La crescita balorda dell'economia americana

1.

La straordinaria crescita economica americana degli anni '90, che ha finito con il rappresentare un irresistibile modello di riferimento per molte forze politiche europee, di destra, di centro e, ahimé, anche di sinistra, è stata fatta passare com'espressione dell'efficacia economica della ricetta neoliberista (contenimento della spesa pubblica, tagli fiscali, flessibilità lavorativa). Ci vuole poco a dimostrare che si tratta di un'interpretazione dei fatti sostanzialmente errata.

La ricetta liberista, con il suo correlato ideologico conservatore, prende forma negli anni '80 con la deregulation reaganiana. Nel giro di pochi anni, con il boom dei consumi prodotto dalla diminuzione dei tassi d'interesse e dal ricorso sempre più massiccio al credito, i tagli fiscali e gli aumenti della spesa pubblica (in gran parte per gli armamenti) determinano un pesante deficit di bilancio e un grave deficit della bilancia commerciale. Sotto Reagan si avvia l'intreccio tra politici e lobby finanziaria, le cui conseguenze sono vive ancora oggi. George Bush padre, subentrato a Reagan nel 1988, prosegue nella deregulation che, oltre agli effetti macroeconomici (incremento del PIL, aumento del disavanzo federale e deficit della bilancia commerciale), comincia a produrre anche consistenti effetti sociali: la distribuzione iniqua della ricchezza, la diminuzione delle spese sociali, la crescita della criminalità, la tendenza dei capitali ad abbandonare il terreno della produzione per quello speculativo. La promessa di una rivoluzione dell'offerta, intrinseca al neoliberismo, non si realizza. Quello che accade è solo un incredibile e scandaloso arricchimento delle fasce più alte di reddito, al prezzo di un grave squilibrio dei conti dello Stato.

Smentendo il suo programma elettorale, Bush è costretto ad aumentare le tasse per arginare la fase recessiva tra il 1990 e il 1992. Questo favorisce l'ascesa di Bill Clinton, il cui programma tempera appena l'estremismo della ricetta liberale con la necessità di ridurre il deficit e di salvaguardare le fasce sociali più deboli. Il primo obiettivo è raggiunto con una strategia pragmatica che comporta l'aumento delle tasse, la riduzione delle spese militari e un'ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro. Il secondo obiettivo rimane sostanzialmente sulla carta per l'opposizione della destra conservatrice. Sotto Clinton, che non applica alla lettera la ricetta liberista e si fa promotore della famigerata Terza Via, l'America va incontro ad un ciclo espansivo di otto anni. Numerosi indizi, negli ultimi anni '90, lasciano pensare che si tratti di una crescita "drogata". Nonostante l'aumento della ricchezza, distribuita appena un po' meno iniquamente rispetto al periodo reaganiano, gli americani però non sono contenti. Al solito, la protesta verte sull'elevata pressione fiscale. E' sfruttando questo malcontento irrazionale che George Bush junior vince le elezioni, sulla base di un programma che si propone di realizzare la ricetta neoliberista senza remore umanitarie, vale dire senza alcuna attenzione ai sacrifici imposti alle fasce sociali più deboli al fine di raggiungere un livello complessivo di ricchezza maggiore che, alla fine, sarebbe "sgocciolato" verso il basso.

