La fatuità dell'Economia, "scienza" impura (2)

 

1.

Nell'articolo precedente mi ero ripromesso di recensire l'ultimo volume della Storia dell'Economia ripubblicata, a circa 8 anni di distanza dalla prima edizione, da Il Sole 24 ORE su licenza della Laterza. Era prevedibile, infatti, che esso dovesse comportare un aggiornamento sulla crisi intervenuta di recente, in stridente contrasto con il trionfalismo del volume precedente. Di fatto già nella precedente edizione, l'ultimo volume, pubblicato nel 2002, cercava di moderare gli entusiasmi espressi da Andrew Gamble e Michel Albert sottolineando I paradossi della crescita (Giorgio Ruffolo), i nodi critici della globalizzazione (Giuseppe Are), i problemi della povertà e dell'emrginazione ((Keith Griffin) e le incognite all'ingresso del XXI secolo (Valerio Castronuovo). Nonostante questo, esso manteneva nel complesso un'intonazione sostanzialmente positiva sugli sviluppi del sistema capitalistico espressa dal titolo Nuovi equilibri in un mercato globale, che lasciava pensare ad una fase di crescita e di transizione che avrebbe richiesto interventi politici correttivi degli inevitabili squilibri legati alla crescita stessa.

Riporto alcune citazioni dall'ultimi capitolo della prima edizione:

"Prospettive di sviluppo e incognite all'ingresso nel XXI secolo

di Valerio Castronovo

Il Novecento si è chiuso con il successo della democrazia e l'affermazione dell'economia di mercato. Dopo il crollo del nazifascismo è scomparso dalla scena anche l'altro sistema totalitario, quello impersonato dall'Unione Sovietica e dai regimi comunisti dell'Est. E l'ultimo «pianeta rosso», la Cina, quantunque sia ancora arroccata sulle vecchie trincee politiche e ideologiche, s'è intanto aperto al libero scambio e sta sperimentando una sorta di «socialismo di mercato» che prima o poi, per forza di cose, potrebbe indurre la nomenclatura al potere a imboccare la via delle riforme.

Sarebbe tuttavia un errore pensare che non sia rimasta d'ora in avanti che un'unica direttiva di marcia, senza sostanziali scarti e variazioni, lungo una traiettoria segnata sia dal definitivo sopravvento nel proscenio mondiale degli interessi mercantili sugli antagonismi nazionali e su altre pulsioni conflittuali, che dalla progressiva democratizzazione degli ordinamenti politici e dei sistemi di governo. Così come la storia non ha mai seguito in passato una linea retta e univoca, così ancor oggi il suo cammino continua a essere indecifrabile. Fuor di metafora, se il capitalismo e la democrazia appaiono oggi alla luce dell'esperienza degli ultimi decenni le strade che le società più avanzate dell'Occidente hanno praticato e verso cui quelle emergenti sembrano avviarsi, questo non vuoi dire che l'uno o l'altra siano in grado di orientare e segnare irreversibilmente il destino del resto dell'umanità, in base a un modello coerente e universalmente condiviso. E ciò non solo perché, dissoltasi l'ipotesi di una vittoria del comunismo, siano scomparse le ideologie (come vorrebbe uno dei luoghi comuni più diffusi del nostro tempo), in quanto altre sono rimaste pur sempre in vita, o sono emerse frattanto alla ribalta, ugualmente incompatibili con i principi dello Stato liberale o in antinomia con le proiezioni del sistema capitalistico. Ma anche perché è difficile immaginate che esistano le condizioni per un processo di omologazione su scala mondiale tale da permeare con i medesimi in­gredienti e nelle stesse forme paesi e sistemi assai diversi per tradizioni storiche, esperienze politiche, identità culturali e sociali.

D'altra parte, il Novecento ha lasciato in eredità al nuovo secolo, insieme a uno stuolo di speranze di segno positivo, anche una spirale di apprensioni e di inquietudini. Così che ci troviamo in bilico fra valutazioni e suggestioni antitetiche, a interrogarci su quel che ci attende all'ingresso nel 2000. E tornato infatti ad affacciarsi negli ultimi anni un incubo angoscioso, che credevamo esorcizzato una volta per tutte, dopo che nel cuore dell'Europa, nei vari spezzoni della ex Jugoslavia, si sono riprodotte, tra persecuzioni ed eccidi di massa, brutali violazioni dei diritti umani e dei più elementari principi civili, che sembravano appartenere a un'epoca lontana. E altri inquietanti fantasmi del periodo più cupo del Novecento sono ricomparsi ai giorni nostri, tanto per la reviviscenza di odiosi pregiudizi antisemiti, non solo nelle file dell'estrema destra, quanto per la propagazione di forti vampate di razzismo e xenofobia in un'Europa eletta a propria meta da una folla crescente di immigrati extracomunitari. Per giunta, se non si troverà il modo di neutralizzarlo, un nuovo morbo, il terrorismo a livello globale, rischia di mettere a repentaglio, con le sue strategie destabilizzanti e omicide, l'ordine e gli equilibri mondiali, e di provocare uno stato di perenne tensione ed emergenza.

Né questi sono gli unici motivi di preoccupazione. C'è infatti da chiedersi quali effetti avranno i poderosi processi di trasformazione economica e di innovazione tecnologica di cui l'Occidente è stato promotore e agente principale, che si sono susseguiti nell'ultimo decennio con una velocità mai prima d'ora così vertiginosa. Giacché, se da un lato essi appaiono forieri di ulteriori opportunità di sviluppo e di progresso, dall'altro non risultano affatto privi di forti incognite. Stiamo assistendo a un mutamento sempre più rapido di condizioni di vita e di culture materiali, di saperi e categorie concettuali, di criteri di organizzazione sociale, di modi di lavorare e produrre, senza che talora ci sia dato il tempo per predisporre gli strumenti necessari a filtrare e regolare il senso e i risultati di tali processi. E la mondializzazione, la globalizzazione dei mercati, i fiumi di capitali che ogni giorno percorrono le piazze finanziarie, le nuove tecnologie informatiche della comunicazione, l'intreccio sempre più fitto di rapporti fra soggetti diversi da un'area all'altra, la cultura comune dei suoni e delle immagini, se spezzano vecchi diaframmi e aprono nuovi orizzonti, dandoci la sensazione che non esistano più limiti alla libertà d'iniziativa e ostacoli di tempo e di spazio agli scambi commerciali e ai contatti interpersonali, hanno anche per effetto l'erosione sia dei meccanismi abituali di regolazione della vita sociale sia delle diversità culturali, e ci espongono direttamente ai contraccolpi determinati da tensioni e situazioni critiche ancorché lontane dai nostri confini.

In un mondo che si dilata e al tempo stesso si rimpicciolisce, è inevitabile che un filo rosso finisca per collegare sempre più strettamente il nostro destino a quello degli altri nell'ambito di molteplici circuiti d'integrazione e d'interdipendenza planetari. Le vecchie mura di casa, gli Stati nazionali, le comunità locali, non costituiranno più, quando già non lo siano, quei rassicuranti bastioni che erano una volta, in quanto garanti di appartenenza culturale e solidarietà sociale. E ciò richiederà non so­lo un modo diverso di vedere le cose, ma anche l'assunzione di nuovi punti di riferimento e di nuovi compiti che coinvolgeranno non solo governi e istituzioni pubbliche, ma ognuno di noi, l'intera collettività.

Ci chiediamo pertanto se e come saremo in grado di affrontare le molteplici sfide imposte da questi mutamenti di scenario e di prospettiva. Avremo innanzitutto a che fare con i problemi sempre più complessi derivanti dall'invecchiamento della popolazione nei paesi più prosperi, dall'incessante boom demografico in quelli più diseredati e, di conseguenza, con questioni cruciali come il crescente afflusso di immigrati dal Terzo Mondo verso la parte più ricca del pianeta e l'incontro-scontro fra genti di fedi e culture estremamente differenti, i cui nodi possono esse­re sciolti solo in spirito di reciproca tolleranza. D'altra parte, ci chiediamo, oggi che il capitalismo ha vinto la "guerra dei settant'anni" con il comunismo, se i suoi più recenti sviluppi, la rivoluzione informatica e la globalizzazione, l'integrazione economica su scala mondiale, contribui­ranno a ridurre, e non già ad aggravare, le sacche di miseria in cui vivono i tre quarti dell'umanità: in altre parole, se avremo sufficiente capacità e lungimiranza per promuovere un incremento delle risorse non circoscritto entro le frontiere dei paesi ricchi e uno sviluppo sostenibile, che non si traduca in un ulteriore degrado dell'ambiente fisico, già alle soglie del livello di guardia per sovrappopolazione e inquinamento. Ci chiediamo inoltre se avremo l'occhio e il cuore necessari per impedire che un continente come l'Africa, in preda a ricorrenti calamità naturali e guerre intestine, aggredito dall'Aids e da altre pestilenze letali, non fi­nisca alla deriva, fra il silenzio e l'indifferenza generale.

Anche la parte più prospera del mondo si trova dinanzi a problemi cruciali. Ci chiediamo infatti se verremo a capo, nei paesi dell'Occidente a cui apparteniamo, delle crescenti difficoltà di governo e di mediazione politica nell'ambito di società di massa sempre più molecolari e disarticolate, esposte da un lato alle pressioni dei grandi interessi organizzati e assediate dall'altro da nuove forme di precarietà ed esclusione sociale: se riusciremo perciò a scongiurare la minaccia sia di un depotenziamnento delle istituzioni rappresentative sia di un'involuzione verso la cosiddetta «società dei tre terzi» (fra soddisfatti, arrancanti ed emarginati). E non sono queste le uniche prove a cui dovremo far fronte, giacché occorrerà individuare anche le misure più efficaci sia per de­bellare la criminalità organizzata nelle sue nuove connotazioni e contrastare la diffusione della delinquenza comune, garantendo adeguate condizioni di sicurezza collettiva e personale; sia per estirpare la mala pianta dell'illegalità e della corruzione d'alto bordo, al fine di evitare lo scadimento della moralità pubblica.

Interrogativi altrettanto inquietanti sta ponendo l'impetuoso sviluppo della tecnologia. Alla fine del Novecento l'uomo si è trovato a disporre di strumenti di comunicazione senza più vincoli in fatto di distanze e di mobilità, nonché di una somma di conoscenze impensabili sino a qualche tempo prima e pressoché in ogni campo, dall'infinitamente grande all'infinitamente piccolo: dall'estensione incommensurabile dell'universo ai frammenti microscopici dell'elettronica. E tuttavia il progresso tecnico e scientifico, se da un lato ha moltiplicato le nostre risorse e lascia presagire nuovi affascinanti risultati, dall'altro sta suscitando forti perplessità e problemi d'ogni sorta. E ciò non solo per l'angoscia che le crescenti potenzialità della tecnologia continuino a essere convertite per rendere ancor più micidiali i mezzi di distruzione di massa; o per io smarrimento destato dal fatto che, in base alle più recenti acquisizioni della genetica, essa sia oggi in grado di ipotizzare persino la donazione dell'uomo. C'è chi paventa anche che, di questo passo, per via delle sue cadenze assai più dinamiche di quelle del sistema formativo, la tecnologia ci sfugga di mano, finisca per trasformarsi da strumento in fine a se stesso, in una sorta di soggetto demiurgico, al punto di condizionare ogni nostra scelta in conformità alle stesse logiche, ai medesimi criteri deterministici, che sono alla base dei suoi processi di accumulazione e autopotenziamento. E già ci sarebbero i segni premonitori di una simile deriva, di una dissociazione fra progresso tecnico e progresso sociale e civile: sia per il pericolo che i prodotti del macchinismo finiscano per alterare irrimediabilmente gli equilibri ecologici; sia per le insidie celate nei medium elettronico, quale potenziale strumento non solo di livellamento culturale (e quindi di distruzione di una memoria e di un'identità collettiva) ma anche di manipolazione politica e sociale.

Non per questo, di certo, dovremmo deprecare l'avvento della biotecnologia e dell'informatica come se si trattasse di altrettante creature di Frankestein e del «Grande Fratello» di Orwell, e non già degli elementi strutturali di un sistema sociale avanzato. Al di là di certi pregiudizi ideologici, dobbiamo badare ai fatti. E preoccuparci quindi di stabilire forme d'intervento e politiche tali da volgere in positivo, nei termini e con i mezzi giusti, queste e altri parti della tecnoscienza, così da neutralizzarne certi aspetti più ambigui e contraddittori, assicurare nuovi orizzonti di vita, accrescere i nostri spazi di libertà e creare nuove opportunità di sviluppo garantendo a tutti, insieme alla possibilità di conoscere e comunicare, quella di accedere ai nuovi strumenti di lavo­ro, di socializzazione e di formazione culturale. Quanto mai emblematico a questo riguardo sarà il modo con cui sapremo gestire la Rete, per renderla il più aperta possibile e per evitare, in base ad adeguate norme antitrust, che lo spettro elettromagnetico sui quale viaggiano le telecomunicazioni e molte attività commerciali non diventi appannaggio delle più potenti multinazionali, e impegnandoci per il resto a salvaguardare quel prezioso patrimonio costituito da retaggi, identità, spazi culturali autonomi, non mercificati.

In sostanza, dovremo imparare a misurarci con i problemi del nostro tempo rintracciando nuove piste, escogitando nuove soluzioni, accertando di volta in volta la loro congruenza e validità, all'insegna non già di mirabolanti terapie taumaturgiche e di ambizioni ecumeniche, bensì di prospettive praticabili e di speranze ragionevoli, coinvolgendo nella definizione di principi e regole condivisibili tutti gli attori sociali. Che è in fondo l'unico modo sia per non ricadere nell'errore di farsi abbagliare da teoremi ideologici, da utopie palingenetiche, tanto più fallaci quanto più smaglianti, sia per non rimanere paralizzati da valutazioni dettate dallo scetticismo o peggio da un aprioristico pessimismo.

E dunque una fase di transizione, in cui l'esperienza del passato si confronta con la ricerca di equilibri nuovi e diversi, quella che stiamo vivendo. Dal quadrante della storia sono scomparse alcune carte e bussole politiche d'un tempo che pretendevano di guidare l'umanità verso la «terra promessa» e «più alti destini» in cambio di una totale sottomissione alle loro prescrizioni categoriche. E si è trattato senza dubbio di una grande svolta liberatoria. Ma anche altre mappe, che pur non erano tali da alimentare simili miraggi, sono ormai ingiallite o ci possono servire solo in parte nella loro configurazione originaria. Dobbiamo insomma apprendere e sperimentare nuovi percorsi." (PP. 523-527)

"Uno scenario economico non più incentrato soltanto sull'industria manifatturiera ma segnato dalle cadenze sempre più impetuose della rivoluzione tecnologica, dell'informatizzazione e delle telecomunicazioni; un processo di crescente espansione degli investimenti, tale da superare i recinti dei mercati nazionali dei beni e dei servizi; più larghe possibilità per le imprese di accesso ai capitali finanziari in qualsivoglia parte del mondo; una maggiore divisione internazionale del lavoro e più intensi flussi commerciali; un più ampio ventaglio di opportunità allocative per risparmiatori e di opzioni per i consumatori in base al binomio costo-qualità. Ma, al tempo stesso, più concorrenza e competizione e quindi rischi di instabilità; meno possibilità per i singoli soggetti di contare sulle stesse forme di assistenza di una volta, e per i gruppi sociali di agire sulla scorta di politiche economiche e di relazioni sindacali centralizzate; più limitazioni alle prerogative e al potere di controllo dei governi nazionali; e, per contro, più spazi d'iniziativa e d'intervento normativo da parte di enti e sodalizi sovranazionali.

Questi e altri mutamenti, in quanto debordano i confini nazionali, hanno messo in discussione il modello economico e sociale su cui si basavano sia le politiche dei poteri pubblici che le istituzioni classiche del welfare.

