Articoli sul modello di Decrescita


Questo documento raccoglie gli articoli più importanti pubblicati su Internet dedicati alla decrescita, vale a dire al modello socioeconomico e culturale che si pone in opposizione radicale al mito dello sviluppo economico illimitato (ecologicamente, socialmente e psicologicamente insostenibile) e in tensione dialettica con tutte le alternative proposte per ammortizzare le conseguenze di quel mito senza prevederne un superamento, come per esempio il modello di sviluppo sostenibile.

La rassegna si apre con il Manifesto della decrescita, redatto da Nicholas Georgescu-Roegen, l'economista al quale si riconduce la messa a fuoco del nuovo modello, e si chiude con una famosa conferenza tenuta dallo stesso a Yale. Tale disposizione è dovuta al fatto che la conferenza, rivolta ad un uditorio accademico, ha una struttura scientifica e complessa, che può scoraggiare coloro che non hanno una preparazione matematica e fisica e, viceversa, appassionare coloro che la hanno (notoriamente pochi).

L'articolo di Bonaiuti, l'economista che ha ravvivato in Italia l'interesse per il modello della decrescita, è, d'altro canto, molto fedele al pensiero di Nicholas Georgescu-Roegen: pur complesso, è senz'altro di più facile accesso.

Gli altri articoli sono divulgativi. Un rilievo particolare, nel portare avanti la critica allo "sviluppismo", nell'approfondire il senso e le prospettive della decrescita e nel collocarla politicamente nel campo della sinistra, ha assunto negli ultimi dieci anni Serge Latouche. Anche se, nelle varie interviste, le tematiche si ripetono, Latouche, con tutti i limiti dell'intelligentsia francese, è un pensatore brillante e acuto.

Tranne che per la conferenza di Nicholas Georgescu-Roegen, ho eliminato (arbitrarioamente) tutte le note per non appesantire un documento già abbastanza impegnativo.

Qua e là ho utilizzato il corsivo per dare rilievo ad alcuni nuclei teorici di particolare importanza.

Il commento critico al modello della decrescita sarà fornito ulteriormente attraverso un'analisi critica di alcune opere di S. Latouche.


Manifesto per una economia umana

redatto da Nicholas Georgescu-Roegen, Kenneth Boulding e Herman Daly a Nyach (Stato di New York) nel 1973


Nel corso della sua evoluzione la casa comune, il pianeta Terra, si avvicina ad una crisi dal cui superamento dipende la sopravvivenza dell'uomo, crisi la cui portata appare esaminando l'aumento della popolazione, l'incontrollata crescita industriale e il deterioramento ambientale con le conseguenti minacce di carestie, di guerra e di un collasso biologico.

L'attuale tendenza nell'evoluzione del pianeta non dipende soltanto da leggi inesorabili della natura, ma e' una conseguenza delle deliberate azioni esercitate dall'uomo sulla natura stessa. L'uomo ha deciso, nel corso della storia, il suo destino attraverso decisioni di cui e' responsabile; ha cambiato il corso del suo destino con altre deliberate decisioni, attuate con la sua volonta'. A questo punto deve cominciare ad elaborare una nuova visione del mondo.

Come economisti abbiamo il compito di descrivere e analizzare i processi economici cosi' come li osserviamo nella realta'. Peraltro nel corso degli ultimi due secoli gli economisti sono stati portati sempre piu' spesso non solo a misurare, analizzare e teorizzare la realta' economica, ma anche a consigliare, pianificare e prendere parte attiva nelle decisioni politiche: il potere e quindi la responsabilita' degli economisti sono percio' diventati grandissimi.

Nel passato la produzione di merci e' stata considerata un fatto positivo e solo di recente sono apparsi evidenti i costi che essa comporta. La produzione sottrae materie prime ed energia dalle loro riserve naturali di dimensioni finite; i rifiuti dei processi invadono il nostro ecosistema, la cui capacita' di ricevere e assimilare tali rifiuti e' anch'essa finita. La crescita ha rappresentato finora per gli economisti l'indice con cui misurare il benessere nazionale e sociale, ma ora appare che l'aumento dell'industrializzazione in zone gia' congestionate puo' continuare soltanto per poco: l'attuale aumento della produzione compromette la possibilita' di produrre in futuro e ha luogo a spese dell'ambiente naturale che e' delicato e sempre piu' in pericolo.

La costatazione che il sistema in cui viviamo ha dimensioni finite e che i consumi di energia comportano costi crescenti impone delle decisioni morali nelle varie fasi del processo economico, nella pianificazione, nello sviluppo e nella produzione. Che fare? Quali sono gli effettivi costi, a lungo termine, della produzione di merci e chi finira' per pagarli ? Che cosa e' veramente nell'interesse non solo attuale dell'uomo, ma nell'interesse dell'uomo come specie vivente destinata a continuare ?

La chiara formulazione, secondo il punto di vista dell'economista, delle alternative possibili e' un compito non soltanto analitico, ma etico e gli economisti devono accettare le implicazioni etiche del loro lavoro. Noi invitiamo i colleghi economisti ad assumere un loro ruolo nella gestione del nostro pianeta e ad unirsi, per assicurare la sopravvivenza umana, agli sforzi degli altri scienziati e pianificatori, anzi di tutte le donne e gli uomini che operano in qualsiasi campo del pensiero e del lavoro. La scienza dell'economia, come altri settori di indagine che si propongono la precisione e l'obiettivita', ha avuto la tendenza, nell'ultimo secolo, ad isolarsi gradualmente dagli altri campi, ma oggi non e' piu' possibile che gli economisti lavorino isolati con qualache speranza di successo.

Dobbiamo inventare una nuova economia il cui scopo sia la gestione delle risorse e il controllo razionale del progresso e delle applicazioni della tecnica, per servire i reali bisogni umani, invece che l'aumento dei profitti o del prestigio nazionale o le crudelta' della guerra. Dobbiamo elaborare una economia della sopravvivenza, anzi della speranza, la teoria di un'economia globale basata sulla giustizia, che consenta l'equa distribuzione delle ricchezze della Terra fra i suoi abitanti, attuali e futuri. E' ormai evidente che non possiamo piu' considerare le economia nazionali come separate, isolate dal piu' vasto sistema globale.

Come economisti, oltre a misurare e descrivere le complesse interrelazioni fra grandezze economiche, possiamo indicare delle nuove priorita' che superino gli stretti interessi delle sovranita' nazionali e che servano invece gli interessi della comunita' mondiale. Dobbiamo sostituire all'ideale della crescita, che e' servito come surrogato della giusta distribuzione del benessere, una visione piu' umana in cui produzione e consumo siano subordinati ai fini della sopravvivenza e della giustizia.

Attualmente una minoranza della popolazione della Terra dispone della maggior parte delle risorse naturali e della produzione mondiale. Le economie industriali devono collaborare con le economie in via di sviluppo per correggere gli squilibri rinunciando alla concorrenza ideologica o imperialista e allo sfruttamento dei popoli che dicono di voler aiutare. Per realizzare una giusta distribuzione del benessere nel mondo, i popoli dei paesi industrializzati devono abbandnare quello che oggi sembra un diritto irrinunciabile, cioe' l'uso incontrollato delle risorse naturali, e noi economisti abbiamo la responsabilita' di orientare i valori umani verso questo fine. Le situazioni storiche o geografiche non possono essere piu' invocate come giustificazione dell'ingiustizia.

Gli economisti hanno quindi di fronte un compito nuovo e difficile. Molti guardano alle attuali tendenze di aumento della popolazione, di impoverimento delle risorse naturali, di aumento delle tensioni sociali, e si scoraggiano. Noi dobbiamo rifiutare questa posizione e abbiamo l'obbligo morale di elaborare una nuova visione del mondo, di tracciare la strada verso la sopravvivenza anche se il territorio da attraversare e' pieno di trappole e di ostacoli.

Attualmente l'uomo possiede le risorse economiche e tecnologiche non solo per salvare se stesso per il futuro, ma anche per realizzare, per se e per tutti i suoi discendenti, un mondo in cui sia possibile vivere con dignita', speranza e benessere. Per ottenere questo scopo deve pero' prendere delle decisioni e subito. Noi invitiamo i nostri colleghi economisti a collaborare perche' lo sviluppo corrisponda ai reali bisogni dell'uomo: saremo forse divisi nei particolari del metodo da seguire e delle politiche da adottare, ma dobbiamo essere uniti nel desiderio di raggiungere l'obiettivo della sopravvivenza e della giustizia.


Il manifesto del doposviluppo

di Serge Latouche


La corrente di pensiero che si riferisce alla decrescita ha conservato fino a oggi un carattere quasi confidenziale. Nel corso di una storia già lunga ha prodotto, ciò nonostante, una letteratura non disprezzabile che si trova rappresentata in numerosi campi di ricerca e d'azione nel mondo.1

Nata negli anni sessanta, il decennio dello sviluppo, da una riflessione critica sui presupposti dell'economia e sul fallimento delle politiche di sviluppo, questa corrente riunisce ricercatori, attori sociali del Nord come del Sud portatori di analisi e di esperienze innovatrici sul piano economico, sociale e culturale. Nel corso degli anni si sono intrecciati dei legami spesso informali tra le sue diverse componenti e le esperienze e le riflessioni si sono mutuamente alimentate. Il movimento per la decrescita s'inscrive dunque nel più ampio movimento dell'International Network for Cultural Alternatives to Development (INCAD) e si riconosce pienamente nella dichiarazione del 4 maggio 1992. Intende proseguire e ampliare il lavoro cos" cominciato.

Il movimento mette al centro della sua analisi la critica radicale della nozione di sviluppo che, nonostante le evoluzioni formali conosciute, resta il punto di rottura decisivo in seno al movimento di critica al capitalismo e della globalizzazione. Ci sono da un lato quelli che, come noi, vogliono uscire dallo sviluppo e dall'economicismo e, dall'altro, quelli che militano per un problematico "altro" sviluppo (o una non meno problematica "altra" globalizzazione). A partire da questa critica, la corrente procede a una vera e propria "decostruzione" del pensiero economico. Sono pertanto rimesse in discussione le nozioni di crescita, povertà, bisogno, aiuto ecc.

Le associazioni e i membri della presente rete si riconoscono in tale impresa. Dopo il fallimento del socialismo reale e il vergognoso scivolamento della socialdemocrazia verso il social-liberalismo, noi pensiamo che solo queste analisi possano contribuire a un rinnovamento del pensiero e alla costruzione di una società veramente alternativa alla società di mercato. Rimettere radicalmente in questione il concetto di sviluppo è fare della sovversione cognitiva, e questa è la condizione preliminare del sovvertimento politico, sociale e culturale.

Il momento ci sembra favorevole per uscire dalla semiclandestinità dove siamo stati relegati finora e il grande successo del colloquio di La ligne d'horizon2, "Défaire le développement, refaire le monde", che si è tenuto presso l'UNESCO dal 28 febbraio al 3 marzo 2002, rafforza le nostre convinzioni e le nostre speranze.

Rompere l'immaginario dello sviluppo e decolonizzare le menti

Di fronte alla globalizzazione, che non è altro che il trionfo planetario del mercato, bisogna concepire e volere una società nella quale i valori economici non siano più centrali (o unici). L'economia dev'essere rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo. Bisogna rinunciare a questa folle corsa verso un consumo sempre maggiore. Ciò non è solo necessario per evitare la distruzione definitiva delle condizioni di vita sulla Terra ma anche e soprattutto per fare uscire l'umanità dalla miseria psichica e morale. Si tratta di una vera decolonizzazione del nostro immaginario e di una diseconomicizzazione delle menti indispensabili per cambiare davvero il mondo prima che il cambiamento del mondo ce lo imponga nel dolore. Bisogna cominciare con il vedere le cose in altro modo perché possano diventare altre, perché sia possibile concepire soluzioni veramente originali e innovatrici. Si tratta di mettere al centro della vita umana altri significati e altre ragioni d'essere che l'espansione della produzione e del consumo.

La parola d'ordine della rete è dunque "resistenza e dissidenza". Resistenza e dissidenza con la testa ma anche con i piedi. Resistenza e dissidenza come atteggiamento mentale di rifiuto, come igiene di vita. Resistenza e dissidenza come atteggiamento concreto mediante tutte le forme di autorganizzazione alternativa. Ciò significa anche il rifiuto della complicità e della collaborazione con quella impresa dissennata e distruttiva che costituisce l'ideologia dello sviluppo.

Illusioni e rovine dello sviluppo

La attuale globalizzazione ci mostra quel che lo sviluppo è stato e che non abbiamo mai voluto vedere. Essa è lo stadio supremo dello sviluppo realmente esistente e nello stesso tempo la negazione della sua concezione mitica. Se lo sviluppo, effettivamente, non è stato altro che il seguito della colonizzazione con altri mezzi, la nuova mondializzazione, a sua volta, non è altro che il seguito dello sviluppo con altri mezzi. Conviene dunque distinguere lo sviluppo come mito dallo sviluppo come realtà storica.

Si può definire lo sviluppo realmente esistente come una impresa che mira a trasformare in merci le relazioni degli uomini tra loro e con la natura. Si tratta di sfruttare, di valorizzare, di trarre profitto dalle risorse naturali e umane. Progetto aggressivo verso la natura e verso i popoli, è - come la colonizzazione che la precede e la mondializzazione che la segue - un'opera al tempo stesso economica e militare di dominazione e di conquista. » lo sviluppo realmente esistente, quello che domina il pianeta da tre secoli, che causa i problemi sociali e ambientali attuali: esclusione, sovrappopolazione, povertà, inquinamenti diversi ecc.

Quanto al concetto mitico di sviluppo, è nascosto in un dilemma: da una parte, esso designa tutto e il suo contrario, in particolare l'insieme delle esperienze storiche e culturali dell'umanità, dalla Cina degli Han all'impero degli Inca. In questo caso non designa nulla in particolare, non ha alcun significato utile per promuovere una politica, ed è meglio sbarazzarsene. Dall'altra parte, esso ha un contenuto proprio, il quale designa allora necessariamente ciò che possiede in comune con l'avventura occidentale del decollo dell'economia cos" come si è organizzata dalla rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni 1750-1800. In questo caso, quale che sia l'aggettivo che gli si affianca, il contenuto implicito o esplicito dello sviluppo è la crescita economica, l'accumulazione del capitale con tutti gli effetti positivi e negativi che si conoscono. Ora, questo nucleo centrale che tutti gli sviluppi hanno in comune con tale esperienza, è legato a rapporti sociali ben particolari che sono quelli del modo di produzione capitalistico. Gli antagonisti di "classe" sono ampiamente occultati dalla pregnanza di "valori" comuni ampiamente condivisi: il progresso, l'universalismo, il dominio della natura, la razionalità quantificante. Questi valori sui quali si basa lo sviluppo, e in particolare il progresso, non corrispondono affatto ad aspirazioni universali profonde. Sono legati alla storia dell'Occidente e trovano scarsa eco nelle altre società. Al di fuori dei miti che la fondano, l'idea di sviluppo è totalmente sprovvista di senso e le pratiche che le sono legate sono rigorosamente impossibili perché impensabili e proibite. Oggi questi valori occidentali sono precisamente quelli che bisogna rimettere in discussione per trovare una soluzione ai problemi del mondo contemporaneo ed evitare le catastrofi verso le quali l'economia mondiale ci trascina. Il doposviluppo è al contempo postcapitalismo e postmodernità.

I nuovi aspetti dello sviluppo

Per tentare di scongiurare magicamente gli effetti negativi dello sviluppo, siamo entrati nell'era dello sviluppo aggettivato. Si è assistito alla nascita di nuovi sviluppi autocentranti, endogeni, partecipativi, comunitari, integrati, autentici, autonomi e popolari, equiÖ senza parlare dello sviluppo locale, del microsviluppo, dell'endosviluppo, dell'etnosviluppo! Affiancando un aggettivo al concetto di sviluppo, non si tratta veramente di rimettere in discussione l'accumulazione capitalistica; tutt'al più si pensa di aggiungere un risvolto sociale o una componente ecologica alla crescita economica come un tempo si è potuto aggiungerle una dimensione culturale. Questo lavoro di ridefinizione dello sviluppo riguarda, in effetti, sempre più o meno la cultura, la natura e la giustizia sociale. In tutto ciò si tratta di guarire un male che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. Per l'occasione è stato addirittura creato uno spauracchio, il malsviluppo. Questo mostro è solo una chimera, poiché il male non può colpire lo sviluppo per la buona ragione che lo sviluppo immaginario è per definizione l'incarnazione stessa del bene. Il buon sviluppo è un pleonasmo perché lo sviluppo significa buona crescita, perché anche la crescita è un bene contro il quale nessuna forza del male può prevalere.

» l'eccesso stesso delle prove del suo carattere benefico che meglio rivela la frode dello sviluppo.

Lo sviluppo sociale, lo sviluppo umano, lo sviluppo locale e lo sviluppo durevole non sono altro che gli ultimi nati di una lunga serie di innovazioni concettuali tendenti a far entrare una parte di sogno nella dura realtà della crescita economica. Se lo sviluppo sopravvive ancora lo deve soprattutto ai suoi critici! Inaugurando l'era dello sviluppo aggettivato (umano, sociale ecc.), gli umanisti canalizzano le aspirazioni delle vittime dello sviluppo del Nord e del Sud strumentalizzandoli. Lo sviluppo durevole è il più bel successo di quest'arte di ringiovanimento di vecchie cose. Esso illustra perfettamente il procedimento di eufemizzazione mediante aggettivo. Lo sviluppo durevole, sostenibile o sopportabile (sustainable), portato alla ribalta alla Conferenza di Rio del giugno 1992, è un tale "fai da te" concettuale, che cambia le parole invece di cambiare le cose, una mostruosità verbale con la sua antinomia mistificatrice. Ma nello stesso tempo, con il suo successo universale, attesta la dominazione della ideologia dello sviluppo. Ormai la questione dello sviluppo non riguarda soltanto i paesi del Sud, ma anche quelli del Nord.

Se la retorica pura dello sviluppo con la pratica legata dell'espertocrazia volontarista non ha più successo, il complesso delle credenze escatologiche in una prosperità materiale possibile per tutti e rispettosa dell'ambiente resta intatto. L'ideologia dello sviluppo manifesta la logica economica in tutto il suo rigore. Non c'è posto in questo paradigma per il rispetto della natura reclamato dagli ecologisti né per il rispetto dell'uomo reclamato dagli umanisti. Lo sviluppo realmente esistente appare allora nella sua verità. E lo sviluppo alternativo come un miraggio.

Oltre lo sviluppo

Parlare di doposviluppo non è soltanto lasciar correre l'immaginazione su ciò che potrebbe accadere in caso di implosione del sistema, fare della fantapolitica o esaminare un problema accademico. » parlare della situazione di coloro che attualmente al Nord come al Sud sono esclusi o sono in procinto di diventarlo, di tutti coloro, dunque, per i quali il progresso è un'ingiuria e una ingiustizia, e che sono indubbiamente i più numerosi sulla faccia della Terra. Il doposviluppo si delinea già tra noi e si annuncia nella diversità.

Il doposviluppo, in effetti, è necessariamente plurale. Si tratta della ricerca di modalità di espansione collettiva nelle quali non sarebbe privilegiato un benessere materiale distruttore dell'ambiente e del legame sociale. L'obiettivo della buona vita si declina in molti modi a seconda dei contesti. In altre parole, si tratta di ricostruire nuove culture. Questo obiettivo può essere chiamato l'humran (crescita/rigoglio) come in Ibn Khald?n, swadeshi-sarvo-daya (miglioramento delle condizioni sociali di tutti) come in Gandhi, o bamtaare (stare bene assieme) come dicono i toucouleurs, o in altro modo. L'importante è esprimere la rottura con l'impresa di distruzione che si perpetua sotto il nome di sviluppo oppure, oggi, di mondializzazione. Per gli esclusi, per i naufraghi dello sviluppo, può trattarsi soltanto di una sorta di sintesi tra la tradizione perduta e la modernità inaccessibile. Queste creazioni originali di cui si possono trovare qua e là degli inizi di realizzazione aprono la speranza di un doposviluppo. Bisogna al tempo stesso pensare e agire globalmente e localmente. » solo nella mutua fecondazione dei due approcci che si può tentare di sormontare l'ostacolo della mancanza di prospettive immediate. Il doposviluppo e la costruzione di una società alternativa non si declinano necessariamente nello stesso modo al Nord e al Sud. Proporre la decrescita conviviale come uno degli obiettivi globali urgenti e identificabili attualmente e mettere in opera alternative concrete localmente sono prospettive complementari.

Decrescere e abbellire

La decrescita dovrebbe essere organizzata non soltanto per preservare l'ambiente ma anche per ripristinare il minimo di giustizia sociale senza la quale il pianeta è condannato all'esplosione. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sembrano dunque strettamente legate. I limiti del patrimonio naturale non pongono soltanto un problema di equità intergenerazionale nel condividere le disponibilità, ma anche un problema di giusta ripartizione tra gli esseri attualmente viventi dell'umanità.

La decrescita non significa un immobilismo conservatore. La saggezza tradizionale considerava che la felicità si realizzasse nel soddisfare un numero ragionevolmente limitato di bisogni. L'evoluzione e la crescita lenta delle società antiche si integravano in una riproduzione allargata ben temperata, sempre adattata ai vincoli naturali.

