cultura degerarchizzata ma dominata da un’Autorità impersonale, questa transizione trova riscontro anche nell’organizzazione del sistema economico capitalistico. All’avvio del sistema esisteva il Padrone, che era anche il detentore del Capitale. Successivamente, il Padrone, rimanendo detentore del Capitale, ha ceduto il suo ruolo gestionale ai Manager. L’era dei Manager sembra volgere al tramonto in nome del fatto che il loro potere è scalzato dalla Logica stessa impersonale del Capitale, che impone a tutti gli agenti economici la sua crescita ad ogni costo, e quindi anche al costo di trascurare i principi aurei del management e di violare le leggi.

Questa Logica impersonale consente di spiegare lo status quo e le vicissitudini dell’economia contemporanea in una maniera oggettiva, che prescinde al tempo stesso dall’idealizzazione del sistema e dalla sua demonizzazione.

Ad un approccio del genere di solito si obbietta che il Capitale non è un Golem. Esso si riduce ad una massa imponente di denaro alla ricerca di investimento che riconosce pur sempre dei proprietari privati. E’ senz’altro vero, ma, se si prescinde dall’auri sacra fames, che incide ma non al punto di giustificare comportamenti che pongono a rischio la perpetuazione del sistema, ci si trova di fronte ad un cambiamento rilevante della psicologia dei detentori di Capitale. Il cambiamento è da ricondurre al fatto che essi sono stati contaminati da un’ideologia che identifica nel denaro una merce deperibile, per cui, se esso non viene investito e non dà frutto, il rischio è tout-court la sua vanificazione.

Non c’è nulla di vero in questa ideologia. L’unico pericolo che il potere d’acquisto del denaro corre è l’erosione da parte dell’inflazione. Per porlo al riparo da tale pericolo, e salvaguardare dunque il patrimonio personale, basta un investimento in Titoli del Tesoro, che, tra l’altro, comporta un prestito allo Stato, e dunque alla collettività. A questa forma di investimento, però, i gestori dei patrimoni si arrendono solo nei momenti in cui la situazione finanziaria internazionale si annuvola e lascia pensare ad una tempesta. Non appena si dà una schiarita, il diktat è l’investimento a due cifre: l’investimento, dunque, a rischio medio o elevato.

E’ per ridurre tale rischio, ovviamente intollerabile nell’ottica dell’ideologia del deperimento del Capitale, che, negli ultimi anni, sono state messe a punto strategie fondate sui derivati che hanno prodotto il terremoto tuttora in atto.

Ho già fatto cenno, nell’articolo precedente, al vano tentativo di identificare i responsabili del disastro.

La verità, detta in parole povere, è che tutti sapevano e tutti (eccezion fatta per due-tre eccezioni) hanno chiuso gli occhi: in parte per i propri interessi, in parte perché la convinzione che il sistema capitalistico non ha alternative comporta la previsione che, in caso di una crisi epocale, i governi e le banche centrali non possono non intervenire per salvare la baracca.

In una nota ironica pubblicata su Repubblica (22.11. 2007), Edward Hadas (Traduzioni a cura di MTC) riassume le ragioni per cui Wall Street (epicentro dell’economia mondiale e costantemente coinvolta negli scandali finanziari degli ultimi anni) può ringraziare il cielo:

“1) La prosperità del passato: i problemi di oggi seguono molti decenni di espansione, tanto che dal 1990 a oggi il contributo del settore finanziario al Pil statunitense è passato dal 5 all'8%. L'aumento del rapporto tra indebitamento e Pil non farà piacere a economisti e politici, però va benissimo per i finanzieri.

2) La prosperità del presente: l'economia continua a tirare e l'espansione prosegue impetuosa in vaste regioni del mondo. Le gratifiche maturate nei primi 9 mesi dell'anno nelle sette maggiori banche d'investimento statunitensi hanno toccato quota 95 miliardi di dollari (+10%), e anche dopo le ingenti svalutazioni contabili di Citigroup e di altri istituti, non sembra che diminuiranno più del 10%.

3) Un'amministrazione ben disposta verso il mercato: gli Usa non sono governati da anticapitalisti come il venezuelano Hugo Chávez e la Federal Reserve di solito interviene sulle bolle speculative solo quando sono già scoppiate, lasciando agli operatori il tempo di arricchirsi.

4) L'atteggiamento del prossimo presidente, che non avrà interesse a perseguire un programma ostile alla finanza e a ripristinare normative severe che potrebbero penalizzare gli utili. Wall Street eviterà così di pagare le difficoltà del settore immobiliare.

5) Il sistema giudiziario: in Cina i reati finanziari possono portare davanti al plotone d'esecuzione, ma negli Usa chi l'ha fatta grossa raramente finisce in gattabuia se ha i soldi per pagarsi bravi avvocati.

6) La corporate governance: per chi ha successo le ricompense sono cospicue, anche quando i dirigenti sbagliano. Nel 1621 i Padri Pellegrini celebrarono il primo Thanksgiving Day ringraziando il cielo di avere abbastanza cibo per superare l'inverno, ma i 160 milioni di dollari di liquidazione pagati a Stan O'Neal da Merrill Lynch gli basteranno per nutrirsi per 30.000 anni.

7) Il potere del dollaro: grazie a mezzo secolo di predominio, 8.000 miliardi di dollari di debito estero sono denominati nella valuta nazionale, altrimenti a quest'ora si parlerebbe di bancarotta e non di rincaro delle vacanze in Europa.

8) La politica economica cinese: nessuno ha capito perché la Cina è disposta a scambiare beni di consumo a buon mercato con ingenti quantità di titoli denominati in dollari. In caso contrario i consumatori statunitensi non potrebbero continuare a spendere e spandere.

9) Gli errori del passato: i crediti inesigibili possono mettere gli azionisti in ginocchio e far rabbrividire gli obbligazionisti, ma in America si guarda al lato positivo delle cose e per gli esperti di ristrutturazioni aziendali ci sarà tanto lavoro ben pagato.

10) L'esperienza: il Padre Pellegrino Robert Cushman nel 1621 predicava di «accontentarsi senza lamentele delle privazioni e difficoltà che la provvidenza di Dio vorrà inviarle». Nel turbolento contesto del 2007 può offrire qualche conforto in più rispetto ai passati anni delle vacche grasse.”

Al di là dell’ironia, occorre prendere atto di una realtà che ormai è sotto gli occhi di tutti: la crisi del capitalismo è maturata in seno alla nazione – gli Usa – che, da sempre, lo ha adottato come modello di sviluppo socioeconomico definitivo nella storia del mondo e, dunque, non sormontabile. La potenza degli Stati Uniti che, con la battuta d’arresto della crisi del ’29, è cresciuta lungo tutto l’arco del XX secolo, è finita con il proporre prima e con l’imporre poi (con la globalizzazione mondiale del mercato), tale modello a tutto il mondo. Si tratta di un modello totalmente impregnato dell’ideologia del denaro deperibile, e che fa proprio il verbo della crescita ad ogni costo. Tale ideologia permette di comprendere non solo la dedizione ossessiva dei cittadini statunitensi al lavoro (eccezion fatta, ovviamente, per la quota crescente di disoccupati), ma anche le loro infauste scelte politiche a favore di un’Amministrazione il cui programma comportava la progressiva concentrazione dei Capitali verso l’alto, sulla base del principio per cui essa avrebbe prodotto uno sviluppo che sarebbe ricaduto a vantaggio di tutti.

Lo scetticismo a riguardo sta serpeggiando ampiamente anche nella società americana. Al di fuori degli Usa, più che di scetticismo si può parlare di una crisi di fiducia abbastanza profonda nei confronti delle magnifiche sorti e progressive del capitalismo da essi imposto al mondo intero.

Dove andrà a parare questa crisi nessuno lo sa. Gli ottimisti ritengono che, come è accaduto spesso nella storia del capitalismo, si tratta di una tempesta passeggera, al di là della quale lo sviluppo è destinato a proseguire. I pessimisti leggono in essa una crisi epocale.

In termini di analisi oggettiva, questi ultimi hanno senz’altro ragione. Per quanto tempo, infatti, la macchina del capitalismo può continuare a filare liscia sul ghiaccio stravolgendo gli equilibri sociali ed ecologici del pianeta? Per quanto tempo gli Stati Uniti possono pretendere di far leva sulla loro egemonia per alimentare un tenore di vita che va al di là di ciò che producono e di farsi mantenere dagli altri paesi?

3.

Lungamente rimandata (en passant mi preme osservare cha dal mio osservatorio di non specialista ho definito epocale la crisi del sistema a partire dal 2001), la resa dei conti sembra infine giunta. Dopo anni di vaniloqui sulla salute dell’economia americana, che evidentemente si fondava sulla capacità di nascondere la spazzatura sotto il tappeto, parecchi economisti ormai sono d’accordo che gli Usa procedono verso un’inevitabile recessione.

