Il capitalismo globalizzato tra trionfo e crisi

1.

Se il capitalismo è un modello di sviluppo socio-economico senza possibili alternative, occorre almeno avere il coraggio di riconoscere, senza mistificazioni di sorta, cosa questo possa significare per il destino dell’umanità.

Ho reso conto degli sviluppi recenti del sistema capitalistico in molti articoli e nella recensione del volume di storia Il Mondo oggi. Occorre riprendere il discorso partendo da alcuni dati.

Gli Stati Uniti sono il laboratorio nazionale ove quegli sviluppi sono più evidenti. Trattandosi della nazione-guida dell’Occidente, che attraverso la sua egemonia economica e militare cerca di imporre il suo modello a tutto il mondo, ciò che avviene colà non può essere minimizzato. La realtà statunitense sotto il profilo socio-economico è stata così sintetizzata in una nota di Andrew Gumbel pubblicata su The Indipendent ai primi di marzo che concerne la distribuzione della ricchezza negli Stati Uniti (traduzione di Carlo Antonio Biscotto):

 “Il numero degli americani che vivono in condizioni di estrema povertà è aumentato drammaticamente sotto l'amministrazione Bush e ora sono quasi 16 milioni gli americani che vivono con un reddito individuale inferiore ai 5.000 dollari l’anno e con un reddito familiare inferiore ai 10000 dollari l’anno secondo una recente analisi dei dati ufficiali del censimento del 2005.

L'analisi, a cura del gruppo editoriale McQlatchy, ha evidenziato che a partire dal 2000 è aumentato del 26% il numero delle persone che vivono in condizioni di povertà estrema. Anche la povertà in generale è peggiorata, ma la povertà estrema cresce ad un ritmo del 56% superiore a quello del segmento della popolazione ritenuta povera - circa 37 milioni di persone in totale secondo i dati del censimento. Si tratta di oltre il 10% della popolazione americana che di recente ha superato i 300 milioni di abitanti.

L'allargamento del gap esistente tra poveri e cittadini abbienti non è un fenomeno nuovo in America - la tendenza è invariata dalla fine degli anni 70. Di nuovo c'è, tuttavia, il rapido incremento degli americani che si trovano in fondo alla scala socio-economica. Il numero degli americani in condizioni di povertà estrema, intatti, è aumentato più rapidamente di qualunque altro segmento della popolazione. «E esattamente il contrario di quello, che ci aspettavamo quando abbiamo iniziato l'analisi dei dati», ha detto Steven Woolf della Virgnia Commonwealth University, uno degli autori dello studio del gruppo McClatchy. «In rapporto alla popolazione non c'è moltissima povertà moderata. C'è invece una drammatica crescita della povertà estrema».

Le cause del problema non sono un mistero per i sociologi e i politologi. La percentuale di reddito nazionale che va agli utili societari è stata di gran lunga superiore alla percentuale destinata agli stipendi e ai salari.

Il ceto medio ha subito un continuo assalto anche in conseguenza del fatto che i posti di lavoro nel settore dell'industria manifatturiera garantiti e protetti dai sindacati sono svaniti e sono stati sostituiti da posti di lavoro nel terziario caratterizzati dalla precarietà e dai bassi salari.

Il quinto più ricco delle famiglie americane ha oltre il 50% del reddito nazionale, mentre al quinto più povero va, secondo le stime, il 3,5% del reddito nazionale. Il reddito netto medio dell'1% più ricco è 63 volte superiore al reddito medio netto del 20% più povero - sia perché i ricchi sono diventati significativamente più ricchi sia perché i poveri sono diventati più poveri in ragione del 19% rispetto alla fine degli anni 70. Anche il ceto mediò ha sentito la stretta.

 Ogni gruppo di reddito, eccezion fatta per il 20% più ricco, ha perso terreno negli ultimi 30 anni sia quando l'economia è stata in fase espansiva sia quando è stata in fase recessiva. Questi dati sono raramente oggetto di dibattito negli ambienti politici americani in parte perché l'economia in larga misura ha cessato di essere considerato un tema politico - il tema delle «due Americhe» sollevato da John Edwards nella sua campagna presidenziale è l'eccezione che conferma la regola - e in parte perché i think tank di destra fioriti sin dai tempi dell'amministrazione Reagan hanno fatto un eccellente lavoro nel minimizzare l'importanza di queste tendenze.

Hanno sostenuto, infatti, che le statistiche sulla povertà sono fuorvianti a causa della mobilità della società americana. Un limitatissimo numero di tink tank di sinistra, come ad esempio l'Economic Policy Institute, sostengono che i dati del censimento sono quasi certamente sottostimati rispetto al quadro reale perché molte persone che vivono in condizioni di povertà estrema non rispondono ai questionari dell'ufficio del censimento.”