Organizzare la decrescita significa, in altre parole, rinunciare all'immaginario economico, vale a dire alla credenza che di più è uguale a meglio. Il bene e la felicità possono realizzarsi con costi minori. Riscoprire la vera ricchezza nel fiorire di rapporti sociali conviviali in un mondo sano può ottenersi con serenità nella frugalità, nella sobrietà e addirittura con una certa austerità nel consumo materiale.

La parola d'ordine della decrescita ha soprattutto come fine il segnare con fermezza l'abbandono dell'obiettivo insensato della crescita per la crescita, obiettivo il cui movente non è altro che la ricerca sfrenata del profitto per i detentori del capitale. Evidentemente, non si prefigge un rovesciamento caricaturale che consisterebbe nel raccomandare la decrescita per la decrescita.

In particolare, la decrescita non è la crescita negativa. Si sa che il semplice rallentamento della crescita sprofonda le nostre società nel disordine con riferimento alla disoccupazione e all'abbandono dei programmi sociali, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Si può immaginare quale catastrofe sarebbe un tasso di crescita negativa! Allo stesso modo non c'è cosa peggiore di una società lavoristica senza lavoro e, peggio ancora, di una società della crescita senza crescita. La decrescita è dunque auspicabile soltanto in una "società di decrescita". Ciò presuppone tutt'altra organizzazione in cui il tempo libero è valorizzato al posto del lavoro, dove le relazioni sociali prevalgono sulla produzione e sul consumo dei prodotti inutili o nocivi. La riduzione drastica del tempo dedicato al lavoro, imposta per assicurare a tutti un impiego soddisfacente, è una condizione preliminare. Ispirandosi alla carta su "consumi e stili di vita" proposta al Forum delle ONG di Rio, è possibile sintetizzare il tutto in un programma di sei "R": rivalutare, ristrutturare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi sono i sei obiettivi interdipendenti un circolo virtuoso di decrescita conviviale e sostenibile. Rivalutare significa rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la nostra vita, nonché cambiare i valori che devono essere cambiati. Ristrutturare significa adattare la produzione e i rapporti sociali in funzione del cambiamento dei valori. Per ridistribuire s'intende la ridistribuzione delle ricchezze e dell'accesso al patrimonio naturale. Ridurre vuol dire diminuire l'impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e di consumare. Per fare ciò bisogna riutilizzare gli oggetti e i beni d'uso invece di gettarli e sicuramente riciclare i rifiuti non compressibili che produciamo.

Tutto ciò non è necessariamente antiprogressista e antiscientifico. Si potrebbe, nello stesso tempo, parlare di un'altra crescita in vista del bene comune, se il termine non fosse troppo alternativo.

Noi non rinneghiamo la nostra appartenenza all'Occidente, di cui condividiamo il sogno progressista, sogno che ci ossessiona. Tuttavia, aspiriamo a un miglioramento della qualità della vita e non a una crescita illimitata del PIL. Reclamiamo la bellezza delle città e dei paesaggi, la purezza delle falde freatiche e l'accesso all'acqua potabile, la trasparenza dei fiumi e la salute degli oceani. Esigiamo un miglioramento dell'aria che respiriamo, del sapore degli alimenti che mangiamo. C'è ancora molta strada da fare per lottare contro l'invasione del rumore, per ampliare gli spazi verdi, per preservare la fauna e la flora selvatiche, per salvare il patrimonio naturale e culturale dell'umanità, senza parlare dei progressi da fare nella democrazia. La realizzazione di questo programma è parte integrante dell'ideologia del progresso e presuppone il ricorso a tecniche sofisticate alcune delle quali sono ancora da inventare. Sarebbe ingiusto tacciarci come tecnofobi e antiprogressisti con il solo pretesto che reclamiamo un "diritto di inventario" sul progresso e sulla tecnica. Questa rivendicazione è un minimo per l'esercizio della cittadinanza.

Semplicemente, per i paesi del Sud, colpiti in pieno dalle conseguenze negative della crescita del Nord, non si tratta tanto di decrescere (o di crescere, d'altra parte), quanto di riannodare il filo della loro storia rotto dalla colonizzazione, dall'imperialismo e dal neoimperialismo militare, politico, economico e culturale. La riappropriazione delle loro identità è preliminare per dare ai loro problemi le soluzioni appropriate. Può essere sensato ridurre la produzione di certe colture destinate all'esportazione (caffè, cacao, arachidi, cotone ecc., ma anche fiori recisi, gamberi di allevamento, frutta e verdure come primizie ecc.), come può risultare necessario aumentare la produzione delle colture per uso alimentare. Si può pensare inoltre a rinunciare all'agricoltura produttivista come al Nord per ricostituire i suoli e le qualità nutrizionali, ma anche, senza dubbio, fare delle riforme agrarie, riabilitare l'artigianato che si è rifugiato nell'informale ecc. Spetta ai nostri amici del Sud precisare quale senso può assumere per loro la costruzione del doposviluppo.

In nessun caso, la rimessa in discussione dello sviluppo può ne deve apparire come una impresa paternalista e universalista che la assimilerebbe a una nuova forma di colonizzazione (ecologista, umanitariaÖ) Il rischio è tanto più forte in quanto gli ex colonizzati hanno interiorizzato i valori del colonizzatore. L'immaginario economico, e in particolare l'immaginario dello sviluppo, è senza dubbio ancora più pregnante al Sud che al Nord. Le vittime dello sviluppo hanno la tendenza a non vedere altro rimedio alle loro disgrazie che un aggravarsi del male. Pensano che l'economia sia il solo mezzo per risolvere la povertà quando è proprio lei che la genera. Lo sviluppo e l'economia sono il problema e non la soluzione; continuare a pretendere e volere il contrario fa parte del problema.

Una decrescita accettata e ben meditata non impone alcuna limitazione nel dispendio di sentimenti e nella produzione di una vita festosa o addirittura dionisiaca.

Sopravvivere localmente

Si tratta di essere attenti al reperimento delle innovazioni alternative: imprese cooperative in autogestione, comunità neorurali, LETS e SEL3, autorganizzazione degli esclusi del Sud. Queste esperienze che noi intendiamo sostenere o promuovere ci interessano non tanto per se stesse, quanto come forme di resistenza e di dissidenza al processo di aumento della mercificazione totale del mondo. Senza cercare di proporre un modello unico, noi ci sforziamo di realizzare in teoria e in pratica una coerenza globale dell'insieme di queste iniziative.

Il pericolo della maggior parte delle iniziative alternative è, in effetti, di chiudersi nella nicchia che hanno trovato all'inizio invece di lavorare alla costruzione e al rafforzamento di un insieme più vasto. L'impresa alternativa vive o sopravvive in un ambiente che è e dev'essere diverso dal mercato mondializzato. » questo ambiente dissidente che bisogna definire, proteggere, conservare, rinforzare sviluppare attraverso la resistenza. Piuttosto che battersi disperatamente per conservare la propria nicchia nell'ambito del mercato mondiale, bisogna militare per allargare e approfondire una vera società autonoma ai margini dell'economia dominante.

Il mercato mondializzato con la sua concorrenza accanita e spesso sleale non è l'universo dove si muove e deve muoversi l'organizzazione alternativa. Essa deve cercare una vera democrazia associativa per sfociare in una società autonoma. Una catena di complicità deve legare tutte le parti. Come nell'informale africano, nutrire la rete dei "collegati" è la base del successo. L'allargamento e l'approfondimento del tessuto di base è il segreto del successo e deve essere il primo pensiero delle sue iniziative. » questa coerenza che rappresenta una vera alternativa al sistema.

Al Nord, si pensa prima ai progetti volontari e volontaristici di costruzione di mondi differenti. Alcuni individui, rifiutando in tutto o in parte il mondo in cui vivono, tentano di mettere in atto qualcos'altro, di vivere altrimenti: di lavorare o di produrre altrimenti in seno a imprese diverse, di riappropriarsi della moneta anche per servirsene per un uso diverso, secondo una logica altra rispetto a quella dell'accumulazione illimitata e dell'esclusione massiccia dei perdenti.

Al Sud, dove l'economia mondiale, con l'aiuto delle istituzioni di Bretton Woods, ha cacciato dalle campagne milioni e milioni di persone, ha distrutto il loro modo di vita ancestrale, soppresso i loro mezzi di sussistenza, per gettarli e stiparli nelle bidonvilles e nelle periferie Terzo mondo, l'alternativa è spesso una condizione di sopravvivenza. I "naufraghi dello sviluppo", abbandonati a loro stessi, condannati nella logica dominante a scomparire, non hanno scelta per restare a galla che organizzarsi secondo un'altra logica. Devono inventare, e almeno alcuni inventano effettivamente, un altro sistema, un'altra vita.

Questa seconda forma dell'altra società non è totalmente separata dalla prima, e ciò per due ragioni. Innanzitutto, perché l'autorganizzazione spontanea degli esclusi del Sud non è mai totalmente spontanea. Ci sono aspirazioni, progetti, modelli, o anche utopie che informano più o meno questi "fai da te" della sopravvivenza informale. Poi, perché, simmetricamente, gli "alternativi" del Nord non sempre hanno possibilità di scegliere. Anch'essi sono spesso degli esclusi, degli abbandonati, dei disoccupati o candidati potenziali alla disoccupazione, o semplicemente degli esclusi per disgustoÖ Ci sono dunque possibilità di contatto tra le due forme che possono e devono fecondarsi reciprocamente. Questa coerenza d'insieme realizza un certo modo, certi aspetti che FranÁois Partant attribuiva alla sua proposta centrale: dare a dei disoccupati, a dei contadini rovinati e a tutti coloro che lo desiderano la possibilità di vivere del loro lavoro, producendo, al di fuori dell'economia di mercato e nelle condizioni da loro stessi determinate, ciò di cui ritengono di aver bisogno.4

Rafforzare la costruzione di tali altri mondi possibili passa per la presa di coscienza del significato storico di queste iniziative. Numerose sono già state le riconquiste da parte delle forze dello sviluppo delle imprese alternative isolate, e sarebbe pericoloso sottovalutare le capacità di recupero del sistema. Per contrastare la manipolazione e il lavaggio del cervello permanente a cui siamo sottoposti, la costruzione di una vasta rete sembra essenziale per condurre la battaglia del buon senso.


Sviluppo, una parola da cancellare

di Serge Latouche

Le Monde Diplomatique, maggio 2001


Lo ´sviluppoª è simile ad una stella morta di cui ancora percepiamo la luce, anche se si è spenta da tempo, e per sempre.

Gilbert Rist (1)

Poco più di trent'anni fa nasceva una speranza. Una speranza tanto grande per i popoli del terzo mondo quanto lo era stato il socialismo per i proletari dei paesi occidentali. Una speranza, forse, dalle origini e dai presupposti più ambigui, perché l'avevano stimolata i bianchi prima di abbandonare quei paesi che pure avevano duramente colonizzato. Ma, alla fine, i responsabili politici, i dirigenti e le élite dei nuovi paesi indipendenti presentavano ai loro popoli lo sviluppo come la soluzione di tutti i loro problemi.

I giovani stati hanno tentato l'avventura. Goffamente, forse, ma l'hanno tentata, e spesso con un impeto e un'energia disperati. Il progetto ´per lo sviluppoª appariva addirittura come l'unica fonte di legittimità riconosciuta delle élite al potere. Possiamo senza dubbio dissertare all'infinito sull'esistenza o meno delle condizioni oggettive necessarie al successo di questa avventura modernista.

Ma, senza addentrarci in questa lunga discussione, è facile per tutti riconoscere che le condizioni non erano favorevoli né ad uno sviluppo pianificato né ad uno sviluppo liberale.

Il potere dei nuovi stati indipendenti era stretto tra contraddizioni insolubili. Essi non potevano ignorare lo sviluppo, né tantomeno realizzarlo. Non potevano, di conseguenza, né rifiutarsi di introdurre né riuscire ad adattare tutto quello che fa parte della modernizzazione: l'istruzione, la medicina, la giustizia, l'amministrazione, la tecnologia.

I ´freniª, gli ´ostacoliª e i ´blocchiª di ogni sorta, tanto cari agli esperti economisti, rendevano poco credibile il successo di un progetto che presupponeva, nell'epoca dell'´iper-globalizzazioneª, l'accesso alla competitività internazionale. Lo sviluppo, seppur teoricamente riproducibile, non è universalizzabile. Soprattutto per ragioni di carattere ecologico: la finitezza del pianeta renderebbe la diffusione generalizzata dello stile di vita americano impossibile ed esplosiva. Il concetto di sviluppo è imprigionato in un dilemma: o designa tutto e il contrario di tutto, in particolare tutte le esperienze con una propria dinamica culturale nella storia dell'umanità, dalla Cina degli Han all'impero Inca: ma non ha allora alcun significato utile per promuovere una politica e tanto vale sbarazzarsene. Oppure, ha un proprio contenuto specifico e si caratterizza necessariamente a partire da ciò che ha in comune con l'esperienza occidentale del ´decolloª dell'economia, iniziata con la rivoluzione industriale inglese nella seconda metà del XVIII secolo. In questo caso, a prescindere dall'aggettivo che decidiamo di associargli, il suo contenuto implicito o esplicito sta nella crescita economica e nell'accumulazione del capitale, con gli effetti positivi e negativi che ben conosciamo.

Questo nocciolo duro, che ogni tipo di sviluppo ha in comune con quella particolare esperienza, è legato a valori come il progresso, l'universalismo, il dominio sulla natura, la razionalità quantificante.

Questi valori, e in particolare il progresso, non corrispondono assolutamente ad aspirazioni universali profonde. Sono invece legati alla storia dell'Occidente e hanno spesso una scarsissima eco nelle altre società (2). Le società animiste, per esempio, non condividono il credo nel dominio sulla natura. L'idea di sviluppo è allora totalmente priva di senso e la realizzazione delle pratiche che l'accompagnano non è neanche lontanamente pensabile, perché inconcepibile e vietata (3). Sono proprio questi valori occidentali che bisognerebbe rimettere in causa per trovare una soluzione ai problemi del mondo contemporaneo ed evitare le catastrofi che ci prospetta l'economia mondiale.

Lo sviluppo è stato una grande avventura paternalista (´i paesi ricchi garantiscono lo sviluppo dei paesi più arretratiª), che ha occupato approssimativamente il periodo dei ´trent'anni gloriosiª (1945-1975).

Coniugato al transitivo, il concetto è diventato parte integrante dell'ingegneria sociale degli esperti internazionali. Erano sempre gli altri che avevano bisogno dello sviluppo. Ma quest'idea si è risolta in un totale fallimento. Prova ne è il fatto che l'aiuto fissato durante il primo decennio dello sviluppo delle Nazioni unite, nel 1960, dai paesi dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), pari all'1% del proprio Prodotto interno lordo (Pil), è stato rivisto e abbassato allo 0.7% nel 1992 a Rio e nel 1995 a Copenaghen, e nel 2000 non superava lo 0.25%! (4) Prova ne è anche il fatto che la maggior parte degli istituti scientifici o dei centri di ricerca specializzati su questo tema sono morti o moribondi.

La crisi della teoria economica dello sviluppo, annunciata negli anni '80, è ormai ad una fase terminale: stiamo assistendo ad una vera e propria liquidazione. Lo sviluppo non è più di moda negli ambienti internazionali ´seriª, come il Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca mondiale, l'Organizzazione mondiale del commercio (Omc), e cos" via. All'ultimo forum di Davos, la ´cosaª non è stata neanche menzionata. E anche al Sud viene rivendicato solo da alcune delle sue vittime e dai loro buoni samaritani: le organizzazioni non governative (Ong) che di esso vivono (5). E c'è di più. La nuova generazione di ´Ong senza frontiereª ha incentrato il charity business più sull'emergenza umanitaria e l'intervento d'urgenza che sullo sviluppo economico.

Eppure, lo sviluppo è stato vittima più del suo successo nei paesi del Nord che del suo fallimento, sia pur innegabile, nei paesi del Sud. Questa ´ritirataª concettuale corrisponde al mutamento di prospettiva provocato dalla ´globalizzazioneª e da ciò che si muove dietro quest'altro slogan mistificatore. Lo sviluppo delle economie nazionali doveva sfociare quasi automaticamente nella transnazionalizzazione delle economie e nella globalizzazione dei mercati.

In un'economia mondializzata non c'è posto per una teoria specifica destinata al Sud. Tutte le regioni del mondo sono ormai ´in via di sviluppoª (6). Ad un mondo unico corrisponde un pensiero unico. E la conseguenza di questo cambiamento non è altro che la scomparsa di ciò che forniva un minimo fondamento al mito dello sviluppo, ossia il trickle down effect, il fenomeno delle ricadute favorevoli per tutti.

La ripartizione della crescita economica al Nord (con il compromesso keynesiano-fordista), e anche quella delle sue briciole al Sud, garantiva una certa coesione nazionale. I tre fenomeni interconnessi della deregulation e della liberalizzazione commerciale e finanziaria hanno frantumato il quadro statale di regolamentazione, permettendo un'estensione senza limiti del gioco delle disuguaglianze. La polarizzazione delle ricchezze tra regioni del mondo e tra individui ha raggiunto livelli inusitati. Secondo l'ultimo rapporto del programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (Undp), se la ricchezza complessiva del pianeta è aumentata di sei volte dal 1950, il reddito medio degli abitanti di 100 dei 174 paesi recensiti è in piena regressione, cos" come la loro speranza di vita (si veda il box in questa pagina). Le tre persone più ricche del mondo hanno un reddito superiore al Pil dei 48 paesi più poveri del mondo messi insieme. Il patrimonio dei 15 uomini più ricchi del mondo supera il Pil di tutta l'Africa subsahariana.

Infine, quello delle 84 persone più ricche oltrepassa il Pil della Cina, che conta 1.2 miliardi di abitanti. In tali condizioni, non è più il caso di parlare di sviluppo, ma solo di aggiustamento strutturale. Per l'aspetto sociale, si fa sempre più appello a ciò che Bernard Hours definisce elegantemente un ´pronto soccorso mondialeª, di cui le Ong umanitarie e il loro personale emergenziale sarebbero lo strumento fondamentale (7). Tuttavia, se le ´formeª (e non solo loro) cambiano considerevolmente, c'è tutto un immaginario che rimane immutato. Se lo sviluppo non è stato altro che la continuazione della colonizzazione con altri mezzi, la nuova globalizzazione è, a sua volta, la continuazione dello sviluppo con altri mezzi. Lo stato si eclissa dietro il mercato. Gli stati-nazione del Nord, che si erano già fatti più discreti con il passaggio del testimone dalla colonizzazione all'indipendenza, lasciano completamente la ribalta alla dittatura dei mercati (da loro organizzata) e al suo strumento di gestione, il Fmi, che impone i piani di aggiustamento strutturale. Ritroviamo ancora l'occidentalizzazione del mondo con la colonizzazione dell'immaginario attraverso il progresso, la scienza e la tecnica. L'economicizzazione e la tecnicizzazione sono spinte ai loro estremi. La critica teorica e filosofica radicale, portata coraggiosamente avanti da un manipolo di intellettuali marginali (in particolare Cornelius Castoriadis, Ivan Illich, FranÁois Partant, Gilbert Rist), ha permesso un certo slittamento semantico, ma non ha portato ad alcuna ridiscussione dei valori e delle pratiche proprie della modernità. Se la retorica pura dello sviluppo e la pratica ad essa legata della ´tecnocraziaª volontaristica non vanno più per la maggiore, l'insieme di credenze escatologiche in una prosperità materiale generalizzata, che potremmo definire ´sviluppismoª, mantiene tutto il suo vigore.

La sopravvivenza dello sviluppo alla propria morte si manifesta soprattutto attraverso le critiche che gli sono state mosse. Per tentare di scongiurare magicamente i suoi effetti negativi, siamo in effetti entrati nell'era degli sviluppi ´particolariª (8). Abbiamo quindi visto sviluppi ´autocentratiª, ´endogeniª, ´partecipativiª, ´comunitariª, ´integratiª, ´autenticiª, ´autonomi e popolariª, ´equiª, per non parlare dello sviluppo locale, del micro-sviluppo, dell'endo-sviluppo e persino dell'etno-sviluppo! Gli umanisti canalizzano cos" le aspirazioni delle vittime. In quest'arte di rinnovamento di idee obsolescenti, lo sviluppo sostenibile costituisce il successo più concreto. Esso rappresenta una sorta di bricolage concettuale che, non potendo cambiare le cose, mira a cambiare le parole, una mostruosità verbale che si espleta attraverso un'antinomia mistificatrice. L'aggettivo ´sostenibileª è in effetti ciò che consente al concetto di sopravvivere.

In tutti questi tentativi di definire un ´altroª sviluppo o uno sviluppo ´alternativoª, l'obiettivo è guarire un ´maleª che colpirebbe lo sviluppo in modo accidentale e non congenito. Chiunque osi attaccare lo sviluppismo si sente ribattere che ha sbagliato bersaglio. Ciò che lui attacca sono solo alcune forme traviate di ´cattivoª sviluppo.