Del 10 settembre sono i seguenti articoli pubblicati sul supplemento Affari & Finanza di Repubblica:

"Nouriel Roubini

La crisi Usa può contagiare il mondo

Le preoccupazioni e domande degli investitori, degli economisti e degli uomini politici sono in questo momento: riusciranno gli Stati Uniti a compiere un atterraggio morbido o subiranno un atterraggio brusco? L’attuale crisi dei mercati finanziari rappresenta un problema serio e persistente o una temporanea impennata della volatilità? La Fed ritoccherà i tassi di interesse e queste politiche monetarie contribuiranno a prevenire l’hard landing dell’economia? Il resto del mondo riuscirà a sganciarsi dal rallentamento economico degli Usa?

Le probabilità per un atterraggio brusco dell’economia statunitense (una recessione economica) erano già alte prima della crisi e dell’impennata della volatilità nei mercati finanziari dell’ estate. La crisi, però, manifestatasi sotto forma di una seria stretta creditizia e della liquidità, aumenta le probabilità di un hard landing. Siamo di fronte a un circolo vizioso, dove un’e conomia Usa che continua a indebolirsi aggrava ancor di più la stretta nei mercati finanziari e dove la stretta delle condizioni creditizie e della liquidità nei mercati finanziari indebolirà l’e conomia con un ulteriore crollo degli investimenti immobiliari e un rallentamento dei consumi e della spesa in conto capitale delle aziende.

Il rallentamento dell’economia statunitense peggiorerà nei prossimi trimestri per diversi motivi. Gli Stati Uniti stanno attraversando la più grave recessione nel settore immobiliare degli ultimi 30 anni: la domanda e l’offerta di case di nuova costruzione scende drasticamente da un anno e per la prima volta dalla Grande Depressione i prezzi delle case sono scesi su base annua. Prezzi che scenderanno molto di più nei prossimi due anni – di circa un 15% – per via di cinque fattori che gonfieranno ancor più il già enorme eccesso di case di nuova e vecchia costruzione disponibili, già alto a livelli storici. La stretta creditizia nei mutui ridurrà ulteriormente la domanda di case di nuova costruzione; milioni di famiglie che non onoreranno i mutui perderanno la casa e una volta rientrate in possesso di queste case le banche le riverseranno sul mercato incrementando un’offerta già eccessiva; nei prossimi 12 mesi sarà rinegoziato l’equivalente di mille miliardi in mutui a tasso variabile a tassi di interesse molto più alti e le famiglie che non saranno in grado di rinegoziarli o permettersi questi interessi più alti saranno costrette a vendere le case a prezzi stracciati; coloro che in condizioni patrimoniali non particolarmente agiate hanno comprato immobili a fini speculativi ora tenteranno di venderli anche se i prezzi scendono. Aspettatevi nei prossimi due anni una caduta dei prezzi degli immobili residenziali veloce e drastica.

Una crisi immobiliare non può comportare una recessione perché il settore rappresenta solo il 5% del pil, ma la valanga si sta riversando su altri settori: l’industria auto è in recessione, il manifatturiero rallenta, la domanda di beni durevoli legati alla casa (mobili, elettrodomestici) scende e l’occupazione e la creazione di posti di lavoro decresce.

Inoltre il consumo delle famiglie americane (70% della domanda aggregata) è in sofferenza. I consumatori non hanno risparmi, sono oberati dai debiti e in balia di forze negative. Finché i prezzi delle case crescevano (fino al 2006) era naturale per le famiglie usare il valore della casa come un Bancomat, accendendo crediti sulla base di immobili il cui valore aumentava. Ora che i prezzi scendono, si assiste ad una contrazione del consumo, la cui crescita è rallentata da una media del 4% fino al primo trimestre 2007 a un debole 1,3 nel secondo trimestre, e ciò prima dalla crisi estiva. I consumatori sono messi alle strette dal decremento del valore degli immobili che porta a un effetto di ricchezza negativa, dall’i mpossibilità di attingere al patrimonio immobiliare che spinge le famiglie a non spendere, dalla stretta creditizia che implica costi più alti per il servizio del debito; dall’indebolimento del mercato del lavoro (il numero degli occupati è sceso in agosto per la prima volta in 4 anni) che riduce le possibilità di generare reddito.

Ci si attende un ulteriore rallentamento del tasso di crescita. Se il consumo si contrae, lo stock di merci invendute spinge le aziende a rallentare la produzione, le assunzioni e le spese. Il flusso degli investimenti delle aziende si è già indebolito malgrado gli alti profitti. Vista l’aspettativa di una minore domanda dei consumatori, di un più elevato spread nel credito, dell’ incertezza sul futuro, ci si aspetta un’ulteriore contrazione degli investimenti. La rivalutazione del rischio implica un costo più alto del credito per consumatori, acquirenti di case, aziende, istituti finanziari. Oltre all’indebolimento dell’economia reale, nei prossimi mesi la confusione nei mercati finanziari peggiorerà. Il problema non è circoscritto ai mutui subprime: le stesse spericolate e intossicanti pratiche utilizzate per concedere credito a clienti ad alto rischio– nessun anticipo, nessuna verifica del reddito e del patrimonio, mutui che contemplavano il solo tasso di interesse, ammortamenti negativi, rate iniziali ridicolmente basse per attirare i clienti – sono state applicate a chi accendeva mutui ed era a rischio quasi nullo.

La stretta creditizia nel mercato dei mutui a rischio ha tracimato in quello a rischio nullo e in una varietà di mercati del credito: conti liquidità, prestiti interbancari, prestiti concessi a fronte di vari tipi di asset, strumenti strutturati delle banche, cartolarizzazione, mercati degli Lbo. Tutti sono bloccati. Questa stretta della liquidità e del credito peggiorerà man mano che la crisi dei mercati finanziari si rivelerà più grave di quella del 1998, che vide crollare l’Ltcm, il maggior hedge fund. Allora si pose solo il problema della liquidità, perché l’economia era in forte crescita (più del 4%), l’incremento della produttività era alto e gli Usa erano nel boom di Internet. Oggi, oltre ai problemi di liquidità dobbiamo affrontare problemi di credito e di insolvenza derivanti dal boom del credito che ha comportato un indebitamento eccessivo. Il problema di insolvenza riguarda milioni di famiglie americane; decine di istituti dei mutui subprime già falliti; decine di società di costruzioni messe alle strette; una serie di hedge fund e altri istituti ad alto leverage finiti gambe all’aria. L’aumento degli spread del credito porterà a un numero maggiore di fallimenti di imprese tenute artificialmente a galla grazie a condizioni del credito troppo favorevoli. I problemi di liquidità che si possono risolvere con iniezioni di moneta, per i problemi del credito non vale questa soluzione. L’allentamento della politica monetaria da parte della Fed non salverà l’economia e i mercati finanziari da un atterraggio duro perché sarà già troppo tardi. La Fed ha sottostimato la gravità della recessione immobiliare e il suo effetto tracimazione su altri settori.

I problemi del credito e le insolvenze non possono essere risolti solo con la politica monetaria. Le iniezioni di liquidità della Fed vengono trattenute dalle banche che accumulano riserve invece di riconcederle sotto forma di credito a quei settori dove la stretta creditizia peggiora. La globalizzazione , la cartolarizzazione e l’i nsorgere incontrollato di strumenti di credito complessi hanno portato a una maggior opacità nei mercati finanziari. Questa mancanza di trasparenza produce una incertezza incommensurabile invece di un rischio valutabile. Il rischio può essere valutato quando si ha una serie di probabilità per una serie di eventi. Ma l’ incertezza incommensurabile crea in condizioni di stress dei mercati una maggior avversione al rischio. L’incertezza proviene da due fonti: non conosciamo le dimensione delle perdite complessive dei mercati del credito (quello dei subprime potrebbe ammontare a 100 miliardi o più a seconda di quanto scenderanno i prezzi delle case); le perdite degli altri strumenti poco liquidi non sono misurabili in un mondo dove le istituzioni si sono misurate con i modelli piuttosto che con il mercato e le agenzie di rating, condizionate da conflitti di interesse, hanno accordato ai nuovi strumenti rating non corretti. La cartolarizzazione implica che i rischi si sono diffusi dalle banche fino agli angoli del sistema finanziario, e non sappiamo quali istituti detengano rifiuti tossici e falliranno per primi. Sono falliti istituti di aree lontane come l’Australia, l’Asia, la Francia, la Germania e il Canada per la loro esposizione a derivati del credito legati ai mutui subprime. È come girare ciechi in un campo minato quando non si ha la più pallida idea di dove siano le mine. Quest’incertezza suscita paura e mancanza di fiducia verso le controparti finanziarie: tutti vogliono accumulare liquidità e tenersi gli asset più sicuri, gli istituti finanziari non si fidano l’uno dell’a ltro e sono restii a concedere prestiti. La rivalutazione del rischio è un fenomeno permanente.