Governare il cambiamento, non limitarsi più a gestire l'esistente. Nel corso degli anni Novanta, questo è diventato il compito precipuo delle forze politiche nei paesi più avanzati. Una sfida tanto più impegnativa in quanto si tratta di coniugare le ragioni dello sviluppo e della competizione in un mercato globale con quelle dell'interesse collettivo e della ione sociale. Dunque, come declinare su una nuova frontiera i valori della solidarietà? Come rispondere alle istanze che una società di massa continuamente propone senza cadere nell'assistenzialismo? In che modo ridefinire il ruolo dello Stato? Sino a qual punto fare affidamento sulle leve del mercato senza rinunciare alla definizione di alcune linee-guida? Quali misure adottare per lo sviluppo di nuove forme di collaborazione internazionale?

Questi interrogativi hanno investito l'intero arco delle élites dirigenti. Ci si è resi conto infatti che non si poteva continuare a esorcizzare le conseguenze di una crescita oltremisura della spesa pubblica. Nel 1990 essa era giunta in Svezia a incidere con una quota del 60 per cento sul prodotto interno lordo; in Italia e nei Paesi Bassi si aggirava intorno al 54 per cento; in Francia e in Norvegia rappresentava quasi la metà del PA, in Germania era pari al 45 e passa per cento; e oltretutto continuava a crescere. Era perciò necessario intervenire per arrestare questa spirale, senza usare l'accetta ma stabilendo quali fossero gli obiettivi irrinunciabili e quale fosse il modo meno dispendioso per conseguirli.

Di fatto, con i cambiamenti del paradigma tecnologico si sono aperte larghe brecce nelle vecchie roccaforti del lavoro dipendente; mentre la crescita di quello autonomo non è più tale da bilanciare la disoccupazione o da riscattare la sottoccupazione nei meandri del sommerso. D'altro canto, gli sviluppi di un'economia sempre più aperta comportano la liberalizzazione del mercato, così da stimolare la concorrenza fra i produttori e da consentire ai consumatori di godere dei vantaggi della competizione. E ciò impone sia il progressivo smantellamento dei monopoli pubblici che la messa al bando di determinati protezionismi corporativi. Inoltre, dopo che le economie nazionali hanno aperto le loro porte, o esse non sono più chiuse come erano in passato, le imprese non possono più scaricare sui prezzi dei prodotti i costi sociali. Perciò il welfare non poteva più funzionare allo stesso modo d'un tempo.

Senonché, quando ci si inoltra sul terreno delle soluzioni concrete da adottare per coniugare lo sviluppo della libera iniziativa con le finalità di ordine sociale e un'equa redistribuzione del reddito, si stenta a indicare proposte efficaci e omogenee. Che alcuni meccanismi del welfare siano ormai usurati a causa di stridenti disfunzioni dovute a un sovraccarico di procedure burocratiche, o perché deformati dalla straripante pressione di vari gruppi d'interesse e di categoria, o perché inconciliabili con la prospettiva di un'esplosione della popolazione della quarta età, è un dato di fatto incontrovertibile. Non per questo tuttavia si deve considerare lo «Stato sociale» nel suo complesso alla stregua di un ferrovecchio di cui disfarsi totalmente. E, se innegabile risulta la superiorità del sistema di mercato rispetto a ogni altra forma di organizzazione economica, esiste pur sempre il rischio che lo spontaneo dispiegarsi delle forze in campo, in un confronto senza altre regole che quelle ispirate unicamente a interessi individuali e consortili, produca rovinose dispersioni di risorse e diseguaglianze sociali intollerabili." (Pp. 528-529)

"La globalizzazione del mercato è giunta a produrre lo stesso impatto politico ed emotivo che un tempo aveva la guerra fredda. Non solo perché ci si domanda se un'integrazione economica multi dimensionale e su scala planetaria sia governabile e in che modo lo possa essere. Ma anche perché la globalizzazione è divenuta anche una sorta di simbolo, di emblema per eccellenza dei nostri tempi, e come tale è andata caricandosi di forti connotazioni ideologiche.

Tant'è che il mercato globale è divenuto oggetto di fascinazione o di demonizzazione, a seconda del giudizio di chi lo considera senz'ombra di dubbio una leva di progresso economico universale e di benefici sociali per tutti o quello di chi invece, in modo altrettanto aprioristico, lo ritiene un'autentica jattura, un'insidia micidiale per la democrazia, un fattore di ulteriori diseguaglianze fra il Nord e il Sud del pianeta.

Una cosa è certa. Ed è che la crescente interdipendenza fra le diverse economie e aree geografiche, in un unico mercato competitivo, sta prefigurando una vera e propria svolta epocale. Poiché si tratta di un fenomeno ben più complesso e pervasivo di quanto ritenessero sino a qualche tempo fa alcuni storici e sociologi, che consideravano la globalizzazione un'intensificazione dei traffici e dei rapporti di scambio, con cadenze e frequenze più rapide, rese possibili dall'innovazione info-telematica, rispetto a quelle dell'economia-mondo degli ultimi cinque secoli. Sono infatti almeno due i tratti distintivi della globalizzazione: la forte rilevanza degli investimenti diretti all'estero e delle strutture deterritorializzate, che hanno dato luogo alla localizzazione di imprese e banche in una molteplicità di paesi diversi da quelli di origine storica; e il gran numero di operatori e soggetti coinvolti in un modo o nell'altro nel processo d'integrazione economica mondiale, attraverso decisioni autonome che prescindono dalle strategie politico-militari d'un tempo degli Stati originali, nonché mediante la progressiva uniformazione a culture e normative transnazionali. In pratica, è andata formandosi una galassia di legami e interazioni di ogni sorta da un luogo all'altro (sia nella produzione di beni e di servizi, che nel mercato dei capitali e del lavoro, sia ancora nel campo delle conoscenze e delle tecnologie), tanto fitta ed estesa da abbracciare paesi diversissimi e lontani fra di loro: come se, al di là delle rispettive longitudini e latitudini, appartenessero a un unico fuso orario. E' questo lo scenario che fa da cornice al nostro ingresso nel XXI secolo. Uno scenario in cui le dimensioni della mondializzazione si allargano sempre più e le frontiere nazionali diventano invece sempre più permeabili quando non evanescenti.

Ci piaccia o no, la globalizzazione è ormai una realtà irreversibile. Non solo perché negli ultimi quindici anni circa due miliardi di persone hanno fatto ingresso in pieno o parzialmente nei circuiti di mercato; e le reti informatiche, le telecomunicazioni digitali, Internet e le biotecnologie, sono destinate ad ampliare ulteriormente l'area dell'economia globale e ad accrescere la mutua dipendenza di un sempre maggior numero di persone e di attività, ancor più velocemente di quanto sia avvenuto sino ad oggi. Ma anche perché, ammesso che fosse possibile tornare indietro, ciò significherebbe il ripristino di vecchie recinzioni protezionistiche, di fallaci modelli autarchici e dirigisti, di sbarramenti e particolarismi nazionalistici, a scapito dello sviluppo economico e con gravi traumi di carattere politico. Ma, se la globalizzazione è un fenomeno irreversibile che non possiamo fermare, ciò non significa che debbano essere soltanto gli automatismi di mercato a stabilire le cadenze e le modalità del suo percorso. In mancanza di una regolazione, di efficaci strumenti di orientamento e controllo dei flussi finanziari e commerciali, c'è infatti il pericolo che il processo di trasformazione in atto degeneri in una sorta di mercificazione caotica e devastante, all'insegna di un individualismo sfrenato e di una competizione selvaggia, e perciò nell'annullamento delle prospettive di crescita delle risorse e di evoluzione sociale scaturite dalla rivoluzione informatica e dalla diffusione delle conoscenze oltre le costrizioni del luogo e le servitù del tempo. Si assisterebbe insomma al predominio degli interessi più forti e alla crescita delle diseguaglianze, anziché dar luogo a un nuovo sistema economico internazionale fondato sulla stabilità, sul pluralismo e sull'equità.In sostanza, la globalizzazione non è di per sé un bene o un male, l'alba di un'età dell'oro o una sorta di Apocalisse: come tutti i processi storici, che non sono lineari e senza costi, essa è una medaglia a due facce, in quanto suscettibile di grandi opportunità come di gravi rischi. Di fatto, i suoi esiti in un senso o nell'altro dipenderanno dalla capacita dei principali governi e degli enti internazionali di costruire un nuovo quadro normativo multilaterale, di elaborare un insieme di politiche economiche e sociali che valgano a rendere possibile una distribuzione più ponderata dei flussi di capitale fra paesi ricchi e paesi poveri, una riqualificazione del lavoro intonata alle innovazioni tecnologiche, nonché dei modelli di sviluppo più sostenibili e socialmente compatibili, tali da evitare squilibri ed emarginazione. E pur vero che il mercato ha logiche e regole di funzionamento sue proprie; ma è altrettanto vero che il mercato non è una realtà a sé stante, ma un'istituzione sociale, che può e deve essere orientata al perseguimento di obiettivi non solo economici. Del resto, una globalizzazione che procedesse senza alcun controllo, senza adeguate regole di comportamento comune, produrrebbe distorsioni nei mercati, falserebbe la concorrenza, premierebbe le speculazioni, e incepperebbe prima o poi gli sviluppi dell'economia. C'è perciò da preoccuparsi del ritardo con cui si sta prendendo coscienza della necessità di porre mano a un sistema efficace di norme e di interventi correttivi. In pratica, mentre l'economia è divenuta globale e l'integrazione finanziaria non ha più confini, la politica è rimasta per lo più ancorata a schemi territoriali nazionali. E i singoli governi non hanno in ogni caso strumenti idonei per controllare i fenomeni che hanno dimensioni e valenze mondiali. Si è così determinato un deficit politico e strutturale di governo dell'economia che, qualora non fosse colmato per tempo, potrebbe generare non solo pesanti contraccolpi in senso neo-mercantilista e aggravare le condizioni dei paesi più poveri, ma esporre anche a seri pericoli d'involuzione le democrazie più deboli, come quelle dell'America Latina e dell'Est europeo.

Un tempo bastava il presidio delle banche centrali e delle organizzazioni internazionali esistenti a evitare il rischio di una destabilizzazione sistemica. Oggi non è più così. Non solo si sono ormai arrugginiti o dissolti i principi regolatori degli accordi di Bretton Woods. Ma i problemi di governabilità che il mercato globale solleva sono assai più ardui e complessi di quelli del passato. Sia perché le istituzioni preposte in un modo o nell'altro alla governance dell'economia (come la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l'Organizzazione mondiale per il commercio), essendo degli organismi tecnici e non già degli organismi politicamente responsabili, non sono in grado di garantire decisioni sorrette da un consenso di base largo e ineccepibile. Sia perché l'ondata della mondializzazione in ogni campo incrina e rende friabili varie norme e pratiche di convivenza sociale.In primo luogo, si ha a che fare sia con una dilatazione dei movimenti internazionali di capitale sia con l'estrema velocità dei loro spostamenti, e, quindi, con il pericolo di forti e improvvisi sussulti finanziari e valutari, tali da propagarsi in ogni dove, al punto da mettere a repentaglio l'intera economia mondiale. Giacché l'afflusso nelle borse di una massa di capitali, sulla scia di diffuse aspettative di guadagno a breve termine e di valutazioni di natura contingente, ha accresciuto la volatilità dei mercati finanziari. E ciò a causa sia di corsi non commisurati ai fondamentali e alle effettive potenzialità delle varie economie, sia delle variazioni erratiche di numerosi titoli senz'altra bussola di riferimento che certe ipotesi di profittabilità immediata. D'altra parte, la comparsa sulla scena, nell'era dell'azionariato popolare, di tanti piccoli investitori che oscillano continuamente fra eccessi di euforia ed eccessi di allarmismo, ha contribuito a mettere in mora la tesi, dominante sino a qualche decennio fa, che i movimenti del mercato finanziario tendano sempre in un modo o nell'altro a riflettere previsioni razionali sui profitti futuri. Al punto che si è assistito negli ultimi anni all'ascesa dei titoli di alcune società informatiche e di commercio elettronico ad altezze così iperboliche da capitalizzare persino più della ricchezza nazionale di un intero paese, ancorché di buon calibro, o da raggiungere nei listini di borsa quotazioni tali che ci vorrebbero anni e anni di crescenti profitti per recuperare il valore dell'investimento.Si spiega a maggior ragione come sia indispensabile tenere sotto controllo i mercati e i flussi finanziari sulla base di nuove regole, di efficaci misure cautelative, nonché di codici di condotta che responsabilizzino di più banche e gestori di fondi. Altrimenti si finirebbe, da un lato, per lasciare al potere incontrollato e discrezionale di alcuni gruppi, privi di una precisa cittadinanza e portatori di interessi particolari, la gestione di un ingente patrimonio di risorse; dall'altro, per esporre i mercati a spinte violente e contraddittorie invece che contenere le loro oscillazioni entro limiti fisiologici. In altre parole, occorre garantire tanto l'affidabilità dei mercati finanziari quanto le condizioni di stabilità ed efficienza allocativa dei capitali entro un ambito di crescita sostenibile, agendo in modo tale da disincentivare i flussi finanziari puramente speculativi e da assecondare quelli diretti ad alimentare gli investimenti reali nel campo delle attività produttive e dell'innovazione. In tal modo la politica, che oggi sembra espropriata delle sue prerogative dal mercato, può riequilibrare la situazione: da un lato, attraverso l'adeguamento degli strumenti nazionali d'intervento alle dinamiche della mondializzazione; dall'altro, mediante una revisione dei meccanismi di funzionamento delle istituzioni economiche internazionali e il coinvolgimento della business community e delle organizzazioni della società civile." (pp. 532-535)

E' evidente che l'autore identifica i problemi in atto all'epoca, ma li assume come una sfida legata alla globalizzazione, vale a dire ad una crescita turbolenta che il potere politico deve regolare e incanalare affinché i suoi effetti positivi prevalgano su quelli negativi.

Il leit-motiv è sempre lo stesso: il sistema di mercato è l'unico modello economico che assicura lo sviluppo e il progresso. Si tratta solo di regolarlo, laddove esso non appare dotato della mitica capacità di autoregolazione che i suoi fautori gli attribuiscono.

Affascinato, nonchè inquietato, dall'irrazionale esuberanza del capitalismo, l'autore non sembra in grado di porsi la domanda del perché, dopo due secoli di storia, il sistema economico continua a manifestare una sorprendente capacità di anticipare, scavalcare e farsi beffa dei controlli politici, vale a dire se lo svilupparsi costantemente sul filo del rasoio della legalità, che spesso viene violata, non sia una sua caratteristica intrinseca.

A maggior ragione è importante leggere l'ultimo capito, scritto sempre da Valerio Castronovo, che rappresenta un aggiornamento dello stato dell'arte nel 2009:

"Da una recessione mondiale a un nuovo sistema di governance globale?

di Valerio Castronovo

I retaggi della «rivoluzione neo-conservatrice»

L'alba del nuovo secolo, del Terzo Millennio, era stata salutata in oc­cidente sull'onda di grandi aspettative, di una pressoché unanime fiducia in un futuro migliore. Era in voga la tesi del politologo nippo-americano Francis Fukuyama sulla «fine della Storia», secondo la quale, dopo il crollo dell'Unione Sovietica e la conversione della Cina comunista a una sorta di «socialismo di mercato», si sarebbe assistito alla diffusione, sia pur con alcune varianti, della democrazia e del capitalismo là dove l'una e l'altro non avevano ancora attecchito. E tutto questo sotto l'egida degli Stati Uniti, l'unica superpotenza rimasta sulla scena, in grado perciò di orientare la direzione di marcia del mondo.

D'altro canto, era stata l'America, imboccando decisamente negli anni Ottanta la strada del liberismo e tenendo a battesimo nello stesso tempo la rivoluzione informatica, a imporre una svolta radicale tanto in campo economico che tecnologico, i cui effetti sul versante politico avevano contribuito, da un lato, ad accelerare l'implosione dell'Unione Sovietica (ormai ridottasi a un gigante dai piedi d'argilla); e, dall'altro, a segnare la parabola del keynesismo in Europa, peraltro già corroso dalle adulterazioni che aveva subito lungo la strada.