Nulla di nuovo, si dirà. Lo scandalo delle “due Americhe” esiste dacché esistono gli Usa, e persiste e addirittura – pare – s’incrementa nonostante ricorrenti programmi rivolti a risolverlo (l’ultimo dei quali, a dire il vero, risale a Lindon Johnson).

Se si leggono bene le cifre, però, e si tiene conto che esse riguardano un periodo caratterizzato da una lunghissima fase di espansione, che, con l’eccezione della crisi della Borsa del 2001, dura da oltre dieci anni, e da una crescita straordinaria della ricchezza nazionale, si capisce immediatamente che qualcosa di nuovo invece c’è.

Il sistema capitalistico statunitense si è praticamente attestato su di un registro che premia costantemente un quinto della popolazione privilegiata, al cui interno si dà un’area ristretta di persone straricche, e determina, in tutto il resto della popolazione, una diminuzione progressiva del reddito che, alla base, riconosce una fascia crescente di povertà assoluta.

Si danno senz’altro cause endogene, inerenti la struttura produttiva, socio-economica e politica degli Usa, che spiegano il crescente e ormai clamoroso divario tra chi diventa sempre più ricco e chi diventa sempre più povero. Il problema è che, sia pure in minor misura, lo stesso trend verso un’iniqua distribuzione della ricchezza si è manifestato negli ultimi anni in tutti i paesi capitalistici e in tutti quelli che stanno tentando di emergere adottando il modello capitalistico.

Sembra, dunque, trattarsi di un trend strutturale, che implica una riorganizzazione del sistema orientatata a produrre nei paesi occidentali la concentrazione progressiva dei capitali anche a rischio di indurre una restrizione del reddito nella maggioranza della popolazione: per la classe media e per quella operaia ciò significa una diminuzione del potere di acquisto, per quella meno abbiente, invece, il pericolo è di uno scivolamento verso la povertà assoluta. Nei paesi in via di sviluppo o in quelli ancora schiacciati nella miseria, il trend si traduce in una vera e propria scissione tra due sole classi: i ricchi (un’infima minoranza) e i poveri.

2.

A questa disuguaglianza globale Silvano Andriani dedica un rapido, denso commento (Unità, 17. 3. 2007), che cito integralmente:

“Il confronto sul tema della crescita delle disuguaglianze sta diventando a tal punto importante negli Usa che il presidente della Banca Centrale, B. Bernake, si è sentito in dovere di intervenire su di esso con un apposito discorso. In esso ha ammesso l'esistenza di una tendenza ormai quasi trentennale alla crescita delle disuguaglianze e, pur precisando che decidere il livello di disuguaglianze accettabile per un paese sia uno dei compiti principali della politica, ha sommessamente suggerito che gli Usa prendano qualcosa dal modello europeo in termini di politiche sociali. Il tema non è tuttavia così semplice, visto che le disuguaglianze sono aumentate pesantemente anche in Europa.

Alla base della crescita generalizzata delle disuguaglianze all'interno di ciascun paese vi è soprattutto l’intreccio fra globalizzazione e rivoluzione tecnologica. L'ingresso sul mercato del lavoro mondiale di centinaia di milioni di lavoratori dei paesi dell'est europeo, dei grandi paesi asiatici e dei paesi arretrati sta modificando radicalmente il rapporto fra lavoro e capitale a favore di questo ultimo. Quasi dappertutto, negli ultimi trenta anni, la quota del reddito nazionale assegnata al lavoro dipendente si è sostanzialmente ridotta. D'altro canto le diverse aree di un paese possono trovarsi, per ragioni culturali, storiche o semplicemente geografiche, più o meno vicine alle nuove frontiere definite dalla rivoluzione tecnologica, di conseguenza il divario tra di loro aumenta. Ciò sta avvenendo quasi dappertutto dalla Cina agli Usa ed in Italia sta producendo un aggravamento della divergenza storica fra Nord e Sud.

Da tutto questo deriva il diffuso e crescente disagio nei confronti della globalizzazione. Se la quota di reddito nazionale assegnata al capitale aumenta, cresce anche il valore di esso: da trenta anni ormai il valore della ricchezza patrimoniale aumenta più del reddito nazionale ed aumenta quasi dappertutto il peso della rendita, mentre reddito e ricchezza patrimoniale tendono concentrarsi nella fascia più ricca della popolazione, fascia non piccola, ma decisamente minoritaria.