Ma quest'orribile spaventapasseri creato per l'occasione non è altro che un'aberrante chimera. Nell'immaginario della modernità, in effetti, il male non può colpire lo sviluppo, per la semplice ragione che esso è l'incarnazione stessa del Bene. Il ´buonª sviluppo, che pure non ha mai avuto concreta realizzazione, è un pleonasmo, perché sviluppo vuol dire per definizione ´buonaª crescita, e perché la crescita è anch'essa un bene e nessuna forza del male può sconfiggerla. Quest'eccesso di giustificazioni del suo carattere benefico è in realtà rivelatore della truffa che sottende il concetto, sia esso affiancato o meno da una particella.

» chiaro che è lo ´sviluppo realmente esistenteª - definizione che rievoca quella di ´socialismo realeª - quello che domina il pianeta da due secoli, a generare gli attuali problemi sociali ed ambientali: emarginazione, sovrappopolazione, miseria, inquinamenti di vario tipo, ecc. Lo sviluppismo è un'espressione profonda della logica economica. Non c'è posto, in questo paradigma, per il rispetto della natura preteso dagli ecologisti, né per il rispetto dell'essere umano reclamato dagli umanisti.

Lo sviluppo realmente esistente si mostra allora in tutta la sua realtà, illustrando il carattere mistificatorio dello sviluppo ´alternativoª.

Aggiungendo un aggettivo, non si pensa affatto di rimettere in discussione il processo di accumulazione capitalistica, ma al massimo si può pensare di aggiungere una preoccupazione di carattere sociale o una componente ecologica alla crescita economica, allo stesso modo in cui le si è aggiunta in passato una dimensione culturale. Concentrandoci sulle conseguenze sociali, come la povertà, il livello di vita, i bisogni essenziali, o sui danni all'ambiente, evitiamo gli approcci olistici o globali nell'analisi del meccanismo planetario della megamacchina tecno-economica, che si basa su un'impietosa concorrenza generalizzata ormai priva di volto.

Il dibattito sulla parola sviluppo si esprime quindi in tutta la sua ampiezza. In nome dello sviluppo ´alternativoª, vengono spesso proposti veri e propri progetti anti-produttivistici - e per diversi aspetti anti-capitalistici - , che mirano ad eliminare le piaghe del ´sotto-sviluppoª e gli eccessi del ´cattivo sviluppoª o, più semplicemente, gli effetti disastrosi della globalizzazione. Questi progetti di società conviviale hanno tanto in comune con lo sviluppo quanto con esso potevano avere ´l'età dell'abbondanza delle società primitiveª o i notevoli successi umani ed estetici raggiunti da alcune società pre-industriali che ignoravano tutto dello sviluppo (9). Anche in Francia, abbiamo vissuto questa esperienza grandiosa di uno sviluppo ´alternativoª. » stato al momento della modernizzazione dell'agricoltura, tra il 1945 e il 1980, programmata dai tecnocrati umanisti e realizzata dalle Ong cristiane, sorelle gemelle di quelle che imperversano nel terzo mondo (10). Abbiamo assistito alla meccanizzazione, alla concentrazione, all'industrializzazione delle campagne, al massiccio indebitamento dei contadini, all'uso sistematico di pesticidi e diserbanti chimici, alla diffusione del cibo scadente.

Che lo si voglia o no, lo sviluppo non può essere diverso da ciò che è già stato: l'occidentalizzazione del mondo. Le parole si radicano in una storia particolare; sono legate a rappresentazioni che, il più delle volte, sfuggono alla coscienza di chi le usa, ma hanno una certa presa sulle nostre emozioni. Ci sono parole dolci, parole che danno sollievo e parole che feriscono. Ci sono parole che mettono un popolo in subbuglio e sconvolgono il mondo. E poi, ci sono parole avvelenate, parole che si infiltrano nel sangue come una droga, corrompono il desiderio e oscurano la capacità di giudizio. Lo sviluppo è una di questa parole tossiche. Possiamo, certo, affermare che ormai un ´buon sviluppo è soprattutto valorizzare ciò che facevano i nostri genitori, sottolinerare le nostre radiciª (11), ma vorrebbe dire definire una parola attraverso il suo contrario. Lo sviluppo è stato, è, e sarà soprattutto uno sradicamento. Ha generato ovunque un aumento dell'eteronomia a scapito dell'autonomia delle società.

Bisognerà forse aspettare altri quarant'anni per capire che l'unica forma di sviluppo è lo sviluppo realmente esistente? Non ci sono altre possibilità. E lo sviluppo realmente esistente è la guerra economica (con i suoi vincitori, ovviamente, ma ancora di più con i suoi vinti), il saccheggio senza freni della natura, l'occidentalizzazione del mondo e il conformismo planetario. E, per finire, la distruzione di tutte le culture differenti.

Ecco perché lo ´sviluppo sostenibileª, questa contraddizione in termini, è allo stesso tempo terribile e sconfortante. Almeno, con lo sviluppo non sostenibile potevamo mantenere la speranza che questo processo mortifero avrebbe avuto una fine, vittima delle sue contraddizioni, dei suoi insuccessi, del suo insopportabile carattere e della finitezza delle risorse naturali.

Potevamo cos" continuare a riflettere e lavorare ad un dopo-sviluppo, mettere insieme una post-modernità accettabile. E, in particolare, reintrodurre il sociale, il politico nel rapporto economico di scambio, ritrovare l'obiettivo del bene comune e della buona esistenza nel commercio sociale. Lo sviluppo sostenibile, invece, ci preclude ogni via di uscita, promettendoci lo sviluppo eterno! L'alternativa non può esprimersi attraverso un modello unico. Il dopo-sviluppo deve necessariamente essere plurale. Si tratta di cercare modi di crescita collettiva che non privilegino un benessere materiale devastante per l'ambiente e per i legami sociali. L'obiettivo della buona esistenza si declina in modi molteplici a seconda dei contesti.

Questo obiettivo può essere chiamato umran (fioritura) come ha fatto Ibn Kaldòn, swadeshi-sarvodaya (miglioramento delle condizioni sociali per tutti), come ha fatto Gandhi, o bamtaare (stare bene insieme) come fanno i Toucouleurs. L'importante è rendere esplicita la rottura con quell'impresa di distruzione che si perpetua in nome dello sviluppo e della globalizzazione. Per gli esclusi, per i naufraghi dello sviluppo, non può essere altro che una sorta di sintesi tra la tradizione perduta e la modernità inaccessibile. Sono queste creazioni originali, di cui possiamo scorgere qua e là qualche fremito iniziale, ad aprire le porte alla speranza di un dopo-sviluppo.


Per una decrescita sostenibile, pacifica e conviviale: un approccio sistemico

di Mauro Bonaiuti


Georgescu-Roegen, padre fondatore della bioeconomia, è stato il primo a presentare la decrescita come una conseguenza invitabile dei limiti imposti dalle leggi di natura. Se vogliamo comprendere per quali ragioni il modo tradizionale di fare economia, teorizzato dagli economisti neoclassici e diffuso dagli apologeti della globalizzazione e del pensiero unico, non è sostenibile, dobbiamo partire dalla teoria bioeconomica di Georgescu-Roegen. (1) La critica di Georgescu-Roegen ruota attorno a due punti fondamentali, che richiamerò brevemente.

1) Teoria della produzione e prima legge della termodinamica

La teoria tradizionale della crescita economica è basata su una funzione aggregata di produzione neoclassica del tipo:

Q = A f (K, L, R)

Ciò significa essenzialmente che la produzione (Q) cresce al crescere della quantità di lavoro (L), dello stock di capitale (K) e del progresso tecnologico (A).

Soprattutto essa assume che sia possibile produrre un qualsiasi quantità di prodotto, (Q0) riducendo a piacimento le risorse naturali (R), purché venga aumentato sufficientemente lo stock di capitale. (2)

In altre parole, la teoria neoclassica assume completa sostituibilità fra risorse naturali e capitale fabbricato dall'uomo. Una assunzione che non a caso, è anche alla base della definizione neoclassica di sviluppo sostenibile. Ciò significa che - come ha affermato il premio Nobel per l'economia Robert Solow - "non c'è in linea di principio alcun problema, il mondo può, in effetti, andare avanti senza risorse naturali". (3) E' possibile dimostrare, tuttavia, che tale assunzione viola le leggi della termodinamica. Se, come affermano i neoclassici, la funzione di produzione altro non è che una ricetta, Solow e Stiglitz implicitamente affermano che sarà possibile, riducendo la quantità di farina, cuocersi una pizza più grande semplicemente utilizzando un forno tecnologicamente più avanzato, oppure due cuochi al posto di uno. Com'è evidente, questa formulazione semplicemente non rispetta il bilancio dei materiali: un modo diverso di leggere la prima legge della termodinamica.

Questo errore si spiega con la pretesa, tipicamente neoclassica, di estendere a tutti i fattori della produzione quella sostituibilità che esiste solo - pur con evidenti ripercussioni sociali - tra capitale e lavoro. Essa manifesta inoltre l'incapacità da parte degli economisti di fare i conti con i fondamenti del processo economico. La prima legge della termodinamica sancisce, in conclusione, che il flusso di materia che "entra" nel processo economico coincide necessariamente con il flusso di scarti che ritroviamo in uscita (beni prodotti + rifiuti). (4)

In generale, dunque, la produzione di quantità crescenti di beni e servizi implicano l'utilizzo di quantità maggiori di materie prime ed energia e, pertanto, un più incisivo impatto sugli ecosistemi.

2) Degradazione entropica e limiti alla crescita

Anche il secondo principio della termodinamica - o legge di entropia - ha rilevanti conseguenze per il processo economico. Secondo Georgescu-Roegen, infatti, ogni attività produttiva comporta l'irreversibile degradazione di quantità crescenti di materia ed energia.

Essendo la biosfera un sistema chiuso (scambia energia, ma non materia con l'ambiente), ne discendono due importanti conclusioni per l'economia: l'obiettivo fondamentale del processo economico, la crescita illimitata della produzione (e dei redditi), essendo basato sull'impiego di risorse non rinnovabili, finirà inevitabilmente per esaurire le basi energetiche e materiali su cui si fonda. Esso, pertanto, va abbandonato o, comunque, radicalmente rivisto.

L'evidenza empirica accumulatasi negli ultimi trent'anni è del resto, a questo proposito, robusta e concorde. (5) Certo i dati possono essere sempre messi in discussione, ma, a uno sguardo d'insieme, essi manifestano con evidenza a chi voglia leggerli senza pregiudizi quanto il sistema produttivo globale sia, già oggi, insostenibile per la biosfera. La decrescita, quantomeno nel lungo periodo, assume dunque i tratti di una necessità ecologica.

La seconda conclusione è di natura metodologica: la rappresentazione pendolare del processo economico, presentata in apertura di ogni manuale di economia, secondo la quale la domanda stimola la produzione e quest'ultima fornisce il reddito necessario ad alimentare nuova domanda, in un processo reversibile e apparentemente in grado di riprodursi all'infinito, andrà sostituita da una rappresentazione circolare ed evolutiva, in cui il processo economico risulti radicato nell'ambiente biofisico che lo sostiene. Questa revisione epistemologica, oltre a ricordarci l'inevitabile carattere fisico, materiale di ogni processo economico - riportando la scienza economica dalle rarefatte atmosfere della matematica, all'universo concreto del vivere quotidiano (6) - fornisce un imprescindibile carattere transdisciplinare alla "nuova economia".

Il progresso tecnologico non è la soluzione alla crisi ecologica

Da sempre gli economisti ortodossi hanno difeso la crescita economica dagli attacchi degli ecologisti con una molteplicità d'argomentazioni, il cui fulcro teorico ruota attorno al concetto di progresso tecnologico. L'idea fondamentale è che il progresso tecnologico consentirà, come già avvenuto in passato, di "oltrepassare i limiti," giungendo a produrre quantità crescenti di beni con un uso sempre minore di materia ed energia. Questo fenomeno, noto in letteratura come dematerializzazione del capitale, ha suscitato grande interesse negli economisti, che hanno visto nei recenti successi della new economy, la più evidente manifestazione della sua efficacia. (7) Il passaggio dal capitalismo "fordista", con le sue fabbriche fumose, alla civiltà on line comporterebbe, secondo questi autori, la transazione definitiva verso un'economia leggera, verso un capitalismo pulito, caratterizzato da un bassissimo consumo di risorse materiali e da un ridotto impatto sugli ecosistemi.

Naturalmente l'innovazione tecnologica sarà favorita da un ritmo accelerato di crescita economica. Ecco dunque che crescita e progresso tecnologico vengono a formare un binomio inscindibile e, paradossalmente, la sola possibile soluzione della crisi ecologica.

Quest'idea è stata recentemente espressa in modo estremamente chiaro dal presidente americano Bush, il quale ha dichiarato: "La crescita è la chiave del progresso ambientale, in quanto fornisce le risorse che consentono di investire nelle tecnologie avanzate: essa è la soluzione non il problema." (8) Certo non stupisce che questa sia l'opinione del presidente americano e dei leader occidentali. Il fatto è che, pur con diverse sfumature, questa posizione è condivisa dall'intero arco delle forze politiche e persino da alcune importanti associazioni ambientaliste, passando per le principali tecnocrazie internazionali, dalla Banca Mondiale al WTO, per finire con le varie commissioni sullo sviluppo sostenibile sia in sede ONU che nell'ambito dell'Unione Europea. Resta dunque la domanda fondamentale: è vero che il progresso tecnologico comporta una riduzione dell'impatto sugli ecosistemi e in particolare sui consumi di materia ed energia?

E' certamente corretto affermare che le tecnologie informatiche e, più in generale, le cosiddette nuove tecnologie, siano capaci di produrre reddito con un minore impiego di risorse naturali. Tuttavia, mentre i consumi di numerose risorse per unità di prodotto sono effettivamente diminuite nei paesi più avanzati, i consumi assoluti di risorse continuano ad aumentare. Alcuni dati basteranno a chiarire questo punto:

Una unità di GNP (9) può essere prodotta oggi con meno energia che all'inizio degli anni Ottanta. L'intensità dell'energia (misurata come energia per unità di GNP) è diminuita addirittura del 32% negli USA dal 1980 al 2000. Ma questa diminuzione dell'intensità di energia non ha portato a una riduzione del consumo totale di energia. Il consumo totale di energia (Primary Energy Consumption) è aumentato del 23% negli USA nello stesso periodo. Considerazioni analoghe valgono per i principali paesi europei. (10)

Se realizziamo poi un'analisi comparata, il paradosso risulta confermato: le economie più efficienti, come gli Stati Uniti o la Norvegia, hanno consumi energetici pro capite oltre tre volte superiori a quelli di economie nettamente meno efficienti, come il Messico o l'Ungheria. (11)

Come è possibile, dunque, che ad un aumento dell'efficienza corrisponda un aumento - anziché una riduzione - nei consumi totali di energia?

Un approccio sistemico alla teoria economica: il modello stocks e flussi

Per comprendere compiutamente il paradosso dell'efficienza, occorre abbandonare la tradizionale rappresentazione del processo di produzione, in favore di un nuovo approccio in grado di considerare, a fianco dei flussi (materie prime, prodotti intermedi), gli stocks coinvolti nel processo. (12) Tali stocks sono essenzialmente di tre tipi: capitale naturale (ecosistemi), capitale economico (impianti), forza lavoro (intesa come lavoro organizzato). A differenza dei flussi, che vengono trasformati nell'ambito del processo di produzione, gli stocks in quanto sistemi autopoietici, sono ancora presenti e quindi riconoscibili al termine del processo. Come noto, la teoria tradizionale della produzione assume che le quantità prodotte dipendano unicamente dai flussi in input e dalla tecnologia impiegata. In questo modo si trascura il ruolo fondamentale giocato dagli stocks, ossia dai sistemi, sia di natura biologica (la biosfera ed i suoi sottosistemi) che di natura economica e sociale (impianti, strutture formali e informali di organizzazione del lavoro) nell'ambito del processo di produzione. (13)

Ora, il punto essenziale è che questi sistemi richiedono continui apporti di materia/energia (e lavoro) per mantenersi "in condizioni di efficienza". Le organizzazioni produttive, non diversamente dalla biosfera, sono infatti strutture dissipative. (14) Queste strutture, come noto, si mantengono lontano dall'equilibrio termodinamico grazie a continui apporti di energia provenienti dall'esterno del sistema. Diveniamo cos" consapevoli come tali strutture (stocks) necessarie alle economie avanzate per produrre innovazione tecnologica (imprese multinazionali, centri di ricerca, burocrazie, sistemi di trasporto, ecc.) richiedano enormi flussi di materia/energia (e lavoro), non solo - e non tanto - per produrre benessere, quanto - innanzitutto - per mantenere sé stesse. Alcuni esempi aiuteranno a comprendere questo punto.

Con ogni probabilità un giovane ingegnere occidentale, impiegato in una società di software, utilizza direttamente meno risorse naturali di quanto non ne utilizza, ad esempio, un operaio indiano impiegato in uno stabilimento per la produzione di coloranti. Tuttavia quante risorse e quanto lavoro richiede la produzione sociale di un ingegnere? E delle tecnologie informatiche in generale? Si può forse programmare computer senza recarsi al lavoro in automobile o senza disporre di una casa arredata con ogni comodità? In conclusione le strutture economiche (imprese multinazionali di produzione e servizi) e le organizzazioni (sistemi di trasporto, cura, svago, istruzione, ricerca, ecc.) necessarie alle democrazie avanzate per farsi promotrici dell'innovazione tecnologica richiedono esse stesse, per poter essere mantenute, enormi quantità di lavoro e di risorse naturali, e questo indipendentemente dalla loro capacità di produrre benessere.

Non solo, i flussi di materia/energia necessari al mantenimento di tali strutture aumentano al crescere della scala e della complessità di questi sistemi. Comprendiamo dunque perché maggiore progresso tecnico, implicando generalmente strutture più grandi e più complesse, significhi maggiore consumo di materia/energia e maggiore sfruttamento del lavoro.

Ecco dunque che, nelle giustificazioni razionali che vengono portate a sostegno di ogni nuova soluzione tecnologica ai problemi sociali ed ecologici, vi sia un livello, del tutto essenziale, che tende a rimanere inconscio. Di fronte ad ogni nuova tecnologia la domanda che abitualmente ci poniamo è semplicemente se questa sia più o meno efficiente della precedente, cioè, in termini ecologici, se consuma più o meno risorse. Di fronte ad una risposta positiva a questa domanda siamo certi di aver compiuto un passo avanti - per quanto piccolo - sulla via della sostenibilità. E qui, invece, ci inganniamo. Le automobili di oggi consumano certamente meno carburante di quelle di trenta anni fa, tuttavia ben difficilmente potremmo affermare che gli avanzamenti tecnologici nel settore dell'auto abbiano portato ad una riduzione dell'impatto di questo strumento sugli ecosistemi, o a una riduzione nei consumi di carburanti. (15)

La riformulazione della teoria della produzione in termini sistemici che abbiamo qui abbozzato, ci porta a considerare la questione del progresso tecnologico da una prospettiva completamente diversa, ponendoci nuovi interrogativi. Posti di fronte ad ogni innovazione tecnologica, occorrerà innanzitutto domandarsi quali sono le tipologie di strutture (biologiche, economiche, sociali) implicate nella produzione di quel bene, e quali sono i flussi di materia energia e lavoro che queste presuppongono per automantenersi. » possibile infatti che la quantità di risorse assorbita dai sistemi necessari alla produzione della nuova tecnologia sia superiore a quella risparmiata direttamente dalla tecnologia stessa. I dati presentati ad esempio da Denis Cheynet a proposito dell'auto confermano questa ipotesi. (16) Se traduciamo in ore lavoro il costo necessario all'acquisto dell'auto e vi aggiungiamo i costi sociali legati agli incidenti automobilistici - la velocità reale di questo mezzo di trasporto scende sotto i 20 Km orari. Si consideri inoltre che nel calcolo non sono stati inclusi i costi del carburante e i costi di manutenzione della rete stradale. In altre parole, se consideriamo i costi per il mantenimento delle strutture (stocks) indispensabili al suo funzionamento, la velocità media dell'auto è comparabile, e probabilmente inferiore, a quella della bicicletta. Naturalmente con la differenza che la prima richiede una tonnellata di metallo per spostare un uomo, rispetto ai 10/15 chilogrammi della seconda; oltre al consumo di molte altre risorse, la maggior parte delle quali non rinnovabili. Senza considerare, inoltre, i costi psicologici e sociali, e quindi il tempo che potrebbe essere "liberato" dal lavoro di fabbrica, o lungo le strade (come autisti e/o come manutentori), e rivolto ad altre attività, meno alienati, socialmente più vantaggiose e più rispettose dell'ambiente.

Inoltre occorrerà valutare quale impatto la nuova tecnologia potrà avere sugli equilibri dei sistemi ai diversi livelli (biologico, economico e sociale). » infatti possibile (come è accaduto per l'auto e per le tecnologie informatiche) che tali innovazioni spostino ciascun sistema verso un nuovo equilibrio, con conseguenti, anche significative, trasformazioni nelle quantità dei flussi necessari al mantenimento dei sistemi nella nuova condizione di equilibrio. I progressi tecnologici a cui abbiamo assistito nell'ambito delle tecnologie informatiche hanno portato, ad esempio, a una riduzione del prezzo dei prodotti e quindi a un aumento - anziché una riduzione - dei consumi. Il cosiddetto effetto rimbalzo (17) non è altro che un esempio dell'assestarsi del sistema economico verso un nuovo equilibrio. Allo stesso modo i progressi compiuti dalle tecnologie dell'auto hanno favorito, attraverso l'affermarsi di un nuovo sistema di trasporti, (si pensi alla progressiva estensione della rete stradale, ecc.) un significativo incremento nei flussi di materia ed energia, (per es. un aumento nel consumo di gomma e petrolio) dovuti, non certamente alle dirette trasformazioni della nuova tecnologia (le auto più efficienti) quanto piuttosto alla nuova condizione di equilibrio raggiunta dal sistema.