Di fatto, tutto era cominciato con la presidenza di Ronald Reagan, convinto (al pari del premier britannico Margaret Thatcher) che il fine ultimo della società fosse di creare più ricchezza possibile e che l'individualismo competitivo fosse la molla decisiva per conseguire quest'obiettivo. Perciò le politiche di governo, anziché concentrarsi sulle questioni concernenti un'equa redistribuzione del reddito, avrebbero dovuto soprattutto creare le condizioni e le opportunità più favorevoli a uno sviluppo a tutto campo del libero mercato e dell'iniziativa privata, in quanto considerati altrettanti congegni essenziali di crescita economica e di autorealizzazione personale. E ciò mediante varie forme di «deregulation» tanto in campo industriale che finanziario, il ridimensionamento delle spese per l'assistenza pubblica, e il taglio delle aliquote fiscali più elevate per invogliare i ceti più facoltosi a investire.

Una sorta dunque di rivoluzione «neo-conservatrice», come era stata definita quella inaugurata dal leader del partito repubblicano asceso nel 1981 alla Casa Bianca e assertore dello «Stato minimo». In pratica, si sarebbe dovuto separare di netto la sfera dell'economia dall'etica pubblica, facendo leva sugli incentivi dell'interesse e dell'utile dei singoli in nome del «market-dominated individualism» («Lo Stato - diceva Reagan - non è mai la soluzione ma il problema»). D'altronde questa prospettiva era stata consacrata dall'imprimatur di Milton Friedman (premio Nobel dell'economia nel 1976), capostipite della scuola monetarista di Chicago. A suo avviso, la crescita dell'economia, e di conseguenza della produzione e dell'occupazione, dipendeva dalle condizioni dell'offerta, per cui l'immissione di una maggiore liquidità nei circuiti del mercato, in relazione al livello di sviluppo che si voleva conseguire, andava considerata una leva fondamentale di cui ci si sarebbe dovuti servire.

D'altra parte, i precetti keynesiani, dopo aver tenuto banco per più di vent'anni dalla fine della guerra (in quanto avevano concorso a declinare il capitalismo con il riformismo sociale), non godevano più buona stampa. E ciò perché gli epigoni di Keynes avevano finito per abusare dei meccanismi dell'intervento pubblico anche quando non si aveva più a che fare, come era avvenuto in un'epoca di depressione economica, con il crollo della domanda aggregata. Né si era tenuto in debito conto il fatto che i bilanci dello Stato, a detta di Keynes, dovevano pur sempre essere riportati in pareggio a un certo punto, e comunque non si poteva eccedere oltre certi limiti nella manovra della spesa pubblica. Di conseguenza, si era determinato, da un lato, un sovraccarico di oneri sulle finanze pubbliche (dovuto a una crescente dilatazione di varie forme di protezione sociale in termini pressoché generalizzati), e, dall'altro, si era innescata una forte spirale inflattiva, anche per via di un'incessante rincorsa fra salari e prezzi. E, quando era sopraggiunto nel 1973, e poi ancora nel 1978-79, un vertiginoso rincaro del petrolio, si era manifestata una congiuntura inedita che Paul Samuelson aveva definito col termine di «stagflazione», vale a dire un combinato disposto di inflazione e recessione.

Non è, in verità, che la «Reaganomics» avesse assicurato, alla distanza, tutti quei frutti che la «Nuova Destra» aveva preconizzato. La riduzione delle tasse non era stata largamente compensata da un incremento del gettito fiscale prodotto da un'impennata dell'economia, contrariamente alle previsioni di quanti avevano giurato sui poderosi effetti che sarebbero derivati da un consistente alleggerimento delle tasse, specialmente per le aliquote di reddito più alte, quale incentivo a una crescita esponenziale del risparmio e degli investimenti.

Un forte aumento della produzione s'era registrato intorno alla metà degli anni Ottanta. Tuttavia esso era stato trainato dall'escalation delle spese militari (quelle innescate dal progetto dello «Scudo spaziale», peraltro mai del tutto attuato, ma che intanto aveva reso palese l'inferiorità dell'Urss sul piano militare strategico), e soprattutto da un massiccio afflusso di capitali da altri paesi, fiduciosi nelle nuove potenzialità degli Usa sul versante dell'«high tech». Inoltre, non era stato solo un incidente di percorso il crollo di Wall Street nell'ottobre 1987, e quanto fosse pericoloso lasciar correre a briglia sciolta i mercati finanziari lo si era constatato subito dopo, dato che l'amministrazione repubblicana successiva alla presidenza di Reagan, quella di George Bush senior, aveva dovuto intervenire direttamente, tramite il Tesoro, per salvare dal dissesto numerose casse di risparmio e agevolare la ricapitalizzazione di alcune grosse banche.

L'indirizzo neo-liberista aveva peraltro prodotto risultati significativi nell'Europa continentale, non già perché i principali governi in carica avessero condiviso alla lettera gli assunti di Reagan e della Thatcher, che del liberismo avevano fatto una religione. Ma perché avevano ritenuto che occorreva affrancare l'economia da certe forme d'intervento ormai ingombranti ai fini dell'innovazione e soprattutto porre un freno al debito pubblico, bloccando nello stesso tempo la spirale dell'inflazione, se si voleva creare una moneta unica nell'ambito dell'Unione europea. E di qui porre le premesse di un processo di unificazione politica, come s'auguravano in molti.

A ogni modo, alcuni leitmotiv d'ispirazione liberista - dall'appello alla responsabilità personale, alla denuncia del burocratismo, al riconoscimento di maggiori spazi di libertà individuale - avevano acquisito largo credito. D'altro canto, si riconosceva ormai da più parti come la continua pressione sulle modalità d'impiego delle risorse esercitata sia dai gruppi sociali meglio organizzati che da un arcipelago di categorie portatrici di interessi particolari, avesse finito per trasformare lo Stato in una sorta di campo di battaglia per la spartizione delle quote del reddito nazionale, snaturandone perciò il ruolo quale agente di sviluppo e garante della giustizia distributiva.

Che quella del «free market» fosse divenuta una prospettiva condivisibile anche al di là dell'area dei «neo-conservatori», lo aveva dimostrato il fatto che essa non era venuta meno negli Stati Uniti dopo l'avvento alla Casa Bianca nel 1993 del leader democratico Bill Clinton e, così pure, in Gran Bretagna all'indomani dell'insediamento nel 1997 a Downing Street del laburista Tony Blair. E vero che entrambi avevano puntato soprattutto ad agevolare la diffusione dell'istruzione pubblica

e l'accesso ai nuovi strumenti dell'information technology affinché un sempre maggior numero di persone avessero modo, acquisendo ulteriori conoscenze e attitudini professionali, di migliorare le proprie chanches nel mercato del lavoro. Ma entrambi condividevano l'idea che lo Stato avrebbe dovuto circoscrivere l'ambito dei suoi interventi nella sfera economica e che la politica sociale avrebbe dovuto contribuire soprattutto, con adeguati incentivi nel campo della formazione, ad addestrare e temprare le persone ai cambiamenti, in modo da renderle capaci di camminare con le proprie gambe, e quindi di progettare il proprio itinerario e la propria collocazione nella società. Perciò si dava grande importanza alle motivazioni personali, allo spirito di iniziativa e alla capacità di aggiornare le proprie cognizioni.

Insomma, «più mercato e meno Stato», ma senza che ciò finisse per dare le ali a un liberismo senza regole e del tutto indipendente da ogni riferimento a finalità di interesse collettivo. Per Clinton e Blair l'ideale avrebbe perciò dovuto consistere in una sorta di «Terza Via», e, quindi, nell'avvento di un sistema economico più efficiente e flessibile, più aperto alle scelte individuali e in linea con le nuove sfide del mercato globale, imperniato su un equilibrio fra competizione e cooperazione internazionale, fra i principi della libera iniziativa e ponderate forme di protezione sociale.

In effetti, quanto era avvenuto soprattutto negli Stati Uniti negli ultimi anni dei Novecento aveva avvalorato i criteri ispiratori con cui la Casa Bianca s'era impegnata a declinare i principi del «free market». L'economia americana aveva preso il largo rispetto a quella europea. E questo grazie soprattutto a una vigorosa capacità d'innovazione, che aveva consentito di aumentare la produttività del lavoro e la redditività del capitale, e di mobilitare perciò nuove risorse per affrontare le sfide del mercato globale. Dall'industria al terziario, dalla ricerca di nuove filiere tecnologiche all'intermediazione finanziaria, dalle attività di marketing al commercio e-mail, non c'era settore che non avesse registrato benefici ragguardevoli, in virtù degli effetti indotti dai progressi dell'informatica e delle telecomunicazioni. E non c'era un altro paese al mondo dove stesse avvenendo un'analoga dislocazione del sistema economico verso un insieme di servizi basati sulla conoscenza (nuovi saperi, ricerca applicata, software). Inoltre, il dollaro era tornato d'autorità sul piedistallo che occupava prima della crisi degli anni Settanta e questo consentiva agli Stati Uniti di finanziare il disavanzo della propria bilancia dei pagamenti. A sua volta, Wall Street era divenuta la Mecca per investimenti d'ogni sorta, in particolare quelli destinati verso società che avevano a che fare con la telematica e il commercio elettronico.

E vero che già allora alcuni osservatori andavano dicendo che c'era il rischio di una eccessiva concentrazione di quattrini e di aspettative re­munerative sui titoli dell'«hi tech». Ma la Federal Reserve Bank non era di questo avviso. D'altronde, il mercato finanziario continuava a tirare; e dal 1995, dopo la nascita dell'Organizzazione mondiale del commercio (la Wto), si riteneva che, con la progressiva liberalizzazione degli scambi, le cose sarebbero andate ancora meglio.

In realtà, non è che su questa strada si fossero compiuti molti passi avanti: se i rappresentanti della Ue e degli Stati Uniti tendevano infatti a dilazionare un abbassamento delle loro tariffe all'importazione di prodotti agroalimentari, i paesi emergenti a loro volta non stavano procedendo in modo debito a sintonizzarsi con le condizioni normative vigenti in quelli più avanzati (eliminando la piaga del lavoro minorile o le discriminazioni nei confronti dei sindacati, o rispettando i diritti di proprietà intellettuale) e venivano perciò accusati di produrre le loro merci a condizioni di dumping per renderle più competitive nei circuiti di mercato internazionali.

D'altra parte, nemmeno fra l'Unione europea e gli Stati Uniti correva buon sangue. Washington lamentava che la Ue continuasse a rimandare di volta in volta una riforma della politica agricola comunitaria (peraltro auspicata anche dalla Gran Bretagna e dai paesi nordici) e che mantenesse perciò in vita alcune robuste misure di sostegno alla produzione di cereali e di carni, tali da alterare le ragioni di scambio. Per contro, Bruxelles contestava agli Usa il fatto che i loro agricoltori impiegassero delle tecnologie transgeniche nella produzione di mais e di soia e, perciò, riteneva che non potesse dare via libera all'importazione di questo genere di derrate e, tantomeno, delle carni agli ormoni americane, in quanto considerate nocive per la salute.

Tuttavia, si pensava che sarebbe stato possibile prima o poi superare quest'impasse. Anche perché la globalizzazione, con gli sviluppi di un'economia più aperta, aveva cominciato a dare alcuni frutti tangibili per quanto riguardava la riduzione delle aree di povertà e di emarginazione. Nel 2004 la quota di popolazione costretta a vivere con un dollaro o meno al giorno era diminuita, rispetto ai primi anni Ottanta, dal 40 al 18 per cento. E se i paesi africani continuavano per lo più a vegetare in condizioni di arretratezza e diffusa miseria, quelli dell'America Latina, che in passato boccheggiavano sotto un fardello di ingenti debiti pubblici e di un'inflazione a due cifre, avevano preso a marciare: alcuni speditamente come il Brasile, altri recuperando terreno (come l'Argentina), altri ancora (come il Cile e il Messico) procedendo ulteriormente sulla strada dello sviluppo. Ma era soprattutto una parte consistente dell'Asia a dare prova di notevole vitalità e dinamismo, a cominciare dalla Cina e dall'India. Dopo il loro ingresso nel grande gioco della globalizzazione, e in virtù sia di vari incentivi all'iniziativa privata, sia dell'apporto dall'estero di capitali e tecnologie, esse stavano bruciando le tappe sulla strada della crescita economica.

Insomma, all'esordio del ventunesimo secolo, sembrava che non ci fosse altro che andare avanti sulle direttrici di marcia aperte dalla «New Economy», dagli effetti a raggiera delle tecnologie informatiche e dalle nuove opportunità di sviluppo emerse con la globalizzazione degli scambi, degli investimenti e della finanza: anche perché nel frattempo i prezzi del greggio e di altre materie prime si erano pressoché stabilizzati su quotazioni sostenibili.

Certo, nel quadrante dell'economia mondiale il pendolo stava spostandosi a favore dei paesi asiatici emergenti. Per l'Europa e gli Stati Uniti non si trattava di misurarsi solo più con il Giappone, ma pure con la Cina e l'India e altri paesi del Sud-Est in via di forte sviluppo e in possesso di crescenti riserve valutarie. Il libero scambio giocava infatti per talune merci sempre più a vantaggio dei nuovi attori del Far East; e i rapporti di forza geo-economici non erano più quelli di prima. Ma la partita era ancora aperta. In fondo, di fronte alla batteria di determinati prodotti e semilavorati a prezzi talora stracciati che venivano gettati sul mercato dai paesi emergenti, l'Occidente aveva pur sempre dalla sua la possibilità di rifarsi grazie alla realizzazione di prodotti a più alto valore aggiunto, al perfezionamento di alcuni servizi nel settore terziario avanzato e agli sviluppi della tecnoscienza.

Senonché, a determinare una brusca battuta di arresto nella marcia dell'economia americana e, di conseguenza, anche di quella europea, era sopraggiunta la caduta dei listini di Borsa provocata dall'attentato terroristico dell'11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York ordito da Al Qaeda. Anche perché da quel momento andò diffondendosi la sensazione che il terrorismo dei militanti fondamentalisti islamici avrebbe preso di mira altri paesi dell'Occidente esponendoli alla minaccia di un conflitto asimmetrico, in quanto imprevedibile e attizzabile dovunque da un pugno di kamikaze, di militanti suicidi, mossi dal fanatismo religioso e organizzati in cellule di cui sarebbe stato difficile scoprire l'esistenza e quanto avevano in mente di fare.

Un orizzonte sempre più denso di incognite

Ancor prima di quel tragico evento, che sconvolse tutto d'un tratto le piazze finanziarie e impose agli Stati Uniti come ai paesi europei l'adozione di drastiche misure per la salvaguardia della loro sicurezza, gli Stati Uniti erano già stati investiti da una dura crisi finanziaria. Era infatti scoppiata l'anno prima la bolla dei titoli tecnologici. Senonché, la Fed si era limitata a rilevare che s'era trattato di «un'esuberanza irra­zionale": perciò i risparmiatori avrebbero messo giudizio da soli, senza bisogno di apposite misure cautelative di carattere preventivo, al di là di quelle già esistenti, sull'operato delle istituzioni finanziarie. E ciò, nonostante più di un osservatore avesse rilevato che si sarebbero corsi ulteriori e ben più gravi pericoli qualora non si fosse proceduto a controllare in modo più puntuale quanto avveniva dietro le quinte di Wall Street. Tanto più dopo che nel 1999, in seguito a una delibera pressoché unanime del Congresso, s'era consentito, abolendo una legge in vigore dal 1933, anche alle banche commerciali (quelle abilitate a raccogliere i depositi e a prestare denaro alle imprese) di compiere le stesse operazioni, nella negoziazione di titoli e nel credito ordinario, riservate fino ad allora alle banche d'investimento.

E vero che con questo provvedimento, suggerito dal titolare della Fed Alan Greenspan, si voleva accrescere il dinamismo e la flessibilità del sistema finanziario americano. Ma, da allora, le principali banche s'erano man mano trasformate in una sorta di supermercati finanziari dando la stura alla comparsa, come i funghi, di nuovi titoli, come i «derivati sul credito» e i CDO («collateralized debt obligation») con un sempre maggior grado di complessità e, insieme, di opacità e di azzardo. Ciò che aveva reso più difficile valutare in che modo sarebbero stati gestiti e, quindi, anche quali sarebbero stati i rischi che le banche e le società finanziarie che li emettevano a iosa avrebbero corso nel caso di una repentina volatilità dei mercati. Si trattava infatti di operazioni che avevano per riferimento non già il conto patrimoniale, ossia orientate secondo una logica di medio-lungo periodo, bensì il conto economico, e quindi in base a una logica di breve termine, di mese in mese, se non di giorno in giorno, che puntava a risultati immediati.