II fenomeno è talmente vistoso che il Centro Studi delle Nazioni Unite ha effettuato per la prima volta una ricerca per valutare il grado di concentrazione della ricchezza a livello mondiale, il risultato è impressionante: il 2% più ricco della popolazione possiede il 50% della ricchezza mondiale, mentre il 10% più ricco ne possiede l'85%. Dati che, tra l'altro, forniscono informazioni preziose per politiche fiscali dirette a ridurre le disuguaglianze.

I paesi europei, in genere, non sfuggono a queste tendenze; il «modello europeo» fa acqua dà molte parti. Nell'area dell'euro la quota del reddito nazionale assegnata al capitale va dal 56,6% al 48,9%. Anche nella generalità dei paesi europei il peso della rendita aumenta sostanzialmente. Aumenta anche la fascia della povertà, definita come quella che comprende i cittadini con un reddito inferiore al 60% del reddito pro-capite medio del proprio paese. Ed è piuttosto disturbante constatare che fra i paesi con il più elevati tassi di povertà c'è l'Italia, dopo anni di governo del centro-sinistra e c'è l'Inghilterra, dopo un decennio di governo del new-labour.

Le spinte divaricanti provenienti dai mercati in fase di globalizzazione possono essere contrastate da politiche economiche nazionali con forte carica redistributiva. In generale però sono prevalse politiche economiche di segno opposto che hanno rafforzato la tendenza alla crescita delle disuguaglianze.

Questo certamente accade quando si eliminano le imposte di successione anche per i grandi patrimoni, si riduce la progressività dei sistemi fiscali, si riduce la possibilità per gli Stati di intervenire per favorire lo sviluppo delle aree che restano indietro. Di conseguenza la crescita delle disuguaglianze è diventato uno dei tratti costitutivi del tipo di sviluppo divenuto prevalente a livello mondiale a partire dalla grande ristrutturazione economica avviata da Thatcher e Reagan all'inizio degli anni '80, un tipo di sviluppo che è ancora dominante e che porta evidente il segno dell'egemonia culturale e politica della destra. Un'eccezione alla regola è data dal complesso dei paesi scandinavi. Si tratta di paesi piccoli per popolazione, ma che messi insieme costituiscono una realtà abbastanza omogenea ed importante. E non importa in quali di essi governa la sinistra o il centro-destra poiché, anche se hanno realizzato riforme con un disegno diverso che riguardano soprattutto il mercato del lavoro, i sistemi previdenziali e le privatizzazioni, hanno dapnertutto mantenuto la caratteristica di fondo del modello socialdemocratico: un forte controllo politico della distribuzione del reddito per limitare le disuguaglianze e la concentrazione della ricchezza e garantire a tutti i cittadini l'accesso ai beni pubblici. Questi sono i paesi europei che realizzano le migliori performance economiche e che attingono, per generale riconoscimento, i più elevati livelli di benessere al mondo.

Ma il problema delle disuguaglianze riguarda anche direttamente il funzionamento del sistema economico, il ritmo e la qualità dello sviluppo.

Possiamo parlare quanto vogliamo di pari opportunità, ma se le disuguaglianze crescono ed aumenta la concentrazione della ricchezza, le opportunità di vita non possono che divergere e le società ed i mercati irrigidirsi e diventare più inefficienti: coloro che sempre più si arricchiscono possono essere disincentivati dall'intraprendere e, soprattutto, una parte crescente della popolazione non potrà realizzare le proprie capacità. Commentando una ricerca che evidenziava la scarsità di talenti a livello mondiale, The Economist riconosceva che essa più che ai limiti dei sistemi scolastici è dovuta al crescere delle disuguaglianze. Ed una recente ricerca del Centro per le performance economiche che, mettendo a confronto i paesi scandinavi con Usa ed Inghilterra, ne ha valutato i rispettivi livelli di mobilità sociale, trova che la questa è nei paesi scandinavi decisamente più elevata che in quelli anglosassoni nei quali, per altro, è in diminuzione. Se si assume che la mobilità sociale sia il migliore indicatore del buon funzionamento dei mercati, quella ricerca ci dice che un forte controllo politico della distribuzione del reddito non contrasta, anzi agevola il buon funzionamento dei mercati e che lo slogan che alcuni di noi lanciarono negli anni '80 «più Stato e più mercato» è perfettamente plausibile. Infine il problema delle disuguaglianze riguarda anche la distribuzione del potere: ricchezza e potere marciano, in genere, insieme.