L’impennata del costo del credito rende più fragile un’economia già indebolita. E’ la prima crisi del mondo della globalizzazione e della cartolarizzazione. Può il resto del mondo sganciarsi da un rallentamento degli Usa? Il contagio finanziario ha colpito i mercati europei con la stessa forza. Per il contagio reale, se gli Usa riescono a compiere un atterraggio morbido, la spinta della crescita in Europa, Giappone, Asia, America Latina sarà sufficiente per consentire lo sganciamento. Ma se l’America affronta l’a tterraggio duro, possibilità sempre maggiore, l’idea che il resto del mondo possa sganciarsi dalla recessione è azzardata. Gli Stati Uniti rappresentano il 25% del pil mondiale: i vincoli commerciali, quelli dei tassi di cambio dettati da un dollaro debole, i canali di contagio finanziari, gli effetti sul consumatore, porteranno a un rallentamento. In un mondo globalizzato e in mercati finanziari integrati gli shock al centro del sistema hanno effetti dolorosi sul resto del mondo per i mercati finanziari e le economie reali.

traduzione di Guiomar Parada

 

"Eugenio Occorsio

Per gli Usa un serio rischio di recessione"

 

Intervista ad Allen Sinai, economista già consulente della Fed e di vari governi

«Le possibilità di una recessione in America sono enormemente aumentate dopo la crisi finanziaria di agosto e il susseguirsi di dati negativi sul mercato edilizio». Se dovesse fissare una percentuale? «Diciamo che oggi c'è secondo me un 35-40 per cento di probabilità che gli Stati Uniti finiscano in recessione nel corso del 2008». Allen Sinai non ha mai esagerato nel pessimismo, ma questa volta sembra davvero contrariato mentre scorriamo insieme al telefono, mercoledì sera della scorsa settimana, gli ultimi allarmanti dati sul comparto immobiliare in America.

Sono particolarmente i dati sul numero delle vendite di case esistenti in luglio, diminuite del 12,2% rispetto al mese precedente, e quindi finite sui minimi dall'infausto settembre 2001, ad inquietarlo. Il calo da un anno a questa parte è di ben il 16,1%. Ed è schizzato al 5,12 dal 4,39 per cento in un anno il tasso di delinquency, cioè di chi non riesce a restituire il mutuo. E un terzo di questi è in arretrato di più di 90 giorni. Ancora cifre drammatiche: nel 2006, stando all'agenzia specializzata RealTrack, le foreclosure (quando la banca si riappropria del mutuo vista la morosità) sono state 1,2 milioni, il 42% in più del 2005, e secondo la stessa agenzia potrebbero raggiungere i due milioni nel 2007: una ogni 62 case americane, quasi lo stesso livello dei tempi della Grande Depressione degli anni 30. Le autorità federali e locali stanno in tutta fretta emettendo regole e consigli a banche e cittadini su come ristrutturare i mutui.

Andiamo però con ordine. C'è una crisi del solo real estate, pur con tutte le conseguenze a catena che comporta, o dell'intera economia americana?

«Quando parlo di recessione intendo l'economia americana nel suo complesso. E in senso letterale: due trimestri consecutivi con una crescita negativa del pil. Questo potrebbe accadere come dicevo entro il 2008. Poi lentamente la situazione dovrebbe migliorare, ma dipenderà da come si comporteranno gli altri settori economici. Il comparto immobiliare è così importante che rischia di provocare un crollo dell'intera economia: vedremo se qualche altro settore sarà così forte da compensare questa crisi. Vorrei ricordarle che il settore edilizio è in recessione da quasi due anni».

Come? Ma se tutti dicono che il tutto è scoppiato quasi improvvisamente?

«No, noi seguiamo attentamente il mercato e questo è fermo in media, sia come numero di contratti che come prezzi, dal quarto trimestre del 2005.

Quello che non si è fermato e ora è precipitato, è l'indotto finanziario, che è quello che tanti guai sta provocando».

Non a caso forse proprio il 2005 è stato, con 625 miliardi di dollari in totale, l'anno record dei mutui subprime, nonché quello in cui Alan Greenspan, che stava per lasciare la Fed, li definì «un modo creativo e moderno di fare finanza».

«Non mi faccia entrare in polemiche di questo tipo. Greenspan è stato uno dei migliori presidenti della Fed che abbiamo mai avuto. Il fatto è che negli ultimi anni dall'indotto delle case, per le articolate strade che ormai tutti conosciamo, è derivato il maggior flusso finanziario rivolto da un lato ai Fondi d'investimento e dall'altro, e soprattutto, ai consumi grazie al refinancing effettuato con grande facilità da banche e finanziarie a fronte di valori immobiliari che non potevano crescere all'infinito. Ora tutto si è rotto, il mercato immobiliare è in rotta, i consumi stanno crollando. E quando i consumi crollano con questa violenza, servono anni e anni prima che si riprendano e tornino ai livelli che ricordiamo, quelli dell'anno scorso. Se ne riparlerà non prima della fine del 2009. Vede perché la crisi dell'edilizia non è una crisi di un qualsiasi settore come tanti altri?»

In questa situazione, come finirà il 2007?

«L'Ocse ha appena rivisto al ribasso le stime, abbassando la crescita del pil americano dal 2,1 all'1,9%. Secondo me si potrebbe scendere ancora più in basso, fino all'1,5. Per evitarlo bisognerebbe che nel quarto trimestre la crescita non fosse inferiore al 2%, ma mi sembra difficile. Il fattore chiave a questo punto è il comportamento della Fed. Secondo me abbasserà i tassi di un quarto di punto il 18 settembre, data della prossima riunione del comitato decisionale, e di un altro quarto entro la fine dell'anno. Non è pensabile che resti indifferente di fronte al credit crunch che si è determinato, cioè l'irrigidimento delle banche nel concedere prestiti e il conseguente rialzo dei tassi di mercato».

Sarà sufficiente?

«Sarà sicuramente un bell'aiuto. Il problema è che non è sicuro che lo faccia, anche se francamente tutti i segnali, compresi i più recenti discorsi di Bernanke, lo fanno prevedere. La Fed deve anche preoccuparsi della stabilità monetaria in un momento in cui i prezzi del petrolio stanno tornando a salire».

E quanto ad impegni ufficiali, sarà a sua volta di concreto aiuto ai proprietari immobiliari e quindi all'intera impalcatura finanziaria il programma di aiuti al settore promesso dallo stesso presidente Bush?

«Sì, certo, potrebbe dare anch'esso un contributo importante. Intendiamoci, non è che il presidente abbia promesso un piano di salvataggio ai proprietari di casa alle prese con l'impennata dei tassi, ma una serie di misure di contenimento che comunque possono evitare al settore di precipitare in una crisi ancora più spaventosa. Non risolverà però del tutto il problema. Ripeto, per la ripresa di case e consumi bisognerà attendere almeno fino al 2009».

Facciamo un discorso da investitori: per comprare casa in America, conviene aspettare?

«Secondo me i prezzi hanno imboccato un percorso in discesa che non si fermerà tanto presto. Assisteremo a crolli dei prezzi che in certe aree saranno molto vistosi, anche dell'ordine del 15-20 per cento».

Ma questi mutui subprime quanti sono? E' affidabile la stima dei due milioni di posizioni ‘aperte' che circola?

«Secondo me potrebbero essere meno, diciamo anche ‘solo' 1,7 milioni. Quello che ancora non si è riusciti a calcolare è la quantità di finanza derivata che hanno generato, grazie alla facoltà di leverage delle banche d'investimento. Ecco, qui sta il nodo: non si sa ancora quanti soldi ‘viziati' da questo difetto d'origine siano in circolazione. E potremmo ancora avere delle brutte sorprese».

Tutto questo ovviamente non suona come musica alle orecchie di Wall Street né degli altri mercati mondiali. Quale sarà secondo lei il comportamento delle Borse?

«Sono francamente pessimista per l'andamento di Wall Street nei prossimi mesi, proprio perché come dicevo l'economia americana è colpita laddove è più vulnerabile, sul fronte dei consumi. Anche se ci astraiamo dal settore in crisi, le case, è il blocco dei consumi a doverci preoccupare».

Il suo collega economista Joseph Stiglitz ha detto chiaramente che sta venendo al pettine l'assurdo che il mondo intero, comprando titoli denominati in dollari, ha finanziato il mantenimento dell'american way of life e ora pagherà pure il conto...

