Industria farmaceutica e bisogni sociali

1.

Se si vuole prendere atto dell'incompatibilità tra il capitalismo e i bisogni sociali, vale a dire i bisogni delle persone in carne ed ossa, non c'è alcun ambito più istruttivo dell'industria farmaceutica. Si tratta di un'industria in forte e continua espansione, che è andata incontro, negli ultimi dieci anni ad imponenti processi di concentrazione e di ristrutturazione. Anche nei paesi, come l'Italia, in cui lo Stato deteneva rilevanti quote azionarie, si è imposto poi il verbo della privatizzazione. In nome di questo verbo, anche la ricerca è stata delegata totalmente alle industrie.

Questa delega è stata ed è pericolosa. Il trattamento farmacologico è l'asse portante della medicina contemporanea. Subordinare la ricerca, la produzione e la distribuzione dei farmaci al principio del profitto, che governa l'industria privata, crea problemi d'ogni genere. Tali problemi sono esasperati dal fatto che i processi di concentrazione degli ultimi anni hanno determinato una pressoché totale egemonia dell'industria statunitense, che è caratterizzata da sempre dai prezzi più elevati del mondo. Tale politica dei prezzi, in parte dovuta alle spese per la ricerca in parte alle spese pubblicitarie, crea problemi anche negli Stati Uniti, laddove i poveri (che sono 41 milioni, vale a dire circa un sesto degli abitanti) devono spesso rinunciare a curarsi.

Sul piano mondiale, poi, tale politica ha degli effetti esiziali. Un dato recente che lo comprova è legato all'AIDS, che è una delle cause di maggiore mortalità nei paesi del Terzo Mondo, soprattutto africani, e si diffonde a macchia d'olio. Già alcuni anni fa, prendendo atto dei progressi nella cura farmacologica realizzatisi in Occidente, alcune organizzazioni non governative proposero di autorizzare la produzione diretta dei farmaci nei paesi del Terzo Mondo senza pagare i brevetti, la cui durata, definita dalle industrie farmaceutiche, è di venti anni. La proposta, decisamente rifiutata, venne riformulata auspicando la riduzione della durata dei brevetti a cinque anni. Di questa nuova proposta si è fatta carico l'O. M. S., che l'ha tradotta di recente in una "raccomandazione" rivolta alle industrie farmaceutiche e ai governi perché tenessero conto, oltre che delle leggi del mercato, dei drammatici bisogni di milioni di persone.

La raccomandazione concerneva prevalentemente gli Stati Uniti, la cui industria farmaceutica è la più potente al mondo. La risposta del governo americano, giunta in questi giorni di fine d'anno per bocca di un avvocato-portavoce, è stata negativa. Le motivazioni addotte per rifiutare la proposta fanno capo alla necessità delle industrie di assicurarsi ingenti profitti per investirli nella ricerca. Una diminuzione dei profitti e un rallentamento degli investimenti, che seguirebbero inevitabilmente alla "liberalizzazione" dei farmaci anti-AIDS, potrebbe comportare un danno per i cittadini occidentali che sarebbero privati dei vantaggi di nuovi farmaci che solo una continua e costosa ricerca potrà produrre.

Il costo per i paesi del Terzo Mondo di questa decisione è facile da fare. Di AIDS muoiono circa 8400 persona il giorno in tutto il mondo, il 95 % delle quali (dunque 8000) nei paesi poveri (soprattutto africani). La decisione del governo americano condanna dunque praticamente a morte 240000 persone in un mese e poco meno di tre milioni in un anno. Se a questa cifra, si aggiungono i morti per malaria e per tubercolosi, anch'essi penalizzati dai brevetti industriali, la cifra è da capogiro, sfiorando i cinque milioni di morti ogni anno.

Le industrie farmaceutiche, in nome delle leggi di mercato, non possono fare beneficenza. Dovrebbe dunque provvedere qualcun altro. L'ONU, però, già impegnata sul fronte degli aiuti alimentari, non ha fondi che le permettano di far fronte all'emergenza. Nessun paese occidentale può o intende stornare cifre imponenti dal proprio bilancio per curare cittadini del Terzo Mondo, tanto più in una fase in cui lo Stato sociale è in gravi difficoltà.

2.