Quanto detto, ci consente di offrire una diversa e - credo - più profonda interpretazione delle trasformazioni strutturali legate al progresso tecnologico, oltre al cosiddetto paradosso dell'efficienza. Se le ipotesi che abbiamo avanzato sono corrette è evidente che il progresso tecnico non può rappresentare, né oggi né in futuro, la soluzione alla crisi ecologica (e sociale). Al contrario, il suo inscindibile associarsi alla crescita economica comporta l'evolversi della struttura produttiva verso scale più ampie e più complesse, con un conseguente aumento del degrado entropico, e dello stress a cui sono sottoposte le strutture sociali (sradicamento, sfruttamento del lavoro, stress, alienazione, ecc).

Tali trasformazioni, contrariamente a quanto previsto dalla teoria ortodossa, comportano una riduzione anziché un aumento del benessere sociale. Questa osservazione ci introduce al secondo grande paradosso dell'economia contemporanea.

Il paradosso del benessere

Secondo l'economia ortodossa, a un aumento dei consumi di beni e servizi corrisponde necessariamente un incremento del benessere del consumatore. Un'ipotesi specifica è introdotta per garantire che non vi siano eccezioni a questa regola. (18) Tuttavia, è sempre più evidente che le economie occidentali presentano, a fianco di un continuo aumento dei consumi, un'altrettanto evidente riduzione del benessere sociale, attestata da numerosi indicatori. Il Genuine Progress Indicator (GPI) - per esempio - mostra, a partire dagli anni Ottanta, un andamento decrescente, con una chiara inversione di tendenza rispetto agli anni precedenti. (19) Come è dunque possibile che a un aumento della produzione (e del consumo) si accompagni una riduzione del benessere sociale?

Il modello stock e flussi consente di offrire un'interpretazione anche di questo paradosso. Un aumento della quantità di beni consumati, e dunque del flusso di beni prodotti, comporterà infatti, a differenza dei modelli ortodossi, (20) una alterazione negli equilibri dei sistemi (stocks) coinvolti nel processo di produzione. Poiché gli stocks che partecipano al processo di produzione, sono gli stessi coinvolti nel processo di creazione del benessere, (21) una alterazione in questi ultimi potrà risolversi in una riduzione di benessere. Tralasciando qui spiegazioni più formali, un incremento dei consumi - e quindi della produzione - comporta una riduzione del benessere sociale in quanto riduce la qualità degli stocks biologici e sociali coinvolti nel processo di creazione del benessere. (22) In certi casi tale alterazione può condurre ad una perdita totale di resilienza di tali sistemi (o di alcuni loro sottosistemi) con conseguenze tragiche per il benessere delle popolazioni (crisi ecologiche o sociali).

La teoria ortodossa, non considerando il ruolo svolto dai sistemi biologici e sociali nel processo di produzione (e nel consumo) di beni, non è in grado di cogliere le conseguenze di queste trasformazioni strutturali, e le relative conseguenze di lungo periodo sul benessere economico e sociale.

Più di venticinque anni or sono Ivan Illich aveva profeticamente intuito quanto queste megamacchine (sistemi di produzione, trasporto, cura, ecc.), superata una certa soglia, producano varie forme di disutilità, sino a divenire pericolose per la sopravvivenza dell'intero corpo sociale che le ha generate (e per la biosfera). La rappresentazione sistemica del processo economico mediante stock e flussi consente di fornire una spiegazione analitica delle ragioni che stanno alla base di questo fenomeno, offrendoci uno strumento concettuale per tentare di valutare le conseguenze delle trasformazioni strutturali che diversi modelli di società presuppongono.

Verso una decrescita conviviale e sostenibile

Quello alla decrescita è innanzitutto un appello. Come tale ha il merito di esprimere l'urgenza di una inversione di rotta rispetto al paradigma dominante della crescita. Poiché - come abbiamo visto - crescita e sviluppo sono inscindibilmente connessi, l'invito alla decrescita indica al tempo stesso una prospettiva alternativa rispetto ai diversi modelli di sviluppo realmente esistenti, comunque aggettivati (sostenibile, durevole, alternativo ecc.) (23).

» bene riconoscere, tuttavia, che questo appello si presta ad alcuni fraintendimenti. Per tentare di sgombrare il campo da tali possibili equivoci, va chiarito subito cosa la decrescita non è: non è un programma masochistico-ascetico di riduzione dei consumi, nell'ambito di un sistema economico-sociale immutato. Come ha affermato più volte Serge Latouche, parafrasando Hanna Arendt, non vi sarebbe nulla di peggio di una società di crescita senza crescita. (24) » evidente che una politica economica incentrata su una drastica riduzione dei consumi creerebbe, data l'attuale struttura del sistema produttivo e delle preferenze, una drammatica riduzione della domanda globale e dunque un aumento significativo della disoccupazione e del disagio sociale. Non è questa, dunque, la prospettiva qui auspicata.

Decrescita, inoltre, non significa condannare i paesi del Sud del mondo ad un'ulteriore riduzione dei loro redditi procapite. (25)

Per quanto la decrescita alluda, sul piano economico, a una riduzione complessiva delle quantità fisiche prodotte e delle risorse impiegate, essa va intesa piuttosto come una complessiva trasformazione della struttura socio-economica, politica, e dell'immaginario collettivo verso assetti sostenibili. Questo nella prospettiva di un significativo aumento - e non certo di una riduzione - del benessere sociale.

Tale trasformazione presenta dunque un carattere multidimensionale. A scopo esplicativo, è possibile individuare quantomeno quattro livelli (o sistemi) sui quali il processo di decrescita influisce: ecologico, sociale, politico e immaginario. Per quanto sia consapevole della straordinaria vastità del problema, può essere utile cercare di individuare alcuni circoli virtuosi che il processo di decrescita può innescare a ciascuno di questi livelli e tra questi.

Perché piccolo è... effettivamente bello

A livello economico decrescita significa innanzitutto riduzione nei flussi materiali di produzione e consumo. Come abbiamo visto, questa non si ottiene né incentivando lo sviluppo e il progresso tecnologico secondo la logica sino ad oggi prevalente, né invocando le virtù ascetiche del risparmio energetico. Essa richiede piuttosto una trasformazione profonda delle strutture economico-produttive (stocks).

Questo implica innanzitutto una riduzione delle dimensioni (scala) dei grandi apparati produttivi (imprese trans-nazionali), e, più in generale, delle grandi organizzazioni (tecnocrazie, sistemi di trasporto, cura, svago, ecc.). Il cammino verso un sistema economico e sociale sostenibile non potrà avviarsi seriamente sino a quando non si diverrà consapevoli che la gran parte delle risorse (e del lavoro) sono oggi impiegate - come abbiamo mostrato - non per produrre benessere, ma per alimentare le tecnostrutture stesse. Più è alto il grado di complessità, maggiore è l'entropia, maggiori sono le risorse che tali megamacchine esigono semplicemente per la loro autoconservazione. L'esempio dell'automobile, riportato in precedenza, mostra come una tecnologia più semplice possa essere più efficiente, da un punto di vista sistemico, di una più complessa.

L'approccio bioeconomico suggerisce che il benessere è legato, più che ai flussi di beni e servizi prodotti, alle condizioni delle strutture (stocks) che intervengono nel processo di produzione e consumo. Come accade nell'universo biologico, in cui gli organismi non tendono alla massimizzazione di alcuna variabile, ma utilizzano risorse e assumono dimensioni adeguate al contesto ecologico in cui vivono, cos" le strutture economiche (impianti, beni durevoli, ecc.) dovrebbero essere ripensate secondo forme e dimensioni tali da garantire una duratura capacità di produrre benessere in condizioni di minima dissipazione entropica. Le condizioni per un benessere duraturo non si ottengono, infatti, puntando sulla massimizzazione dei flussi di reddito e consumo a breve, quanto piuttosto cominciando ad immaginare e a realizzare strutture (tecnologie, beni durevoli, relazioni sociali), in grado di "sostenere" un buon livello di benessere, in modo duraturo, pur dissipando quantità modeste di materia/energia. Questo non significa affatto invocare un ritorno al passato, né tantomeno avere come unico obbiettivo la minimizzazione dei flussi di risorse naturali.

» possibile chiarire questo punto con un semplice esempio. Da un punto di vista entropico, è certamente meglio per il pescatore dedicare un certo ammontare di lavoro e di risorse per costruirsi una rete, o una barca da pesca (stock), piuttosto che affidarsi alla semplice pesca con le mani. Questo significa che, da un punto di vista bioeconomico, non si auspica la minimizzazione nell'uso delle risorse, né il regresso tecnologico, né tantomeno lo sciopero dell'ingegno. Ingegno, risorse naturali, e lavoro andrebbero finalizzati - tuttavia - alla cura e alla progettazione di quegli stock (sistemi naturali, impianti, beni durevoli, relazioni sociali, valori) che sono in grado di produrre benessere in modo duraturo, pur utilizzando quantità modeste di risorse ed energia. In altre parole, tali soluzioni ricercano le migliori combinazioni tra complessità, benessere ed entropia, nella consapevolezza che, generalmente, le soluzioni più complesse sono anche le più energivore. In generale occorrerà spostare il baricentro dell'attenzione, nel processo economico, dai flussi agli stocks (naturali, economici, relazionali) in quanto questi ultimi sono in grado di sostenere un benessere (più) duraturo, pur con modesti apporti di materia, energia e lavoro.

Decrescita: differenze tra Nord e Sud

Questa raccomandazione vale in modo particolare per le economie meno avanzate. Queste dovrebbero finalizzare le proprie risorse innanzitutto nella realizzazione di quei sistemi (ri)produttivi (stocks) - in particolare (sistemi di coltivazione, impianti, ecc.) beni durevoli (case, infrastrutture per il trasporto, per la distribuzione dell'acqua, per l'istruzione, ecc.) - che sono in grado di garantire un benessere adeguato e duraturo, pur in presenza di flussi modesti di reddito, di risorse e di beni di consumo. Parallelamente si tratterà di conservare /consolidare quegli stocks (ecosistemi, sistemi di relazioni sociali, neoclaniche, ecc.) che sono già presenti e in grado di produrre benessere, pur con modesti apporti di risorse. In sintesi si tratta di consolidare gli stocks nella prospettiva di una riduzione dei flussi. Come si può vedere si tratta di un modello economico che muove esattamente nella direzione opposta rispetto a quello che si va attualmente affermando in questi paesi. Gli interessi del capitale internazionale e delle imprese multinazionali, premono infatti nella direzione di una massimizzazione dei flussi a breve, anche al prezzo del depauperamento/distruzione degli stocks. Quando anche tali flussi (beni, risorse, capitali) ricadessero nelle mani delle popolazioni locali - anziché prendere la volta dei paesi ricchi - essi andrebbero indirizzati alla realizzazione di sistemi tecnologici relativamente semplici, duraturi, che consentissero maggiore autonomia e reale sostenibilità della economie locali.

Al contrario, per quei paesi che sono già passati per una fase prolungata di modernizzazione-industrializzazione e che pertanto possiedono livelli elevati di ricchezza (impianti, infrastrutture, beni durevoli), la ricetta sarà quella della decrescita in senso proprio: riduzione dei flussi attraverso la ristrutturazione degli stock, la quale non può non passare - in alcuni casi - per una vera e propria riduzione della scala delle organizzazioni produttive e delle tecnocrazie. (26) » evidente, in conclusione, che il processo di decrescita, cos" definito, consente di realizzare un cammino verso condizioni di autentica sostenibilità ecologica.

Decrescita e sostenibilità sociale

Il secondo livello, o seconda via della decrescita, è quello che influisce sulla dimensione dell'equità, della giustizia e della pace; in altre parole su quella che possiamo definire sostenibilità sociale. Attraverso quale processo la decrescita può favorire il prevalere di relazioni pacifiche tra gli esseri umani? Anche qui la storia può fornirci indicazioni importanti. Essa ci insegna che una civiltà fondata sull'espansione è incompatibile con la conservazione della pace. La biologia e l'antropologia ci mostrano che comportamenti particolarmente aggressivi e competitivi possono favorire la specie in contesti espansivi, ma in contesti non espansivi - quali quelli a cui la nostra specie si va necessariamente approssimando (la biosfera è infatti ormai pressoché interamente colonizzata) - sono i comportamenti cooperativi a risultare premianti. (27) La decrescita, cioè la (ri)organizzazione del processo economico secondo modalità non predatorie, in particolare di quelle risorse possedute da altre società, è la premessa indispensabile per pensare ad un modello economico sostenibile (anche) da un punto di vista sociale.

Se questo è vero a livello "macro" (rapporti tra società), a livello "micro" cosa può favorire l'affermarsi di un'economia più giusta? L'idea qui suggerita è che la decrescita, attraverso il progressivo trasferimento di quote crescenti della domanda verso la produzione di beni relazionali, favorisce la sostenibilità sociale. Con l'espressione "beni relazionali" si intende quel particolare tipo di "beni" che non possono essere goduti isolatamente, ma solamente nella relazione tra chi offre e chi domanda. Esempi di questo tipo di "beni" sono i servizi alla persona (cura, benessere, assistenza), ma anche l'offerta di servizi culturali, artistici e religioso/spirituali. Nelle società avanzate vi è una specifica domanda di qualità della vita. Ma tale domanda non si soddisfa grazie alla produzione di maggiori quantità di beni tradizionali" (Zamagni, 1997). » piuttosto una domanda di attenzione, di cura, di conoscenza, di partecipazione, di nuovi spazi di libertà, di spiritualità. » questa la via dell'economia solidale e civile. Non vi è dubbio, inoltre, che queste forme di produzione della ricchezza, fondate come sono su forme organizzative di tipo cooperativo o associativo, generalmente di piccole dimensione, a loro volta favoriscono l'affermarsi di un processo di decrescita.

Decrescita e convivialità/partecipazione

Il terzo livello è quello che potremmo definire degli assetti politici. La decrescita, grazie alla riduzione delle dimensioni delle imprese, delle istituzioni e dei mercati, valorizza la dimensione locale, favorendo l'affermarsi di forme politiche partecipate e conviviali. Conviviale, secondo Ivan Illich, oltre ad alludere alla piacevolezza del vivere assieme, indica una forma di organizzazione sociale e del lavoro "che consente [Ö] l'autonomia di ciascun lavoratore, intesa come potere di controllo sulle risorse e sui programmi". In altre parole "conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento (la tecnologia) per realizzare le proprie intenzioni". (28) Convivialità, secondo Illich, è dunque sinonimo di partecipazione.

Partecipazione, innanzitutto, alla definizione delle modalità di produzione della ricchezza, e quindi al controllo democratico della tecnologia.

La partecipazione a forme di organizzazione del lavoro maggiormente conviviali consente al lavoratore di migliorare il proprio benessere in quanto contribuisce a liberare ciascuno dagli ingranaggi della Megamacchina tecno-scientifica che domina il mercato globale. (29) Si tratta cioè di offrire ad un numero crescente di soggetti una migliore qualità della vita all'interno di organizzazioni meno disumanizzanti, portatrici di senso, che consentano di liberare maggiori quantità di tempo libero, di ridurre lo stress e l'alienazione, offrendo maggiori possibilità di controllo e partecipazione sulle forme e sulle finalità del processo economico. Questa tensione verso la riappropriazione delle principali attività umane, come il lavoro, lo scambio, la salute e il sapere, e delle relative istituzioni (l'impresa, il mercato, l'organizzazione sanitaria, la scuola, ecc.) è pensabile solo all'interno di una società di decrescita, una società cioè, in cui le dimensioni delle organizzazioni siano tali da rendere pensabile qualche forma di controllo da parte di coloro che vi prendono parte. D'altro canto, forme maggiormente partecipate di definizione delle modalità di produzione e distribuzione della ricchezza sono indispensabili per ottenere il consenso necessario a organizzare un cammino di decrescita conviviale. Anche a questo livello, dunque, l'anello si chiude, generando un possibile circolo virtuoso fra decrescita e partecipazione.

Decrescita e immaginario collettivo

Il quarto livello, e quindi la quarta tipologia di sistemi investiti dal processo di decrescita, è quello culturale/valoriale, in altre parole quello dell'immaginario collettivo. Poiché anche i valori, come ha mostrato Castoriadis, hanno un carattere sistemico, l'affermarsi di una società e di un'economia di decrescita porta inevitabilmente con sé l'affermarsi di nuovi valori (il piacere di vivere, l'armonia con la natura, la lentezza, l'equità, la partecipazione, possono essere alcuni esempi). Allo stesso tempo l'affermarsi di tali valori è indispensabile per legittimare il passaggio verso una società conviviale. A questo proposito dovrebbe essere ormai chiaro che, in una prospettiva sistemica, l'eterno interrogativo se debbano cambiare prima le strutture o prima l'immaginario collettivo, serva solo a ritardare il cambiamento... è evidente che entrambi sono necessari e l'una accompagna e sostiene la trasformazione dell'altro.

Decrescita sostenibile o crescita autodistruttiva?

Per concludere, può essere utile mettere in evidenza come anche tra i processi evidenziati a questi quattro diversi livelli (ecologico, sociale, politico e valoriale), sussistano importanti effetti sinergici.

In primo luogo l'affermarsi di prassi politiche partecipate a livello locale favorisce la sostenibilità ecologica (e sociale). (30) A livello locale, infatti, possiamo ritrovare la volontà e le conoscenze necessarie a proteggere e valorizzare le caratteristiche peculiari dei luoghi (risorse naturali, beni pubblici, conoscenze, saperi tradizionali, ricchezze sociali e relazionali). (31) A questa scala , tali peculiarità sono viste come ricchezze (stocks) da accrescere e valorizzare e non come risorse (flussi) da sfruttare a fini di profitto, come accade nelle "catene lunghe" dell'economia globale. (32) La partecipazione dei cittadini ai processi di definizione delle modalità di produzione della ricchezza favorisce il rispetto dei criteri di sostenibilità ecologica e sociale, come mostrano le ormai numerose esperienze di economia solidale e partecipativa.

In secondo luogo, il trasferimento della domanda verso la produzione di beni relazionali, mentre favorisce la sostenibilità sociale, favorisce anche, indirettamente, la sostenibilità ecologica. La produzione di beni relazionali, infatti, implica la degradazione di quantità molto modeste di materia/energia. (33)

Infine, mentre l'affermarsi di stili di vita ecologicamente sostenibili contribuisce a trasformare l'immaginario collettivo, veicolando una cultura non espansiva ma di equilibrio/cooperazione, possiamo sottolineare che, viceversa, tali valori sono indispensabili per l'affermarsi, a livello politico-sociale, di condizioni di pace e di equità. Fra sostenibilità ecologica, immaginario non espansivo, e condizioni di convivenza pacifica/equa è possibile l'instaurarsi di un importante circolo virtuoso, che l'approccio sistemico consente di analizzare.

Certo non si ignorano - a fianco delle sinergie - le possibili contraddizioni che il processo di decrescita potrebbe alimentare. Una per tutte: non vi è dubbio che la crescita economica conosciuta, nel dopoguerra, dalle economie occidentali ha contribuito a diluire il conflitto per la distribuzione dei redditi. Quando le dimensioni della torta aumentano è almeno teoricamente possibile immaginare di attribuirne una fetta più grande a ciascuno, diluendo cos" il conflitto distributivo. Indubbiamente, questo è quello che è successo nei paesi più ricchi durante gli anni di maggiore successo delle politiche di sviluppo. Al contrario è presumibile che, a parità di altre condizioni, in una società di decrescita i conflitti distributivi potrebbero riacutizzarsi.

Certamente, come in tutte le rappresentazioni evolutive, il fattore tempo risulta decisivo. Non è difficile rendersi conto che, qualora si arrivasse "troppo tardi", e la crisi economico-ecologica imponesse la decrescita, per esempio attraverso l'impennata dei prezzi delle risorse energetiche, tutti i circoli virtuosi sin qui individuati si invertirebbero. La scarsità delle risorse favorirebbe l'imposizione di modelli politici autoritari, spazzando via le forme germinali di partecipazione, e rendendo la democrazia una scatola vuota. L'imposizione politico militare si salderebbe con la cultura espansivo-competitiva rendendo il perseguimento dell'equità sociale e della pace un sogno del passato. Del resto i segni dell'avanzare di questo genere di dinamiche nella storia di questo inizio secolo non sono cos" difficili da individuare. Questo esercizio di immaginazione può essere molto utile. Ecco che la prospettiva della decrescita, da posizione estrema di una minoranza radicale, come viene comunemente presentata, trasfigura nel suo opposto, assumendo i tratti, probabilmente più veritieri, dell'urgenza e della necessità.