Il fatto che un top executive statunitense, che negli anni 70 guadagnava in media 39 volte la paga di un operaio ne guadagna adesso 500 volte, segnala una formidabile redistribuzione non solo del reddito, ma anche del potere. Ed il fatto, evidenziato da una recente ricerca che i top executive hanno beneficiato della quasi totalità degli aumenti di produttività realizzati e che sono rimasti all'asciutto anche figure di lavoratori tipici della nuova economia della conoscenza, ci dice che, per quanto l’uso della conoscenza stia diventando sempre più importante, ciò finora non ha influito sulla distribuzione del reddito e del potere nelle imprese.

L'asse del potere nel modello di sviluppo dominante sta in un'alleanza tra capitale finanziario e coloro che gestiscono le imprese e la mancanza di un adeguato bilanciamento del potere nella struttura economica è anche all'origine dei numerosi e gravi scandali societari. La tendenza del mondo degli affari a prevaricane o addirittura a scalare direttamente il potere politico è alla base delle principali recenti teorie sulla crisi della democrazia. Alcuni parlano già di «postdemocrazia» e Dahrendorf annuncia la nascita di una «nuova classe globale» composta da un mix di imprenditori, manager e politici asserviti che tende ad operare al di fuori delle regole.

Quello dell'uguaglianza non è dunque solo un problema di giustizia sociale è un problema di conformazione della società, di funzionalità della distribuzione e dell'allocazione delle risorse rispetto alle possibilità ed alla qualità dello sviluppo, è un problema di distribuzione e di bilanciamento del potere e quindi di funzionamento della democrazia. Non a caso nel libro famoso nel quale identifica ciò che distingue la sinistra dalla destra, Bobbio pose il tema uguaglianza/disuguaglianza come il principale spartiacque.” 

3.

L’analisi del fenomeno della disuguaglianza globale di Andriani è abbastanza pregnante, ma, nel fare riferimento alla necessità di una redistribuzione, sembra non tenere conto che un obiettivo del genere è solo transitoriamente perseguibile: è, insomma, un palliativo più che una cura del male, almeno per chi definisce tale l’aumento della ricchezza e allo stesso tempo l’aumento della povertà.

L’inconsistenza del progetto redistributivo è espresso con una lucidità quasi spietata da Ulrich Beck (traduzione di Carlo Sandrelli)  in questi termini:

“Alla fine, anche nella società della piena occupazione degli inizi del XXI secolo in Europa si accende il dibattito sulla povertà senza vie d'uscita. Esso viene condotto con grande passione ma, sorprendentemente, tutti i partecipanti, a qualsiasi fronte appartengano, hanno un identico paraocchi. Tutti, con colpevole sicurezza, danno per scontato che la povertà sempre più diffusa e sempre più dura sia un problema nazionale, che deve essere discusso, affrontato e superato a livello nazionale. Gli italiani discutono di una povertà italiana, i tedeschi di una povertà tedesca, gli spagnoli di una povertà spagnola, ecc. E in tutte le sfere pubbliche nazionali tutti, neoliberisti radicali, socialdemocratici di vecchio o nuovo stampo, conservatori, comunisti, sindacalisti e naturalmente anche le organizzazioni dei disoccupati, considerano assolutamente ovvio, con irremovibile certezza, che i sempre più gravi fenomeni di povertà vadano intesi come problemi nazionali che esìgono soluzioni esclusivamente nazionali.

Ma questo paraocchi narcisistico e questa politica narcisistica non diventano migliori o più giusti per il fatto di costituire un incompreso denominatore comune. Per capire il problema della povertà nel XXI secolo e per cercare risposte politiche abbiamo invece bisogno di uno sguardo cosmopolita, che superi le rigidità del "nazionalismo metodologico" della società, della politica e della scienza. L'economia dell'insicurezza rivoluziona le condizioni di lavoro e di vita in tutte le società occidentali evolute. Detto in malo modo, viviamo una brasilianizzazione delle società del benessere: le forme variopinte e fragili di occupazione, che sono la normalità nel cosiddetto Terzo mondo, sostituiscono sempre più il lavoro, sicuro anche nei paesi del centro. Lo si può anche celebrare come "flessibilità", ma tutto ciò significa: "Renditi più facilmente licenziabile e adattati all'idea che nessuno ti possa dire se in futuro la tua qualifica sarà ancora richiesta".