Nonostante la crisi intervenuta nel primo semestre del 2000 avrebbe dovuto fare riflettere sugli effetti perversi che la ricetta neoliberista comporta, l'Amministrazione Bush l'ha confermata come asse portante della sua politica economica e l'ha proposta ai paesi europei come unica via d'uscita dalla crisi prodotta dallo Stato sociale. Poniamo tra parentesi il fatto, non insignificante, che se il governo si fosse attenuto alla lettera ai dettami di quella ricetta, che limitano al massimo grado l'intervento dello Stato a livello economico, la crisi americana sarebbe caduta di certo in una recessione dagli esiti imprevedibili. Attribuendo a fattori esogeni (il terrorismo) una crisi la cui matrice endogena è ormai fuori dubbio, essendo riconducibile all'enorme bolla speculativa borsistica maturata nell'ultimo quinquennio degli anni '90, il governo ha avuto buon gioco nell'intervenire massicciamente a favore dell'economia attraverso un'enorme immissione di liquidità nel sistema dovuto alla diminuzione critica del tasso d'interesse, la restituzione ai cittadini di crediti fiscali, l'intervento a favore di aziende in difficoltà (aeronautica) e un imponente aumento della spesa pubblica, in gran parte devoluto all'industria bellica. Ha adottato insomma provvedimenti tipicamente keynesiani per arginare la crisi, rimanendo fermo alla ricetta neoliberista per rilanciare l'economia. Negli ultimi tre anni, la politica economica dell'Amministrazione Bush, insomma, è stata manifestamente schizofrenica.

La ricetta neoliberista è facile da criticare: basta andare al di là del suono delle parole. Il contenimento della spesa pubblica, avallato come riduzione degli sprechi legati alla struttura burocratica dello Stato, in realtà si riduce a diminuire gli investimenti pubblici e a ridurre le spese sociali (soprattutto per quanto riguarda i sussidi di disoccupazione). I tagli fiscali, e soprattutto l'eliminazione delle tasse sui guadagni di Borsa, favoriscono l'accumulo di capitali nelle mani dei ricchi. La flessibilità, associata alla riduzione dei sussidi di disoccupazione, obbliga la forza-lavoro, qualificata e non qualificata, ad accettare le condizioni poste dai datori di lavoro, cioè condizioni di precarietà e di sfruttamento.

Nell'insieme, la ricetta liberista vale a spostare risorse dal pubblico al privato, a favorire l'accumulo dei capitali verso l'alto, con conseguente crescita di investimenti speculativi, e ad alimentare la produttività attraverso il contenimento dei salari. Giudicare questo modello economico iniquo ne coglie solo un aspetto. Esso, potenzialmente e di fatto, è socialmente disgregativo, in quanto fa pagare a chi ha meno i privilegi di chi ha di più.

Il crollo della Borsa del 2000 e l'avvio della crisi economica ha chiarito il significato sostanzialmente speculativo (almeno per gran parte dei titoli azionari hi-tech e per una parte consistente di quelli legati alla old economy) della crescita economica. Cionondimeno, la destra conservatrice americana non ha modificato minimamente il suo orientamento, puntando su di una ripresa rapida e tumultuosa (seguita in quest'assurda previsione solo dal Presidente del Consiglio italiano Berlusconi). L'attacco a quel minimo di Stato sociale che esiste negli Stati Uniti è proseguito, come i tagli fiscali a favore dei ricchi e la diminuzione delle garanzie per i lavoratori.

La ripresa di fatto è sopravvenuta, benché a distanza di tre anni dalla crisi. L'avvicinarsi delle elezioni presidenziali statunitensi, che - come noto -, si fondano sul portafoglio, hanno portato il governo ad esaltarla come se fosse l'inizio di un altro grande ciclo espansivo. A quest'esaltazione si sono accodate prontamente le banche e gli Investitori istituzionali, bisognosi di ripagarsi dello scacco della crisi del 2000, e tutti gli ammiratori europei del modello americano.

Il problema sta nel chiedersi quanto di vero c'è nella crescita che si è riavviata.

2.

Prima di arrivare all'analisi del presente, occorre fare la tara al mito del miracolo americano degli anni '90, che ha fortemente suggestionato l'opinione pubblica europea, promuovendo un orientamento elettorale verso il centro destra o obbligando governi di sinistra, come quello inglese, a seguire l'esempio americano. Tra il 1995 e il 2000 l'economia statunitense sembrava avere trovato di fatto la ricetta miracolosa vanamente perseguita dagli albori del capitalismo: la crescita è stata mediamente del 5% l'anno, la disoccupazione si è ridotta ai minimi storici del 4,5% e, ciò nonostante, l'inflazione è rimasta stabile intorno all'1,5-2%. Tali risultati sono stati prontamente attribuiti alle virtù del neoliberismo: lo zelo imprenditoriale, l'innovazione tecnologica, la flessibilità lavorativa. Che il miracolo fosse avvenuto per effetto di un'Amministrazione democratica non sorprendeva, visto che il Presidente Clinton, nonostante il programma con cui aveva vinto le elezioni, si era prontamente adattato a riconoscere quelle virtù. L'unico neo dell'Amministrazione democratica che, secondo alcuni, frenava una macchina produttiva che avrebbe potuto galoppare ancora di più, era identificato in una pressione fiscale elevata.