Non è, in verità, che mancassero sulla carta apposite prescrizioni e clausole a salvaguardia del patrimonio e della liquidità delle banche, ma non erano uniformi fra i vari Stati federali, o per ogni attività finanziaria, e comunque esse potevano venire eluse o aggirate con vari espedienti. Ciò che era risultato, del resto, evidente quando era scoppiato alla fine del 2001 lo scandalo della Enron, in quanto l'uso di derivati sempre più sofisticati si era accoppiato a congegni truffaldini. Tuttavia, era sembrato allora che bastasse qualche disposizione in più di quelle esistenti per prevenire altre eventuali distorsioni del genere. Le autorità pubbliche continuarono perciò a non preoccuparsi più di tanto nei riguardi degli ingredienti di tanti Fondi in circolazione né delle credenziali dei loro gestori.

Fra i molti titoli riversatisi a Wall Street erano andati aumentando notevolmente, sino a raggiungere la cifra imponente di 60 mila miliardi di dollari (pari a quattro volte il Pil americano), i «credit default waps» (ossia, dei titoli consistenti in scommesse sulla capacità o meno di que­sta o quella società di rientrare dai propri debiti). Essi venivano trattati non già in un mercato regolamentato, ma in un mercato parallelo basato su scambi bilaterali tra banche, in quanto ciò alleggeriva la competizione e dava quindi modo alle banche di realizzare margini di guadagno più elevati. Ma così era difficile valutare adeguatamente i rischi per la controparte; d'altronde, nel 2000 era passata una legge che escludeva dal controllo delle autorità di vigilanza, insieme ai derivati, anche i «credit default waps».

Di fatto, anche perché era andata crescendo a vista d'occhio una massa di titoli d'ogni sorta e sempre più sofisticati, trattati non solo a Wall Street ma fuori mercato, e di rimbalzo in varie piazze dall'Europa all'Asia, la globalizzazione aveva finito per assumere sempre più connotazioni e traiettorie di carattere finanziario. Quella che ormai stava decisamente prevalendo era una finanziarizzazione del mercato globale e, di conseguenza, la produzione di denaro per produrre altro denaro, senza che di mezzo vi fosse né lavoro, né produzione di beni e di servizi: di qui il divario fra la produzione effettiva di ricchezza e la sua moltiplicazione fantasmatica.

Si parlava perciò di «turbocapitalismo» per indicare questo fenomeno, le cui fila erano nelle mani di una neo-aristocrazia finanziaria di top manager, che puntava a moltiplicare rapidamente e abbondantemente i propri guadagni e che era convinta oltretutto, di poter seguitare all'infinito su questa strada in base a procedimenti di facile maneggio, senza stare a pensare che alla lunga avrebbero potuto dar luogo a effetti degenerativi.

D'altra parte, dopo il ritorno alla Casa Bianca di un esponente repubblicano come George W. Bush, la nuova amministrazione, sospinta dagli araldi di un mercatismo dogmatico, aveva applicato alla lettera i precetti della «deregulation». Né la maggior parte dei democratici, a dire il vero, avevano sollevato sostanziali obiezioni a questo riguardo. Per l'amministrazione in carica, assorbita dai problemi di politica estera, quel che importava era, comunque, che l'economia continuasse a tirare: se non altro per compensare una ridda di critiche che piovevano nei suoi confronti a causa dell'andamento tutt'altro che brillante delle operazioni militari in Iraq contro la guerriglia dei gruppi estremisti locali.

Perciò, mentre la Fed aveva mantenuto bassi i tassi di interesse e s'era così creata un'enorme massa di liquidità, il governo federale aveva continuato a incoraggiare lo sviluppo del mercato immobiliare. Dopo che s'era esaurita la fase espansiva trainata dal «boom» dell'informatica, non si vedeva infatti quale altro comparto, se non quello dell'edilizia residenziale, fosse più promettente e inoltre di sicuro affidamento, dato che andava crescendo la domanda di abitazioni da parte di quanti cercavano una seconda casa per le vacanze, ma soprattutto di quanti un appartamento proprio ancora non l'avevano (e fra costoro, molti erano soprattutto gli immigrati stabilitisi negli ultimi anni nelle principali città americane).

Fatto sta che le banche avevano facilitato quanti intendevano comprarsi un appartamento con una batteria di mutui a condizioni tali (favorendo ipoteche immobiliari sino all'intero valore della casa) da invogliare a questo passo anche chi non avrebbe potuto sul momento permetterselo. Non solo perché avevano assicurato che si sarebbe potuto cominciare a pagare i relativi interessi dopo uno o due anni. Ma anche perché non s'erano prese la briga di accertare se chiunque chiedesse un mutuo avesse dalla sua adeguati proventi su cui contare: tanto il valore dell'immobile sarebbe man mano cresciuto e quindi c'era sempre il modo di aggiustare le cose se non tutto fosse andato a puntino. D'altra parte, le banche e le società che concedevano il mutuo badavano subito dopo a cartolarizzare questi loro crediti, tagliandoli in tanti pezzetti e reimpacchettandoli in vari prodotti finanziari da porre in vendita sul mercato dei capitali.

Era così andata crescendo ulteriormente la massa dei derivati in circolazione, rifilati ai risparmiatori, grazie a promesse di rendimenti elevati, sorvolando sul fatto che essi fossero particolarmente rischiosi. D'altro canto, c'era una montagna di liquidità, e ciò alimentava sia gli indebitamenti sia l'interesse per operazioni speculative.

Nel vortice di un ciclone finanziario

Tutto era filato liscio o quasi, sino alla primavera del 2007 quando s'erano manifestati i primi sintomi di un cedimento del mercato immobiliare. I prezzi delle case erano schizzati così in alto che quanti pensavano di acquistare un'abitazione avevano soprasseduto per il momento a farlo, in attesa che le quotazioni calassero. Ma, mentre i prezzi andavano scendendo in modo vistoso, s'era manifestato anche un aumento delle insolvenze sui mutui subprime (cosiddetti in quanto concessi dalle banche senza effettive garanzie di reddito accertato dei mutuatari). Seppur non eccessive rispetto alla loro massa complessiva queste insolvenze avevano abbassato di colpo le quotazioni dei titoli strutturati connessi al comparto immobiliare.

Perciò, mentre s'erano trovate a mal partito le famiglie che avevano acceso un mutuo per acquistare un alloggio, il cui valore risultava adesso inferiore al debito che avevano contratto, a loro volta le banche avevano cominciato a sentire puzza di bruciato. Non solo i loro prestiti erano, adesso, difficilmente esigibili (in quanto erogati per lo più senza adeguate referenze creditizie); ma anche il valore degli immobili (su cui gravava un'ipoteca a carico dei mutuatari in caso d'insolvenza) continuava a deprezzarsi e quindi non ci sarebbe stato molto da ricavare in caso di un loro pignoramento per rimetterli in vendita.

In verità, non soltanto negli Stati Uniti s'era spinto il pedale su operazioni immobiliari finanziate più o meno con lo stesso genere di prestiti. Anche in Gran Bretagna, Irlanda, Spagna e in altri paesi s'era puntato sull'espansione del mercato immobiliare e alla fine i prezzi delle case erano saliti troppo in alto per invogliare altri possibili compratori a farsi avanti. Ma intanto erano soprattutto le banche americane a trovarsi nell'occhio del ciclone, e si trattava delle più grosse, come s'era scoperto man mano, in seguito alla valanga di insolvenze emerse fra l'autunno del 2007 e le primavera dell'anno successivo.

All'inizio, non sembrava comunque che la situazione fosse così allarmante da scuotere la Fed (tant'è che essa sarebbe rimasta alla finestra ancora per alcuni mesi) e da mettere in ambasce il governo federale. Rispetto al credito complessivo accordato dalle banche, i mutui sub-prime risultavano solo una quota relativamente modesta: senonché il sistema di cartolarizzazione adottato dalle banche stava ora ritorcendosi su di loro come una sorta di boomerang, in quanto i titoli da loro emessi si basavano su obbligazioni che non risultavano garantiti da crediti esigibili o che apparivano comunque di dubbia copertura. Di conseguenza, le perdite sui mutui subprime, traducendosi in una trafila di minusvalenze, avevano provocato un effetto domino, una caduta delle quotazioni in Borsa delle banche che si supponeva avessero largheggiato in questo genere di operazioni, e, di riflesso, un deprezzamento anche dei titoli in quasi tutti gli altri settori.

Dopo la Bear Stearns, la prima a trovarsi in serie difficoltà, anche le altre quattro maggiori banche d'investimento americane, e così pure le due prime banche commerciali, erano state prese d'infilata, ai primi di settembre, da un uragano finanziario tale da incrinare le loro fondamenta. E la frana non solo dei loro titoli, ma di rimbalzo, anche quella delle azioni di altre banche era man mano divenuta una voragine. Perciò Ben Bernanke, succeduto dal 2006 a Greenspan a capo della Fed, s'era trovato sbalzato di colpo nel mezzo di una crisi che, seppur dovuta in gran parte alla linea di condotta del suo predecessore (convinto fino all'ultimo che i banchieri mai avrebbero potuto comportarsi in modo altrettanto avventuroso che eticamente riprovevole per cupidigia di guadagno), aveva finito per ricadere interamente sulle sue spalle. E ciò, oltretutto, in un frangente politico delicato, alla vigilia della campagna elettorale per la Casa Bianca.

Alla fine, dopo aver cercato di mettere qualche pezza a una situazione sempre più precaria, e non sapendo più a che santo votarsi, la Fed aveva ritenuto che si dovessero relegare d'un canto gli assunti dell'or­todossia liberista. Era impensabile infatti confidare su un'autoguarigione indolore e in tempi brevi del mercato, in quanto ciò avrebbe comportato una ricapitalizzazione e un'adeguata ricostituzione dei livelli patrimoniali da parte delle banche più esposte con le loro sole forze. E ciò era materialmente impossibile, dato che s'erano ridotte al lumicino; per non contare il fatto che si sarebbe dovuto confidare su quegli stessi top manager che avevano causato il disastro delle banche con il loro comportamento altrettanto avido e arrogante che irresponsabile.

A questo punto il Tesoro aveva perciò dovuto intervenire per impedire il naufragio delle banche d'affari più pericolanti, a cominciare da due colossi come la Fannie Mac e Freddie Mac, specializzati nei prestiti-casa, che erano semipubblici, e che per di più tenevano in portafoglio un numero rilevante di obbligazioni estere. Ma il loro salvataggio, costato un'ingente barca di soldi, e altre iniezioni di liquidità attuate dalla Fed (mediante prestiti a breve alle banche particolarmente indebitate) non erano bastati a bloccare la deriva, a evitare un peggioramento della crisi. S'era così allungata la lista degli istituti bancari da soccorrere, e s'era dovuto intanto cercare di tenere a galla anche l'American International Group, la più grossa compagnia assicurativa a livello mondiale.

Senonché, alla fine s'era commesso un errore fatale, ma probabilmente inevitabile, in quanto alcuni autorevoli esponenti repubblicani del Congresso non avevano più voluto sentir parlare di operazioni di salvataggio condotte con i soldi dei contribuenti, dato che le ritenevano controproducenti alla vigilia delle elezioni presidenziali. Perciò s'era lasciata affondare una banca prestigiosa come la Lehman. E questo aveva inferto un colpo mortale al sistema finanziario, dato che il suo fallimento aveva finito per scardinare le dighe approntate sino a quel momento per bloccare lo smottamento degli istituti bancari e di Wall Street.

Il ricorso all'ombrello dello Stato

Dopo che era caduta di schianto la prospettiva di contenere la crisi nei termini di una «fase di aggiustamento», non era rimasto al segretario al Tesoro Hanke Paulson che rivolgersi al Congresso per chiedere l'approvazione al più presto di un maxi-piano per cercare di salvare il salvabile; anche perché s'era interrotto nel frattempo il flusso del credito bancario e c'era adesso il pericolo che il capitombolo del sistema finanziario trascinasse con sé l'economia reale, le imprese e il sistema produttivo. Ma talmente imponente e indecifrabile era la massa dei titoli «tossici» in pancia alle banche e in circolazione, e quindi l'entità delle ricapitalizzazioni delle banche, che la pur cospicua cifra messa in con­to per 700 miliardi di dollari (e approvata ai primi di ottobre dal Congresso) non bastò a rassicurare Wall Street e, quindi, a scongiurare il tracollo del mercato finanziario. Né servì alcunché un abbattimento dei saggi di interesse.

Perciò, come era già avvenuto in Gran Bretagna dove il governo laburista di Gordon Brown aveva proceduto a una nazionalizzazione seppur parziale e temporanea di alcune banche salvate in extremis dal dissesto, anche negli Usa ci si era dovuti affidare alle cure provvidenziali dello Stato. Era così venuto meno un articolo di fede durato per quasi trent'anni, ossia che la deregulation fosse di per sé tale, in ogni evenienza, da garantire uno sviluppo preminente dell'economia e un equilibrio virtuoso del mercato. E quello che passava per un anatema, come l'ingresso dello Stato nel capitale delle banche, era caduto da un giorno all'altro in prescrizione, sepolto sotto una montagna di titoli «tossici».

Era scoccata adesso la rivincita di quanti avevano continuato negli ultimi anni a esprimere critiche severe nei confronti della politica di Bush, non senza chiamare in causa peraltro anche l'operato del suo predecessore, in quanto la deregulation era stata condivisa negli anni Novanta dallo «stato maggiore» del partito democratico.

Tra i primi a indicare quale strada si dovesse percorrere per ridare fiato all'economia americana, era stato Joseph Stiglitz (premio Nobel per l'economia nel 2001), che aveva denunciato più volte gli eccessi speculativi delle banche. La sua opinione era che fosse necessario adottare fin da subito un vasto programma di opere pubbliche e infrastrutture per rivitalizzare gli investimenti: ciò che riecheggiava in pratica quanto s'era fatto, col «New Deal», durante la grande crisi negli anni Trenta. A sua volta, un altro censore risoluto della deregulation, come Paul Krugman, sosteneva che fosse indispensabile predisporre un piano che scongiurasse il pericolo di una disoccupazione in massa e ridesse fiducia alla «middle class», in quanto essenziale per una ripresa dell'intero sistema. E che, quindi, il governo dovesse impegnare le banche, che stava soccorrendo, affinché prestassero una parte consistente del denaro che ricevevano da Washington alle imprese in modo da far ripartire la produzione e l'occupazione.

Dello stesso avviso era Robert Reich, per tre volte ministro ai tempi di Bill Clinton, e l'ultima delle quali come segretario al Dipartimento del lavoro, quando aveva concepito, con il «welfare to work", una riforma del sistema di protezione sociale. Per lui, si trattava anche di ampliare l'area dell'assistenza sanitaria pubblica che lasciava ampiamente a desiderare. Insomma, sembravano tornati in auge i precetti di Keynes. Senonché questa crisi non era paragonabile a quella degli anni Trenta, faceva per tanti aspetti storia a sé, dato che occorreva individuare delle terapie che fossero sintonizzate sia con i nuovi problemi strutturali emersi nel frattempo, sia con l'unificazione mondiale dei mercati.

Non per questo, i repubblicani avevano disarmato; temevano che, con un intervento dietro l'altro del governo federale, si sarebbe scivolati verso lo «statalismo». Ma a questo punto Bush s'era convinto che non si potesse cercare di togliere dalla circolazione i «titoli spazzatura», andandoli a cercare da ogni parte per poi acquistarli con una parte dei fondi del «maxi-piano" varato ai primi di ottobre, in quanto le procedure sarebbero state molto complesse. Occorreva agire immediatamente e quindi destinare la maggior parte dei mezzi disponibili all'ingresso della mano pubblica nel capitale delle banche: anche perché il governo avrebbe pagato poco le loro azioni, dato il deprezzamento che avevano subito, e le avrebbe potute rivendere a migliori condizioni una volta superata la bufera.