La decrecita sostenibile

di Bruno Clémentine e Vincent Cheynet

Decroissance, 4 giugno 2004


La contestazione della crescita economica è un fondamento dell'ecologia politica. Non può esserci crescita infinita su di un pianeta finito. Dal momento che disturbava troppo, perché in radicale rottura con il nostro sviluppo attuale, questa critica fu ben presto abbandonata a vantaggio di concetti più flessibili, come lo "sviluppo sostenibile". Eppure, razionalmente, non esiste quasi altra via, per i paesi ricchi (20% della popolazione planetaria e 80% del consumo delle risorse naturali) che quella di ridurre la loro produzione e il loro consumo al fine di "decrescere".

Non c'è bisogno di essere economisti per capire che un individuo, o una collettività, che tragga la maggior parte delle sue risorse dal suo capitale, e non dai suoi redditi, è destinato al fallimento. Eppure questo è proprio il caso delle società occidentali, che attingono alle risorse naturali del pianeta, un patrimonio comune, senza tenere conto del tempo necessario perché esse si rinnovino. Non contento di depredare questo capitale, il nostro modello economico, fondato sulla crescita, induce inoltre un aumento costante di questi prelievi. Gli economisti ultra-liberali, come i neo-marxisti, hanno eliminato dai loro ragionamenti il parametro "natura", perché troppo contrariante. Privato del suo dato fondamentale, il nostro modello economico e sociale si trova cos" scollegato dalla realtà fisica e funziona nel virtuale. Gli economisti vivono, in effetti, nel mondo religioso ottocentesco, in cui la natura era considerata inesauribile. Negare la realtà a vantaggio di una costruzione intellettuale è caratteristico di un'ideologia. Possiamo quindi considerare che l'economia attuale è prima di tutto di natura ideologica, non fosse altro che per difetto. La realtà è più complessa, poiché il sistema economico è in effetti largamente abbandonato a se stesso, senza controllo politico.

L'obiettivo di un'economia sana

Chiameremo economia sana un modello economico che, come minimo, non intacchi il capitale naturale. L'ideale sarebbe ricostituire il capitale naturale già distrutto. Ma il primo obiettivo di un'umanità che vive sui redditi della natura costituisce già una sfida straordinaria. Possiamo anche domandarci se quest'obiettivo sia ancora realizzabile, e se il punto di non-ritorno non sia stato già oltrepassato. In ogni caso, quest'obiettivo è il solo al quale l'umanità possa puntare, sia dal punto di vista morale che da quello scientifico.

Morale, perché fa parte del dovere e della responsabilità di ogni individuo e dell'umanità preservare il proprio ambiente e restituirlo ai propri discendenti, come minimo, nello stato in cui l'ha trovato.

Scientifico, perché immaginare che l'umanità abbia i mezzi per colonizzare altri pianeti vuol dire delirare. Le distanze nello spazio sono fuori della portata delle nostre tecnologie. Per fare dei salti da pulce nello spazio, sprechiamo inutilmente quantità gigantesche di risorse preziose.

Inoltre, in via puramente teorica, se potessimo portare sul nostro pianeta, in maniera economicamente conveniente, una risorsa energetica extra-terrestre, questo avrebbe come conseguenza un nuovo degrado ecologico. In effetti, alcuni scienziati pensano che il pericolo sia più nelle "troppe" risorse, che nel rischio di vederle esaurirsi. Il pericolo principale è l'incapacità dell'ecosistema globale di assorbire tutti gli agenti inquinanti che generiamo. L'arrivo di una nuova risorsa energetica riuscirebbe cos" solo ad amplificare i cambiamenti climatici.

Non attingere per niente al nostro capitale naturale sembra difficile, anche solo per produrre degli oggetti di prima necessità come una pentola o un ago. Ma abbiamo già prelevato e trasformato una quantità considerevole di minerali. La massa d'oggetti prodotti costituisce già un formidabile potenziale di materia da riciclare.

L'obiettivo dell'economia sana può sembrarci un orizzonte utopistico. In pratica abbiamo al massimo 50 anni per arrivarci, se vogliamo salvaguardare l'ecosistema. La biosfera non concede dilazioni. Restano, al ritmo di consumo attuale, 41 anni di riserve certe di petrolio (1), 70 anni di gas (2), 55 anni di uranio (3). Anche se queste cifre possono essere contestate, ci dirigiamo verso la fine della maggior parte delle risorse planetarie a breve scadenza, se non cambiamo radicalmente rotta. Contrariamente al ventesimo secolo, ormai consumiamo più risorse di quante non ne scopriamo. Inoltre è previsto, da qui a 20 anni, un raddoppio del parco automobilistico mondiale e del consumo energetico mondiale. Infine, più ci avviciniamo alla fine delle risorse, più queste sono difficili da estrarre. Resta il fatto che il pericolo maggiore, oggi, sembrano essere i danni che facciamo al clima, che non l'esaurimento delle risorse naturali.

Il teorico della decrescita

L'economista romeno Nicholas Georgescu-Roegen è il padre della decrescita (4). Nicholas Georgescu-Roegen distingue l'"alta entropia", energia non disponibile per l'umanità, dalla "bassa entropia", energia disponibile. Egli dimostra semplicemente che ogni volta che noi intacchiamo il nostro capitale naturale, come le riserve energetiche, ipotechiamo le speranze di sopravvivenza dei nostri discendenti. Ogni volta che produciamo un'automobile, lo facciamo al prezzo di una riduzione del numero di vite future. Egli mette in evidenza il vicolo cieco costituito dalla "crescita zero" o dallo "stato di stabilità" decantato dagli ecologisti. In effetti, anche se stabilizzassimo la nostra economia, continueremmo ad attingere al nostro capitale.

La decrescita sostenibile

Tutto il problema consiste nel passare da un modello economico e sociale fondato sull'espansione permanente ad una civiltà "sobria" il cui modello economico abbia integrato la finitezza del pianeta. Per passare dalla nostra civiltà all'economia sana, i paesi ricchi dovrebbero impegnarsi in una drastica riduzione della loro produzione e dei loro consumi. In termini economici, questo significa entrare nella decrescita. Il problema è che le nostre civiltà moderne, per non generare conflitti sociali, hanno bisogno di questa crescita perpetua. Il fondatore della rivista The ecologist, l'ecologista milionario e conservatore Edwards Goldsmith, avanza l'ipotesi che riducendo del 4% l'anno per 30 anni la produzione e il consumo, avremmo una possibilità di scampare alla crisi climatica, "con un minimo di volontà politica" (5). Facile a dire sulla carta, fosse anche riciclata o semplicemente sbiancata senza cloro! La realtà sociologica è tutt'altro. Perfino i ricchi dei paesi ricchi aspirano a consumare sempre più. E non è "un minimo di volontà politica" che sarebbe necessario se un gruppo volesse condurre questa politica dall'alto, ma piuttosto un potere totalitario. Quest'ultimo avrebbe un gran da fare per contrastare una sete infinita di consumi alimentata da anni di condizionamento all'ideologia pubblicitaria. A meno di rientrare in un'economia di guerra, l'appello alla responsabilità degli individui è la priorità. I meccanismi economici condotti dal politico dovranno svolgere un ruolo fondamentale, ma resteranno secondari. La svolta dovrà quindi attuarsi "dal basso", per restare nella sfera democratica.

Edwards Goldsmith afferma anche che solo una crisi economica mondiale potrebbe ritardare la crisi ecologica globale se non si intraprende niente. La storia ci dimostra che le crisi hanno raramente delle virtù pedagogiche, e che esse generano molto spesso dei conflitti sanguinosi. In situazione di pericolo, l'umano privilegia i suoi istinti di sopravvivenza, a scapito della società. La crisi del 1929 ha portato al potere Hitler, i nazisti, i fascisti, i franchisti in Europa e gli ultranazionalisti in Giappone. Le crisi invocano dei poteri forti, con tutte le derive che questi generano. Tutto l'obiettivo consiste, invece, nell'evitare che sia il caos a regolare le cose. E' per questa ragione che questa decrescita dovrà essere "sostenibile". Vuol dire che non dovrà generare una crisi sociale che rimetta in discussione la democrazia e l'umanesimo. Non servirebbe a niente, voler preservare l'ecosistema globale, se il prezzo per l'umanità è un crollo umano. Ma più aspetteremo, ad impegnarci nella "decrescita sostenibile", più l'impatto contro la fine delle risorse sarà rude, e più il rischio di generare un regime eco-totalitario o di sprofondare nella barbarie sarà elevato.

Un esempio di decrescita caotica è la Russia. Questo paese ha ridotto del 35% le sue emissioni di gas a effetto serra dalla caduta del muro di Berlino (6). La Russia si è disindustrializzata. E' passata da un'economia da superpotenza ad un'economia in larga parte di sopravvivenza. In termini puramente ecologici, è un exploit. In termini sociali, è ben lungi dall'esserlo. I paesi ricchi dovranno tentare di diminuire la loro produzione e i loro consumi senza far implodere il loro sistema sociale. Al contrario, dovranno proprio rinforzarlo in questa difficile transizione per tendere ad una maggiore equità. Una cosa sembra sicura: per raggiungere l'"economia sana", la decrescita dei paesi ricchi dovrà essere sostenibile.

Un esempio: l'energia

Più di tre quarti delle risorse energetiche che utilizziamo oggi sono di origini fossili. Sono il gas, il petrolio, l'uranio, il carbone. Sono risorse non-rinnovabili, o più esattamente con un tasso di rinnovamento estremamente debole. In ogni caso, senza alcun rapporto con il nostro attuale utilizzo. L'economia sana ci impone di cessare questo saccheggio. Dobbiamo riservare queste risorse preziose per degli impieghi vitali. Inoltre, la combustione di queste risorse fossili disgrega l'atmosfera (effetto serra e altri inquinamenti) e intacca da quest'altro lato il nostro capitale naturale. Quanto al nucleare, oltre al pericolo che fanno correre le sue installazioni, produce rifiuti che hanno una vita dalla durata infinita, se paragonata alla scala umana (plutonio 239, tempo di dimezzamento 24.400 anni, iodio 129, durata dell'emivita 16 milioni di anni). Il principio di responsabilità, che definisce l'età adulta, vuole che non sviluppiamo una tecnica che non riusciamo a controllare. Non dobbiamo lasciare in eredità ai nostri discendenti un pianeta avvelenato fino alla fine dei tempi. Al contrario, avremo diritto alle energie "di rendita", cioè quella solare, l'eolica e, in parte, la biomassa (legno) e un po' d'idraulica. Con queste ultime due risorse che devono dividersi con altri utilizzi che non la sola produzione di energia.

Quest'obiettivo è raggiungibile solo con una drastica riduzione del nostro consumo energetico. In un'economia sana, l'energia fossile sparirebbe. Questa sarebbe riservata a degli usi di sopravvivenza, come gli usi medici. Il trasporto aereo, i veicoli con il motore a scoppio sarebbero condannati a sparire. Sarebbero sostituiti dalla marina a vela, la bicicletta, il treno, la trazione animale (quando la produzione di alimenti per gli animali è sostenibile). E' chiaro che tutta la nostra civiltà sarebbe sconvolta da questo mutamento nel rapporto con l'energia. Significherebbe la fine dei grandi centri commerciali a vantaggio dei piccoli negozi di quartiere e dei mercatini, dei prodotti manufatti poco cari importati a beneficio dei prodotti locali, degli imballaggi usa e getta a vantaggio dei contenitori riutilizzabili, dell'agricoltura intensiva motorizzata a beneficio di una agricoltura contadina estensiva. Il frigorifero sarebbe rimpiazzato da una camera fredda, il viaggio alle Antille da una gita in bicicletta nelle Cevenne, l'aspirapolvere dalla scopa e lo straccio, l'alimentazione a base di carne da una dieta quasi vegetariana, ecc.

Almeno durante il periodo di riorganizzazione della nostra società, la perdita dell'energia fossile porterà un accrescimento considerevole della massa di lavoro per i paesi occidentali, e questo anche considerando una forte diminuzione dei consumi. Non solo non disporremmo più dell'energia fossile, ma in più la manodopera a buon mercato dei paesi del terzo mondo non sarebbe più disponibile. Faremmo allora ricorso alla nostra energia muscolare.

Un modello economico alternativo

Al livello dello Stato, un'economia sana gestita democraticamente può essere solo il frutto di una ricerca di equilibrio costante tra le scelte collettive e individuali. Essa ha bisogno di un controllo democratico dell'economia da parte del politico e delle scelte di consumo degli individui. Un'economia di mercato controllata dal politico e dal consumatore. Dove l'uno non può fare a meno dell'altro. Questo modello esige una maggiore responsabilizzazione del politico come del consumatore.

In maniera succinta, possiamo immaginare un modello economico che si articoli su tre livelli:

" Il primo sarebbe un'economia di mercato controllata che eviti qualunque fenomeno di concentrazione. Sarebbe, per esempio, la fine del sistema del franchising. Ogni artigiano o commerciante sarebbe proprietario del suo utensile di lavoro e non potrebbe possedere più di questo. Sarebbe necessariamente il solo a decidere della sua attività, in relazione con la sua clientela. Quest'economia di piccole entità, oltre al suo carattere umanista, avrebbe l'immenso merito di non generare pubblicità, condizione sine qua non per la messa in opera della decrescita sostenibile. L'uscita dall'ideologia del consumismo condiziona la sua messa in opera tecnica.

" Il secondo livello, la produzione di attrezzature che hanno bisogno di investimenti, avrebbe dei capitali misti, privati e pubblici, controllati dal politico.

" Infine, il terzo livello. Sarebbe quello dei servizi pubblici di base, non-privatizzabili (accesso all'acqua, all'energia disponibile, all'istruzione e alla cultura, ai trasporti in comune, alla sanità, alla sicurezza delle persone).

La messa in pratica di un modello simile porterebbe al commercio equo per tutti: applicando là dove si produce i criteri umani di dove si vende. Questa regola di semplice enunciazione porterebbe alla fine della schiavitù e del neo-colonialismo.

Una sfida per i "ricchi"

Quando saranno enunciate le misure da prendere per entrare nella decrescita sostenibile, la maggior parte dei nostri concittadini resterà incredula. La realtà è troppo dura per essere ammessa di colpo, per la maggioranza dell'opinione pubblica. Nella maggior parte dei casi essa suscita una reazione di animosità. E' difficile rimettersi in discussione quando si è stati allattati al biberon mediatico pubblicitario della società dei consumi. Un cocktail che somiglia stranamente alla Soma, droga euforizzante descritta da Aldous Huxley ne Il migliore dei mondi (Brave New World, 1932, che annunciava un potere psicobiologico!). Anche il mondo intellettuale, troppo impegnato a risolvere delle questioni bizantine e ancora abbagliato dalla scienza, avrà molte difficoltà ad ammettere di essere passato cos" lontano da un'impresa di civiltà cos" importante. E' difficile, per gli Occidentali, prendere in considerazione un altro modo di vita. Ma non dobbiamo dimenticare che il problema non si pone in questi termini per la stragrande maggioranza degli abitanti del globo. 80% degli umani vivono senza automobile, senza frigorifero o ancora senza telefono. 94% degli umani non hanno mai preso l'aereo. Dobbiamo perciò uscire dal nostro quadro di abitanti dei paesi ricchi per ragionare su scala planetaria e considerare l'umanità come una e indivisibile. In mancanza di ciò, saremmo ridotti a ragionare come Maria Antonietta alla vigilia della Rivoluzione francese, incapace di immaginare di potersi spostare senza sedia con il portantino, e che consigliava di mangiare brioche a quelli che non avevano pane.

A dieta

Circa un terzo della popolazione americana è obeso. Gli Americani si sono lanciati alla ricerca del gene dell'obesità per risolvere questo problema in maniera scientifica. Naturalmente la soluzione giusta è adottare una dieta più adeguata. Questo comportamento è del tutto sintomatico della nostra civiltà. Pur di non rimettere in discussione il nostro modo di vita, continuiamo nella nostra fuga in avanti alla ricerca di soluzioni tecniche, per rispondere ad un problema culturale. Inoltre, questa folle fuga in avanti non fa che accelerare il movimento distruttivo. In effetti, anche se la decrescita ci sembra impossibile, la barriera si trova più nelle nostre teste che nelle reali difficoltà a metterla in pratica. E' necessario far uscire l'opinione pubblica dal condizionamento ideologico fondato sulla fede nella scienza, le novità, il progresso, i consumi, la crescita, cioè da tutto ciò che condiziona quest'evoluzione.

La priorità è quindi di impegnarsi su scala individuale nella semplicità volontaria. E' cambiando noi stessi che trasformeremo il mondo.

Definizione di un concetto

Se torniamo alla definizione del concetto "sviluppo sostenibile", cioè: "ciò che permette di rispondere ai bisogni delle generazioni attuali, senza con ciò compromettere la capacità delle generazioni future di rispondere ai loro propri bisogni", allora il termine appropriato per i paesi ricchi è proprio la "decrescita sostenibile".


Campagna per la decrescita.

I primi 10 consigli per entrare nella resistenza con la decrescita

di Bruno Clémentine e Vincent Cheynet

da www.casseursdepub.org, 25 novembre 2004

1. Liberarsi dalla televisione

Per entrare nella decrescita, la prima tappa è prendere coscienza dei propri condizionamenti. Il primo portatore di condizionamenti è la televisione. La nostra prima scelta sarà di liberarsene. Cos" come la società dei consumi riduce l'uomo alla sua dimensione economica - consumatore -, la televisione riduce l'informazione alla superficie, l'immagine. Media della passività, quindi della sottomissione, non smette di far regredire gli individui. Per sua natura, la televisione richiede la rapidità, non tollera i discorsi approfonditi. La televisione inquina al momento della sua produzione, durante l'utilizzo e poi come rifiuto.

Noi le preferiamo la nostra vita interiore, la creatività, imparare a fare musica, fare ed assistere a spettacoli viventiÖPer tenerci informati abbiamo delle scelte: la radio,

la lettura, il teatro, il cinema, incontrare gente, ecc.

2. Liberarsi dall'automobile

Più che un oggetto, l'automobile è il simbolo della società dei consumi. Riservata al 20% degli abitanti della terra, i più ricchi, porta inesorabilmente al suicidio ecologico per la distruzione delle risorse naturali (necessarie per la sua produzione) o per i diversi tipi di inquinamento tra cui l'aumento dell'effetto serra. L'automobile provoca guerre per il petrolio di cui l'ultima per data è il conflitto irakeno. L'automobile porta anche come conseguenza una guerra sociale che provoca un morto ogni ora solamente in Francia. L'automobile è uno dei flagelli ecologici e sociali del nostro tempo.

Noi le preferiamo: il rifiuto dell'ipermobilità. La volontà di abitare vicino al luogo di lavoro. Camminare a piedi, andare in bicicletta, prendere il treno, utilizzare i trasporti collettivi.

3. Liberarsi dal telefonino

Il sistema genera dei bisogni che diventano delle dipendenze. Ciò che è artificiale diventa naturale. Come numero di oggetti della società dei consumi, il telefonino è un falso bisogno creato apposta dalla pubblicità. "Con la telefonia mobile, siete mobilitabili in un istante". Assieme al telefonino butteremo via i forni a micro-onde, le falciatrici a motore, e tutti gli oggetti inutili della società dei consumi.

Noi preferiamo al telefonino la posta, la parola, ma soprattutto cercheremo di vivere per noi stessi invece di cercare di riempire il vuoto esistenziale con degli oggetti.

4. Rifiutare l'aereo

Rifiutare di prendere l'aereo, è prima di tutto rompere con l'ideologia dominante che considera un diritto inalienabile l'utilizzo di questo mezzo di trasporto. Però, meno del 10% degli esseri umani hanno già preso l'aereo. Meno dell'1% lo utilizza tutti gli anni. Questo 1%, la classe dominante, sono i ricchi dei paesi ricchi. Sono loro che detengono i media e fissano le regole della società. L'aereo è il mezzo di trasporto più inquinante per passeggero trasportato. A causa dell'alta velocità, sballa la nostra percezione delle distanze.

Noi preferiamo andare meno lontano, ma meglio, a piedi, sul carretto a cavallo, in bicicletta o in treno, in barca a vela, con ogni veicolo senza motore.

5. Boicottare la grande distribuzione

La grande distribuzione è inscindibile dall'automobile. Disumanizza il lavoro, inquina e sfigura le periferie, uccide i centri delle città, favorisce l'agricoltura intensiva, centralizza il capitale, ecc. La lista dei flagelli che rappresenta è troppo lunga per essere elencata qui.

Noi le preferiamo: prima di tutto consumare meno, l'autoproduzione alimentare (l'orto), poi le botteghe di quartiere, le cooperative, l'artigianato. Questo ci porterà anche a consumare meno e a rifiutare i prodotti industriali.

6. Mangiare poca carne

O meglio, mangiare vegetariano. Le condizioni di vita riservate agli animali di allevamento rivela la barbarie tecnoscientifica della nostra civiltà. L'alimentazione carnea è anche un grosso problema ecologico. E meglio nutrirsi direttamente dei cereali che utilizzare il terreno agricolo per nutrire animali destinati al macello. Mangiare vegetariano, o comunque mangiare meno carne ci porta anche una miglior igiene alimentare, meno ricca in calorie.