«No, almeno non del tutto. Chi deve preoccuparsi è l'America, più che il resto del mondo, e sarà l'America a pagare il conto più pesante. Certo, la globalizzazione ha le sue leggi, ma una crisi derivante dal blocco dei consumi come questa colpisce l'America, come dire, dal suo interno. Le altre economie riusciranno a contenere il colpo nella misura in cui sapranno stimolare la loro crescita e i loro, di consumi».

Stiglitz ovviamente non è d’accordo, perché egli inquadra il problema nel contesto della globalizzazione, vale a dire di un lungo ciclo dominato dalle ricette imposte dagli Usa e dalle istituzioni finanziarie (FMI, Banca Mondiale) che essi hanno egemonizzato: ricette che hanno prodotto disastri tranne nei casi in cui esse non sono state disattese.

Il 19.11. 2007 Stiglitz scrive:

“Sui mercati pesa l'ambiguità delle ricette Usa

Quest' anno ricorre il decimo anniversario della crisi dell' Asia orientale, che ebbe inizio in Tailandia il 2 luglio 1997, investì l' Indonesia in ottobre e arrivò in Corea in dicembre. Alla fine si trasformò in una crisi finanziaria globale che coinvolse la Russia e i Paesi dell' America Latina, tra i quali il Brasile, provocando conseguenze a catena che continuarono negli anni successivi. La crisi argentina del 2001 può sicuramente essere annoverata tra le vittime. Ma di vittime innocenti ce ne furono molte altre, tra le quali Paesi mai neppure coinvolti nel flusso internazionale di capitali, all' origine della crisi. Tra i Paesi più colpiti vi fu il Laos. Benché ogni crisi abbia necessariamente fine, all' epoca nessuno sapeva quanto vaste, profonde e durature sarebbero state le conseguenti recessioni e depressioni. Si trattò, in effetti, della crisi globale più grave dai tempi della Grande Depressione. In qualità di capo economista e vicepresidente senior della Banca Mondiale, mi trovai nel bel mezzo di quella crisi e dei dibattiti a essa inerenti, sulle sue cause e sulle risposte politiche più appropriate. L' estate e l' autunno scorsi sono tornato nei Paesi investiti da quella crisi: ho visitato Malesia, Laos, Tailandia e Indonesia ed è stato confortante per me costatarne la ripresa. Questi Paesi oggi hanno tassi di crescita del 5 - 6 per cento annuo o anche più, non come ai tempi del miracolo dell' Asia orientale, ma nondimeno pur sempre più apprezzabili di quanto si ritenesse possibile all' indomani della crisi. Molti Paesi hanno modificato le loro politiche, ma lo hanno fatto in direzioni completamente diverse dalle riforme caldeggiate dal Fmi, il Fondo Monetario Internazionale. Il fardello più pesante legato alla crisi - retribuzioni minime e disoccupazione alta è ricaduto sulle spalle dei poveri. A mano a mano che andavano crescendo, molti di questi Paesi hanno dato sempre più importanza all' "armonia", nel tentativo di porre rimedio al crescente divario tra ricchi e poveri, tra città e campagne. Hanno dato maggior peso agli investimenti nelle persone, hanno lanciato iniziative innovative per garantire a un numero maggiore di loro cittadini i servizi sanitari e l' accesso ai finanziamenti, e hanno creato altresì fondi sociali per sostenere lo sviluppo delle comunità locali.Ora, riconsiderando quella crisi a dieci anni di distanza, possiamo prendere atto sinceramente di quanto sia il Fondo Monterio Internazionale che il Tesoro degli Stati Uniti abbiano sbagliato diagnosi, prescrizione e prognosi. Il problema principale fu la prematura liberalizzazione dei mercati finanziari. È pertanto paradossale constatare che il Segretario del Tesoro degli Stati Uniti preme nuovamente per una liberalizzazione del mercato finanziario in India, uno dei due Paesi in via di sviluppo più importanti (insieme alla Cina) ad essere sopravvissuto incolume alla crisi del 1997. Non è affatto un caso, in realtà, che questi Paesi che non avevano interamente liberalizzato i loro mercati finanziari siano andati così bene. Una successiva ricerca del Fmi ha confermato ciò che ogni serio studio aveva dimostrato: la liberalizzazione dei mercati finanziari porta instabilità ma non necessariamente crescita. (India e Cina sono state, nella stessa misura, le economie a più rapida crescita). Ovviamente, Wall Street (i cui interessi sono rappresentati dal Tesoro degli Stati Uniti) trae profitto dalla liberalizzazione dei mercati finanziari: realizza utili quando i capitali affluiscono, quando rifluiscono e nella ristrutturazione di tutto ciò che accade nello scompiglio che ne consegue. In Corea del Sud il Fmi aveva sollecitato la vendita delle banche del Paese agli investitori americani, quantunque i coreani per quarant' anni avessero gestito in maniera impeccabile la loro economia, con una crescita maggiore, con più stabilità e senza gli scandali sistemici che hanno ripetutamente segnato i mercati finanziari degli Stati Uniti. In qualche caso le società statunitensi hanno acquisito le banche, se le sono tenute fino a quando la Corea non si è ripresa e poi le hanno rivendute, ricavandoci miliardi in capital gain. Nella sua precipitazione a far sì che gli occidentali rilevassero le banche, il Fmi ha trascurato però un dettaglio: garantire che la Corea del Sud potesse rientrare in possesso di almeno una parte di quegli utili tramite le tasse. Potrebbe rimanere da assodare se gli investitori americani avessero effettivamente grandi capacità nelle attività bancarie nei mercati emergenti, ma è indiscutibile che avevano un' enorme esperienza nell' eludere le tasse. Il contrasto tra i consigli elargiti da Fmi/Tesoro Usa all' Asia orientale e ciò che si è verificato nell' attuale dèbacle dei subprime è inoppugnabile. Ai Paesi dell' Asia orientale era stato suggerito di alzare i tassi di interesse in alcuni casi anche del 25 per cento, del 40 per cento o ancora di più - provocando un' ondata di insolvenze. Nell' attuale crisi, invece, la Federal Reserve statunitense e la Banca Centrale europea i tassi di interesse li hanno tagliati. Nello stesso modo, ai Paesi coinvolti dalla crisi dell' Asia orientale era stata predicata la necessità di maggiore trasparenza e migliori normative. Tuttavia, proprio la mancanza di trasparenza ha avuto un ruolo cruciale nella crisi del credito della scorsa estate: mutui altamente deleteri erano stati tagliati, smembrati e disseminati un po' ovunque in tutto il mondo, confezionati all' interno di prodotti migliori, nascosti come collaterali, così che non si potesse essere sicuri di chi effettivamente possedeva cosa. Inoltre, adesso si leva il coro di voci di coloro che vogliono invitare alla prudenza, che mettono in guardia dalle nuove normative che si presume possano rallentare i mercati finanziari (ivi incluso il loro sfruttamento di mutuatari inconsapevoli e non informati, la vera radice del problema). Infine, a dispetto di tutti i moniti sui rischi morali, le banche occidentali sono state in parte salvate dal fallimento dovuto ai loro cattivi investimenti. In seguito alla crisi del 1997 si convenne che era assolutamente necessario procedere a una riforma radicale della compagine finanziaria globale. Nondimeno, mentre l' attuale sistema può effettivamente portare a un' instabilità eccessiva, e imporre alti costi ai Paesi in via di sviluppo, esso serve molto bene alcuni specifici interessi. Non stupisce di conseguenza che, a dieci anni di distanza, di una riforma radicale non ci sia neppure l' ombra. Né, ancor più, stupisce che il mondo ancora una volta possa trovarsi a dover affrontare un periodo di instabilità finanziaria globale che potrebbe avere conseguenze incerte per le economie del pianeta.”

Traduzione di Anna Bissanti

4.

La resa dei conti ormai sembra destinata a sopravvenire anche in conseguenza dello scoppio non già di una bolla, ma di una bomba: quella delle carte di credito.

Su Repubblica (supplemento Affari &Finanza del 3. 12) questo ennesimo fattore di crisi è descritto così:

Eugenio Occorsio

Usa, la bomba "credit cards"

L’ennesima bomba ad orologeria è innescata nei bilanci delle banche americane. L’hanno scoperta analisti e investigative reporter finanziari e hanno lanciato l’allarme: i debiti accumulati dai consumatori sulle carte di credito non saldate, hanno superato i livelli di guardia. Oggi sono pari a 915 miliardi di dollari, una somma stratosferica, più del doppio dei famigerati mutui subprime, e identico è l’effettodomino che possono attivare: le banche, si è scoperto adesso, usano rivendere interi blocchi anche di questi crediti a finanziarie specializzate, che li impacchettano e li trasformano in titoli che mettono sul mercato. Il rischio si disperde, si moltiplica, diventa irrintracciabile.