Del resto, pure in Europa, oltre a quello inglese, anche altri governi erano orientati verso una soluzione del genere, a cominciare dalla coalizione ministeriale di Angela Merkel, che si apprestava a nazionalizzare le Commerzbank e a prendere in considerazione un'iniziativa analoga anche nei riguardi della Deutsche Bank. Inoltre, se negli Stati Uniti, Bush aveva deciso di suo pugno, con l'appoggio del presidente neo-eletto Barack Obama, lo stanziamento di 14 miliardi di dollari per scongiurare il naufragio della General Motors e della Crysler, aggirando l'opposizione di alcuni senatori del suo partito, anche in Francia e in Germania si stava predisponendo un piano d'aiuti a sostegno dell'industria automobilistica.

Insomma, lo Stato era tornato di scena, e appariva ormai evidente, di fronte alle previsioni sempre più fosche sulla portata e la durata della recessione, che gli interventi pubblici erano destinati a moltiplicarsi. In effetti, non passava quasi giorno che ciò accadesse. Negli Stati Uniti il Tesoro s'era dovuto accollare anche il salvataggio di Citigroup, poi della Merrill Lynch e della Bank of America, non senza preoccuparsi anche della situazione critica della JP Morgan. In Europa (dall'Inghilterra alla Spagna, dalla Germania all'Austria) i governi s'erano impegnati a tirar fuori ulteriori risorse in soccorso a banche pericolanti o ad assicurare particolari garanzie statali per tutelare i risparmiatori, in una rincorsa sempre più affannosa onde evitare uno sconquasso totale.

Senonché tutto dipendeva dall'esito dei provvedimenti assunti negli Stati Uniti; ma essi non avevano sortito alcun effetto pratico: né le iniezioni di liquidità, né le riduzioni fiscali, né le sospensioni di Borsa, né l'azzeramento dei tassi di interesse. Sarebbe stato necessario, insomma, «disintossicare» il sistema finanziario dai tanti «titoli spazzatura» che inquinavano i bilanci delle banche, dato che sarebbe stato inutile, altrimenti, agevolarne la ricapitalizzazione.

Perciò il team economico di Obama aveva messo in agenda nel gennaio 2009 anche l'istituzione di un'apposita Agenzia federale incaricata di quest'opera di ripulitura. Ma si trattava di vedere, a ogni modo, quale fosse l'ammontare complessivo degli asset tossici che una «bad bank» avrebbe dovuto rilevare, per separare il loglio dal grano; e quindi sapere quante risorse occorresse stanziare per liberare le banche dai prestiti andati a male, trasferendoli a una nuova istituzione, appunto a una o più «bad banks» garantite dallo Stato. Inoltre, era necessario sia definire standard più rigorosi per i mercati finanziari, sia poter contare sull'operato di autorità di vigilanza più risolute a far rispettare le regole.

L'esigenza di una risposta multilaterale alla crisi

Ci si chiede comunque se questi e altri interventi a livello nazionale, bene che vadano, riusciranno a porre le basi per un'effettiva ripresa in salute delle economie dei singoli paesi, colpiti dalla recessione, dato il forte grado di interdipendenza che ormai lega l'una all'altra. Appare infatti sempre più evidente che a una crisi globale si dovrebbe reagire con un'azione congiunta su scala globale, e non già in ordine sparso.

Naturalmente si continua a sperare negli Stati Uniti, nei provvedimenti assunti dalla Casa Bianca, per un'inversione di tendenza. In fondo, sebbene abbiano subito un duro scossone, gli Usa continuano a occupare una posizione preminente, anche se non più così dominante come prima, ma tale da condizionare pur sempre tanto l'andamento della crisi quanto la possibilità di venirne a capo.

E un fatto, tuttavia, che si rimarrebbe nel mezzo della bufera qualora non si determinasse una larga convergenza di propositi e di interventi fra i principali attori della scena internazionale. E ciò significa, in pratica, che, per risalire la china, i paesi più avanzati e quelli emergenti devono far fronte comune, coordinare le loro forze e le loro risorse in funzione di determinati obiettivi prioritari.

Che sia possibile realizzare un "rassemblement» del genere, è quanto ci si augura oggi nelle capitali di mezzo mondo tanto più dopo l'insediamento alla Casa Bianca, dal 20 gennaio 2009, del leader democratico Barack Obama, il primo presidente nero nella storia degli Stati Uniti, anche perché votato a valanga dagli americani, e quindi in grado di far leva sulla sua popolarità per agire risolutamente. Mai gli americani si sono infatti trovati, dal dopoguerra in poi, in preda a un senso di smarrimento e di frustrazione come quello in cui sono precipitati a causa di una crisi economica ditale gravità, che oltretutto s'è aggiunta a due lunghe guerre (in Iraq e in Afghanistan) ancora in corso e dall'esito incerto. Proprio per questo, il nuovo leader degli Stati Uniti aveva an­nunciato, durante la campagna elettorale, che, in caso di successo, avrebbe impresso un sostanziale cambiamento di rotta all'opera del governo federale, in modo da ridare vigore all'economia reale e rinfrancare un paese stordito e angosciato.

Il piano da lui proposto, non appena insediatosi alla Casa Bianca, era perciò quanto ci si aspettava dalla nuova amministrazione. Contemplava infatti la creazione entro il 2011 di tre milioni di posti di lavoro, un cospicuo programma di opere pubbliche e infrastrutture, una serie di incentivi per la crescita della domanda e degli investimenti, nonché alcune misure per lo sviluppo delle «tecnologie verdi», in funzione di un sostanziale miglioramento delle condizioni ambientali. In più c'era la promessa di una riduzione dei prelievi fiscali sui proventi dai ceti medio-bassi e di rimborsi per le piccole e medie imprese, in modo da assicurare loro più liquidità per ammortizzare eventuali perdite e favorire gli investimenti.

Quanto al team che doveva attuare questo piano, e stabilire nello stesso tempo una regolamentazione più stringente per risanare e ricostruire il sistema finanziario, Obama aveva scelto esponenti che avevano già lavorato ai tempi della presidenza di Clinton: da Tim Geithner al Tesoro, a Larry Summers, a Peter Orszag, più l'ex capo della Fed negli anni Ottanta, Paul Voicker (che aveva salvato nel 1984 il dollaro da una grande inflazione). E alla Sec, l'Agenzia federale per il controllo dei movimenti finanziari, aveva designato Mary Shapiro, con ampi poteri, compresi quelli di polizia giudiziaria, in modo da tenere sotto stretta osservazione l'operato delle banche e delle società quotate in Borsa. Non tutte le altre designazioni erano risultate poi ineccepibili, tanto che Obama aveva dovuto lasciarle cadere. E aveva sollevato più di una critica la nomina a superconsigliere economico di Summers, in quanto alfiere della «deregulation» tra il 1999 e il 2000, quando aveva l'incarico di segretario di stato al Tesoro.

Ma la cosa più importante era, naturalmente, l'approvazione della «squadra economica» da parte del Congresso, dato che Obama aveva dovuto accantonare lungo la strada l'obiettivo di un accordo bipartitico, e dovuto invece vedersela con la fronda dei repubblicani. Inoltre, si trattava di stabilire la copertura finanziaria di un programma così impegnativo e immediato di interventi come quello concepito dal suo staff. Durante la presidenza di Bush il debito pubblico era infatti aumentato di oltre il 72 per cento e il deficit del bilancio federale era salito a una cifra considerevole rispetto al Pil. In pratica, la crescita del reddito nazionale americano era avvenuta negli ultimi anni sempre più a debito e in presenza di una cronica carenza di risparmi interni. E fra quanti avevano prestato i soldi agli Stati Uniti, comprando i loro bond, era balzata in prima fila la Cina, che aveva scavalcato il Giappone.

Sebbene il piano di Obama sia stato ridimensionato dal Congresso rispetto a quello originario, si calcola che, per gli oneri di cui s'è fatto carico il Tesoro, il debito pubblico crescerà nel corso del 2009 di almeno nove punti, sino all'81 per cento dei Pil. D'altra parte, anche a contare i tagli che s'intendono apportare alle «spese improduttive», risulta evidente che gli Usa dovranno ricorrere ai mercati internazionali dei credito, e in primis ai paesi che già hanno contribuito in passato a finanziare il debito pubblico americano.

Tuttavia, una politica monetaria ancorché aggressiva, con una crescente offerta di credito e con la riduzione sino a zero del tasso d'interesse (come è giunta ad attuare la Fed nel gennaio 2009), non sarebbe sufficiente a bloccare una congiuntura recessiva così grave. Inoltre, c'è da considerare che i programmi di investimento statali comportano comunque tempi lunghi per essere avviati e produrre risultati concreti. Per giunta, il mercato finanziario non ha dato i segnali positivi che ci si attendeva, nonostante i reiterati appelli della Casa Bianca, dopo l'approvazione del pacchetto di provvedimenti per 787 miliardi di dollari (consistente per due terzi in spesa pubblica e un terzo in sgravi fiscali). Cosicché il consenso popolare nella leadership politica di Obama non si è tradotto in qualcosa di analogo anche a Wall Street, rimasta per lo più scettica sull'efficacia dei piani del governo federale, e diffidente nei confronti di una «statalizzazione strisciante» delle banche più inguaiate.

Ammesso che alla fine Obama riesca ad acquisire la fiducia dei mercati finanziari, si ritiene comunque che una spinta decisiva alla ripresa degli Stati Uniti possa venire soprattutto dall'Estremo Oriente, dalla Cina e dai paesi emergenti del Sud-Est asiatico, qualora siano in grado di mantenere un ritmo di crescita di un certo spessore, anche se naturalmente non più così elevato come è accaduto finora. Di conseguenza, sono in molti ad augurarsi che Obama giunga al più presto a stabilire un accordo-quadro con il premier cinese Wen Jiabao, affinché i dirigenti cinesi continuino innanzitutto a destinare parte delle ingenti risorse valutarie in loro possesso per acquistare titoli pubblici americani. D'altronde, non si vede come la Cina potrebbe registrare una crescita, seppur non più intensa come prima, della propria economia (dovuta precedentemente in larga misura alle esportazioni, soprattutto verso gli Stati Uniti), se non potesse far conto anche su una rapida ripresa della domanda americana, oltre che su un'espansione dei proprio mercato interno.

S'è venuto infatti a stabilire negli ultimi dieci anni un legame a filo doppio fra le due sponde del Pacifico. Su un totale di 2860 miliardi di dollari in buoni del Tesoro, a cui ammonta il debito estero degli Stati Uniti, ben 585 miliardi sono quelli contratti con Pechino. Ma, sommando anche i titoli di Stato garantiti da prestiti ipotecari e quelli di so­cietà statunitensi di cui la Cina è in possesso, la cifra complessiva del debito americano nei confronti di Pechino supera i 1200 miliardi di dollari, una cifra equivalente in pratica a due terzi del totale in valuta straniera che i cinesi hanno accumulato fra il 2004 e ii 2008. In pratica, l'ultimo «pianeta rosso» ha così finanziato finora gli squilibri del «gigante capitalistico» americano.

Stando così le cose, mentre gli Stati Uniti non possono fare a meno di Pechino per disporre di risorse necessarie ai rilancio della loro economia, la Cina subirebbe enormi perdite se decidesse di vendere i suoi «asset» in dollari, in quanto ciò provocherebbe un crollo in caduta libera del biglietto verde con le relative conseguenze su tutti i fronti. Pertanto si dà per scontato che Pechino prosegua, per quanto possibile, a prestare soldi all'America. E ciò, nonostante i governanti cinesi abbiano deciso di impiegare parte delle risorse di cui dispongono (sino alla massiccia cifra di 585 miliardi di dollari pari al 3 per cento del PII) sia per sovvenire un gran numero di piccole-medie aziende oggi sull'orlo del fallimento a causa dei contraccolpi della recessione mondiale, sia per accrescere gli investimenti in infrastrutture alfine di riassorbire la disoccupazione venutasi a creare con la flessione delle proprie esportazioni, e per incentivare in pari tempo la domanda e i consumi interni, per lungo tempo tenuti sotto stretto controllo dalle autorità cinesi.

Va detto, peraltro, che la Cina si trova alle prese non solo con una decelerazione del suo processo di sviluppo, per via della crisi economica mondiale (per cui il saggio di crescita del suo Pii, dal 12-13 per cento del 2007, dovrebbe scendere nel 2009 a non più del 7-8 per cento). La Cina ha a che fare anche con una serie di problemi strutturali: dalla scarsa redditività della sua agricoltura, a non poche carenze in fatto di infrastrutture e di istituzioni finanziarie, a un sistema di assistenza socio-sanitaria quasi da Terzo Mondo. E queste e altre ipoteche finiranno per emergere adesso che s'è inceppato il motore delle esportazioni che aveva alimentato la sua espansione economica.

Tuttavia, anche se non si può certo contare sul fatto che la Cina di per sé agisca da traino alla ripresa dell'economia occidentale, è anche vero che non si può assolutamente fare a meno di un suo fattivo contributo; e, quindi, che sarebbe importante a tal fine, innanzitutto, un'intesa fra Washington e Pechino. Anche perché potrebbe essere cementata dall'interesse di entrambi i paesi a presidiare la pace e la sicurezza in alcune aree «calde», dal Medio Oriente all'Africa. In questo senso, per un'intesa geo-politica, si sono espressi recentemente due veterani della politica estera americana come Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, e a Pechino si è dato particolare rilievo alle loro opinioni. Inoltre, i dirigenti cinesi si sono detti pronti ad assumersi più responsabilità, aumentando le loro importazioni e a investire di più nei paesi occidentali. Ma in cambio non vogliono sentir parlare di una liberalizzazione del loro regime politico.

Fatto sta che sono in molti a pensare che una convergenza fra la Cina e gli Usa potrebbe costituire una sorta di «nocciolo duro», di cabina di regia, tale da assecondare un'azione congiunta a più largo raggio che coinvolga l'Unione europea e la Russia, più l'India, il Brasile e il Sud Africa.

In fondo, la crisi finanziaria non ha segnato il fallimento della globalizzazione, ma messo in luce la mancanza di una governance a livello globale, di qualcosa che sia analogo al sistema di Bretton Woods, che fino al 1971 ha assecondato le relazioni commerciali e garantito un regime stabile dei cambi. E, se per trent'anni sono stati gli Usa a esercitare il ruolo di capofila, adesso è giunto il momento di una direzione collegiale, anche se con gli stessi obiettivi di fondo d'un tempo opportunamente aggiornati: una sorta, dunque, di «Bretton Woods 2», che contempli norme e congegni validi di governance in materia di mercati monetari e finanziari, politiche commerciali antitrust e determinati incentivi economici. Insomma, è necessario non solo rafforzare o modificare gli strumenti d'intervento del Fondo monetario internazionale e della Banca Mondiale, le cui funzioni si sono appannate nel corso del tempo. Ma è indispensabile dar vita a un nuovo sistema di partenariato dell'economia globale fondato sul multilateralismo, il cui pilastro iniziale potrebbe essere sino­americano, quale asse portante di un complesso di politiche macro-economiche e di iniziative su scala globale. In concreto tutto questo si tradurrebbe in un insieme di nuove regole: da apposite norme contro la manipolazione delle proprie valute, a codici giuridici efficaci in materia di diritti di proprietà intellettuale e di brevetti, da precise clausole per la trasparenza dei movimenti di capitale, a più salde garanzie a tutela dei risparmiatori e degli investitori.

Una strategia comune su altri fronti

Ancor prima dell'attuale crisi economica, si riteneva indispensabile una governance del mercato globale che avesse per riferimento anche alcuni settori considerati strategici, a cominciare da quello dell'energia. Il fatto che, dopo aver toccato nell'agosto 2008 la punta di 145 dollari al barile, i prezzi del greggio siano poi altrettanto vertiginosamente calati, non ha infatti accantonato un problema fondamentale come la disponibilità a quotazioni sostenibili di adeguate risorse energetiche.