A posteriori, i fattori che hanno prodotto il miracolo americano degli anni '90 sembrano diversi da quelli addotti dai neoliberisti. Ormai è chiaro che si è trattato di un boom dei consumi costruito su uno spropositato accumulo di credito e su una gigantesca iniezione di capitali esteri, che sono andati a finanziare il conseguente deficit commerciale. Il motore della crescita è stato un incremento vertiginoso del valore corrente delle azioni, che ha fatto crescere la fiducia dei consumatori e ha attirato gli investitori esteri che sono accorsi per accaparrarsi una fetta della torta. Anche la globalizzazione ha giocato a favore degli Stati Uniti: il prezzo contenuto del petrolio e la sovrabbondanza di manodopera a basso costo sul mercato mondiale hanno mantenuta bassa l'inflazione, consentendo alla Federal Reserve di evitare rialzi dei tassi d'interesse anche in presenza di un boom del credito e del consumo. I profitti delle multinazionali americane all'estero sono cresciuti ad un ritmo doppio rispetto al mercato interno. La minaccia sempre più credibile di uno spostamento all'estero della produzione è stato un fattore decisivo per assicurare il contenimento dei salari.

La somma di questi fattori avrebbe prodotto un miracolo economico indipendentemente dalla ricetta liberista. Piuttosto che avviarlo e mantenerlo, questa ha contribuito a drogare la crescita producendo l'enorme bolla speculativa borsistica che si è repentinamente afflosciata nel corso del 2000.

Per gli effetti che lo scoppio della bolla ha avuto sull'economia mondiale, sarebbe stato opportuna un'analisi seria dei motivi per cui essa si era prodotta.

Vinte (avventurosamente) le elezioni con un programma che poneva al primo posto il taglio delle tasse, il Presidente Bush non ha perso un attimo a riflettere. Insistendo, contro l'evidenza delle cose, sulla salute dell'economia americana, egli si è proposto l'obiettivo di superare la crisi, di riavviare la crescita e di portarla nuovamente ai livelli degli anni '90. In questa sciagurata direzione è proceduto eliminando i prelievi fiscali sui guadagni di Borsa, riducendo drasticamente le tasse a vantaggio dei più ricchi, investendo enormi somme, detratte alle spese sociali, negli armamenti, e intraprendendo la guerra in Iraq per assicurarsi il controllo dell'energia petrolifera. Dopo tre anni, i fatti sembrano dargli ragione.

Negli ultimi mesi la crescita si è attestata intorno al 4%, gli investimenti sono aumentati, i consumi rimangono ad un livello elevato, i tassi d'interesse sono bassi, l'inflazione continua ad essere sotto controllo, la Borsa ha ripreso la sua corsa, con il Nasdaq che, in un anno, è aumentato del 100%, e il Down Jones che lo segue sia pure con aumenti più moderati. L'unico problema appariva sino a qualche tempo fa l'occupazione, che non decollava. Nell'ultimo trimestre sono stati creati però 360 mila nuovi posti di lavoro. Tutto dunque sembrerebbe attestare una ripresa solida e, per alcuni aspetti, effervescente.

Questi dati hanno ringalluzzito in Europa il partito dei filoamericani conservatori, tra cui spicca il Presidente del Consiglio italiano Berlusconi che, nonostante un'economia disastrata, promette agli elettori consistenti e incredibili tagli fiscali.

3.