Stessa identica procedura insomma dei mutui, ed effetti devastanti a catena che stavolta possono essere ancora peggiori: se i mutui bene o male sono supportati da una garanzia reale (la casa) e spesso sono anche assicurati da qualche agenzia federale, qui sono prestiti secchi e non garantiti in alcun modo. Anzi, per una perversione tutta americana, accade sistematicamente che al momento di aprire una carta di credito, l’unica cosa che ti chiede la banca è: avete una credit history? Il fatto di avere altri debiti in essere, costituisce esso stesso una garanzia.

Sono le cosiddette carte revolving, che si stanno affacciando ora anche in Italia: passato un mese di acquisti senza controlli, la banca manda a casa l’estratto conto per il saldo. Se non si paga, si accede automaticamente ad una sorta di fido, che può essere rinnovato di mese in mese. In America, dove il fenomeno ha assunto le proporzioni che si diceva (che crescono di giorno in giorno con un’accelerazione esponenziale), il più delle volte per pagare il conto delle carte revolving si prendono in prestito altri soldi dalla stessa o più spesso da un’altra banca. In questo caso si usa il meccanismo dell’homeequity: dato che il valore della casa in cui si abita (e per la quale si paga già un mutuo, subprime o prime che sia) è aumentato, si chiede un rifinanziamento del mutuo stesso. Con i soldi così ottenuti, si paga il conto della carta revolving. E così via. Perché il giochetto funzionasse ovviamente bisognava che si possedesse una casa, e poi che il valore di questa aumentasse continuamente: ma dato che la situazione come tutti sanno è cambiata (ultimi dati della settimana scorsa: vendite in ribasso del 13% e prezzi del 4,9% su un anno fa), ecco che tutto il diabolico meccanismo si è bloccato. Ora la tensione accumulata potrebbe scoppiare da un momento all’altro nelle mani delle banche. Il numero e l’entità delle delinquency, cioè dei debiti sulle carte non saldati, sta aumentando vertiginosamente, e altrettanto i fallimenti individuali. Gli allarmi si moltiplicano.

Le banche si difendono come possono. Intanto cominciano ad accantonare riserve esplicitamente per questi crediti: l’ha già fatto Citigroup per 2 miliardi di dollari (che si aggiungono a tutte le perdite di questi mesi per le vicende analoghe), per poco meno lo sta per fare la Bank of America, l’ha fatto ovviamente l’American Express che trema perché di carte di credito vive e quindi ha aumentato del 44% le sue riserve per eventuali perdite. Le banche hanno poi aumentato il tasso su questi che diventano prestiti anomali: come ha reso noto la Federal Reserve, nel 2005 la media era del 12,51% annuo, nel 2006 del 13,21, nel giugno di quest’anno del 13,46, oggi è schizzata al 15,16%. Si parla di medie, ma andando ad analizzare caso per caso si trovano tassi molto superiori (fino ad un incredibile 27% per i ritardati pagamenti più gravi). Altra misura: si sta riducendo il numero dei mesi per i quali è possibile posticipare il saldo. Prima era in media di 15,17, ora si è dimezzato e anche meno. Ancora: le offerte di lancio con cui si "vendono" le carte a clienti potenzialmente interessanti erano tipicamente di dodici mesi a zero interessi. Ora se va bene sono di tre mesi all’1,9%, come ha rilevato il sitospecializzatocardRat ings.com.

I primi a cadere sono i più deboli. Business Week ha raccolto la settimana scorsa in un servizio di copertina le storie agghiaccianti di chi, essendo troppo povero per potersi permettere un’assicurazione sanitaria e troppo "ricco" per accedere ai programmi di sicurezza sociale, per pagarsi le spese mediche non ha altra via che aprirsi un fido con la carta revolving. Visto che stiamo parlando di 47 milioni di persone, più altri 16 milioni per i quali l’assicurazione non dà una copertura adeguata (con franchigie fino a 10mila dollari), una popolazione pari a quella italiana, le banche e le finanziarie avevano scoperto un’altra via per fare affari d’oro. Così hanno creato altrettante linee di carte revolving espressamente pensate per i debiti sanitari. Hanno nomi confortanti come CareCredit o Help (che però è un acronimo e sta per Hospital Expense Loan Program), ma in realtà sono tagliole micidiali. Si calcola che circa la metà del debito complessivo da carte di credito, i 915 miliardi di cui si parlava all’inizio, sia stato generato in questo modo. Le storie si somigliano tutte: famiglie distrutte, chi si è dovuto vendere la casa e vive in un camper, chi è inseguito da rate di 15-20mila dollari che crescono ameboicamente ma intanto è disoccupato. E i tassi applicati arrivano con la massima indifferenza al 15-20%. Come in casi analoghi, quello che colpisce è la rapidità con cui questi tassi aumentano, tanto più perché tutta la corsa ai debiti era cominciata pochissimi anni fa, fra il 2001 (anno della crisi postattentato di New York) e il 2004, quando i tassi erano bassissimi e quindi si è stimolato oltre ogni immaginazione l’indebitamento individuale.

Il caso della sanità è il più complesso perché gli ospedali, che conoscono ovviamente la situazione della maggior parte dei loro concittadini, a questo punto hanno quasi tutti adottato la seguente tattica: per chi paga cash senza batter ciglio (sia esso il paziente o l’assicurazione) fanno sconti anche del 20-25%. Altrimenti girano senza esitazioni (entro due-tre giorni) il loro credito a una finanziaria specializzata, sia essa emanazione di una banca (o anche di una grossa azienda come per esempio la General Electric che ha una branch specializzata) oppure ancora una società nata espressamente per questo business. In ogni caso, la finanziaria si accolla il credito pagando l’80-85% di quanto dovrebbe avere l’ospedale, che ha fretta di liberarsene perché ha urgente bisogno di contanti visti gli alti costi di medici, infermieri, farmaci, e accetta di rimetterci quel 15-20%. A quel punto inizia il martellamento nei confronti del malcapitato, sia che questi sia inconsapevole sia che invece abbia aperto volontariamente al momento del ricovero un conto con una delle carte revolving di cui si diceva.

I debiti della sanità finiscono nello stesso calderone dei debiti accesi per comprarsi l’auto (curiosamente qui i finanziamenti sono più generosi e i tassi si mantengono sul 78%), lo stereo, il frigorifero, la motofalciatrice. Così, in questo balletto di crediti, miliardi e tassi d’interesse stellari, nascono, proprio come per i mutui subprime, i famosi pacchetti "strutturati" che s’incanalano nei mille rivoli della finanza globale.

Attonite di fronte al dilagare della crisi debitoria, le autorità federali, dal presidente Bush alla Federal Reserve, stanno concordando con le grandi banche le misure d’intervento. Già se ne parlava al momento dei subprime, e se n’è tornato a parlare con maggior urgenza in questi giorni, ma è quasi pronto un primo fondo misto banche-amministrazione di almeno 100 miliardi di dollari per tamponare le perdite. Poi le stesse autorità hanno avviato una partita ancora più delicata: l’opera di convincimento (e di aiuto concreto) perché proprio le stesse grandi banche rilevino le finanziarie più azzardose e più esposte. L’ha fatto la settimana scorsa la Hsbc rilevando la Cullinan Finance, che ha 37 miliardi di crediti strutturati a rischio, l’ha fatto la BankAmerica con la vacillante Countrywide per ben 2 miliardi. E sicuramente si andrà avanti per questa strada. A meno che non siano esse stesse, le grandi banche, a fallire.”

Rischi di una crisi drammatica delle banche, comprese le maggiori, erano già in aria da tempo. Alcune settimane fa la situazione era così descritta su l’Espresso:

"Vittorio Malagutti

BANCHE di affari loro

Le gravi distorsioni sul mercato del credito sono la vera questione su cui dobbiamo confrontarci... Giudizio netto. Parole dure. Chi le ha pronunciate? Un attivista no global? Un sindacalista? Un'autorità di controllo sulle Borse, preoccupata per la stabilità a breve termine dei mercati? Risposte sbagliate. A sorpresa, il pulpito da cui è arrivata questa severa presa di posizione sui guasti del sistema è quello del più potente banchiere d'affari del mondo. Lloyd Blankfein, numero uno della statunitense Goldman Sachs, marchio vincente della finanza internazionale, ha pensato bene di esternare le sue valutazioni sulla crisi di queste settimane. Lo ha fatto in una lunga intervista pubblicata giovedì 27 settembre dal 'Sole 24 Ore'. "Abbiamo sottovalutato i rischi", ha detto in sostanza Blankfein. E questo errore, ammette il banchiere, ha finito per alimentare quella bolla speculativa che secondo molti osservatori minaccia ancora di provocare disastri a catena sui mercati dopo gli scossoni della scorsa estate.