Oggi ammontano a sei miliardi gli abitanti del pianeta ed è probabile che nel giro di vent'anni o poco più essi saliranno a nove miliardi. C'è dunque più di un motivo per domandarsi se e come sarà possibile ac­crescere la produzione di gas e petrolio in modo da coprire un fabbisogno destinato ad assumere dimensioni sempre più cospicue. Anche perché si ritiene che prima del 2030 non saranno disponibili i reattori nucleari di quarta generazione, più sicuri di quelli ora in funzione e in grado di utilizzare meno uranio e produrre meno scorie. Sebbene di petrolio ve ne sia ancora in abbondanza sotto terra e al fondo dei mari, va detto che, per rintracciarlo ed estrarlo, occorrono oggi molti più mezzi d'una volta. Ci si chiede, perciò, se e dove troveremo i mezzi necessari a tal fine; e, inoltre, se esisterà comunque la convenienza a procedere a ulteriori campagne di esplorazione e alle successive operazioni sino a quelle di trasporto agli scali terminali, qualora i prezzi finali del greggio non salissero proporzionalmente. Per giunta, esiste un altro problema da non poco conto, che riguarda la sicurezza degli impianti, in quanto parte degli attuali paesi produttori non offrono garanzie certe a questo proposito, essendo situati per lo più in zone «calde» del mondo, a cominciare da quelle del Medio Oriente. Nei termini in cui si presenta ai giorni nostri, quella energetica appare una partita che, nel gioco fra la domanda e l'offerta, dipenderà in pratica da quattro protagonisti: la Cina, la Russia, l'Europa e, non certo da ultimo, gli Stati Uniti. Pechino, che ha un bisogno crescente di gas e petrolio da acquisire da fonti anche lontane dai suoi lidi, per disporne a prezzi convenienti dovrebbe rivalutare la sua moneta, ma non può farlo, semmai lo decida, oltre una certa misura per non compromettere la competitività delle sue esportazioni; la Russia, che possiede considerevoli riserve di petrolio e di gas, e che punta ad accrescere quelle di gas rinvenibili lungo il suo litorale che s'affaccia sui circolo polare artico, deve tuttavia poter contare su capitali e investimenti esteri per migliorare i suoi impianti di estrazione e distribuzione; a sua volta, l'Unione europea, tributaria da mezzo mondo per gran parte del greggio che consuma, non può ridurre le sue importazioni se non pone mano allo sviluppo di energie rinnovabili e non adotta una strategia univoca nelle sue relazioni con i paesi produttori. Quanto agli Stati Uniti, dato che non intendono (a detta del neo-presidente Barack Obama) effettuare ulteriori trivellazioni nei proprio territorio nazionale, devono puntare sullo sviluppo delle fonti rinnovabili, e contare per il resto su una distensione dei rapporti politici con alcuni paesi fornitori di greggio e gas dell'America Latina (a cominciare dal Venezuela di Hugo Chavez). Ma la questione di un'adeguata disponibilità di greggio e di gas per i propri fabbisogni interni, non è l'unico dilemma con cui ci si deve misurare. Un altro problema di fondo consiste nella sufficienza o meno per il futuro di produzioni agro-alimentari. L'incremento demografico, 4 la conseguente richiesta di più provviste alimentari e il miglioramento della dieta di una parte della popolazione (come in Asia, in America La­tina e in altre contrade in via di sviluppo) determineranno infatti un ulteriore incremento del fabbisogno. Come si possa farvi fronte, è un grosso problema, se si considera che fin d'ora si registrano non poche strozzature fra la domanda e l'offerta. E ciò per varie cause: dalla sostituzione, in vari paesi del Sud America e dell'Asia, di interi raccolti di soia con quelli di mais in parte dirottati verso la produzione di idrocarburi; alla destinazione di maggiori quantitativi di cereali al foraggio per fornire i mangimi occorrenti agli animali; dalla conversione di una quota crescente di mais alla produzione di etanolo; alla diffusione dei processi d'inquinamento del suolo e delle acque; alla frequenza di alluvioni, tifoni e altre devastanti calamità naturali.

D'altra parte, non è che nei paesi più avanzati ci sia da stare assolutamente tranquilli. In Europa, tanti fondi, adibiti in precedenza alla coltura di cereali, legumi e verdure (che rappresentavano circa un terzo di quelli coltivabili) sono stati infatti convertiti per dare da mangiare agli animali da latte e da carne, in relazione ai cambiamenti avvenuti nei tipi di dieta della popolazione; e un gran numero di agricoltori hanno abbandonato nel frattempo le campagne lasciando quindi milioni di ettari di terreni produttivi. Per non parlare poi di Cina e India: nel primo di questi paesi, malgrado le misure assunte dalle autorità, è avvenuto un esodo in massa dei contadini verso i grandi centri urbani, dato che potevano trovare lavoro e vivere in condizioni di gran lunga migliori rispetto a quelle dei loro villaggi originari; nel secondo, molti appezzamenti di terra sono stati acquisiti da alcune grosse società multinazionali, così che crescenti schiere di piccoli coltivatori, racimolato un po' di denaro, sono affluiti verso i suburbi delle principali città e non hanno più di che sostentarsi con i prodotti dei loro minuscoli fondi. E quanti sono rimasti abbarbicati ai loro fazzoletti di terra hanno a che fare con prezzi di sementi e fertilizzanti in continuo rincaro, per cui è probabile che alla lunga anche loro se ne andranno dalle campagne.

Insomma, anche sul versante dell'agricoltura sarebbe necessario adottare provvedimenti efficaci su scala internazionale per scongiurare il rischio tanto di una scarsità di derrate alimentari che quello di un'estensione delle aree afflitte da livelli di sottonutrizione cronica. Inoltre si dovrebbe riuscire a trovare un accordo multilaterale sul versante dell'import­-export in materia di prodotti agricoli, che invece continua a essere lo scoglio principale su cui da una decina di anni finiscono per naufragare le sessioni periodiche della Wto.

Un ulteriore ostacolo alla possibilità di un'intesa rimane il problema dell'uso di semi transgenici. Secondo i suoi fautori, che si contano soprattutto nei paesi del Terzo Mondo, essi sono in grado di apportare tangibili benefici alla produzione agroalimentare aumentandone la quantità e riducendone fortemente i costi, in particolare per alcuni in­gredienti e generi alimentari di largo consumo (dalla farina agli amidi, agli oli per condimento, dai pomodori alle patate, alle melanzane e ad altri vegetali). A detta invece degli ecologisti, non esiste alcuna prova sicura che gli organismi geneticamente modificati siano sicuri per i consumatori e per l'ambiente, o non possano rivelarsi nocivi di qui a qualche tempo. Inoltre, il fatto che siano alcune multinazionali le principali produttrici di semi manipolati, suscita il sospetto che contino ben più certi colossali interessi rispetto alla preoccupazione di trovare il modo di sfamare tanta gente. D'altro canto, la maggior parte dei campi «dichiarati» a colture transgeniche è per ora distribuita in paesi (come gli Stati Uniti, il Canada e l'Argentina) che non soffrono certamente carenza di cibo, e quindi di anemia da mancanza di vitamine e proteine; e che badano quindi a commercializzare in Asia e Africa tali prodotti per H trarne lauti profitti. Maggiori probabilità di giungere a qualche genere d'accordo esistono semmai per quanto riguarda le disponibilità di acqua potabile. Anche in questo caso, si pone un problema di fondo: ossia, il pericolo che le risorse idriche finiscano per ridursi notevolmente, dato che di qui a una ventina d'anni, considerato il continuo boom demografico, il numero delle persone che vivono in contrade scarse d'acqua (o dotate per lo più di quella non potabile) diverranno da un miliardo di persone che sono oggi, più di tre volte tante. Del resto, in varie regioni del mondo le falde idriche si sono abbassate e fiumi e laghi hanno sempre minor portata d'acqua; a non contare la situazione già da tempo allarmante, quando non drammatica, in cui versa parte dell'Africa settentrionale e subsahariana per l'avanzata della desertificazione. In complesso, si calcola che, mentre in media ogni europeo consuma (stando ai dati del 2006) qualcosa come 160 litri d'acqua al giorno (e in alcune regioni persino 370 per via di tanti sprechi), in almeno una ventina di paesi sottosviluppati non si arriva a 30 litri per famiglia (rispetto ai 20-25 per persona, considerati dall'Organizzazione mondiale della Sanità il minimo indispensabile per la sopravvivenza). Che la penuria di «oro blu» sia un problema inderogabile, e che perciò vada affrontato con misure efficaci e tempestive, risulta evidente anche perché la progressiva riduzione di risorse idriche rischia di aggravare ulteriormente l'emergenza cibo e in parte pure quella dell'energia (sia per l'importanza delle fonti idroelettriche sia per il massiccio utilizzo di acqua per l'estrazione di petrolio da sabbie bituminose). Si spiega pertanto come abbia visto i natali negli ultimi anni un Forum internazionale, per stabilire i primi lineamenti di una normativa comune, gestita da un'apposita Autorità internazionale al fine di assicurare a tutti il diritto di accesso a fonti idriche pulite, e dirimere le vertenze e gli at­triti di sovranità nazionale su bacini e corsi d'acqua. Ed è significativo che questo consesso sia stato tenuto a battesimo dall'ultimo leader dell'Unione Sovietica, Michail Gorbacèv.

D'altronde, si deve ad altri due uomini politici, all'ex vice-presidente democratico degli Stati Uniti Al Gore e all'ex premier inglese Tony Blair, se si sono moltiplicate negli ultimi anni le iniziative di sensibilizzazione nei riguardi dei governi e dell'opinione pubblica per affrontare decisamente, senza più remore, anche la questione del degrado ambientale. Come è noto, risale al 1997 il cosiddetto protocollo di Kyoto, in base al quale si era convenuto che occorreva ridurre le emissioni di gas serra. Senonché, da allora, non si sono compiuti molti progressi su questo fronte. I paesi emergenti con in testa Cina e India (che sono oggi fra i paesi più inquinanti) continuano a sostenere che devono essere innanzitutto gli Otto Grandi a tagliare le emissioni di anidride carbonica, in quanto sono stati loro a inquinare l'atmosfera per almeno un secolo e mezzo provocando perciò i guai in cui ci si trova. Dal canto loro, i paesi più avanzati non hanno trovato finora un'intesa per procedere di concerto, in quanto gli Stati Uniti non avevano voluto aderire al protocollo di Kyoto e anche in Europa non tutti i governi la pensavano allo stesso modo in merito ai provvedimenti da assumere in concreto.

Fatto sta che molti obiettivi tra quelli indicati dal protocollo di Kyoto, che scadrà nel 2012, sono ancora da raggiungere; e che nel frattempo il «buco dell'ozono», lo sfaldamento della fascia di ozono della stratosfera a cui spetta filtrare le radiazioni ultraviolette del sole, è divenuto ormai ditali dimensioni da provocare uno squarcio grande come l'Europa. E ciò per molteplici cause, che producono comunque, ognuna per la propria parte, l'inquinamento del suolo, delle acque e dell'atmosfera.

E vero che oggi esiste una maggiore consapevolezza dei rischi che corre lo stato di salute del nostro pianeta; ma occorre che si determini fra i governi dei principali paesi la più larga convergenza possibile sui rimedi a cui porre mano. E individuare perciò, in conformità alle indicazioni dell'Ipce (l'organismo dell'Onu incaricato dal 1988 del monitoraggio dell'effetto serra), le soluzioni più realistiche e ponderate agli effetti di una riduzione delle emissioni di gas serra attraverso un sistema di quote entro determinate scadenze, da concertare su scala multilaterale. Qualcosa di analogo, in pratica, a quanto è stato proposto dall'Unione europea per una riduzione entro il 2020 del 20 per cento delle emissioni inquinanti, un incremento del 20 per cento delle energie rinnovabili e un aumento del 20 per cento del risparmio energetico.

D'altro canto, la partita da ingaggiare per scongiurare il surriscaldamento del pianeta si salda oggi con quella per rilanciare l'economia su scala globale. Proprio la «rivoluzione verde», dopo quella informatica, potrebbe infatti dare nuovo impulso al sistema produttivo e al terziario avanzato (con una crescita conseguente di posti di lavoro), fornire nuovi stimoli e opportunità alla ricerca, e dare luogo a una serie di effetti indotti in altri campi. Che è quanto ha sottolineato il nuovo inquilino della Casa Bianca Barack Obama, distinguendosi perciò dalle posizioni su cui s'era attestata finora l'amministrazione americana. Pertanto, c'è oggi un ulteriore motivo per sperare che si giunga al varo e all'attuazione, in unità d'intenti, di un complesso di norme e iniziative tali da mettere capo, anche sui versante ecologico, a un valido sistema di governance dell'economia su scala globale.

Ma i governi e i gruppi dirigenti saranno all'altezza delle nuove sfide che s'impongono nel nostro tempo? E questo, in fin dei conti, l'assillo che ricorre oggi, a dieci anni da quando, all'alba del Novecento, sembrava a gran parte degli osservatori, almeno in Occidente, che tutto o quasi tutto dovesse procedere per il meglio senza più traumi e scossoni di sorta." (Pp. 551-573)

"La crisi finanziaria non ha segnato il fallimento della globalizzazione, ma messo in luce la mancanza di una governance a livello globale": questo in sintesi sembra il concetto centrale sul quale è stato scritto il capitolo, che risulta pertanto una abbastanza minuziosa descrizione dei fatti alla luce del luogo comune sviluppato dagli economisti dopo che la crisi è scoppiata e dopo che, in epoca recente, essi, pur avendo sottolineato qualche incognita legata alla globalizzazione, hanno visto in essa il trionfo del liberismo e del mercato.

Parlo non per caso di luogo comune, sul quale si è allineato il recente G8. Se per governance si intende un controllo sul capitalismo produttivo e finanziario che impedisce ad esso di scongiurare le crisi ricorrenti che esso produce, è pacifico che lo stato attuale recessivo del mondo intero, contrassegna una mancanza di governance. Se, invece, con questo termine, si intende il modo in cui i politici, i ministri dell'economia e i banchieri centrali hanno di fatto amministrato il sistema, più che di mancanza occorre piuttosto parlare di connivenza e di incentivi a "delinquere".

L'aver consentito alle Banche commerciali statunitensi, nel 1999, di mettersi sul piano dell'investimento speculativo e la sciagurata decisione di Alan Greespan di inondare il mercato di liquidità sono manovre ben precise di governance orientate a consentire all'America di continuare a portare avanti i suoi giochi senza fare i conti con un'economia balorda e drogata fin dalla metà degli anni '90. L'avere chiuso gli occhi sulla bolla borsistica, che ha cominciato a formarsi a quell'epoca, l'aver chiuso gli occhi sulla successiva bolla immobiliare, che ha portato i prezzi delle case a livelli assurdi, l'avere accettato la pratica delle stock option e l'incredibile escalation (in tutto il mondo occidentale) delle remunerazioni dei manager sono atti di governance.

Non penso che occorra insistere sul luogo comune cui ho fatto cenno, che identifica negli speculatori degli scapestrati amanti del rischio e nei controllori dei soggetti sempre un po' in ritardo rispetto alla realtà e comunque distratti. La realtà è che gli uni e gli altri si sono avvalsi del valido aiuto degli economisti, che, con le loro teorie (e fatta eccezione dii qualche singolo studioso), hanno validamente concorso ad alimentare la convinzione che i rischi fossero controllabili e che il mercato dovesse essere lasciato libero di trovare il suo equilibrio, che è sempre poco compatibile con l'equilibrio di cui il mondo ha bisogno.

2.

Marx riteneva che l'unica forma seria di economia fosse la critica di una disciplina la cui sedicente scientificità copre sempre la sua tendenza a mistificare i reali processi storici, giustificandoli.

Purtroppo, uno studioso della statura di Marx non esiste più. Alcuni suoi eredi, però, sono ancora degni del Maestro. Tra questi includerei l'egiziano Samir Amin, dal cui libro Le fiabe del Capitale (La Meridiana, Bari 1999) riporto queste pagine che contestano le pretese dell'economia di porsi come una disciplina scientifica:

"L’ECONOMIA PURA O LA STREGONERIA DEL MONDO CONTEMPORANEO

(pp. 99-108)

Nelle università oggi si insegna una curiosa disciplina, denominata scienza economica o semplicemente «economica», come nel caso della fisica. Il suo campo sarebbe definito dalla vita economica delle società delle quali avrebbe l'ambizione di spiegare scientificamente la determinazione delle grandezze che le caratterizzano: prezzi, salari e redditi, tassi di interesse, di cambio, livello di disoccupazione, ecc.