7. Consumare prodotti locali

Quando si compra una banana delle Antille, si consuma anche il petrolio necessario al suo trasporto verso i nostri paesi ricchi. Produrre e consumare localmente è una delle condizioni migliori per entrare nel movimento di decrescita, non in senso egoistico, chiaramente, ma al contrario perché ogni popolazione ritrovi la sua capacità di autosufficienza. Per esempio, quando un contadino africano coltiva delle noci di cacao per arricchire qualche dirigente corrotto, non coltiva di che nutrirsi e nutrire la sua comunità

8. Politicizzarsi

La società dei consumi ci lascia la scelta: tra Pepsi-Cola e Coca-Cola o tra caffè Lavazza e caffè "equo" di Max Havelaar. Ci lascia delle scelte da consumatori. Il mercato non è né di destra, né di centro né di sinistra: lui impone la sua dittatura finanziaria avendo come obiettivo di rifiutare qualunque contraddittorio o conflitto di idee. La realtà sarà l'economia: gli umani si sottomettano. Questo totalitarismo è paradossalmente imposto in nome della libertà, di consumare. Lo status di consumatore è addirittura superiore a quello di essere umano..

Noi preferiamo politicizzarci, come persone, nelle associazioni, nei partiti, per combattere la dittatura delle fabbriche. La democrazia esige una conquista permanente. Muore quando viene abbandonata dai cittadini. E' ora di propagare l'idea della decrescita.

9. Sviluppo della persona

La società dei consumi ha bisogno di consumatori servili e sottomessi che non desiderino più essere degli umani a tutto tondo. Questi non possono più esistere che grazie all'abbrutimento, per esempio davanti alla televisione, ai "divertimenti" o al consumo di psicofarmaci (ProzacÖ)

Al contrario, la decrescita economica ha come condizione uno sviluppo sociale ed umano. Arricchirsi sviluppando la propria vita interiore. Privilegiare la qualità della relazione con se stessi e con gli altri a detrimento della volontà di possedere degli oggetti che a loro volta vi possiederanno. Cercare di vivere in pace, in armonia con la natura, non cedere alla propria violenza, ecco la vera forza.

10. Coerenza

Le idee sono fatte per essere vissute. Se non siamo capaci di metterle in pratica, serviranno solo a far vibrare il nostro ego. Siamo tutti a bagno nel compromesso, ma cercheremo di tendere alla maggior coerenza. E' la scommessa della credibilità dei nostri discorsi. Cambiamo ed il mondo cambierà.

Questa lista sicuramente non è esaustiva. A voi completarla. Ma se non ci impegniamo a tendere verso la ricerca della coerenza, ci ridurremo a lamentarci ipocritamente sulle conseguenze del nostro stile di vita. Evidentemente non c'è un modo per vivere "immacolati" sulla Terra. Siamo tutti a bagno nel compromesso, e va bene cos".


MANIFESTO DEL MOVIMENTO PER LA DECRESCITA FELICE

Maurizio Pallante

09-09-2004

Un vasetto di yogurt prodotto industrialmente e acquistato attraverso i circuiti commerciali, per arrivare sulla tavola dei consumatori percorre da 1.200 a 1.500 chilometri, costa 10 euro al litro, ha bisogno di contenitori di plastica e di imballaggi di cartone, subisce trattamenti di conservazione che spesso non lasciano sopravvivere i batteri da cui è stato formato.

Lo yogurt autoprodotto facendo fermentare il latte con opportune colonie batteriche non deve essere trasportato, non richiede confezioni e imballaggi, costa il prezzo del latte, non ha conservanti ed è ricchissimo di batteri.

Lo yogurt autoprodotto è pertanto di qualità superiore rispetto a quello prodotto industrialmente, costa molto di meno, non comporta consumi di fonti fossili e di conseguenza contribuisce a ridurre le emissioni di CO2, non produce di rifiuti.

Tuttavia questa scelta, che migliora la qualità della vita di chi la compie e non genera impatti ambientali, comporta un decremento del prodotto interno lordo: sia perché lo yogurt autoprodotto non passa attraverso la mediazione del denaro, quindi fa diminuire la domanda di merci, sia perché non richiede consumi di carburante, quindi fa diminuire la domanda di merci, sia perché non fa crescere i costi dello smaltimento dei rifiuti.

Ciò disturba i ministri delle finanze perché riduce il gettito dell'IVA e delle accise sui carburanti; i ministri dell'ambiente perché di conseguenza si riducono gli stanziamenti dei loro bilanci e non possono più sovvenzionare le fonti energetiche alternative nell'ottica dello ´sviluppo sostenibileª; i sindaci, i presidenti di regione e di provincia perché non possono più distribuire ai loro elettori i contributi statali per le fonti alternative; le aziende municipalizzate e i consorzi di gestione rifiuti perché diminuiscono gli introiti delle discariche e degli inceneritori; i gestori degli inceneritori collegati a reti di teleriscaldamento, perché devono rimpiazzare la carenza di combustibile derivante da rifiuti (che ritirano a pagamento) con gasolio (che devono comprare).

Ma non è tutto.

I fermenti lattici contenuti nello yogurt fresco autoprodotto arricchiscono la flora batterica intestinale e fanno evacuare meglio. Le persone affette da stitichezza possono iniziare la loro giornata leggeri come libellule. Pertanto la qualità della loro vita migliora e il loro reddito ne ha un ulteriore beneficio, perché non devono più comprare purganti. Ma ciò comporta una diminuzione della domanda di merci e del prodotto interno lordo. Anche i purganti prodotti industrialmente e acquistati attraverso i circuiti commerciali, per arrivare nelle case dei consumatori percorrono migliaia di chilometri. La diminuzione della loro domanda comporta dunque anche una diminuzione dei consumi di carburante e un ulteriore decremento del prodotto interno lordo.

Ciò disturba una seconda volta i ministri delle finanze e dell'ambiente, i sindaci, i presidenti di regione e di provincia per le ragioni già dette.

Ma non è tutto.

La diminuzione dei rifiuti e della domanda di yogurt e di purganti prodotti industrialmente, comporta una riduzione della circolazione degli autotreni che li trasportano e, quindi, una maggiore fluidità del traffico stradale e autostradale. Gli altri autoveicoli possono circolare più velocemente e si riducono gli intasamenti. Di conseguenza migliora la qualità della vita. Ma diminuiscono anche i consumi di carburante e si riduce il prodotto interno lordo.

Ciò disturba una terza volta i ministri delle finanze e dell'ambiente, i sindaci, i presidenti di regione e di provincia per le ragioni già dette.

Ma non è tutto.

La diminuzione dei camion circolanti su strade e autostrade diminuisce statisticamente i rischi d'incidenti. Questo ulteriore miglioramento della qualità della vita indotto dalla sostituzione dello yogurt prodotto industrialmente con yogurt autoprodotto, comporta una ulteriore diminuzione del prodotto interno lordo, facendo diminuire sia le spese ospedaliere, farmaceutiche e mortuarie, sia le spese per le riparazioni degli autoveicoli incidentati e gli acquisti di autoveicoli nuovi in sostituzione di quelli non più riparabili.

Ciò disturba una quarta volta i ministri delle finanze e dell'ambiente, i sindaci, i presidenti di regione e di provincia per le ragioni già dette.

Il Movimento per la Decrescita Felice si propone di promuovere la più ampia sostituzione possibile delle merci prodotte industrialmente ed acquistate nei circuiti commerciali con l'autoproduzione di beni. In questa scelta, che comporta una diminuzione del prodotto interno lordo, individua la possibilità di straordinari miglioramenti della vita individuale e collettiva, delle condizioni ambientali e delle relazioni tra i popoli, gli Stati e le culture.

La sua prospettiva è opposta a quella del cosiddetto ´sviluppo sostenibileª, che continua a ritenere positivo il meccanismo della crescita economica come fattore di benessere, limitandosi a proporre di correggerlo con l'introduzione di tecnologie meno inquinanti e auspicando una sua estensione, con queste correzioni, ai popoli che non a caso vengono definiti ´sottosviluppatiª.

Nel settore cruciale dell'energia, lo ´sviluppo sostenibileª, a partire dalla valutazione che le fonti fossili non sono più in grado di sostenere una crescita durevole e una sua estensione a livello planetario, ne propone la sostituzione con fonti alternative. Il Movimento per la Decrescita Felice ritiene invece che questa sostituzione debba avvenire nell'ambito di una riduzione dei consumi energetici, da perseguire sia con l'eliminazione di sprechi, inefficienze e usi impropri, sia con l'eliminazione dei consumi indotti da un'organizzazione economica e produttiva finalizzata alla sostituzione dell'autoproduzione di beni con la produzione e la commercializzazione di merci.

Questa prospettiva comporta che nei paesi industrializzati si riscoprano e si valorizzino stili di vita del passato, irresponsabilmente abbandonati in nome di una malintesa concezione del progresso, mentre invece hanno ampie prospettive di futuro non solo nei settori tradizionali dei bisogni primari, ma anche in alcuni settori tecnologicamente avanzati e cruciali per il futuro dell'umanità, come quello energetico, dove la maggiore efficienza e il minor impatto ambientale si ottengono con impianti di autoproduzione collegati in rete per scambiare le eccedenze.

Nei paesi lasciati in stato di indigenza dalla rapina delle risorse che sono state necessarie alla crescita economica dei paesi industrializzati, un reale e duraturo miglioramento della qualità della vita non potrà esserci riproducendo il modello dei paesi industrializzati, ma solo con una crescita dei consumi che non comporti una progressiva sostituzione dei beni autoprodotti con merci prodotte industrialmente e acquistate. Una più equa redistribuzione delle risorse a livello mondiale non si potrà avere se la crescita del benessere di questi popoli avverrà sotto la forma crescita del prodotto interno lordo, nemmeno se fosse temperata dai correttivi ecologici dello ´sviluppo sostenibileª. Che del resto è un lusso perseguibile solo da chi ha già avuto più del necessario da uno sviluppo senza aggettivi.

Per aderire al movimento è sufficiente

- autoprodurre lo yogurt o qualsiasi altro bene primario: la passata di pomodoro, la marmellata, il pane, il succo di frutta, le torte, l'energia termica e l'energia elettrica, oggetti e utensili, le manutenzioni ordinarie;

- fornire i servizi alla persona che in genere vengono delegati a pagamento: assistenza dei figli nei primi anni d'età, degli anziani e dei disabili, dei malati e dei morenti.

L'autoproduzione sistematica di un bene o lo svolgimento di un servizio costituisce il primo grado del primo livello di adesione. I livelli successivi del primo grado sono commisurati al numero dei beni autoprodotti e dei servizi alla persona erogati. L'autoproduzione energetica vale il doppio.

Il secondo grado di adesione è costituito dall'autoproduzione di tutta la filiera di un bene: dal latte allo yogurt; dal grano al pane, dalla frutta alla marmellata, dai pomodori alla passata, dalla gestione del bosco al riscaldamento. Anche nel secondo grado i livelli sono commisurati al numero dei beni autoprodotti e la filiera energetica vale il doppio.

La sede del Movimento per la Decrescita Felice viene stabilita presso... (preferibilmente un'azienda agricola, o un laboratorio artigianale, o un servizio autogestito, o una cooperativa di autoproduzione, una bottega del commercio equo e solidale, ecc.).


Il Sud avrà diritto alla decrescita?

di Serge Latouche

Le Monde Diplomatique, nov. 2004

Seguendo la falsariga dei pubblicitari, i media chiamano ´concettoª qualsiasi progetto che si limiti al lancio di un nuovo gadget, ivi compreso di carattere culturale. Non c'è da stupirsi, in queste condizioni, che sia stata posta la questione del contenuto del ´nuovo concettoª di decrescita. Correndendo il rischio di deludere, ripetiamo qui che la decrescita non è un concetto, nel senso tradizionale del termine, e che propriamente parlando non esiste una ´teoria della decrescitaª, come gli economisti hanno potuto elaborare delle teorie della crescita.

La decrescita è semplicemente uno slogan, lanciato da coloro che procedono a una critica radicale dello sviluppo, con lo scopo di spezzare il conformismo economicista e di delineare un progetto di ricambio per una politica del dopo-sviluppo (1).

La decrescita in quanto tale non costituisce un'alternativa concreta, ma è piuttosto la matrice che permette di costruire delle alternative (2). Si tratta quindi di una proposta necessaria per riaprire gli spazi dell'inventitività e della creatività, bloccati dal totalitarismo economicista, sviluppista e progressista. Attribuire ai suoi fautori il progetto di una ´decrescita ciecaª, cioè di una crescita negativa senza rimettere in questione il sistema, e sospettarli, come fanno alcuni ´alter-economistiª, di voler impedire ai paesi del Sud di risolvere i loro problemi, significa essere sordi se non addirittura in malafede.

Il progetto di costruzione, al Nord come al Sud, di società conviviali autonome ed econome implica, per parlare con rigore, più una ´a-crescitaª, come si parla di a-teismo, che una de-crescita. Si tratta d'altronde molto precisamente di abbandonare una fede e una religione: quella dell'economia. Di conseguenza, bisogna senza tregua decostruire l'ipostasi dello sviluppo.

Malgrado tutti i fallimenti accumulati, il legame irrazionale con il concetto-feticcio di ´sviluppoª, svuotato di ogni contenuto e ri-qualificato in mille modi, traduce l'impossibilità di tagliare i ponti con l'economicismo e, alla fine, con la crescita stessa.

Il paradosso è che gli ´alter-economistiª, spinti in posizione di difesa, finiscono per riconoscere tutti i misfatti della crescita, pur continuando a volerne far ´beneficiareª i paesi del sud. E si limitano, al nord, alla sua ´decelerazioneª. Un numero crescente di militanti ´altermondialistiª concedono ormai che la crescita che abbiamo conosciuto non è né sostenibile, né auspicabile, né durevole sia socialmente che ecologicamente. Tuttavia, la decrescita non sarebbe una parola d'ordine valida e il Sud dovrebbe avere diritto a un ´tempoª di questa maledetta crescita, per il fatto di non aver conosciuto lo sviluppo.

Messi all'angolo nell'impasse tra ´né crescita né decrescitaª, ci rassegniamo a una problematica ´decelerazione della crescitaª che dovrebbe, secondo la pratica sperimentata nei concilii, mettere tutti d'accordo su un malinteso. Però, una crescita ´decelerataª condanna a escludersi dai vantaggi di una società conviviale, autonoma ed economa, fuori crescita, senza tuttavia conservare il solo vantaggio di una crescita vigorosa ingiusta e distruttrice dell'ambiente: vale a dire l'occupazione.

Se rimettere in causa la società di crescita getta nella disperazione il mondo operaio, come alcuni sostengono, non è però una riqualificazione di uno sviluppo svuotato della sua sostanza economica (´uno sviluppo senza crescitaª) che renderà speranza e gioia di vivere ai drogati di una crescita mortifera. Per capire perché la costruzione di una società fuori crescita è anche necessaria e auspicabile al Sud oltreché al Nord, bisogna ritornare all'itinerario degli ´obiettori di crescitaª. Il progetto di una società autonoma ed economa non è nato ieri, ma si è costruito nel filone della critica allo sviluppo. Da più di 40 anni, una piccola ´internazionaleª anti o post sviluppista analizza e denuncia i misfatti dello sviluppo, proprio al Sud (3). E questo sviluppo, dall'Algeria di Huari Bumedien alla Tanzania di Julius Nyerere, non era soltanto capitalista o ultra-liberista, ma ufficialmente ´socialistaª, ´partecipativoª, ´endogenoª, ´self reliant/aucentratoª, ´popolare e solidaleª. Sovente era anche messo in opera o appoggiato dalle organizzazioni non governative (Ong) umaniste. Malgrado alcune micro-realizzazioni significative, il suo fallimento è stato considerevole e il programma che doveva portare alla ´realizzazione di ogni essere umano e di tutti gli esseri umaniª è crollato nella corruzione, nell'incoerenza e nei piani di aggiustamento strutturale, che hanno trasformato la povertà in miseria.

Questo problema concerne le società del Sud, che abbiano intrapreso la costruzione di economie di crescita, per evitare di ritrovarsi più tardi nell'impasse alla quale questa avventura le condanna. Per loro si tratterebbe, sempre che siano ancora in tempo, di ´de-svilupparsiª, cioè di levare gli ostacoli che si ergono sulla loro strada, per realizzarsi altrimenti. Non si tratta però in alcun caso di fare qui l'elogio senza sfumature dell'economia informale. In primo luogo, perché è chiaro che la decrescita nel Nord è una condizione per la realizzazione di tutte le alternative nel Sud. Fino a quando l'Etiopia e la Somalia saranno condannate, nei momenti in cui la carestia è forte, a esportare prodotti alimentari per i nostri animali domestici, fino a quando ingrasseremo il nostro bestiame da carne con delle gallette di soja prodotte dai terreni conquistati con il fuoco nella foresta amazzonica, soffocheremo qualsiasi tentativo che permetta una vera autonomia al Sud (4). Osare la decrescita nel Sud, significa tentare di innescare un movimento a spirale per mettersi sull'orbita del circolo virtuoso delle ´8 Rª: Rivalutare, Riconcettualizzare, Ristrutturare, Rilocalizzare, Redistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare. Questa spirale introduttiva potrebbe organizzarsi con altre ´Rª, contemporaneamente alternative e complementari, come Rompere, Riannodare, Ritrovare, Reintrodurre, Recuperare ecc. Rompere con la dipendenza economica e culturale nei confronti del nord. Riannodare con il filo di una storia interrotta dalla colonizzazione, dallo sviluppo e dalla mondializzazione. Ritrovare e riappropriarsi di un'identità culturale propria. Reintrodurre i prodotti specifici dimenticati o abbandonati e i valori ´antieconomiciª legati alla loro storia. Recuperare le tecniche e i know how tradizionali.

Se, al Nord, vogliamo davvero manifestare una preoccupazione di giustizia più forte che la sola e necessaria riduzione dell'impatto ecologico, forse bisognerà dare spazio a un altro debito il cui rimborso è a volte richiesto dai popoli indigeni stessi: Restituire. La restituzione dell'onore perduto (quella del patrimonio saccheggiato è molto più problematica) potrebbe consistere nello stabilire una partnership di decrescita con il Sud.

Al contrario, mantenere, o ancora peggio, introdurre la logica della crescita al Sud con il pretesto di farlo uscire dalla miseria creata da questa stessa crescita non può che occidentalizzarlo ancora di più. C'è in questa proposta che deriva da un buon sentimento - voler ´costruire scuole, centri di cura, reti di acqua potabile e rinnovare l'autonomia alimentareª (5) - un etnocentrismo banale che è precisamente quello dello sviluppo. Di due cose l'una: o viene chiesto ai paesi interessati cosa vogliono, attraverso i loro governi o con inchieste realizzate presso un'opinione manipolata dai media, e allora la risposta sarà senza incertezze; prima di quei ´bisogni fondamentaliª che il paternalismo occidentale attribuisce loro, sono richiesti condizionatori, telefonini, frigoriferi e soprattutto automobili (Volkswagen e General Motors prevedono di fabbricare 3 milioni di auto l'anno in Cina nei prossimi anni e Peugeot, per non restare indietro, sta facendo investimenti giganteschi...); aggiungiamo, certo, per la gioia dei loro dirigenti, centrali nucleari, aerei da guerra e carri armati Amx... Oppure ascoltiamo il grido di dolore di un leader contadino guatemalteco: ´lasciate in pace i poveri e non parlate più di sviluppoª (6). Scommettere sull'invenzione sociale Tutti gli animatori di movimenti popolari, da Vandana Shiva in India a Emmanuel Ndione in Senegal, dicono la stessa cosa. Difatti, se incontestabilmente tutti i paesi del Sud vogliono ´ritrovare l'autonomia alimentareª, questo significa che l'avevano persa. In Africa, fino agli anni '60, prima della grande offensiva dello sviluppo, questa autonomia esisteva ancora. Non è forse l'imperialismo della colonizzazione, dello sviluppo e della mondializzazione che ha distrutto questa autosufficienza e che ogni giorno aggrava un po' di più la dipendenza? Prima di essere massicciamente inquinata dai rifiuti industriali, l'acqua, che venisse o meno dal rubinetto, era potabile. Per quel che riguarda poi le scuole e i centri di cura, siamo cos" sicuri che siano le istituzioni più adatte per introdurre e difendere cultura e salute? Ivan Illich un tempo aveva avanzato dei seri dubbi sulla loro pertinenza, anche per il Nord (7) .

´Ciò che continuiamo a chiamare aiuto - sottolinea a giusto titolo l'economista iraniano Majid Rahnema - non è che una dipendenza destinata a rafforzare le strutture generatrici della miseria. Invece, le vittime spoliate dei loro veri beni non vengono mai aiutate quando cercano di smarcarsi dal sistema produttivo globalizzato per trovare alternative conformi alle proprie aspirazioniª (8).

Tuttavia, l'alternativa allo sviluppo, nel Sud come nel Nord, non potrebbe essere un impossibile ritorno indietro, né l'imposizione di un modello uniforme di ´a-crescitaª. Per gli esclusi, per i naufraghi dello sviluppo, non può essere altro che una sorta di sintesi tra la tradizione perduta e la modernità inaccessibile. Formula paradossale che riassume bene la doppia sfida. Possiamo scommettere su tutta la ricchezza dell'inventività sociale per coglierla, una volta che la creatività e l'ingegnosità saranno liberate dalla gabbia economicista e sviluppista. Il dopo-sviluppo, d'altronde, è necessariamente plurale.