Errore? A ben guardare, quello che Blankfein, con il senno di poi, definisce un errore ha funzionato per anni come un gigantesco moltiplicatore di profitti per Goldman Sachs e anche per le sue dirette concorrenti. Nomi altisonanti: Merrill Lynch, Morgan Stanley, Lehman, per citare solo le principali tra le banche d'investimento internazionali. Questi colossi della finanza globale sono riusciti a cavalcare alla grande il boom dei cosiddetti prodotti derivati. In sostanza, hanno costruito e venduto a peso d'oro strumenti finanziari tanto complessi che diventa praticamente impossibile valutarne la rischiosità e, di conseguenza, anche il prezzo. Morale: le banche hanno fatto soldi a palate scaricando sul mercato bombe finanziarie a orologeria.

Esemplare il caso di Italease. A fine luglio la Banca d'Italia, con una serie di telefonate informali, ha richiamato all'ordine alcuni istituti, tra cui Deutsche Bank e Bnp-Paribas, che a partire dal 2005 avevano contribuito ad allestire l'arsenale di prodotti derivati poi girati da Italease ai propri clienti. Nasce da qui il buco di quasi 500 milioni di euro nei conti semestrali della banca milanese. Solo che nella primavera scorsa, quando la crisi è esplosa, Deutsche Bank e gli altri erano già passati alla cassa, con guadagni complessivi per centinaia di milioni di euro. Un comportamento legittimo, ma giudicato probabilmente un po' troppo disinvolto dal governatore Mario Draghi. Corsi e ricorsi storici: Italease si appoggiava alla filiale londinese della Deutsche Bank. La stessa che a suo tempo fece ponti d'oro ai furbetti del quartierino, da Stefano Ricucci a Gianpiero Fiorani.

Per fare un altro esempio tutto italiano, anche gli enti locali si sono trasformati in una miniera di profitti per i grandi marchi della finanza internazionale. Le obbligazioni emesse da Regioni e Comuni hanno garantito percentuali di guadagno enormi (a volte addirittura a doppia cifra) per gli istituti che, oltre a fare da advisor per il collocamento dei titoli, hanno anche allestito l'impalcatura di prodotti derivati costruita attorno a queste emissioni. Per contendersi questo redditizio (a dir poco) mercato sono scesi in campo operatori come l'americana Merrill Lynch e la giapponese Nomura, ma anche molti altri. Per dare un'idea delle dimensioni dell'affare, basta dire che l'anno scorso il valore complessivo di questo tipo di operazioni ha superato i 10 miliardi di euro. "Ma quasi mai", sottolinea Marco Bigelli, ordinario di finanza aziendale all'università di Bologna, "gli enti locali possiedono le competenze necessarie a valutare le proposte dei loro consulenti". Come dire: campo libero alle banche tra sospetti e dubbi di ogni tipo, che, in qualche caso, hanno dato il via anche a indagini amministrative.

L'intervento di Draghi nel caso Italease viene interpretato dagli addetti ai lavori come un segnale chiaro che le autorità di controllo hanno finalmente alzato la guardia. Spiega Marco Onado, ex commissario Consob e professore all'università Bocconi: "Le grandi investment bank hanno preferito limitarsi a facilitare l'emissione di strumenti sempre più sofisticati trasferendo il rischio agli investitori finali". Per un po' il gioco ha funzionato. Con i mercati finanziari inondati di liquidità grazie ai tassi d'interesse ai minimi storici, gli investitori erano convinti di guadagnare mettendosi al riparo dai rischi, mentre le banche gonfiavano il conto economico.

Poi, la scorsa estate, ai primi segnali della crisi innescata dai cosiddetti mutui subprime, il castello di carte ha cominciato a oscillare pericolosamente. E le banche d'affari, accusano molti operatori, sono state le prime a tirare i remi in barca, abbandonando al loro destino i clienti. Un esempio concreto. A cavallo tra agosto e settembre, su molti titoli strutturati è di fatto venuta a mancare la domanda. Non c'erano compratori. Eppure, sostengono numerosi addetti ai lavori, alcune banche avevano venduto questi prodotti impegnandosi, in caso di necessità, a fare mercato, cioè a intervenire in prima persona come acquirenti. Questo però non è avvenuto. Altrimenti non si spiegherebbe il crollo delle quotazioni.

Finite loro malgrado sul banco degli imputati, le grandi case d'investimento hanno avviato un'operazione trasparenza. E la sorprendente esternazione di Blankfein dalle pagine del 'Sole' rientrerebbe in questa strategia. Del resto parlare non costa niente e i conti delle banche, grazie anche all'enorme dote di liquidità incamerata negli anni precedenti, quelli del boom, hanno fin qui retto senza grandi problemi l'impatto della crisi estiva. Goldman Sachs ha addirittura annunciato un aumento dei profitti nel terzo trimestre. Morgan Stanley e Lehman se la sono cavata con cali marginali degli utili. Finora solo Citigroup e la svizzera Ubs sono state costrette a svalutazioni per miliardi di euro, ma entrambe, a ben guardare, sono anche banche commerciali e non fanno parte del club ristretto delle investment bank tradizionali.

I bilanci, però, non sono l'unico problema. A rischio c'è anche la reputazione, il più importante tra gli asset di una banca d'affari. Essere dipinti come speculatori che hanno alimentato i guasti del sistema non contribuisce certo a migliorare l'immagine di questi pesi massimi della finanza. D'altra parte, fare marcia indietro significherebbe mettere in discussione un modello di business che ha garantito enormi profitti e anche compensi stratosferici ai banchieri. Blankfein, tra compensi e bonus vari, nel 2006 ha guadagnato circa 54 milioni di dollari (38 milioni di euro). John Mack, gran capo di Morgan Stanley, ha ricevuto l'anno scorso un premio di circa 40 milioni di dollari in azioni della banca. La media delle retribuzioni del 24 mila dipendenti di Goldman Sachs (segretarie e impiegati compresi) si aggira intorno ai 500 mila dollari l'anno.

Nate come semplici intermediari (broker) tra compratori e venditori di titoli, Goldman Sachs e le sue cugine hanno progressivamente invaso tutti i campi d'attività. Hanno investito prendendo posizioni in proprio su azioni e obbligazioni. Hanno finanziato acquisizioni aziendali in cui intervenivano anche come consulenti del compratore. Si sono trasformate in gestori di giganteschi fondi d'investimento. Tutto questo, come dimostrano i dati pubblicati in queste pagine, ha fatto aumentare ricavi e profitti a un ritmo senza precedenti. Allo stesso tempo, però, si sono moltiplicati anche i potenziali conflitti d'interesse.

In poche parole, i manager delle investment bank si sono trovati a fare concorrenza ai loro clienti. Per esempio, Goldman Sachs, Merrill Lynch e Lehman non hanno esitato a lanciare propri veicoli d'investimento per partecipare al boom delle acquisizioni aziendali che dagli Stati Uniti si è esteso al mondo intero a partire dal 2005. Questi fondi nuovi di zecca, però, sono diventati una minaccia per i tradizionali operatori del settore come Blackstone e il Texas Pacific group. I quali, a loro volta, sono da sempre clienti importanti delle banche d'affari. Il conflitto è evidente, ma il mercato del private equity, alimentato dai bassi tassi d'interesse, garantiva affari d'oro. E Blankfein, così come i suoi colleghi, non ha voluto lasciarsi sfuggire neppure questa occasione. Lo stesso discorso vale per i prodotti derivati. Le investment bank sono diventate grandi operatori in proprio. Hanno aumentato i profitti, ma si sono prese anche rischi maggiori. Quanti esattamente? Difficile rispondere con precisione. Nell'aprile del 2006 una minuziosa inchiesta del settimanale britannico 'The Economist' aveva segnalato l'opacità dei bilanci della Goldman Sachs. "Non si capisce da dove vengano i profitti", recitava testualmente l'articolo. La crisi dei derivati e della finanza strutturata era ancora lontana. Difficile che da allora i rischi siano diminuiti.”

Di fatto, con l’estendersi dell’epidemia dei mutui sub-prime e con lo “scandalo” delle carte di credito, i cui prestiti non esigibile hanno contribuito ad alimentare la marea dei titoli-spazzatura, i rischi sono aumentati.

Qualcuno, come Nouriel Rubini, ha pochi dubbi (supplemento Affari&Finanza del 3. 12. 2007) sulla catastrofe economica che sta per sopravvenire:

“Gli avvenimenti delle ultime settimane dimostrano che la stretta del credito e di liquidità cominciata in agosto negli Usa e in Europa non solo non è migliorata ma si è aggravata. Negli Usa quest’improvviso inasprimento e altre gravi debolezze implicano che il paese è diretto verso un’inevitabile recessione.