Ad un'analisi più approfondita della situazione americana, appare immediatamente chiaro che non è tutto oro ciò che luce. Tre sono gli indizi che portano a questa conclusione.

Il disavanzo federale ha raggiunto la quota del 4% del PIL. L'America può reggere questo disavanzo solo perché, essendo una superpotenza economica incontrastata, non è tenuta a dar conto a nessuno del suo bilancio. Dato il suo primato, da cui dipende l'intera economia mondiale, essa continua ad attirare capitali dall'estero. Qualunque altro Stato con un deficit del genere scoraggerebbe gli investitori stranieri. Il problema è che gli altri paesi non possono permettersi di non prestare denaro all'America, perché un'eventuale crisi statunitense si ritorcerebbe anche a loro danno.

I consumi americani, infatti, riguardano per oltre il 40% beni importati, e si fondano in gran parte sul debito privato. Ciò spiega l'enorme deficit commerciale che si è definito negli ultimi anni. Per arginare questo deficit, l'Amministrazione statunitense sta lasciando che il dollaro progressivamente s'indebolisca e sta operando una sistematica pressione sulla Cina perché rivaluti la sua moneta. Anche se l'indebolimento del dollaro frena le importazioni e facilita le esportazioni, dato il volume dei beni esteri che l'America acquista, nessun paese può contrastare l'America. Per alimentare i consumi che concernono quei beni, occorre rifornire di denaro la Borsa. Naturalmente, essendo costretti ad investire, i capitalisti stranieri non disdegnano di partecipare alla speculazione.

La situazione borsistica è, infatti, l'indizio più preoccupante. I brokers e i grandi investitori esultano. La Borsa ha ripreso, da un anno a questa parte, il suo galoppo. Al di là dell'afflusso dei capitali esteri, occorre considerare fattori interni. In conseguenza del basso tasso d'interesse e dei tagli fiscali, negli Stati Uniti si è creata un'enorme liquidità detenuta soprattutto dai ceti privilegiati (il 15-20% della popolazione). I titoli di Stato non offrono praticamente nessun rendimento. Tranne il settore immobiliare, che, negli ultimi tre anni, in concomitanza con la crisi di Wall Street, ha riconosciuto un vero e proprio boom fino al punto di determinare un'altra bolla speculativa, non si dà alcun'altra alternativa d'investimento rispetto ai titoli azionari.

La crescita di valore dei titoli di Borsa dovrebbe essere, sulla carta, l'indice della buona salute dell'economia. Come tale essa è assunta dai brokers e dai politici conservatori. Non sembra però che le cose stiano così. Gli utili di Borsa, che le aziende hanno cominciato a distribuire agli azionisti, sono riconducibili infatti sostanzialmente ad un drastico taglio dei costi che ha riguardato soprattutto il lavoro. Questo è il motivo per cui, per alcuni mesi, la crescita è andata avanti con l'indice dell'occupazione praticamente fermo. E' vero che quest'indice si è rimesso, nell'ultimo trimestre, in movimento. Nel valutare questo dato, non si può prescindere però dal considerare l'effetto di un provvedimento governativo che ha flessibilizzato ulteriormente il mercato del lavoro. Tale provvedimento consiste nel fatto che i sussidi di disoccupazione, dopo due trimestri, vengono sospesi se colui che cerca lavoro rifiuta due offerte consecutive. Esso pone tra parentesi le motivazioni del rifiuto, e punta sul fatto che il lavoro va accettato alle condizioni poste dagli imprenditori. Si tratta di un vero e proprio ricatto, che giustifica la diminuzione dei sussidi di disoccupazione e la crescita dell'occupazione.

C'è da chiedersi però quanto potranno incidere, sui consumi, salari appena sufficienti a sbarcare il lunario o a tirare avanti alla meno peggio. Si tratta insomma di una manovra tipicamente elettorale che mira a compensare il disastro annunciato della guerra in Iraq.