Il nesso stretto tra povertà e disperazione, che ora anche in Europa vogliamo giustamente denunciare e combattere, è di tipo "nuovo" perché nella cultura capitalistica, fissata sul lavoro, a fronte dei poderosi progressi nella produttività questi soggetti scartati è amaro dirlo non vengono più "usati". È possibile massimizzare i profitti anche senza di loro, vincere le elezioni anche senza di loro. E la loro posizione nella società non corrisponde più a quella di un "ceto" o di una "classe", perché non hanno più una collocazione determinata nel processo produttivo. Questo però non significa che stanno meglio: vuol dire, al contrario, che stanno peggio. E lo shock che colpisce molte persone è legato alla consapevolezza, anch'essa amara, che questa povertà è la conseguenza di tutti i tentativi di vincerla. La disperazione è l'altra faccia dell'utopia perduta.

Il welfare state nazionale, che tenta da solo di venire a capo della sua povertà "nazionale", assomiglia all'ubriaco che in una notte buia cerca il portafoglio pèrduto sotto il cono di luce di un lampione. Alla domanda: "Ha perduto proprio qui il portafoglio?" risponde: "No, ma alla luce del lampione posso almeno cercarlo!".

Ma dove ha perduto il suo "portafoglio" lo stato nazionale? È del tutto sbagliato continuare a ritenere (come fanno tutti) che esista ancora la costellazione in base alla quale i sindacati nazionali, il capitale nazionale e il welfare nazionale si battono per l'incremento dell'economia nazionale e per la ripartizione del prodotto interno Iònio. Così si disconoscono il nuovo gioco di potere e il nuovo gap di potere tra attori politici fìssati a un territorio (governi, parlamenti, sindacati, lavoratori) e attori dell'economia mondiale, non legati a un territorio (capitale mobile, flussi finanziari). Non sono necessari gli appelli alla morale e al patriottismo dei manager. Piuttosto, c'è esigenza di idee su come la politica statale in tempi di globalizzazione possa essere fatta uscire dalla difensiva e rianimata a partire dalla questione della giustizia, che è diventata il nucleo della questione politica.

Per trovare una via d'uscita dal vicolo cieco nazionalstatale è importante convincersi che si possono, sì, utilizzare gli spazi d'azione rimasti, ma ormai non c'è più nessuna soluzione nazionale per i problemi nazionali. Per questo i governi sono attraenti solo fintanto che non vengono eletti. Anche chi vuole combattere efficacemente la povertà non può fare a meno di distinguere tra autonomia e sovranità. La rinuncia all'autonomia, ossia la cooperazione con altri stati, è la chiave del rafforzamento della sovranità nazionalstatale di fronte al capitale mobile. Qui sta il compito fondamentale di un'Unione Europea rinnovata, poiché questo non lo può fare nessuno stato nazionale da solo. La risposta alla globalizzazione consiste in un migliore coordinamento internazionale della politica, in più forti controlli sopranazionali delle banche e delle istituzioni finanziarie, nello smantellamento del dumping fiscale tra gli stati, nell'accordo sui salari minimi e quindi, infine, anche nella riconquista della sicurezza sociale come base di una democrazia vitale.

Sorge allora l'obiezione. Gli interventi (burocraticamente arroganti) della politica sovraordinata nel processo economico non finirebbero per impedire le possibilità di successo di fronte a grandi concorrenti come la Cina e l'India e per favorire il diffondersi nella popolazione di una mentalità improntata a un socialismo secondario? No. Ciò di cui abbiamo bisogno sono idee pratiche per un'umanizzazione del processo di globalizzazione, concezioni per un'economia di mercato internazionale, socialecologica. Questo significa molto; per esempio, che l'Unione Europea (i singoli Stati non ne sono in grado) negozi accordi di cooperazione con la Cina vantaggiosi per entrambe le parti, come quelli sulle tecnologie e le regioni che non emettono anidride carbonica e sui rispettivi mercati. Un altro "dogma non pronunciato" (Peter Glotz) accettato da tutti i partecipanti al dibattito sulla povertà recita: "La piena occupazione è possibile!". Ad esso si aggiunge la convinzione, non meno tacitamente condivisa, secondo cui la disoccupazione è un fallimento della politica, dell'economia, della società. Anche questo è falso. La disoccupazione di massa e la povertà non sono un segno della sconfitta, ma della vittoria delle società del lavoro moderne, poiché il lavoro diventa sempre più produttivo e c'è sempre meno bisogno di lavoro umano per ottenere una quantità sempre maggiore di risultati. La povertà senza vie d'uscita è il rovescio della medaglia della filosofia della piena occupazione, che storicamente ha perduto da un pezzo la sua credibilità. Ammettiamo che i governi europei riescano a fare tutto ciò che si sono proposti e che realizzino anche ciò che auspicano i consiglieri neoliberisti: cosa succederebbe, se gli ex welfare States dell'Europa non riuscissero comunque a uscire dalla disoccupazione di massa e dalla povertà? L'utopia della società del lavoro era stata quella di liberare dal giogo del lavoro. Ora siamo giunti proprio a questo punto. Dobbiamo finalmente porre all'ordine del giorno queste questioni: Come si può condurre una vita sensata anche se non si trova un lavoro? Come saranno possibilità democrazia e la libertà al di là della piena occupazione? Come potranno le persone diventare cittadini consapevoli, senza un lavoro retribuito?