Già la crescita di questo trimestre sarà verosimilmente prossima allo zero. Come sempre, quando gli Stati Uniti starnutiscono il resto del mondo si prende il raffreddore: in questo caso, però, gli Stati Uniti non soffriranno solo di un comune raffreddore, ma andranno incontro a una polmonite vera e propria, grave e duratura. Il resto del mondo, di conseguenza, deve prepararsi a essere contagiato dal virus in modo grave.

Prendiamo in esame lo scompiglio dei mercati finanziati. Malgrado le iniezioni nei mercati finanziari di liquidità per centinaia di miliardi di dollari e di euro praticate da agosto a oggi, a dispetto di un taglio di 75bps dei tassi di interesse effettuato dalla Fed, la stretta creditizia oggi è altrettanto grave se non peggiore di quella dell’estate scorsa. Per esempio, la differenza tra il tasso di interesse al quale le banche statunitensi ed europee si concedono reciprocamente prestiti relativamente ai sicuri rendimenti governativi di maturità simile rappresenta una misura della avversione al rischio e ai rischi della controparte finanziaria.

Questa differenza è tornata ancora recentemente a quei massimi che segnalano che i mercati finanziari sono quasi nel panico. Il motivo per il quale una simile massiccia iniezione di liquidità e una politica monetaria più espansiva sono miseramente fallite è che il sistema finanziario non ha sperimentato soltanto illiquidità, ma anche seri e gravi problemi di credito e d’insolvenza. La politica monetaria non può risolvere le questioni di insolvenza. Effettivamente, ci sono due milioni o più di famiglie americane che probabilmente saranno insolventi e non onoreranno i loro mutui; decine di enti erogatori di mutui hanno già fatto bancarotta; moltissimi imprenditori edili subiranno gravi perdite e dovranno chiudere l’attività; ci sono istituti finanziari di tutto il mondo (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Australia e così via) fortemente che hanno fatto investimenti avventati e sono falliti; e adesso che l’economia andrà in recessione perfino le insolvenze delle grandi imprese inizieranno ad aggravarsi e crescere di numero.

Come se non bastasse, l’entità delle perdite finanziarie è sconvolgente e peggiora di giorno in giorno: finora gli istituti finanziari hanno ammesso perdite per circa 50 miliardi di dollari, ma una molteplicità di analisti stima che le perdite totali dovute ai soli subprime potrebbero arrivare a una cifra compresa tra i 300 e i 400 miliardi di dollari. Si aggiungano a ciò le perdite dovute ai mutui nearprime e prime, le perdite per le carte di credito e i prestiti automobilistici le cui percentuali di insolvenza si stanno moltiplicando, le perdite dovute alle proprietà commerciali che hanno vissuto un boom e sperimentato una bolla simile a quella immobiliare, e infine le perdite che le banche subiranno concedendo prestiti alle imprese e nei finanziamenti di LBO. Tutto ciò potrebbe portare a perdite per una cifra sconvolgente, nell’ordine del milione di miliardi di dollari. Considerata poi l’entità di tali perdite, la necessaria contrazione del credito da parte di istituti finanziari che hanno un capitale inferiore potrebbe ridurre la capacita’ di creare credito – e provocare quindi una massiccia stretta del credito – dell’ordine di svariati trilioni di dollari americani.

A sua volta, una simile stretta del credito renderà minore la quantità di credito e alzerà i costi per le famiglie, le aziende e gli enti debitori in generale, riducendo la domanda aggregata di consumi e investimenti. Come se non bastasse, considerata la globalizzazione finanziaria e di cartolarizzazione queste perdite non colpiranno soltanto le banche, ma anche le banche di investimento, i fondi di copertura, i fondi di investimento, i fondi del mercato monetario, SIV e Conduits, e società di assicurazioni degli Stati Uniti e di tutto il mondo. Di conseguenza il contagio finanziario si estenderà dalle banche al resto del sistema finanziario, e dagli Stati Uniti all’Europa e al resto del mondo, aumentando il rischio di una crisi finanziaria sistemica. Questa è in realtà la prima crisi della globalizzazione e securitizzazione finanziaria.

Non meraviglia a questo punto che i principali mercati finanziari si trovino adesso in una crisi di credito e di liquidità: i mercati interbancari, i SIV finanziati da ABCP, i mercati di cartolarizzazione, i mercati derivati, i mercati di LBO, i prestiti frazionati e i mercati CLO. Considerata l’incertezza sull’entità delle perdite e su chi sia in possesso di asset "contaminati", tutti temono le loro controparti e accumulano liquidità. Questa è ciò che si ottiene per aver creato un sistema finanziario caratterizzato da meno trasparenza, più opacità, mancanza di informazioni e di limpidezza finanziaria.

Negli Stati Uniti la stretta di liquidità e di credito, le perdite ingenti subite dagli istituti finanziari per i loro prestiti e mutui sconsiderati, la peggior recessione edilizia della storia degli Stati Uniti, unitamente all’odierna caduta libera dei prezzi delle case, al prezzo del petrolio ai suoi massimi storici e a un consumatore medio fragile implicano che gli Stati Uniti vivranno – a partire dall’inizio del 2008 – una grave e dolorosa recessione. Il consumatore medio americano, che risparmia poco ed è sovraccarico di debiti, è oggi a un punto di fragilità severa: non può più usare la propria casa per ottenere soldi con un rifinanziamento e spendere più di quello che guadagna, visto che il valore della sua casa è in caduta. Questo consumatore è colpito da molti shock negativi: la caduta delle prezzo delle case, il calo del finanziamento diretto dei consumi via prestiti collaterali che usano la casa come accessorio finanziario, un indebitamento maggiore dovuto al più alto servicing ratio, una stretta creditizia per l’abitazione e il credito al consumo, i prezzi del petrolio e della benzina in impennata, un mercato del lavoro indebolito e, quanto prima, un mercato azionario in calo. Gli aiuti dalla Fed non eviteranno l’imminente recessione, poiché arriveranno troppo tardi e saranno troppo inadeguati, anche perché la politica monetaria diventa meno efficace quando si ha un grande eccesso di offerta di case, di beni di consumo durevoli, di automobili e di motoveicoli. Occorreranno anni per smaltire questa sovrabbondanza.

Il resto del mondo – Europa inclusa – finora si era illuso di potersi dissociare dal rallentamento degli Stati Uniti. Ciò potrebbe accadere soltanto se gli Stati Uniti avessero un atterraggio morbido: se invece gli Stati Uniti dovessero atterrare sul duro nella recessione non ci sarà modo di prendere le distanze e la crescita globale subirà un forte rallentamento. L’Europa, oltre tutto, potrebbe essere una delle prime vittime di questo duro atterraggio degli Stati Uniti. Non solo il sistema finanziario europeo non si è ancora dissociato da quello americano, ma da agosto è stato esposto a un contagio ancora maggiore. E poiché le aziende europee dipendono dai prestiti bancari più di quelle statunitensi, la stretta del credito colpirà il settore delle aziende europee e la loro capacità di produrre, assumere e investire. Si tenga anche conto che il boom e la bolla edilizia non si sono limitati agli Stati Uniti: simili bolle hanno interessato la Spagna, il Regno Unito, l’Irlanda e in scala minore la Francia, il Portogallo, l’Italia e la Grecia. In questo periodo le bolle edilizie stanno iniziando a sgonfiarsi in tutta Europa, contribuendo di fatto a rischi di rallentamento della crescita.

Si aggiunga poi ai problemi dell’Europa la forza dell’euro, che sta pesantemente riducendo la concorrenza esterna all’eurozona, e non dimentichiamo l’imminente indebolimento della domanda di prodotti europei in ragione della pesante caduta della crescita degli Stati Uniti. Nel frattempo, mentre la Fed ha già iniziato a tagliare aggressivamente i tassi di interesse, la Banca centrale europea si illude di poter alzare ulteriormente i propri tassi una volta superata la cosiddetta "temporanea" stretta finanziaria. Quello che la Bce dovrebbe fare, al contrario, è iniziare a tagliarli adesso. Prendere tempo - come fece nel periodo 2001-2002 – garantirà soltanto una cosa: che il contagio negativo dagli Stati Uniti all’Europa sarà più grave e più duraturo.

Pertanto, sussistono tutte le condizioni perché una "tempesta perfetta" – di natura finanziaria ed economica – negli Stati Uniti si diffonda in Europa e in tutto il mondo. Come disse una volta Bette Davis in "All About Eve": «Allacciate le cinture e tenetevi forte: sarà una corsa piena di scossoni!».

Traduzione di Anna Bissanti

 

5.