La vicenda dei farmaci anti-AIDS non fa che replicare uno "scandalo" perfettamente coerente con le leggi dell'economia: quello per cui, fino ad un recente passato, nonostante nel mondo già si morisse di fame, le eccedenze agricole prodotte nei paesi occidentali venivano distrutte per non indurre una diminuzione dei prezzi.

La questione dell'AIDS non è peraltro la sola legata alla privatizzazione dell'industria farmaceutica. Occorre considerare, infatti, almeno un altro aspetto: quello delle malattie neglette. Con tale termine s'intendono le malattie epidemicamente diffuse a livello dei paesi sottosviluppati che le industrie trascurano perché i costi della ricerca sono troppo elevati in rapporto alle disponibilità economiche dei paesi in questione. Si tratta essenzialmente della malaria e della tbc che, dopo una flessione epidemiologica di qualche anno, hanno ripreso a diffondersi in maniera estremamente preoccupante. I vecchi farmaci a basso costo non funzionano più perché i nuovi ceppi batterici risultano resistenti.

Vari richiami sono stati operati dall'OMS perché le industrie si facciano carico di questo problema. Sinora però la risposta è stata negativa.

C'è da considerare poi un altro fatto. In alcune regioni del mondo, soprattutto in Brasile, le industrie farmaceutiche hanno scoperto una serie di erbe, già utilizzate dalle popolazioni indigene, ad effetto farmaceutico. Esse stanno provvedendo a definire dei brevetti che consentiranno loro di monopolizzare la commercializzazione di questi nuovi farmaci, espropriandone i legittimi proprietari.

La richiesta di farmaci da parte del Terzo Mondo corrisponde anche alla lotta che l'Occidente ha portato avanti contro le pratiche mediche indigene, ritenute poco scientifiche quando non addirittura di carattere magico. Tale lotta ha sortito, sia pure lentamente, l'effetto di allontanare le popolazioni dai guaritori tradizionali e di indurle a rivolgersi agli ospedali e ai servizi sanitari organizzati secondo i principi positivi della medicina occidentale. Il problema è che, in seguito alla globalizzazione e ai tagli alla spesa sociale imposta dal FMI ai pesi sottosviluppati, i servizi pubblici sono andati in malora. La medicina dei guaritori sta sparendo e quella dei neocolonizzatori non decolla.

3.

Non si può stigmatizzare più di tanto le industrie farmaceutiche. Esse fanno il loro mestiere. Per attirare gli investimenti, devono assicurare agli azionisti dei profitti.Il modo in cui questi si realizzano non fa differenza per un azionariato diffuso che non si pone problemi di etica e dà per scontato che prestare denaro implica un ritorno con gli interessi. Non si può richiedere ad un'industria privata di fare beneficenza.

E' vero però che le motivazioni economiche addotte dalle industrie farmaceutiche per mantenere il loro rigido atteggiamento non sono del tutto condivisibili. La durata di venti anni dei brevetti, sostenuta come soglia minima per ricoprire i costi delle ricerche, sembra eccedere di gran lunga i costi dell'ammortamento.Le spese pubblicitarie, che hanno un'incidenza enorme sui bilanci delle industrie, gran parte delle quali sono investite a favore dei medici, sembrano sconfinare dall'ambito di una corretta e puntuale informazione, traducendosi spesso in un incentivo delle vendite alimentato da tangenti (spesso fornite sotto forma di gadgets, partecipazioni gratuite ai congressi, ecc.).

Ciò posto, occorre considerare però che la logica privata è stata alimentata dai governi, e in particolare negli Stati Uniti, nel nome di un liberismo che, a questo livello, rivela il suo volto meno umano. Se la salute è un bene pubblico, perché mai la gestione di un settore così importante come quello farmaceutico deve essere lasciato nelle mani dei privati? Perché lo Stato, che ha ovunque i suoi istituti di Sanità e i suoi centri di ricerca scientifica, delega del tutto ai privati la ricerca e la produzione farmacologica?

Rispondere non è difficile, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti. Dopo l'industria petrolifera, quella farmaceutica è estremamente attiva nello sponsorizzare le spese elettorali.

Molti cittadini dei paesi sottosviluppati moriranno in nome della sacralità dei diritti di proprietà intellettuale. Coloro che sopravviveranno avranno, però, ulteriori motivi per odiare l'Occidente.

Dicembre 2002