Abbiamo bisogno di un reddito di cittadinanza pari a circa 700 euro. Non è una provocazione, ma un'esigenza politica realistica. È interessante notare che questa idea circola da tempo e viene sostenuta sulla base di posizioni contrastanti. L'economista e premio Nobel americano Milton Friedman proponeva già nel 1962 che chi si trovava al di sotto di una determinata soglia di reddito ricevesse dallo stato un contributo fìsso.

Naturalmente, si pone la domanda: Chi deve pagare? Alcuni economisti hanno calcolato che in fin dei conti questa soluzione potrebbe essere addirittura là meno costosa. Infatti dove un redditobase garantisce uno standard di vita, non c'è bisogno né di assistenza sociale, né di sussidi di disoccupazione, né di un sistema pensionistico o di assegni familiari e nemmeno degli innumerevoli altri sostegni e sovvenzioni che oggi vengono distribuiti a pioggia. Perfino i genitori potrebbero soddisfare più facilmente il loro desiderio di avere figli, ecc. ecc. E allora: Mai più piena occupazione abbiamo di meglio da fare!”

4.

Il quadro fornito dai tre articoli citati sullo stato del capitalismo globale è sufficientemente preciso e articolato. Non è un paradosso ricavare da esso che il capitalismo scoppia di salute, nel senso che dà luogo ad una crescita continua della ricchezza mondiale, e, allo stesso tempo, che esso appare malato, vale a dire viziato da un difetto di fondo strutturale che ormai si può ritenere, se non irreversibile, difficilmente rimediabile.

Il problema è, né più né meno, questo. La liquidità è necessaria al sistema capitalistico che, da sempre, vive sul prestito. Ciò non significa necessariamente che i tassi di interesse debbano mantenersi bassi (in Giappone, che si può ritenere la cassaforte della liquidità mondiale di fatto lo sono, ma negli Stati Uniti in poco tempo sono passati dal 2 al 5,75%). Ciò che veramente importa è che l’accesso alla liquidità rimanga comunque riservata ai capitali.

In pratica, se i tassi sono bassi anche un comune cittadino può accedere a mutui agevolati per la casa. Se i tassi si alzano, i prestiti vengono concessi solo a chi già dispone di ricchezza. Dovendo far fruttare i prestiti, in quest’ultimo caso, i capitali devono però correre dei rischi: investirsi in attività produttive e in attività speculative finalizzate a permettere la restituzione dei debiti e il profitto per i capoitali stessi.

Data l’enorme liquidità esistente dalla metà degli anni ’80, i rischi vengono minimizzati da una strategia costante: quella di alimentare bolle speculative in borsa o a livello di mercato immobiliare. Il valore delle azioni e il valore del mattone sono i due capisaldi dell’attuale sistema capitalistico: capisaldi che consentono un rapido spostamento di capitali dall’un terreno all’altro.

Le bolle speculative sono rischiose comunque, ma, quando esse giungono al limite di rottura, è sempre possibile farle sgonfiare un po’ e poi rilanciare il gioco, certi che prima o poi anche i piccoli investitori si accoderanno.

Attraverso queste manovre, la cui spregiudicatezza è attestata dall’esplosione del fenomeno del Private Equity, si promuove la progressiva concentrazione dei capitali a danno del lavoro e dei bisogni sociali.

La realtà, dunque, è che il capitale cresce e il reddito da lavoro, nonché il lavoro stesso, diminuiscono.

Il meccanismo distributivo iniquo, che funziona come un’idrovora che aspira i capitali verso l’alto della scala sociale, può essere indubbiamente nell’immediato corretto da una politica redistributiva. Ma si tratta di un rimedio temporaneo. Tale politica, infatti, potendosi realizzare solo a livello nazionale, non impedisce ai capitali di continuare a fare i loro giochi a livello internazionale, globale.

La realtà dunque è che l’economia capitalistica, con il suo impulso incoercibile alla valorizzazione del denaro come fine e non come mezzo di soddisfazione dei bisogni sociali, ha assunto una configurazione che trascende i limiti dello Stato nazionale e agisce in maniera selvaggia semplicemente perché non trova che deboli vincoli a livello di Istituzioni economiche sovranazionali.