Si tratta della ricerca di modi di realizzazione collettiva nei quali non sarà privilegiato un benessere distruttore di ambiente e legami sociali.

L'obiettivo di vivere una buona vita può venire declinato in molteplici modi, a seconda dei contesti. In altri termini, si tratta di ricostruire/ritrovare delle nuove culture. Se siamo per forza obbligati a dargli un nome, possiamo chiamare questo obiettivo umran (realizzazione) come lo fa Ibn Kaldòn (9), swadeshi-sarvodaya (miglioramento delle condizioni sociali di tutti) come lo fa Gandhi, bamtaare (stare bene assieme) come fanno i Toucouleurs, o fudnaa/gabbina (fascino di una persona ben nutrita e senza preoccupazioni) come presso i Borana dell'Etiopia (10). L'importante è segnare il punto di rottura con l'impresa di distruzione che si perpetua sotto l'egida dello sviluppo o della mondializzazione. Queste creazioni originali, di cui è possibile trovare qui e là degli avvii di realizzazione, aprono la speranza per un dopo-sviluppo.

Senza alcun dubbio, per mettere in opera queste politiche di ´decrescitaª, c'è bisogno come preliminare, al Sud come al Nord, di una vera e propria cura di disintossicazione collettiva. La crescita, in effetti, è stata ad un tempo un virus perverso e una droga. Majid Rahnema afferma giustamente: ´per infiltrarsi negli spazi locali, il primo Homo oeconomicus aveva adottato due metodi che non possono che ricordare l'uno l'azione del retrovirus Hiv e l'altra i mezzi impiegati dai trafficanti di drogaª (11). Si tratta della distruzione delle difese immunitarie e di creazione di nuovi bisogni. Spezzare le catene della droga sarà molto difficile, anche perché è nell'interesse dei trafficanti (cioè la nebulosa delle società multinazionali) di mantenerci in stato di schiavitù. Tuttavia, abbiamo buone speranze di essere sollecitati dallo choc salutare della necessità.


Decrescita, una parola-bomba

di Paul Ariès

Institut d'études économiques et sociales pour la décroissance soutenable, aprile 2005

I partigiani della decrescita non sono degli eco-pessimisti, né degli archeo-nostalgici che sognano un ritorno alla società del passato. Non si tratta di tornare indietro verso uno pseudo paradiso perduto, si tratta di deviare collettivamente. [...] Sappiamo che questo nuovo paradigma scombussolerà le filiazioni politiche, ideologiche, filosofiche, per redistribuire le carte e le alleanze necessarie per ripensare il mondo.

La parola d'ordine della decrescita ha incontrato nello spazio di un anno un notevole successo. Ma denunciare gli errori della nostra società non è sufficiente, dobbiamo difendere i valori di condivisione e di democrazia: la decrescita deve essere compresa fino in fondo come un'occasione per tutti e non come un impoverimento. Dobbiamo anche portare questa parola di dissenso, che i nostri avversari sarebbero troppo felici di vederci abbandonare, nella sfera politica.

Sappiamo che non esistono sviluppo e crescita senza fine. Al contrario, pensiamo che la nostra umanità non emerga se non quando siamo capaci di stabilire dei limiti. Ma non è sufficiente essere contro la crescita economica e le società sviluppiste, dobbiamo dire a partire da quali punti di vista, fondandoci su quali valori, noi vogliamo costruire un altro tipo di società. La questione non è solo essere in favore della decrescita, ma sapere quali contenuti vogliamo dargli, poiché, se esiste una teoria critica della crescita, non esiste una teoria vera e propria della decrescita. Questa parola d'ordine è una parola-bomba per polverizzare il pensiero economista dominante, che non si limita al neoliberismo.

Il rapido successo della parola d'ordine della decrescita è dovuto alla coesistenza delle quattro crisi maggiori del sistema: la crisi ambientale (deregolamentazione del clima), la crisi sociale (aumento delle diseguaglianze), la crisi politica (disaffezione e deriva della democrazia), la crisi dell'essere umano (perdita di senso). Il sistema sviluppista schiaccia l'uomo cos" come schiaccia i legami sociali e distrugge la natura. La parola d'ordine della decrescita è quindi un tentativo per avviare l'uscita da questa quadrupla crisi. Il termine ha degli inconvenienti: è negativo, flirta persino talvolta con immagini ambigue. Quella secondo cui ´la terra non mente maiª del maresciallo Pétain, o le dichiarazioni del barone Seillière: ´Bisogna fischiare la ricreazioneª. Siamo quindi su uno spartiacque. Ma la decrescita ha un vantaggio considerevole sui concorrenti: è molto difficilmente reintegrabile. Attacca frontalmente il capitalismo e la società di consumo nella loro ideologia ma anche nel loro immaginario, senza limitarsi alle loro conseguenze.

La condivisione al centro

Di fronte al concetto di decrescita, alcuni economisti altermondialisti hanno sviluppato recentemente l'idea di una ´decelerazioneª della crescita (1). Questo termine ha il limite di voler stare contemporaneamente sia fuori che dentro. La ´decelerazioneª salvaguarderebbe i vantaggi della crescita ma elimnerebbe i suoi inconvenienti. Nel tentativo di salvare capre e cavoli, rinforza l'illusione che si possa fare la stessa cosa con meno mezzi. La ´decelerazioneª ci relega nell'ambito del quantitativo, del contabile, dell'economicismo. La decrescita pone il problema del contenuto delle ricchezze, quindi quello dell'utilità sociale dei beni.

Non dobbiamo temere di riaffermare senza dubbi che la decrescita non è la decrescita di tutti né per tutti. Si applica ai ´supersviluppatiª, all'´ex-crescitaª, alle società e alle classi sociali la cui obesità e bulimia sono conseguenze della captazione delle ricchezze dei più deboli e allo stesso tempo un processo di auto-distruzione. La questione della condivisione, quindi della democrazia, precede quella dell'economia. A partire da l", il movimento in favore della decrescita deve lavorare all'articolazione di tre livelli di resistenza: il livello della resistenza individuale, la semplicità volontaria; il livello delle alternative collettive, che permettono di inventare altri modi di vivere per generalizzarli; il livello politico, cioè quello dei dibattiti e delle scelte collettive fondamentali della società. Non dobbiamo abbandonare il campo politico ai nostri avversari: dobbiamo essere dei guastafeste dello sviluppo a tutto tondo. Se non pratichiamo il dissenso politico, base della democrazia, nessuno lo farà al nostro posto. Lo stesso concetto di decrescita sarà svuotato del suo senso e strumentalizzato da personaggi interessati. Esistono oggi le condizioni perché il nostro discorso sia ascoltato e faccia breccia. E' nostro dovere di cittadini di impegnarci e partecipare al processo democratico. Dobbiamo spiegare agli esclusi e ai delusi della crescita, a tutti i senza-voce, che la vera alternativa non è più tra la nostra crescita e la decrescita, ma tra recessione e decrescita.

No al catastrofismo

Dobbiamo perciò fare attenzione a qualsiasi discorso pessimista come quello sulla petroapocalissi, cioè la fine del petrolio vista come un caos ineluttabile. Non solo questo atteggiamento è pericoloso perché smobilita e favorisce i comportamenti cinici, ma soprattutto, lascia credere che sceglieremmo la decrescita in mancanza di meglio. Anche se una crescita illimitata fosse possibile, soprattutto se fosse possibile, noi saremmo ancora di più obiettori della crescita per poter essere semplicemente degli esseri umani, per non soccombere ai fantasmi dell'onnipotenza. Non difendiamo la decrescita con il linguaggio del necessario, ma con quello del politico. Il catastrofismo alla Yves Cochet (2), deputato verde ed ex ministro dell'ambiente, fa balenare l'idea che saremmo condannati alla decrescita. A prescindere dalle buone ragioni ecologiche, noi dobbiamo rifiutare prima di tutto l'alienazione di una società che riduce l'uomo alla sua sola dimensione economica.

I partigiani della decrescita non sono degli eco-pessimisti, né degli archeo-nostalgici che sognano un ritorno alla società del passato. Non si tratta di tornare indietro verso uno pseudo paradiso perduto, si tratta di deviare collettivamente. Non siamo di fronte a nuovi puritani che giocano a più-decrescente-di-me-muori! Non vogliamo rimpiazzare il politico con il giudizio morale né ridurre la morale al religioso. Non andiamo incontro alle persone pronunciando anatemi: la decrescita non appartiene a nessuno. Sappiamo che questo nuovo paradigma scombussolerà le filiazioni politiche, ideologiche, filosofiche, per redistribuire le carte e le alleanze necessarie per ripensare il mondo. Ma non partiamo per la battaglia a mani vuote: sappiamo per esempio che sarà necessario arrivare a una rilocalizzazione dell'economia. La nostra decrescita la vogliamo conviviale, immediata e socialmente giusta.


Per una società della decrescita >

di Serge Latouche (Le Monde Diplomatique)

´Sarebbe senz'altro una bella soddisfazione poter mangiare alimenti sani, vivere in un ambiente equilibrato e meno rumoroso, non subire più i condizionamenti del traffico ecc.ª

Jacques Ellul (1)

Il 14 febbraio 2002, a Silver Spring, davanti ai responsabili americani della meteorologia, Gorge W. Bush ha dichiarato: ´La crescita è la chiave del progresso ambientale, in quanto fornisce le risorse che consentono di investire nelle tecnologie appropriate: è la soluzione, non il problemaª (2). Ma di fondo, questa posizione ´pro-crescitaª è condivisa dalla sinistra, compresi anche molti ´altromondistiª che nella crescita vedono la soluzione del problema sociale, attraverso la creazione di posti di lavoro e una più equa ripartizione dei redditi.

Un esempio è quello di Fabrice Nicolino, già cronista ecologico del settimanale parigino Politis, vicino al movimento altromondista, recentemente uscito dalla rivista a causa di un conflitto interno ... sulla riforma delle pensioni. Il dibattito seguito a quest'episodio è rivelatore del disagio in seno alla sinistra (3). Secondo il parere di un lettore, il conflitto è nato perché qualcuno ´ha osato contrapporsi a una sorta di pensiero unico, comune a quasi tutta la classe politica francese, per la quale la nostra felicità deve per forza passare per l'aumento della crescita, della produttività, del potere d'acquisto e quindi dei consumi (4)ª. Dopo alcuni decenni di sprechi frenetici, siamo entrati a quanto pare in un'area di perturbazioni, sia in senso proprio che figurato.

Lo sconvolgimento climatico avanza di pari passo con le guerre del petrolio, cui seguiranno quelle per l'acqua (5), ma non solo. Si temono pandemie, e corriamo inoltre il rischio della scomparsa di specie vegetali e animali essenziali in seguito alle prevedibili catastrofi biogenetiche.

In queste condizioni, la società della crescita non è né sostenibile, né auspicabile. » dunque urgente pensare a una società della ´decrescitaª, se possibile serena e conviviale.

La società della crescita si può definire come una società dominata da un'economia improntata, per l'appunto, al principio della crescita, dal quale tende a lasciarsi fagocitare. La crescita fine a se stessa diventa cos" l'obiettivo primario della vita, se non addirittura il solo. Ma una società di questo tipo non può essere sostenibile, in quanto si scontra con i limiti della biosfera. Se si assume come indice dell'impatto ambientale del nostro stile di vita l'´improntaª ecologica, misurata in termini di superficie terrestre, i risultati che emergono sono insostenibili, tanto dal punto di vista dell'equità dei diritti di prelievo sulla natura quanto da quello della capacità di rigenerazione della biosfera. Un cittadino degli Stati uniti sfrutta in media 9,6 ettari di superficie terrestre, un canadese 7,2, un europeo medio 4,5. Siamo lontanissimi dall'uguaglianza planetaria, e più ancora da una civiltà sostenibile, per la quale non potremmo sfruttare più di 1,4 ettari a testa - e per di più con il presupposto che la popolazione rimanga al livello attuale. Per conciliare i due imperativi contraddittori della crescita e del rispetto per l'ambiente, gli esperti pensano di aver trovato la pozione magica nell'ecoefficienza: un concetto cruciale, che rappresenta in verità l'unica base seria dello ´sviluppo sostenibileª. Si tratta di ridurre progressivamente l'impatto ecologico e l'incidenza del prelievo di risorse naturali, per raggiungere un livello compatibile con la capacità di carico accertata del pianeta (7). Indubbiamente, l'efficienza ecologica è notevolmente migliorata; ma poiché la corsa forsennata alla crescita non si ferma, il degrado globale del pianeta continua ad aggravarsi.

Se da un lato l'impatto ambientale per unità di merci prodotte è diminuito, questo risultato è sistematicamente azzerato dall'aumento quantitativo della produzione: un fenomeno cui si è dato il nome di ´effetto rimbalzoª. » vero che la ´nuova economiaª è relativamente più immateriale (o meno materiale); ma essa non viene a sostituire, bensì a completare l'economia tradizionale. E tutti gli indici dimostrano che a conti fatti il prelievo continua ad aumentare (8).

Infine, ci vuole proprio la fede incrollabile degli economisti ortodossi per pensare che la scienza del futuro possa essere in grado di risolvere tutti i problemi, e per ritenere illimitate le possibilità di sostituire la natura con l'artificio.

Secondo Ivan Illich, la fine programmata della società della crescita non sarebbe necessariamente un male. ´C'è una buona notizia: la rinuncia al nostro modello di vita non è affatto il sacrificio di qualcosa di intrinsecamente buono, per timore di incorrere nei suoi effetti collaterali nocivi - un po' come quando ci si astiene da una pietanza squisita per evitare i rischi che potrebbe comportare. Di fatto, quella pietanza è pessima di per sé, e avremmo tutto da guadagnare facendone a meno: vivere diversamente per vivere meglioª. (9) La società della crescita non è auspicabile per almeno tre motivi: perché incrementa le disuguaglianze e le ingiustizie; perché dispensa un benessere largamente illusorio, e perché non offre un tipo di vita conviviale neppure ai ´benestantiª: è un'´antisocietઠmalata della propria ricchezza. Il miglioramento del tenore di vita di cui crede di beneficiare la maggioranza degli abitanti dei paesi del Nord si rivela sempre più un'illusione. Indubbiamente, molti possono spendere di più per acquistare beni e servizi mercantili, ma dimenticano di calcolare una serie di costi aggiuntivi che assumono forme diverse, non sempre monetizzabili, legate al degrado, non quantificabile ma sub"to, della qualità della vita (aria, acqua, ambiente): spese di ´compensazioneª e di riparazione (farmaci, trasporti, intrattenimento) imposte dalla vita moderna, o determinate all'aumento dei prezzi di generi divenuti rari (l'acqua in bottiglie, l'energia, il verde...). Herman Daly ha compilato un indice sintetico, il ´Genuine Progress Indicatorª (Gpi) che rettifica il Prodotto interno lordo tenendo conto dei costi dovuti all'inquinamento e al degrado ambientale.

A partire dal 1970, per gli Stati uniti l'indice del ´progresso genuinoª è stagnante, o addirittura in regresso, mentre quello del Prodotto interno lordo continua registrare aumenti (10). » un peccato che in Francia nessuno ancora si sia preso la briga di fare un calcolo del genere. Con tutta probabilità i risultati sarebbero analoghi.

Difatti, mentre si cresce da un lato, dall'altro si accentuano le perdite. In altri termini, in queste condizioni la crescita è un mito, persino all'interno dell'immaginario dell'economia del benessere, se non della società dei consumi! Ma tutto questo purtroppo non basta a farci scendere dal bolide che ci sta portando diritti contro un muro, per cambiare decisamente rotta. Intendiamoci bene: la decrescita è una necessità, non un ideale in sé. E non può certo essere l'unico obiettivo di una società del dopo-sviluppo, o di un altro mondo possibile. Si tratta di fare di necessità virtù, e di concepire la decrescita per le società del Nord come un fine che ha i suoi vantaggi (11). Adottare la parola d'ordine della decrescita vuol dire innanzitutto abbandonare l'obiettivo insensato di una crescita fine a se stessa. Ma attenzione: il significato di decrescita non è quello di crescita negativa, espressione antinomica e assurda che letteralmente è un po' come dire: ´avanzare retrocedendoª; e che riflette in pieno il dominio del concetto di crescita nell'immaginario.

La difficoltà di tradurre ´decrescitaª in inglese è rivelatrice di questo predominio mentale dell'economicismo, e simmetrica alla difficoltà di esprimere i concetti di crescita o sviluppo (e quindi ovviamente anche di decrescita) nelle lingue africane. Come è noto, basta un rallentamento della crescita per allarmare le nostre società con la minaccia della disoccupazione e dell'abbandono dei programmi sociali, culturali e di tutela ambientale, che assicurano un minimo di qualità della vita. Possiamo immaginare gli effetti catastrofici di un tasso di crescita negativo! Cos" come una società fondata sul lavoro non può sussistere senza lavoro, non vi può essere nulla di peggio di una società della crescita senza crescita. Ecco perché la sinistra istituzionale è condannata al social- liberismo, fintanto che non osa affrontare la decolonizzazione dell'immaginario.

La decrescita è concepibile solo nell'ambito di una ´società della decrescitaª, i cui contorni devono essere delineati.

Un primo passo per una politica della decrescita potrebbe essere quello di ridurre, se non sopprimere, l'impatto ambientale di attività tutt'altro che soddisfacenti. Si tratterebbe ad esempio di ridimensionare l'enorme mole degli spostamenti di uomini e merci sul pianeta, con tutte le loro conseguenze negative: si potrebbe parlare di una ´rilocalizzazioneª dell'economia. Non meno importante è ridimensionare la pubblicità più invadente e rumorosa, e contrastare la prassi di accelerare artificialmente l'obsolescenza dei manufatti e la diffusione di prodotti usa e getta, la cui sola giustificazione è quella di far girare sempre più vorticosamente la megamacchina infernale. Tutto ciò rappresenta, nel campo dei consumi materiali, una notevole riserva per la decrescita.

Intesa in questo modo, una società della decrescita non comporta necessariamente un regresso sul piano del benessere. Fin dal 1848 Karl Marx riteneva che i tempi fossero maturi per la rivoluzione sociale; c'erano già le condizioni per il passaggio alla società comunista dell'abbondanza. L'incredibile sovrapproduzione dei cotonifici e di altre manifatture gli sembrava più che sufficiente, una volta abolito il monopolio del capitale, per garantire alla popolazione (o quanto meno a quella occidentale) l'alimentazione, l'alloggio e il vestiario. Eppure la ´ricchezzaª materiale era incomparabilmente inferiore a quella di oggi. Non c'erano macchine né aerei, non esisteva la plastica, e neppure le lavatrici, i frigoriferi, i computer, le biotecnologie, i pesticidi, i fertilizzanti chimici o l'energia atomica! Nonostante gli inauditi effetti dell'industrializzazione, i bisogni erano ancora modesti e il loro soddisfacimento era possibile. La felicità, o almeno la sua base materiale, sembrava a portata di mano.

Per concepire e realizzare una società di decrescita serena dovremo uscire letteralmente dall'economia. O in altri termini, rimettere in discussione il dominio dell'economia su tutti gli altri ambiti della vita, nella teoria come nella pratica, ma soprattutto nelle nostre menti. Una condizione necessaria è la drastica riduzione dell'orario di lavoro imposto, per assicurare a tutti un impiego soddisfacente.

Fin dal 1981 Jacques Ellul, che è stato uno dei primi pensatori di una società della decrescita, aveva fissato per l'orario di lavoro l'obiettivo di un massimo di due ore al giorno (12). Ispirandosi alla Carta ´Consumi e stile di vitaª proposta dal Forum delle organizzazioni non governative (Ong) di Rio, tutto questo si potrebbe sintetizzare in un ´programma delle 6 Rª: Rivalutare, Ristrutturare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare. Questi sei obiettivi interdipendenti avvieranno un circolo virtuoso di decrescita serena, conviviale e sostenibile. Si potrebbero aggiungere varie altre R a quelle elencate: rieducare, riconvertire, ridefinire, rimodellare, ripensare ecc.; e naturalmente ´rilocalizzareª. Ma tutte queste ´Rª sono già più o meno incluse nelle prime sei.

Si vede subito quali sono i valori prioritari da anteporre a quelli oggi dominanti: l'altruismo dovrebbe prevalere sull'egoismo, la cooperazione sulla competizione sfrenata, il piacere dello svago sull'ossessione del lavoro, l'importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il gusto del lavoro bello e ben fatto sull'efficientismo produttivista, il ragionevole sul razionale, e cos" via. Il problema è che i valori attualmente dominanti sono sistemici, in quanto suscitati e stimolati dal sistema, che a loro volta contribuiscono a rafforzare. Certo, la scelta di un'etica personale diversa, come quella della semplicità volontaria, può incidere sull'attuale tendenza e minare alla base l'immaginario del sistema. Ma senza una sua radicale contestazione, il cambiamento rischia di rimanere limitato.

Un programma troppo vasto e utopistico? E fino a che punto la transizione potrebbe avvenire senza una rivoluzione violenta? O più esattamente, la necessaria rivoluzione mentale è possibile senza violenza sociale?

Un drastico ridimensionamento dei processi che comportano danni ambientali, cioè della produzione di valori di scambio incorporati in supporti materiali fisici, non comporta necessariamente una limitazione della produzione di valori d'uso per mezzo di prodotti immateriali. Per questi ultimi si potrebbe conservare, almeno in parte, una forma mercantile.