Ma - fatto curioso - mentre la ricerca scientifica si applica a partire dalla realtà, l'economica si costruisce a partire da una posizione di principio che a questa volta le spalle. Questa posizione, definita «individualismo metodologico», immagina che la società possa essere ridotta alla somma degli individui che la compongono, ognuno dei quali - l'Homo Oeconomicus - definito a sua volta dalle leggi attraverso le quali si traduce la razionalità del suo comportamento. Non si capisce bene se, nello spirito di questa «scienza», l'elaborazione immaginaria, costruita a partire dall'interazione di queste componenti, debba produrre un immagine conforme alla realtà sociale, o se piuttosto proponga un modello normativo di ciò che dovrebbe essere la società ideale.

Chi negherebbe, infatti, l'ovvietà che gli individui costituiscono gli elementi di base di una qualsivoglia società? Ma per quale ragione quest'ovvietà dovrebbe farci credere che la società reale è il prodotto del confronto diretto dei comportamenti individuali, e non piuttosto una costruzione infinitamente più complessa nella quale si affrontano classi sociali, nazioni, Stati, grandi imprese, progetti di società, forze politiche e ideologiche, ecc.? Gli economisti non si interessano a queste evidenze, perché contrastano con la loro ambizione di costruire «un'economia pura» e di scoprire le sue leggi fondamentali, quelle cioè che risulterebbero dal solo confronto dei progetti e delle azioni degli individui che operano in un campo immaginario dell'economia spogliata da ogni altra dimensione sociale. Quest'economia pura può essere, forse, una costruzione dello spirito divertente, ma che rapporto ha con la realtà? Immaginiamo una medicina che vorrebbe «ricostruire» il funzionamento del corpo umano a partire dai soli elementi fondamentali con cui è costituita -le cellule - ignorando deliberatamente l'esistenza degli organi (il cuore, il fegato, ecc.)! Fortunatamente per la nostra salute fisica i medici non hanno fabbricato una «medicina pura» come nel caso dell'«economia pura». La probabilità che i modelli più complessi, espressione dell'interazione delle cellule, producano qualche cosa che assomigli a un corpo umano è la stessa di quella che una scimmia posta davanti ad una macchina da scrivere riproduca - per caso le opere complete di Shakespeare! Lo stesso vale per la probabilità di raggiungere un equilibrio generale, per di più ottimale, attraverso le virtù del confronto sul mercato di cinque miliardi di esseri umani.

La legittimazione di questa assurda posizione di partenza dà luogo a lungaggini filosofiche impressionanti. Von Hayek, il guru degli economisti neoliberali del nostro tempo, obbligato a costatare l'esistenza delle nazioni, degli Stati, delle classi sociali e di qualche altra realtà, si accontenta di vedervi vestigia «irrazionali»! Alla ricerca di spiegazioni razionali della società sostituisce dunque allegramente la costruzione di una realtà mitica.

L'essere umano è certamente un animale razionale, e i suoi comportamenti, anche i più curiosi, sono probabilmente spiegabili. A condizione però di situare le razionalità particolari che animano le sue azioni nel quadro appropriato che ne relativizza e precisa i meccanismi e la portata. In altri termini, la posizione olista che ragiona a partire da aggregati reali (le imprese, le classi, gli Stati, ecc.) è l'unica possibile attitudine scientifica di partenza. L'economia politica classica (e la qualifica di politica non è casuale) di Smith e Ricardo, quella di Marx e di Keynes, adottava naturalmente questa attitudine scientifica.

In più, poiché l'essere umano è intelligente, egli sarà portato a determinare i suoi comportamenti in funzione di ciò che crede essere le reazioni degli altri. L'economia pura, dunque, non dovrebbe costruire il suo modello a partire dalle esigenze di una razionalità stupida e immediata (acquisto di più se i prezzi scendono) quanto piuttosto da una razionalità che media le anticipazioni delle reazioni altrui (mi astengo dall'acquisto se credo che il prezzo diminuirà ulteriormente...). Una costruzione che volesse integrare tutti questi «dati» individuali è possibile? È, per caso, giunta al cuore del problema? O, quantomeno, vi è prossima?

Come sappiamo, l'economia pura parte da considerazioni che si ispirano ai comportamenti di Robinson nella sua isola, che sceglie fra consumo immediato e consumo futuro. Ma le «robinsonate» non finiscono qui. Gli economisti immaginano dunque che la società mondiale sia costituita da cinque miliardi di Robinson. Il suo discorso è così inaugurato da un capitolo di apertura sconvolgente nel quale cinque miliardi di unità elementari vengono trattare come «puri consumatori», che beneficiano di «dotazioni iniziali» (panieri di beni), e che cercano di scambiare su un mercato concorrenziale perfetto ciò che avanza loro in cambio di ciò che ritengono manchi loro.

Questo stile è quello dei racconti di fiabe. La favola, come sappiamo, presta - generalmente ad animali - comportamenti plausibili e immagina questi per raggiungere i propri fini, che sono poi quelli di ricavare la «morale della storia». L'economica è interamente costruita su questo modello. A ognuna delle tappe del suo sviluppo viene introdotta l'ipotesi di comportamenti plausibili che si confanno a ciò cui vuole arrivare.

Il rompicapo che segue immediatamente l'opzione dell'individualismo metodologico è il seguente: come dimostrare che l'interazione dei comportamenti razionali degli individui, integranti per di più l'anticipazione, produce un equilibrio determinato, vale a dire solo e soltanto un sistema caratterizzabile (dai suoi prezzi, la ripartizione dei redditi, il tasso di disoccupazione, quello della sua crescita, ecc.)? Il ricorso allo strumento matematico evidentemente si impone in questo caso come necessario.

Ma, a giusto titolo, i matematici provano che tutto questo generalmente non si verifica. Un sistema di equazioni di questo tipo (si tratterebbe qui di centinaia di miliardi di equazioni) è a priori piuttosto incompatibile, ovvero non ammette soluzioni. Con molte più ipotesi addizionali vi è qualche possibilità di essere compatibili ma indeterminati (un'infinità di soluzioni) e con altre ipotesi ancora di essere determinati (un unica soluzione).

Gli economisti puri si impegnano dunque a conservare le ipotesi necessarie per raggiungere il loro fine. E in questo modo che decideranno se alcune curve aggregate sono concave, altre convesse, se i rendimenti sono costanti, crescenti o decrescenti a seconda dei bisogni. E per superare ognuna delle tappe della loro dimostrazione immagineranno la favola più conveniente.

Il modello Arrow-Debreu, il gioiello di cui si pavoneggia l'economia pura, dimostra bene che -dando per scontate tutte le ipotesi massimali precedenti - esiste almeno un equilibrio generale, ma... nell'ipotesi di una concorrenza perfetta. Ora, questo presuppone l'esistenza di questo famoso banditore d'asta, centralizzatore di tutte le offerte e le domande. Curiosamente, dunque, questo modello dimostra che un pianificatore centrale, che conosca perfettamente i comportamenti dei suoi cinque miliardi di amministrati, potrebbe prendere le decisioni che produrrebbero l'equilibrio cercato! Il modello non dimostra che il mercato libero, così come esiste nella realtà, lo raggiungerebbe. Che l'economia pura dei liberali più estremisti sia così costretta a concludere che il Big Brother sia la soluzione ai suoi problemi, è certamente qualcosa di estremamente divertente! Evidentemente, non esistendo il banditore d'asta, il sistema si modifica ad ogni istante secondo i risultati prodotti dalle azioni effettive degli individui che si confrontano sui mercati. L'equilibrio - se mai lo si raggiungesse - sarà quindi il prodotto tanto del progresso - ciò che è casuale - quanto dai caratteri definibili a partire dalla razionalità degli attori. Questo equilibrio probabilmente non esisterà mai. D'altra parte, il teorema di Sonnenschein stabilisce che è impossibile dedurre dai comportamenti massimizzatori le forme delle curve di offerta e di domanda. Ma il fatto che sia stato dimostrata da parte di studiosi matematici seri l'impasse in cui sembra essersi rinchiusa l'economia pura non importa certo ai suoi teorici. Il problema infatti non è questo, come vedremo.

In più, l'equilibrio generale che potrebbe essere raggiunto miracolosamente dal confronto delle offerte e delle domande sul mercato non è caratterizzabile; esso non ci dirà nulla né sul livello di impiego, né sul tasso di crescita del prodotto. E vero però che la disoccupazione non è un soggetto che interessa l'economia pura che, semplicemente, suppone che sia sempre volontaria W!). Poiché questa supposizione-definizione è palesemente falsa, gli economisti convenzionali giustapporranno al loro discorso assurdo sull'equilibrio realizzato dal solo funzionamento dei mercati (il carattere autoregolatore del mercato), insulsaggini sulla disoccupazione che attribuiranno d'ufficio - pregiudizio reazionario banale - al fatto che i salari sarebbero «troppo elevati». Così facendo essi ignorano con una certa superbia non soltanto che la domanda dipende in larga parte dai salari, ma anche che, nella logica propria del loro sistema, una modificazione dei salari trasforma tutti i dati del sistema dell'equilibrio generale.

A questo segue la pretesa che l'equilibrio generale così ottenuto realizzerebbe l'«optimum sociale». Questa affermazione costituisce la seconda grande proposizione dell'economia pura.

Ma la «dimostrazione» si fonda in questo caso su una definizione dell'ottimo priva di senso: questa sarebbe la qualità di un equilibrio del quale non è possibile modificare alcun parametro senza che si deteriori la situazione di almeno un individuo. In altri termini, un equilibrio che condannerebbe quattro miliardi di individui a vegetare resterebbe ottimale anche se una modificazione qualunque generasse un solo individuo, per esempio il miliardario più ricco fra i cinque miliardi di abitanti del pianeta!

Questo magnifico edificio dell'economia pura immaginata a partire dalla fine del XIX secolo -in risposta evidentemente all'analisi di Marx - ignorava per principio la moneta, questo velo dietro il quale si nasconde l'economia reale. Poiché comunque quest'ultima esiste, bisognava introdurla all'interno della costruzione. La più stupida teoria quantitativa era il solo modo per farlo. Sulla sua scia, decretando che la moneta era una merce come le altre, il monetarismo - ultimo grido dell'economia pura - si sentiva autorizzato ad aggiungere alle equazioni dell'offerta e della domanda di ognuno dei cinque miliardi di individui, quelle riguardanti la loro domanda di moneta. Quanto all'offerta, essa viene supposta come un dato esogeno di cui la banca centrale può fissare il montante. Un'analisi scientifica elementare dell'emissione monetaria prova che la moneta non è una merce come un'altra perché la sua offerta è determinata dalla domanda, la quale dipende in parte dai tassi di interesse associati ai crediti e in parte dal livello dell'attività. D'altra parte, le banche centrali di cui si auspica una gestione neutra e indipendente (da chi?), in quanto avrebbero questo potere magico di fissare l'offerta di moneta - non lo fanno perché non possono farlo, ma agiscono solamente parzialmente e indirettamente sulla domanda di moneta, non sulla sua offerta, scegliendo i tassi di interesse. Ma così si ignora che questa scelta reagisce a sua volta sui livello dell'attività (attraverso gli investimenti, i consumi differiti, ecc.) e dunque su tutti i dati dell'equilibrio. Rifiutando ogni analisi olista, vale a dire ignorando la distinzione utile da fare in questo caso fra la logica finanziaria (quella dei capitali che le sono associati) e la logica dell'investimento produttivo (le strategie dei capitali che vi si sviluppoano), l'economia pura monetarista si guarda bene dal cercare le ragioni reali per le quali i tassi di interesse sono ciò che sono.

Bisogna dunque chiedersi come un esercizio così assurdo e sterile come quello rappresentato dall'economia pura possa essere oggetto dell'interesse di individui che sono muniti di un'intelligenza normale. Se avessimo voluto provare che nel campo del pensiero sociale le ideologie, i pregiudizi, gli interessi, la ricerca disperata di mezzi che ne legittimino la difesa, possano annichilire lo spirito critico scientifico, non avremmo dovuto fare di meglio che inventare l'economia pura.

L'economia pura si pretende scienza, allo stesso titolo della fisica. Essa non lo è perché vuole negare ciò che separa scientificamente la scienza sociale dalle scienze della natura. Essa vuole ignorare che la società si produce da sola, che non è fabbricata da forze esteriori. Ma, nonostante questa dichiarazione di principio, si infligge la sua stessa smentita introducendo il concetto di anticipazione per il quale l'individuo, che essa vorrebbe trattare come una realtà oggettiva, è esso stesso soggetto attivo della sua storia.

L'economia pura è una para-scienza, che sta alla scienza sociale come la parapsicologia sta alla psicologia. E d'un tratto, come ogni parascienza, essa è in grado di provare tutto e il suo contrario. «Dimmi ciò che vuoi e fabbricherò un modello che lo giustifica». Vogliamo alzare il tasso di interesse dal 6,32 % all'8,45 % o abbassarlo al 4,26 % o mantenere il suo livello attuale, si costruiranno le giustificazioni ad hoc in forma di modelli. In questo sta la sua forza: è uno strumento al servizio del capitale dominante, il paravento dietro il quale quest'ultimo può nascondere i suoi obiettivi reali. Oggi questi sono l'aggravamento della disoccupazione, la disuguaglianza crescente nella distribuzione ecc. Poiché questi obiettivi non possono essere ammessi, diventa utile «dimostrare» che costituiscono i mezzi di una transizione che conduce allo sviluppo, al pieno impiego, ecc. Come dire, domani si fa credito...

Non essendo scientifica, l'economica può mobilitare al suo servizio matematici amatori come la parapsicologia fa con alcuni psicologi. Poiché non conta che ciò che prova sia giusto -l'importante è che giustifichi la tesi che si vuole imporre - quanto piuttosto che la dimostrazione sia irreprensibile o meno. Dovrebbe certamente apparire estremamente curioso che questa «scienza» arruoli tanti matematici mediocri che nessun laboratorio di fisica vorrebbe. Ci sono certamente delle eccezioni, come Debreu. Ma in questo caso si determina una fuga in avanti. Dall'economia pura classica si passa alla teoria dei giochi che analizza il confronto delle strategie, incluse le anticipazioni degli attori. L'interesse di questa teoria per la ricerca non è certamente trascurabile, e in più può fare progredire lo strumento matematico stesso. E nondimeno, sono colpito dal fatto che ogni progresso nella teoria dei giochi allontana dalla realtà sociale. La fuga in avanti nei matematici del caos è della stessa natura. Nei due casi il fatto sociale è solo un pretesto. L'arricchimento delle teorie matematiche è il vero scopo, un obiettivo non soltanto legittimo ma anche essenziale per il progresso ulteriore della conoscenza in numerosi campi. Altri matematici - come Bernard Guerrieri o Giorgio Israel - proprio perché non sono degli amatori, hanno svolto l'opera indispensabile di mostrare l'assurdità e l'incoerenza dell'economia pura.

Dietro queste eccezioni si profila l'armata dei fabbricanti di modelli, spesso docenti bisognosi delle università (in particolare americane) la cui carriera dipende dal numero di pubblicazioni che, in generale, non dicono nulla e non vogliono dire nulla. All'interno della classe dirigente, l'economia pura lusinga le inclinazioni naturali degli ingegneri e dei tecnocrati che pensano spesso sinceramente - che il loro potere sia illimitato e che le loro decisioni producano la realtà sociale.

Il parallelo con la magia e la stregoneria si impone. Anche lo stregone presenta le sue conclusioni rivestite da una fraseologia apparentemente «scientifica». Per essere convincente, deve dire un certo numero di cose sensate e plausibili, ma per arrivare a conclusioni che non ne conseguono. Il grande stregone, intelligente, sapeva ciò che il Re si aspettava da lui, e lo produceva. L'economia pura svolge funzioni analoghe nella nostra società alienata nell'economicismo; e le svolge con mezzi analoghi: l'esoterismo della lingua (quello della matematica, a uso e consumo dei non matematici) è il principale di questi.