Nel suo ruolo di studioso che tempera il pessimismo dell’intelligenza con l’ottimismo della volontà. Stiglitz ha scritto a conclusione di un articolo del 14. 10. 2007:

“Ci sono molte lezioni che l' America e il resto del mondo potranno trarre da ciò che sta accadendo, e tra queste l' esigenza di una più ampia regolamentazione del settore finanziario e soprattutto una migliore protezione nei confronti dei prestiti speculativi e molta più trasparenza.”

E’ facile a dirsi, ma molto più difficile da realizzare. Non esistono istituzioni atte a controllare i flussi dei capitali finanziari. Una regolamentazione del settore finanziario potrebbe essere adottata se tutte le nazioni più potenti fossero d’accordo. E’ evidente, da quanto illustrato, che almeno gli Stati Uniti, che hanno contribuito a deregolamentare nel corso degli ultimi anni tale settore al fine di mantenere un’egemonia minacciata dalla crescita dell’economia asiatica e dal lro stato debitorio pubblico e privato, non sono d’accordo.

Le banche, per loro conto, oltre ad essere impegnate in una competizione asperrima a livello internazionale, non sembrano poter arginare la smania del denaro di crescere ad ogni costo. Per questa via si torna all’inizio dell’articolo. Dietro il denaro ci sono i proprietari, avidi ma soprattutto spaventati dalla possibilità che i loro patrimoni possano deperire e svanire nel nulla. Paradossalmente, questa paura li spinge sempre più a correre rischi di investimento e a tutelarsi da essi con manovre ai limiti o al di là della legge. Tra i proprietari e il mercato ci sono i gestori dei patrimoni la cui fortuna si fonda sulla capacità di produrre profitti a due cifre.

In un ulteriore articolo del 3.1. 2008 (pubblicato su Repubblica), le conclusioni di Stiglitz sono più incerte:

"Le preoccupazioni per gli squilibri globali causati dall'enorme debito contratto con l'estero dagli Stati Uniti sussistono da anni. Gli Stati Uniti, a loro volta, sostengono che il mondo dovrebbe essere loro grato: vivendo al di sopra dei propri mezzi, hanno sostenuto la marcia dell'economia globale grazie, in particolare, all'alto tasso di risparmio dell'Asia, che ha accumulato così centinaia di miliardi di dollari in riserve. Tuttavia, che la crescita degli Stati Uniti sotto la presidenza di George W. Bush non fosse sostenibile è un dato da sempre accettato. Ma ora incombe il giorno della resa dei conti.

La guerra in Iraq così infelicemente concepita ha contribuito a quadruplicare il prezzo del petrolio dal 2003. Negli anni Settanta, gli shock petroliferi implicavano inflazione per alcuni paesi e recessione per altri, in ragione dell'aumento dei tassi di interesse da parte dei governi per far fronte ai prezzi in rialzo. Alcune economie, invece, si trovarono ad affrontare il peggio di queste due condizioni: la stagflazione.

Finora, sono tre i fattori cruciali che hanno aiutato il mondo a convivere con prezzi del petrolio in continua impennata. In primo luogo, la Cina, con il suo consistente aumento della produttività – affidato ad alti livelli di investimento, tra cui investimenti nell'istruzione e nella tecnologia – ha esportato la propria deflazione. In secondo luogo, il vantaggio che da ciò gli Stati Uniti hanno tratto, abbassando i tassi di interesse a livelli senza precedenti e inducendo una bolla del mercato immobiliare residenziale alimentata da mutui accessibili a chiunque fosse al di sopra del livello di sussistenza. E, infine, il fatto che i lavoratori di tutto il mondo abbiano sbattuto il muso accettando salari reali più bassi e una quota del Pil inferiore.

Il gioco è finito. La Cina ora affronta pressioni di tipo inflazionistico e, se gli Stati Uniti convinceranno questo Paese ad accettare un apprezzamento della sua valuta, il costo della vita negli Stati Uniti e altrove non potrà che aumentare. Inoltre, con l'emergere dei biocarburanti, i mercati alimentari e quelli dell'energia hanno subito una integrazione. Tutto ciò combinato con una crescente domanda da parte dei settori a più alto reddito e una offerta in diminuzione a causa dei problemi climatici interrelati al mutamento del clima, implica prezzi più alti dei prodotti alimentari: una minaccia letale per i paesi in via di sviluppo.

Le prospettive per il consumo senza limiti negli Stati Uniti sono anche esse cupe. Anche se la Federal Reserve continuasse ad abbassare i tassi di interesse, chi ha accesso al denaro non si affretterà a riaccendere nuovi mutui viziosi e, di fronte alla caduta dei prezzi delle case, saranno meno numerosi gli americani disposti a continuare a spendere in maniera dissipata.Il governo Bush spera, in qualche modo, di riuscire a bloccare una ondata di espropri di case da parte dei creditori e di passare i problemi dell'economia al prossimo presidente, come sta facendo con il pantano iracheno. Le possibilità che vi riesca sono limitate. Oggi, per gli Stati Uniti, i veri termini della domanda sono se si tratterà di una contrazione dell'economia brusca e breve o di un rallentamento più diluito ma più prolungato.

Inoltre, gli Stati Uniti hanno continuato a esportare i propri problemi, non soltanto con la vendita di mutui venefici e di cattive pratiche finanziarie, ma anche tramite un dollaro sempre più debole, il risultato in parte di cattive macro e micropolitiche. L'Europa, per esempio, incontrerà sempre più difficoltà ad esportare. E in un'economia mondiale che ha poggiato sulle fondamenta di un "dollaro forte", la conseguente instabilità del mercato finanziario avrà un costo esoso per tutti.

Al tempo stesso, a livello mondiale si è verificata una massiccia ridistribuzione del reddito dai paesi importatori di petrolio a quelli esportatori - tra i quali un numero sproporzionato di paesi nei quali non vige la democrazia - e dai lavoratori di tutto il mondo ai ceti più ricchi in assoluto. Non è dato sapere se i lavoratori continueranno ad accettare una contrazione del proprio standard di vita in nome di una globalizzazione sbilanciata le cui promesse appaiono sempre più lontane. Negli Stati Uniti, si percepisce il montare del contraccolpo.

Per chi è convinto che una globalizzazione ben gestita abbia il potenziale di beneficiare sia i paesi sviluppati sia quelli in via di sviluppo e crede nella giustizia sociale a livello mondiale e nell'importanza della democrazia (e della vitale classe media che la sostiene), tutto ciò costituisce delle cattive nuove. Gli aggiustamenti economici di queste entità sono sempre dolorosi, ma la sofferenza economica è oggi più intensa perché i vincitori sono meno propensi a spendere.

In effetti, il rovescio della medaglia di «un mondo straripante di liquidità» è un mondo che deve fare i conti con una flessione della domanda aggregata. Durante gli ultimi sette anni, questo vuoto è stato riempito dalla spesa sfrenata degli Stati Uniti. Ma ora, considerando che i candidati presidenziali di entrambi i partiti politici promettono un ritorno alla responsabilità in materia fiscale, è probabile che frenino sia la spesa dei consumatori sia quella federale. Dopo sette anni durante i quali il debito nazionale degli Stati Uniti ha raggiunto la cifra di 9.000 miliardi di dollari dai 5.600 miliardi di dollari iniziali, questa dovrebbe essere una buona notizia, ma il tempismo non potrebbe essere peggiore.

In questo quadro fosco vi è una nota positiva: le fonti della crescita globale sono oggi più diversificate di quanto non lo fossero un decennio fa. I veri motori della crescita mondiale negli ultimi anni sono stati i paesi in via di sviluppo.

Ciò nondimeno, è inevitabile che una crescita più lenta – o forse anche una recessione – dell'economia più grande del mondo abbia delle conseguenze, sotto forma di un rallentamento globale. Se le autorità monetarie reagiranno in maniera appropriata a una crescente pressione inflazionistica – riconoscendo che buona parte di essa è importata e non il risultato di un eccesso di domanda interna – potremmo essere in grado di uscirne. Ma se le autorità monetarie alzeranno i tassi di interesse senza riguardo per restare dentro i tetti dell'inflazione, dovremo prepararci al peggio: un altro periodo di stagflazione.

Se le banche centrali seguiranno questa strada, riusciranno senz'altro a tenere l'inflazione lontano dal sistema. Il costo, tuttavia, in posti di lavoro, salari e case persi, sarà enorme."

Sembra, nel complesso, una macchina infernale. La speranza è che finalmente si schianti. Una recessione mondiale costerà a tutti lacrime e sangue, ma, forse, servirà a fare capire che il sistema capitalistico, come un cancro, non può essere arginato o riformato: va estirpato. L’al di là del sistema è, per ora, in mente Dei.