Questo ritardo ovviamente non è casuale. Nel contesto di un capitalismo globalizzato, ogni nazione fa i suoi giochi cercando di far pesare il potere – economico, politico e militare - di cui dispone o limitando i danni di un difetto di potere.

Con i suoi bassi tassi di interesse, il Giappone ha acquisito il ruolo di cassaforte centrale dei prestiti: privilegiando la quantità, esso si assicura comunque margini di profitto complessivamente rilevanti. Che il denaro preso in prestito a tassi insignificanti, possa essere investito sul terreno delle speculazioni non è cosa che lo riguarda. Nessun creditore, di fatto, è responsabile dell’uso che il debitore fa del prestito.

Gli Stati Uniti hanno l’interesse univoco ad alimentare il loro tenore di vita, che è una minaccia costante per gli equilibri ecologici, indebitandosi e costringendo gli altri Paesi a fornire loro prestiti. Possono vivere come debitori insolventi in nome del fatto che, essendo i maggiori importatori di merci al mondo, una loro eventuale crisi trascinerebbe con sé il mondo intero. L’importazione di merci crea un deficit enorme della bilancia commerciale: ma questo significa che gli Usa cedono dollari che poi vengono investiti in buoni del tesoro statunitense, e quindi vengono prestati loro dal resto del mondo.

La Cina, ancora impegnata in un processo di accumulazione originaria, mantiene la configurazione di un Paese che si regge sull’esportazione. In virtù del basso costo del lavoro e del controllo sulla moneta nazionale, essa invade i mercati, in particolare quelli statunitensi, ricavando dallo sacmbio un’enorme quantità di valuta pregiata (dollari). Tale valuta viene in gran parte investita in buoni del tesoro statunitensi. L’investimento lubrifica gli scambi commerciali e, al temmpo stesso, rappresenta un deterrente che la Cina potrebbe utilizzare nel caso gli Usa ponessero troppe barriere commerciali. Se infatti il governo di Pechino vendesse tutti i buoni del tesoro statunitense in suo possesso, la recessione degli Stati Uniti sarebbe inevitabile.

Il ruolo dell’Europa è sostanzialmente passivo. Essa cerca, in qualche modo di difendere il suo modello di Welfare, ma, investita dal vento selvaggio del neoliberismo, quel modello arretra di continuo. La conseguenza di questo è che anche in Europa lo squilibrio nella distribuzione della ricchezza è in aumento, e i meccanismi di redistribuzione, intrinseci al Welfare, funzionano sempre meno.

Tutti questi fattori spiegano lo scandalo della disuguaglianza globale, la progressiva concentrazione verso l’altro del capitale e la lenta, graduale erosione dei redditi da lavoro.

Il problema è che questa erosione, che incrementa il fenomeno della povertà, incide ormai anche sulle classi medie. Quest’incidenza, che ho rilevato già tre anni fa, è il dato nuovo e paradossale del capitalismo globalizzato. Esso significa, né più né meno, che, a differenza del passato, il capitale sembra avere sempre meno bisogno del sostegno della classe che ha rappresentato il piedistallo dello Stato nazionale borghese. Il capitalismo non privilegia più la borghesia, ma solo una componente di essa: quella privilegiata che, anche nei paesi più avanzati, non supera il 20% della popolazione.

Se operiamo nel futuro la proiezione del trend in atto, giungiamo ad una conclusione sorprendente.

Nell’800 Marx operò la previsione che il capitalismo avrebbe determinato un’immiserimento progressivo della classe operaia, vale a dire una povertà generalizzata del 90% della popolazione dei paesi industriali nonostante una crescita continua della ricchezza. Sui tempi brevi, la storia lo ha smentito perché, proprio in conseguenza della sua previsione e dell’organizzazione politica e sindacale della classe proletaria, lo Stato borghese ha adottato valide contromisure che hanno prodotto un miglioramento progressivo del tenore di vita dei cittadini, operai compresi.

Con l’avvento del sistema postindustriale e della globalizzazione, quelle contromisure che, nel loro complesso, identificano il Welfare, non sono più necessarie al capitale poiché esso si è svincolato dai controlli nazionali. Esso può ormai crescere quantitativamente anche producendo un immiserimento progressivo dell’80% della popolazione (che, per alcuni, significa diminuzione del tenore di vita, per altri, povertà).