Milton Friedman è il grande stregone della nostra epoca. Egli ha compreso ciò che si voleva ascoltare: che i salari sono sempre troppo elevati (anche nel Bangladesh), che i profitti sono sempre insufficienti per invogliare i ricchi a investire... Da qui il suo successo, nonostante il suo spirito confusionario (ha detto tutto e il contrario di tutto, a seconda delle circostanze e degli interlocutori) e la sua disonestà intellettuale riconosciuta. Sono anche queste le qualità del grande stregone, che il Premio Nobel inevitabilmente sancisce.

E, come nella stregoneria, lo spirito delle sette occupa il campo. I piccoli stregoni si raggruppano dietro guru che organizzano la promozione dei loro allievi. Vedo in questo caso un parallelo indicativo di quest'aspetto dell'air du temps tra la proliferazione delle sette economiciste e quelle organizzate nella parascienza-parapsicologia.

Il grande uomo politico utilizza per i propri fini l'economista «puro», come il grande Re sceglieva lo stregone per lui più conveniente. 1 piccoli uominí politici invece credono all'economia pura e, se sono ancora più mediocri, aderiscono a una di queste sette, come spesso credono anche alla parapsicologia.

La più mediocre sociologia funzionalista o versione volgare del marxismo ci dice di più sulla società reale e la sua economia che lo stock di tutti i modelli dell'economia pura. Ma se le teorie sociali devono essere sempre sottomesse al vaglio della critica, se è sempre necessario essere attenti a ciò che è nuovo nella società reale e alle revisioni della teoria che ciò implica, se questo dibattito deve sempre restare aperto, libero, senza pregiudizi, ciò che mi sembra certo è che la via aperta dall'economia pura è un vicolo cieco; e precisamente perché questa teoria si vuole totalmente astorica, non vuole riconoscere nessuna dimensione della realtà sociale del passato e del presente, nulla che riguardi le sue evoluzioni future possibili. Essa non riconosce che «l'individuo», e in questo senso è il prodotto «puro» dell'ideologia borghese nella sua formulazione più rozza e volgare. E per questa ragione che la sua favola preferita è quella di Robinson nella sua isola: l'essere umano situato fuori dallo spazio e dal tempo. Essa si pone agli antipodi dello spirito scientifico. Non è certamente attraverso le determinazioni sul gioco degli individui che riusciremo a rispondere alla domanda su come la società si riproduce e produce essa stessa il suo cambiamento.

L'economia borghese, definita giustamente da Marx volgare, a fortiori la sua espressione estrema - l'economia pura che si proclama senza alcuna ragione plausibile «neoclassica» - è interamente costruita attorno a una preoccupazione esclusiva, quella di provare che il «mercato» si impone come una legge di natura, che non solo produce un «equilibrio generale», ma anche il migliore degli equilibri possibili, che garantisce il pieno impiego nella libertà, «l'optimum sociale». Questa preoccupazione altro non è che l'espressione di un bisogno ideologico fondamentale, quello di legittimare il capitalismo definito in questo modo come un sinonimo di Ragione, la quale, conformemente all'ideologia borghese, è a sua volta ridotta alla razionalità della ricerca individuale del profitto di mercato. Su questi dubbi fondamenti, il capitalismo può proclamarsi «eterno», rappresentare la «fine della storia». Ora, non soltanto l'economica non è mai riuscita a provare le sue proposizioni fondamentali con un minimo di rigore scientifico, ma anzi è stato dimostrato che il suo metodo non lo permette. Ma questo cosa importa! Tanto il suo obiettivo reale non è altro che legittimare la libera azione del capitale.

In contrasto con questo discorso non scientifico, l'economia politica di Marx e il materialismo storico che ne è la cornice di riferimento, liberato dal pregiudizio della giustificazione di questo mondo capitalista reale (che non è un sinonimo di razionale), pone le vere domande: come le lotte di classe determinano in ogni momento gli «equilibri» che caratterizzano il sistema in questo momento. La lotta di classe fondamentale che oppone il lavoro al capitale, ma anche i conflitti all'interno della classe dominante che oppone mutuanti finanziari ed investitori produttivi, imprenditori e proprietari, oligopoli fra di loro, ecc., come gli interventi dello Stato guidati dalla logica politica e sociale del blocco storico dominante (le alleanze di classi egemoniche e i compromessi sociali) determinano insieme le condizioni di un equilibrio possibile, in particolare fra il settore I (la produzione dei mezzi di produzione) e il settore II (la produzione di beni di consumo), o tra questi due settori e il settore III (che permette l'assorbimento del surplus), i livelli di impiego (che non è definito a priori «pieno»), le strutture dei prezzi relativi e delle rendite, i tassi di interesse, le pressioni sul rialzo o il ribasso del livello generale dei prezzi, i vantaggi comparativi apparenti che guidano la competitività sui mercati mondiali. Nessuna ipotesi per la quale il sistema tenderebbe all'equilibrio generale viene avanzata a priori. Le lotte di classe non perturbano un equilibrio - o un non equilibrio - realmente esistente, sempre provvisorio. In definitiva, l'economia politica marxista è realista, mentre l'economia pura non lo è in alcun modo, e fa astrazione dalla realtà (le classi, lo Stato, il sistema mondo) che elimina dal suo discorso, diventando così una favola mitica.

L'economia pura non occupa generalmente un posto di primo piano nella storia del pensiero sociale. Al contrario, solitamente, è relegata in qualche asilo del mondo accademico, mentre il mondo della vita sociale e politica l'ignora del tutto e si accontenta di tanto in tanto, secondo le necessità, di appropriarsi di una o di un'altra delle sue «conclusioni» o «tesi». Affinché quest'utopia reazionaria sia portata agli onori della cronaca, come ai nostri giorni, è necessario che si verifichino contemporaneamente condizioni eccezionali, che tutti gli equilibri sociali siano stati sconvolti a vantaggio di una dominio unilaterale del capitale. Ciò non può che essere provvisorio, non fosse altro perché, contrariamente a ciò che pretende l'utopia reazionaria in questione (che si riassume in una frase: la massima libertà d'impresa, senza freni e senza limiti assicura di per sé il progresso più straordinario possibile!), questo dominio unilaterale non produce altro che una crisi profonda della società. L'economia pura appare allora come un eccellente mezzo per gestire questa crisi prolungando lo squilibrio sociale a beneficio del capitale (oggi il suo segmento finanziario mondializzato), ma certamente non di uscirne. Se la società uscirà da questa crisi, sarà grazie a nuovi equilibri - che la lotta di classe produrrà -, nell'ambito dei quali classi, nazioni, Stati, imprese, ecc. - vale a dire tutte queste realtà che l'economia pura ignora - riprenderanno il loro posto. Allora, non sentiremo più parlare dell'economia pura, che sarà ricacciata nei suoi asili accademici."

L'obiettivo sembra un po' distante. Il Capitalismo - è ormai un mantra ricorrente sulla bocca dei politici e degli opinionisti - riuscirà ancora una volta a superare la crisi e a rinnovarsi. Che la superi, senza trarne insegnamento, è probabile (anche se ancora niente affatto scontato); che si rinnovi, è invece altamente improbabile. Non è un eccesso di pessimismo o di catastrofismo ideologico.

I Grandi si stanno dando da fare per assicurare una governance che eviti il ripetersi delle crisi. Ma, intanto, come attesta questo bell'articolo di Federico Rampini (pubblicato su Repubblica a metà luglio del 2009), gli speculatori hanno già ricominciato a fare i loro giochi:

"La revisione del sistema

Gli squali del mercato sono di ritorno. Proprio mentre il G8 dell'Aquila si appresta a discutere nuove regole per disciplinare la malafinanza, la speculazione ha ripreso a imperversare. Petrolio e dollaro, junk bond o Borse emergenti, su tutti i tavoli i trader sono scatenati come a un gioco d'azzardo. Contro ogni senso comune, le lezioni degli ultimi crac bancari e della recessione globale sembrano già dimenticate.

Eppure proprio la settimana scorsa per i corsari della finanza sembrava arrivato il Giudizio universale. A distanza di pochi giorni, due sanzioni esemplari. A New York il Bernie Madoff era stato condannato a 150 anni, una pena durissima per l'autore della "truffa del secolo". Subito dopo nel Texas il giudice David Hittner aveva negato la libertà provvisoria a Allen Stanford, regista di una frode da 7 miliardi di dollari: anche per lui le porte del carcere resteranno chiuse a lungo.

Ma nelle stesse ore a Londra Steve Perkins, broker della Pvm Oil Futures, stava orchestrando da solo una gigantesca manipolazione delle quotazioni del petrolio. I futures del greggio sono schizzati alla velocità della luce fino a toccare i livelli massimi dell'anno – 73,50 dollari il barile – senza alcuna spiegazione razionale. La congiuntura mondiale è ancora debole, i consumi di energia ristagnano. Le leggi della domanda e dell'offerta non contano: un trader abile come Perkins è riuscito a "fare tendenza" da solo, trascinando dietro di sé centinaia di colleghi-concorrenti, nella folle gara tra le sale operative delle grandi banche.

In pochi minuti Steve Perkins ha bruciato 10 milioni di dollari, persi dal suo datore di lavoro, poi sembra essere sparito nel nulla. Ha fatto notizia solo perché gli è andata male, come finì male nel gennaio 2007 la puntata di Jerome Kerviel, il trader della Société Générale.

Ma per altri operatori sui futures il gioco continua. Lo stesso capo di Perkins, David Hufton che è il numero uno della Pvm Oil Associates, ha parlato di un «casinò elettronico del petrolio». Ha descritto le perversioni della "domanda virtuale" di materie prime, creata unicamente dalla finanza. Ha ammesso che «senza le Borse dei futures, il prezzo dell'energia sarebbe molto più basso». Lacrime di coccodrillo, da parte di un colosso che manovra più di 100 milioni di barili di greggio sui mercati dei futures. Pvm è il più grosso broker indipendente nella Borsa virtuale dell'energia. Nulla indica che i blitz mordi-e-fuggi alla Perkins siano destinati a cessare.

Quale credibilità avranno i proclami di principio che usciranno dal G8, le solenni promesse di aumentare i controlli? Perfino una giustizia veloce e severa come quella americana sembra impotente. Il giurista Douglas Berman della Ohio State Law School è persuaso che i 150 anni di carcere inflitti a Madoff faranno giurisprudenza, «diventeranno il punto di riferimento per casi analoghi in futuro». Ma la storia dimostra che l'effetto-deterrente di questi castighi esemplari è scarso. E non certo per colpa dei magistrati americani.

Dagli anni Novanta a oggi, negli Stati Uniti c'è stata un'escalation nella gravità delle pene inflitte ai colletti bianchi per i reati di tipo finanziario. Se nel 1987 il finanziere Ivan Boesky se l'era cavata con tre anni e mezzo di carcere, all'inizio di questo decennio il crac Enron è costato 24 anni al chief executive Jeff Skilling, la bancarotta Worldcom è stata sanzionata con 25 anni di carcere per Bernie Ebbers. Il potere dissuasivo di questi processi però è controbilanciato da una massa di incentivi economici che spingono nella direzione opposta.

E' lo sporco segreto che le investment bank vorrebbero tenere per sé: nel bel mezzo della recessione globale, i loro affari vanno di nuovo a gonfie vele. E di pari passo risalgono le gratifiche dei trader. La speculazione paga, e per una "pecora nera" che finisce tra le maglie della giustizia ci sono cento operatori che festeggiano il ritorno delle vacche grasse. Molti di loro, naturalmente, operano in maniera del tutto legale: le regole del gioco lo consentono. E così quest'anno la Goldman Sachs si appresta a versare emolumenti per 20 miliardi di dollari, ovvero 700.000 dollari annui a dipendente. Questo significa che il 2009 sarà un anno d'oro per i predoni della finanza. Alla Goldman Sachs guadagneranno il doppio dell'anno scorso. Stessa musica alla Morgan Stanley: a fine 2009 si prevedono 14 miliardi di gratifiche ai dipendenti, un rialzo poderoso. Per questo fra le grandi banche americane è iniziata una nobile gara a restituire i prestiti ottenuti dallo Stato. Non per un improvviso senso di riconoscenza verso il contribuente, ma per liberarsi in fretta dei vincoli imposti dal Congresso di Washington sulle retribuzioni. Steven Eckhaus, avvocato d'affari a Wall Street presso lo studio legale Katten Muchin Rosenman, sostiene che «siamo daccapo al clima del 2007». Russ Gerson, cacciatore di teste per i più grandi istituti finanziari, parla di "business as usual". Cioè tutto torna alla "normalità", come se i tracolli delle banche e i salvataggi statali non fossero mai accaduti.

Il mare in cui nuotano gli squali è di nuovo ricco di prede. Il rimbalzo delle Borse – con l'indice Dow Jones salito del 27% dai minimi del 9 marzo – è uno scenario ideale. Non importa se incombono potenziali disastri, dalla bancarotta dell'intera California, ai fremiti di sfiducia verso il dollaro provocati dall'immenso deficit federale. Anzi, è proprio sulle montagne russe che la speculazione trova le opportunità più vantaggiose. E gli ultimi mesi sono stati segnati da una parola magica per gli squali: "volatilità", cioè fluttuazioni estreme, capovolgimenti repentini. I prezzi del petrolio dimezzati tra luglio e dicembre 2008, poi raddoppiati di nuovo in sei mesi. Identici scossoni per il rame e il ferro, i noli marittimi e la soya. Dietro le giravolte delle materie prime, si agitano a rimorchio le valute dei paesi produttori come il dollaro canadese e australiano, nuove star del casinò elettronico (il dollaro australiano, per esempio, ha guadagnato il 16% in un solo trimestre sul suo omologo Usa). Idem le Borse dei paesi emergenti, dal Brasile alla Cina, che segnano rimbalzi ancora più vigorosi di Wall Street.

Come se fossero colpiti da un'amnesia di massa, gli investitori del mondo intero riscoprono un atteggiamento fatale che li conduce verso le fauci degli squali: i tecnici lo chiamano "l'appetito per il rischio". L'indicatore più eloquente è il mercato dei junk bond. Così si chiamano le obbligazioni ad alta probabilità d'insolvenza. Talmente insicure, che le agenzie di rating (notoriamente indulgenti) si rifiutano di dargli un voto decente. Sono obbligazioni senza un'etichetta di affidabilità, chi le compra ne è consapevole. Ma nel nuovo clima di spensieratezza dei mercati finanziari, con "l'appetito per il rischio" i junk bond sono ricercatissimi per i loro rendimenti elevati. Chi ha scommesso su questi titoli ha guadagnato il 23% in un solo trimestre. E dietro questo gioco ricompaiono i soliti noti. Si chiamano J.P. Morgan Chase, Morgan Stanely, Goldman Sachs. Le superpotenze della finanza, che un anno fa sembravano agonizzanti, rialzano la testa e si buttano a capofitto nelle operazioni più spericolate. Queste tre si sono messe a collocare obbligazioni sprovviste della garanzia della Federal Deposit Insurance: vuol dire che se quei titoli fanno crac, gli acquirenti perdono tutto. In soli tre mesi, sono stati emessi 41 miliardi di dollari di junk bond. In aumento dell'81% rispetto all'anno scorso.

Ancora nell'aprile di quest'anno si era diffusa un'attesa forte verso il G8 e il G20. Si sperava che dai summit partisse una nuova Bretton Woods: una grande riforma dell'economia globale, regole nuove e stringenti, un cappio solido attorno ai mercati, controlli più efficaci a livello sovranazionale. Il summit dell'Aquila dovrebbe essere una tappa cruciale di quel lavoro, per impedire il ripetersi degli eccessi che hanno fatto da scintilla per la grande recessione. Ma gli squali nuotano indisturbati. Hanno fiducia che il peggio – per loro – è già passato."

Per loro, forse. Se è vero, c'è francamente da preoccuparsi. Tra qualche anno, spunteranno casomai altri economisti a spiegarci ciò che non hanno visto, previsto e , naturalmente, voluto vedere.