I titoli azionari crescono di valore, ma, utilizzando l'indice p/e (prezzo del titolo/profitto dell'azienda), risulta chiaro che molti di essi, soprattutto per quanto riguarda il comparto tecnologico (Nasdaq), sono già sopravalutati fino alla cifra mostruosa di 300. La sopravalutazione è stata riconosciuta ufficialmente addirittura da Bill Gates, ed è il motivo per cui nessun investitore esperto rischia denaro proprio nell'acquisto di titoli tecnologici.

Insomma, anche se è arrivato solo a quota duemila (rispetto al tetto di 5000 raggiunto alla fine degli anni '90), il Nasdaq è già in fase di bolla speculativa. Per scongiurare lo scoppio di questa bolla, occorrerebbe, secondo gli esperti, una diminuzione del valore dei titoli almeno nella misura del 30%. Ma ciò non è possibile per due motivi. Il primo è di ordine politico. L'Amministrazione Bush punta sulla soddisfazione degli azionisti (soprattutto dei grandi investitori) per vincere le elezioni. Sovvenzionata lautamente dai ceti privilegiati, essa ha tutto l'interesse che i valori azionari si mantengano elevati. Il rimedio ottimale per frenare la loro corsa, l'aumento del tasso d'interesse, di sicuro non sarà posto in essere prima delle elezioni.

Il secondo motivo è di ordine economico. L'enorme liquidità di cui dispongono i ceti privilegiati, frutto della speculazione in Borsa fino a poco prima della catastrofe del 2000 e dei tagli fiscali che hanno avallato quella rapina, e la loro inesausta avidità di guadagno comporta inesorabilmente la tentazione di ripetere il gioco che si è rivelato così efficace nell'ultimo quinquennio del XX secolo. L'investimento della liquidità nei titoli porta al rialzo dei loro valori indipendentemente dai profitti delle aziende. Il rialzo attira i piccoli investitori, che non hanno alternative per fare fruttare il loro denaro. Ad un certo punto, presumibilmente dopo le elezioni presidenziali, si realizzerà una corsa alla vendita da parte dei grandi capitalisti e i piccoli investitori rimarranno nuovamente con le pive nel sacco. Si realizzerà, insomma, un nuovo trasferimento di ricchezza dai ceti meno abbienti a quelli più abbienti.

Considerando questi indizi, riesce chiaro che la crescita americana è molto meno solida di quanto si possa pensare stando ai fondamentali, e che l'economia statunitense nel suo complesso è un sistema instabile e precario (oltre che terribilmente iniquo).

Gli ammiratori europei del modello americano sono o sciocchi o superficiali o in mala fede (senza escludere una combinazione di questi fattori).

Le prospettive dell'economia americana, nonostante la ripresa, non sono affatto prive di rischi. L'enorme debito pubblico e quello non meno inquietante privato un giorno o l'altro dovrà essere pagato. Puntare, come fa l'Amministrazione Bush, su una crescita che ripianerà il debito pubblico attraverso l'aumento delle entrate fiscali e sull'aumento dei titoli azionari, che consentirà agli americani di continuare a spendere denaro che non hanno, non è un azzardo, bensì un miraggio. Per sanare il debito pubblico, la crescita dovrebbe attestarsi per alcuni anni su tassi dall'8 al 10%. Nessuno pensa che ciò sia possibile. Per sostenere i consumi, la Borsa dovrebbe produrre valori reali e non fittizi. Per ora, la realtà è un aumento reale sul quale ha già attecchito una bolla speculativa. Andando avanti, sarà questa a prevalere.

Dopo le elezioni, e quale che sia il loro esito, occorrerà necessariamente rialzare il tasso d'interesse e aumentare le aliquote fiscali. Gli effetti di questi due provvedimenti rischiano di realizzare una crisi dagli esiti imprevedibili.

La crescita americana dunque è una crescita drogata, ben poco rassicurante. Il modello neoliberista, vantato come miracoloso, non sembra in grado di produrre altro che un aumento della disuguaglianza all'interno e una tensione sempre maggiore, economica e politica, a livello internazionale.

Maggio 2004