Se questo trend si mantiene, è evidente che la previsione di Marx, scongiurata a livello di nazioni sviluppate, è destinata a realizzarsi su scala mondiale. Si va, insomma, verso un mondo nel quale una minoranza sempre più privilegiata deterrà una ricchezza progressivamente sottratta al resto dell’umanità.

La disuguglianza globale significa, dunque, un processo di immiserimento globale associato ad un’enorme richezza.

Nessuno sa come questa dinamica sistemica possa essere arginata o invertita. Le sue conseguenze, che restituiscono a Marx il ruolo di un profeta non messianico ma “scientifico”, spiegano a sufficienza il fatto che in tutto il mondo, a partire dagli Stati Uniti, l’interesse degli studiosi per il suo pensiero vada crecsendo progressivamente. Un segno molto significativo di questo interesse è la ripresa della pubblicazione dell’Opera omnia di Marx, avviata nel 1975 e poi interrotta in seguito alla caduta del muro di Berlino. Gli scritti inediti sono ben un terzo di quell’Opera. Occorrerà leggerli per valutarli, ma, a posteriori, s’impone una riflessione sulla “fortuna” degli scritti di Marx. Le virgolette valgono a sottolineare che il termine è improprio.

Il Manifesto del Partito comunista è uno tra i saggi più letti al mondo. Il Capitale, il cui secondo e terzo volume in realtà sono stati cuciti forse infedelmente da Engels, è stato letto integralmente solo da un numero minimo di marxisti. Le opere più filosofiche di Marx, i famosi Manoscritti del ’44, in cui è esposta l’antropologia che ha sotteso l’avvio della riflessione sul capitalismo, sono stati pubblicati solo negli anni ’30 del Novecento. L’ostilità con cui sono stati accolti dai comunisti sovietici lascia facilmente capire che, se fossero stati pubblicati, qualche decennio prima, il tentativo di forzare i tempi storici con una rivoluzione presumibilmente non si sarebbe realizzato.

Tornare a Marx significa anche porre tra parentesi una sciagurata esperienza che, come hanno rilevato tutti i marxisti occidentali a partire da Gramsci, aveva ben poco a che vedere con la ricchezza del pensiero del filosofo di Treviri.

In un saggio di anni fa, J. Derrida scrisse che non ci sarebbe stata salvezza per il mondo senza Marx, senza lo spirito di Marx. Penso che ormai i dati di realtà impongano di accreditare questa profezia come una verità.

5.

L’intreccio tra economia e politica è ormai tanto stretto che l’analisi degli sviluppi del capitalismo globalizzato non può prescindere dal chiedersi quali possano esserne gli effetti a livello di sistema politico. Il discorso, ovviamente, non può essere approfondito in questa sede, ma almeno un aspetto va rilevato.

L’avvio della globalizzazione è avvenuto sulla base dell’egemonia del neoliberismo, che è riuscito ad indurre uno spostamento verso destra dell’elettorato sulla base della promessa di un allentamento della pressione fiscale e di un benessere generalizzato. L’allentamento della pressione fiscale e la diminuzione dei tassi di interesse non erano però finalizzate a migliorare il tenore di vita dei cittadini, ma a realizzare la liquidità di cui aveva bisogno il capitalismo per cominciare a fare i suoi giochi a livello sovranazionale. Via via che questi giochi si sono realizzati, l’effetto, come si è visto, è stato quello di una disuguaglianza progressiva.

I cittadini, insomma, hanno pagato con una diminuzione del potere di acquisto e con maggiori spese per i servizi privatizzati l’illusorio vantaggio derivato dalla liquidità.

Non riuscendo a cogliere il nesso tra il processo della globalizzazione e la minaccia che incombe sul loro tenore di vita, essi manifestano una tendenza ancora più marcata in tutti i paesi occidentali a spostarsi verso destra e a privilegiare le ricette neoliberiste. Cercano insomma il rimedio laddove si dà la causa del male (o perlomeno una delle cause).

Si può rimanere sorpresi per questo, ma l’orientamento è così massiccio che anche i partiti di sinistra, per non perdere terreno, sono stati indotti a spostarsi verso il centro.

E’ evidente che una situazione del genere è aperta a rischi molteplici, i maggiori tra i quali sono il viraggio verso il populismo e la colonizzazione del potere da parte della minoranza privilegiata (plutocrazia). La democrazia rischia dunque di diventare oligarchica, e l’oligarchia in questione rischia di restaurare paradossalmente la trasmissione ereditaria dei privilegi di generazione in generazione la cui contestazione ha segnato l’avvento della borghesia.

Tra i paradossi del nostro tempo, questo forse è tra i più degni di nota.