Tuttavia, se il mercato e il profitto possono sussistere come incentivi, non devono più costituire il fondamento del sistema. Si potrebbero concepire misure progressive da adottare in una serie di tappe.

Ma è impossibile dire se saranno accettate passivamente dagli attuali ´privilegiatiª che ne sarebbero colpiti, cos" come dalle stesse vittime del sistema, dal quale sono mentalmente e fisicamente drogate. Comunque, più di quanto possano fare tutti i nostri argomenti, l'inquietante canicola dell'estate 2003, in particolare nell'Europa sud- occidentale, sta a dimostrare la necessità di una società della decrescita. Per l'indispensabile decolonizzazione dell'immaginario potremo largamente contare, negli anni a venire, sulla pedagogia delle catastrofi.


Abbasso lo sviluppo sostenibile! Evviva la decrescita conviviale!

di Serge Latouche

"Non vi è il minimo dubbio che lo sviluppo sostenibile sia uno dei concetti più nocivi."

Nicholas Georgescu-Roegen, (corrispondenza con J. Berry, 1991).(1)

Viene definito ossimoro (o antinomia) una figura retorica consistente nel giustapporre due parole contraddittorie, come "l'oscura chiarezza", cara a Victor Hugo, "che viene giù dalle stelle...". Questo espediente inventato dai poeti per esprimere l'inesprimibile è sempre più utilizzato dai tecnocrati per far credere all'impossibile. Cos", una guerra pulita, una globalizzazione dal volto umano, un'economia solidale o sana, ecc. Lo sviluppo sostenibile è una di queste antinomie.

Già nel 1989, John Pessey della Banca Mondiale catalogava 37 diverse accezioni del concetto di "sustainable development".(2) Il solo rapporto Brundtland (World commission 1987) ne conteneva ben sei. FranÁois Hatem, che al tempo ne aveva individuate 60, propose di suddividere le teorie al momento disponibili sullo sviluppo sostenibile in due categorie: ecocentriche e antropocentriche, secondo che avessero come obiettivo principale la protezione della vita in generale (e quindi di tutti gli esseri viventi, o quantomeno di quelli che non sono già condannati), o il benessere dell'uomo.(3)

Sviluppo sostenibile, o come far durare lo sviluppo

Esiste quindi un'apparente divergenza dei significati sostenibile/durevole. Per alcuni lo sviluppo sostenibile/durevole è uno sviluppo rispettoso dell'ambiente. L'accento insiste quindi sulla conservazione degli ecosistemi. Lo sviluppo in questo caso significa benessere e qualità della vita soddisfacente e non ci si pone troppi interrogativi sulla compatibilità dei due obiettivi, sviluppo e ambiente. Questo atteggiamento è abbastanza diffuso tra i militanti del mondo associativo e tra gli intellettuali umanisti. L'attenzione verso i grandi equilibri ecologici deve arrivare fino a rimettere in discussione certi aspetti del nostro modello economico di crescita, addirittura del nostro stile di vita. Ciò potrebbe condurre alla necessità di inventare un altro paradigma di sviluppo (ancora uno! Ma quale? Non si sa). Per altri, l'importante è che lo sviluppo in quanto tale possa durare all'infinito. Questa è la posizione degli industriali, della maggior parte dei politici e di quasi tutti gli economisti. A Maurice Strong, che dichiarava il 4 aprile 1992: "Il nostro modello di sviluppo, che porta alla distruzione delle risorse naturali, non può tenere. Dobbiamo cambiare", fanno eco i propositi di Gorge Bush (senior): "Il nostro livello di vita non è negoziabile".(4) Sugli stessi toni, a Kyoto, Clinton dichiarava senza peli sulla lingua: "Non firmerò niente che possa nuocere alla nostra economia"(5) Com'è noto, Bush junior ha fatto di meglio...

Lo sviluppo sostenibile è come l'inferno, lastricato di buone intenzioni. Non mancano esempi di compatibilità tra sviluppo e ambiente a dimostrarlo. Evidentemente, l'attenzione all'ambiente non è necessariamente contraria agli interessi individuali e collettivi degli agenti economici. Un direttore della Shell, Jean-Marie Van Engelshoven, si può permettere di dichiarare: "Il mondo industriale dovrà essere in grado di rispondere alle attuali aspettative se vuole, in modo responsabile, continuare a creare ricchezza in futuro". Jean-Marie Desmarets, l'Amministratore Delegato di Total, parlava allo stesso modo prima del naufragio dell'Erika e dell'esplosione della fabbrica di fertilizzanti chimici di Tolosa...(6) Con un certo senso dell'umorismo, i dirigenti di BP hanno deciso che la loro sigla non avrebbe più dovuto leggersi "British Petroleum", ma "Beyond Petroleum" (oltre o dopo il petrolio)...(7)

La coincidenza di interessi ben definiti può, effettivamente, realizzarsi in teoria e in pratica. Esistono industriali persuasi della compatibilità tra gli interessi della natura e gli interessi dell'economia. Il Business Council for Sustainable Development, cinquanta dirigenti di grandi imprese rappresentati da Stephan Schmidheiny, consulente di Maurice Strong, ha pubblicato un manifesto presentato a Rio de Janeiro poco prima dell'apertura della conferenza del 92: Cambiare rotta, riconciliare lo sviluppo dell'impresa e la protezione dell'ambiente. "Come dirigenti d'impresa - proclama il manifesto - condividiamo il concetto di sviluppo sostenibile, che permetterà di rispondere alle esigenze dell'umanità senza compromettere le opportunità delle generazioni future".(8)

Ed è questa, effettivamente, la scommessa dello sviluppo sostenibile. Un industriale americano esprime il concetto in modo molto più semplice: "Vogliamo che sopravvivano sia lo strato di ozono che l'industria americana".

Sviluppo tossico

Vale la pena guardare più da vicino, tornando ai concetti, per verificare se la sfida ha ancora senso. La definizione di sviluppo sostenibile del rapporto Brundtland tiene conto solo della durevolezza. Si tratta di un "processo di cambiamento per il quale lo sfruttamento delle risorse, l'orientamento degli investimenti, i cambiamenti tecnici e istituzionali avvengono in modo armonico e rinforzano il potenziale attuale e futuro dei bisogni dell'uomo". Non ci si deve illudere, tuttavia. Non è della protezione dell'ambiente che parlano i potenti - certi imprenditori ecologisti parlano persino di "capitale sostenibile", il colmo dell'ossimoro! - ma prima di tutto dello sviluppo.(9) Ed ecco la trappola. Il problema del concetto di sviluppo sostenibile non è tanto nel termine sostenibile, che è tutto sommato una bella parola, quanto nella parola sviluppo, che è decisamente un "termine tossico". A ben vedere sostenibilità significa che l'attività umana non deve produrre un livello di inquinamento superiore alla capacità dell'ambiente di rigenerarsi. Non è altro che l'applicazione del principio di responsabilità del filosofo Hans Jonas: "Agisci in modo che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuità di una vita autenticamente umana sulla terra". Tuttavia, il significato storico e pratico dello sviluppo implicito nel programma della modernità, è fondamentalmente contrario alla sostenibilità cos" concepita. Si può definire lo sviluppo come un'impresa volta a mercificare i rapporti tra le persone e con la natura. Si tratta di sfruttare, di valorizzare, di trarre profitto dalle risorse naturali e da quelle umane. La mano invisibile e l'equilibrio degli interessi ci garantiscono che tutto procede per il meglio nel migliore dei mondi possibili. Perché preoccuparsi? La maggior parte degli economisti, che siano liberali o marxisti, sostengono una visione che permette allo sviluppo economico di perdurare. Cos" l'economista marxista Gérard d'Estanne de Bernis dichiara: "Non staremo qui a disquisire di semantica, non ci chiederemo neanche se l'aggettivo "durevole" (sostenibile) aggiunga qualche cosa alle definizioni classiche di sviluppo, teniamo conto della realtà e parliamo come tutto il mondo [...] E' chiaro che sostenibile non rimanda al concetto di durata ma a quello di irreversibilità. In questo senso, qualunque sia l'interesse delle esperienze prese in considerazione, il fatto è che il processo di sviluppo in paesi come l'Algeria, il Brasile, la Corea del Sud, l'India o il Messico non si è rivelato "durevole" (sostenibile): le contraddizioni irrisolte hanno spazzato via i risultati degli sforzi compiuti e condotto a una regressione".(10) Effettivamente, se si accetta la definizione di sviluppo indicata da Rostow come "self-sustaining growth" (crescita auto-sostenibile), l'aggiunta dell'aggettivo durevole o sostenibile al termine sviluppo è inutile e costituisce un pleonasmo. Ciò è ancora più evidente nella definizione di Mesarovic et Pestel.(11) Per loro è la crescita omogenea, meccanica e quantitativa che è insostenibile, mentre una crescita "organica" definita dall'interazione delle parti con l'insieme è un obiettivo sopportabile. Storicamente questa definizione biologica è precisamente quella dello sviluppo! Le sottigliezze di Herman Daly, che tenta di definire uno sviluppo a crescita zero non stanno in piedi, né in teoria, né in pratica.(12) Come sottolinea Nicholas Georgescu-Roegen: "Lo sviluppo sostenibile non può in alcun caso essere separato dalla crescita economica. [...] In verità, chi ha mai potuto pensare che lo sviluppo non implichi necessariamente una forma di crescita?"(13) Infine, si potrebbe affermare che aggiungere l'aggettivo sostenibile al concetto di sviluppo non significa certo rimettere seriamente in discussione lo sviluppo esistente, quello che domina il pianeta da due secoli, ma semplicemente concepirlo in un'accezione ecologica. E' alquanto improbabile che ciò basti a risolvere i problemi.

La crescita zero non è sufficiente

Infatti, le caratteristiche durevole o sostenibile non rimandano allo sviluppo "realmente esistente", ma al concetto di riproduzione. La riproduzione sostenibile ha regnato sul pianeta più o meno fino al XVIII secolo. Tra gli anziani del terzo mondo ci sono ancora degli "esperti" di riproduzione sostenibile. Gli artigiani e i contadini che hanno conservato buona parte dell'eredità ancestrale nel modo di agire e di pensare vivono spesso in armonia con il proprio ambiente; non sono predatori della natura.(14) Ancora nel XVII secolo, con gli editti sulle foreste, i regolamenti sugli abbattimenti per la ricostituzione dei boschi, la coltivazione di querce che ancora ammiriamo destinate alla costruzione di vascelli 300 anni dopo, Colbert si dimostra un esperto di "sustainability". I suoi provvedimenti sono il contrario della logica mercificatrice. Ecco, si dirà, una forma di sviluppo sostenibile. Ma allora lo si deve dire di tutti quei contadini che hanno piantato nuovi olivi e nuovi fichi dei quali non avrebbero mai visto i frutti, pensando alle generazioni future e questo senza esservi obbligati da nessuna legge, semplicemente perché i loro genitori, i loro nonni e tutti coloro che li avevano preceduti avevano fatto la stessa cosa.(15) Ormai, neanche la riproduzione sostenibile è più possibile. Ci vuole tutta la fede degli economisti ortodossi per pensare che la scienza del futuro risolverà tutti i problemi e che la sostituibilità illimitata della natura attraverso l'artificio sia possibile. Come si chiede Mauro BonaÔuti, possiamo davvero continuare a ottenere lo stesso numero di pizze diminuendo sempre la quantità di farina e aumentando il numero dei forni o quello dei cuochi ? E anche qualora si dovesse riuscire a sfruttare nuove energie, sarebbe sensato costruire "grattacieli senza scale né ascensori, esclusivamente sulla base della speranza che un giorno trionferemo sulla legge di gravità ?"(16) Contrariamente a quanto sostenuto dall'ecologismo riformista d'un Hermann Daly o d'un René Passet, lo status quo e la crescita zero non sono né possibili, (né auspicabili...). "Noi possiamo riciclare le monete di metallo usate, ma non le molecole di rame disperse dall'uso".(17) Questo fenomeno, che Nicholas Georgescu-Roegen ha battezzato la "quarta legge della termodinamica", è forse discutibile in termini di teoria astratta, ma non dal punto di vista dell'economia concreta. Dall'impossibilità che ne consegue di una crescita illimitata non risulta, secondo lui, la necessità di un programma di crescita zero, ma quello di una decrescita. "Non possiamo - scrive - produrre frigoriferi, automobili o aerei a reazione 'migliori e più grandi' senza produrre anche dei rifiuti 'migliori e più grandi'".(18) Quindi, il processo economico è di natura entropica. "La terra ha dei limiti - sottolinea Marie-Dominique Pierrot - e trattarla come qualcosa che si possa sfruttare all'infinito attraverso la mitizzazione del concetto di crescita, significa condannarla a scomparire. Non si può invocare la crescita illimitata e accelerata per tutti e allo stesso tempo chiedere che ci si preoccupi delle generazioni future. Il richiamo alla crescita e la lotta alla povertà costituiscono solo delle formule magiche e delle parole d'ordine buone per tutte le stagioni. Si tratta dell'idea magica della torta della quale basta aumentare le dimensioni per nutrire tutto il mondo e che rende 'innominabile' la questione della possibile riduzione delle parti di alcuni".(19) La nostra ipercrescita economica oltrepassa già largamente la capacità di carico della terra. Se tutti i cittadini del mondo consumassero come gli americani medi i limiti fisici del pianeta sarebbero già ampiamente superati.(20) Se prendiamo come indice del "peso" ambientale del nostro stile di vita "l'impronta" ecologica di questa categoria in termini di superficie terrestre necessaria, otteniamo risultati insostenibili sia dal punto di vista dell'equità nei diritti di sfruttamento della natura, che dal punto di vista della capacità di rigenerarsi della biosfera. Prendendo in considerazione i bisogni di risorse e di energia necessarie ad assorbire i rifiuti e gli scarti della produzione e del consumo e aggiungendoci l'impatto dell'habitat e delle infrastrutture necessarie, i ricercatori del World Wide Fund (WWF) hanno calcolato che lo spazio bioproduttivo pro capite dell'umanità è di 1,8 ettari. Un cittadino degli Stati Uniti consuma in media 9,6 ettari, un canadese 7,2, un europeo medio 4,5. Siamo quindi molto lontani dall'uguaglianza planetaria e ancora di più da uno stile di civilizzazione sostenibile, che si dovrebbe limitare a 1,4 ettari, nell'ipotesi che la popolazione attuale resti stabile.(21)

Uscire dall'economicismo

Possiamo discutere queste cifre, ma purtroppo sono confermate da un numero imponente di indici (che sono d'altra parte serviti a stabilirle). Per sopravvivere o durare è quindi urgente organizzare la decrescita. Se siamo a Roma e dobbiamo andare a Torino in treno e per sbaglio abbiamo preso la direzione di Napoli, non basta rallentare la locomotiva, frenare o fermarsi, bisogna scendere e prendere un altro treno nella direzione opposta. Per salvare il pianeta e assicurare un futuro accettabile ai nostri figli, non dobbiamo semplicemente moderare le tendenze attuali, bisogna decisamente uscire dallo sviluppo e dall'economicismo, cos" come dobbiamo uscire dall'agricoltura a sfruttamento intensivo che ne è parte integrante, per farla finita con le mucche pazze e le aberrazioni transgeniche. La decrescita dovrebbe essere perseguita non soltanto per preservare l'ambiente, ma anche per restaurare quel minimo di giustizia sociale senza la quale il pianeta è condannato all'esplosione. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sono strettamente connesse. I limiti del "capitale" natura non pongono soltanto un problema di equità intergenerazionale nella suddivisione delle parti disponibili, ma anche un problema di equità tra i membri attualmente viventi dell'umanità. La decrescita non significa necessariamente un immobilismo conservatore. L'evoluzione e la crescita lenta delle società antiche si integravano in una riproduzione allargata ben temperata, sempre in armonia con le esigenze della natura. "La società tradizionale era sostenibile perché aveva adattato il proprio stile di vita all'ambiente - conclude Edouard Goldsmith - e la società industriale non può sperare di sopravvivere perché, al contrario, ha cercato di adattare l'ambiente al proprio stile di vita".(22) Pianificare la decrescita significa, in altri termini, rinunciare all'immaginario economico, cioè alla convinzione che di più per tutti significhi più uguaglianza. Il benessere e la felicità si possono raggiungere a costi inferiori. La saggezza di molte culture suggerisce che la felicità si realizza nella soddisfazione di una quantità sensatamente limitata di bisogni. Riscoprire la vera ricchezza nella promozione di relazioni sociali conviviali in un mondo sano si può fare con serenità nella frugalità, nella sobrietà, persino con una certa austerità nei consumi materiali. "Una persona felice - sottolinea Hervé Martin - non consuma antidepressivi, non consulta psichiatri, non tenta di suicidarsi, non rompe le vetrine dei negozi, non acquista continuamente oggetti costosi e inutili, insomma, partecipa solo marginalmente all'attività economica della società."(23) Una decrescita voluta e ben impostata non impone alcun limite nell'esercizio dei sentimenti e alla promozione di una vita conviviale, anche dionisiaca.(24)


Ma la decrescita è di destra o di sinistra?

di Serge Latouche

Liberazione, 9 ottobre 2005

Esiste, è vero, una critica di destra della modernità, come esiste un anti-utilitarismo di destra e un anti-capitalismo di destra. Non ci si deve stupire che esistano un anti-lavorismo e un anti-produttivismo di destra che si nutrono dei nostri argomenti. Bisogna anche riconoscere che, nonostante il bel libro del genero di Marx, Paul Lafargue, "Il diritto all'ozio" - che resta uno dei più forti attacchi al lavorismo e al produttivismo - nonostante una tradizione anarchica nel seno del marxismo, riattualizzata dalla scuola di Francoforte, il consiliarismo e il situazionismo, la critica radicale della modernità è stata più sostenuta a destra che a sinistra. Se questa critica ha conosciuto dei buoni sviluppi con Hannah Arendt o Castoriadis, che si sono serviti degli argomenti di pensatori contro-rivoluzionari come Burke, De Bonnald o De Maistre, questa critica è rimasta politicamente marginale. I maoismi, trotskismi e altre correnti di sinistra sono tanto produttivisti quanto i comunisti ortodossi.

Non c'è ragione, ciò nonostante, di confondere l'antiproduttivismo di destra e l'antiproduttivismo di sinistra. Lo stesso vale per l'anti-capitalismo o l'anti-utilitarismo. La nostra concezione della società della decrescita non è né un impossibile ritorno al passato, né un accomodamento con il capitalismo, ma un "superamento" (se possibile pacifico) della modernità. Per me, la decrescita è necessariamente contro il capitalismo. Perché se in astratto è forse possibile concepire una economia eco-compatibile con persistenza di un capitalismo dell'immateriale, questa prospettiva è irrealistica per quel che riguarda le basi immaginarie della società di mercato, ovvero: la smisuratezza e il dominio senza limite. Il capitalismo generalizzato non può non distruggere il pianeta come distrugge la società. Tuttavia, non è sufficiente rimettere in causa il capitalismo, bisogna, ancora, prendere di mira ogni società della crescita. ´Anche se una economia della crescita è figlia della dinamica di mercato - ha scritto giustamente Takis Fotopoulos - non bisogna confondere i due concetti: si può avere una economia della crescita che non è una economia di mercato, ed è questo in particolare il caso del "socialismo reale"ª [1].

Cos", rimettere in discussione la società della crescita implica rimettere in discussione il capitalismo, mentre l'inverso non va da sé.

Che esista un immenso cantiere, in particolare a proposito del fatto che siamo tutti "tossicodipendenti" della crescita, non lo nego. Ragione di più per darsi da fare risolutamente. Quanto a pensare, come fanno molti responsabili sindacali o politici di sinistra, che i lavoratori sarebbero più intossicati dei loro rappresentanti e che sono chiusi alle idee di una rimessa in questione della crescita, vi è qui, mi sembra, una singolare diffidenza nei confronti di coloro di cui pretendiamo di difendere la causa. Il modo migliore di sapere se è cos" è ancora quello di chiederglielo. E' un fatto notevole che in Francia i responsabili politici di sinistra, come di destra, abbiano sempre rifiutato di organizzare un referendum sul nucleare, cos" come sono oggi ostili all'organizzazione di consultazioni popolari sugli Ogm.

Perciò, mentre i gruppi dirigenti hanno mancato al loro dovere di trasparenza e di informazione, mentre la manipolazione da parte dei media è massiccia fino all'indecenza, il risultato è lontano dall'essere raggiunto.

Anche se i governi di "sinistra" fanno politiche di destra, e lungi dall'osare la "decolonizzazione dell'immaginario" si condannano al social-liberalismo, gli obiettori della crescita, partigiani della costruzione di una società della decrescita conviviale, serena e sostenibile, sanno fare la distinzione tra Jospin e Chirac, Schroeder e Merkel, Prodi e Berlusconi, e anche tra Blair e ThatcherÖ Quando vanno a votare [ciò che consiglio loro di fare] sanno che, anche se nessun programma di governo della sinistra mette in conto la necessaria riduzione della nostra impronta ecologica, è comunque da quel lato che si trovano i valori di condivisione, di solidarietà, di eguaglianza e di fratellanza. Questi valori non si possono fondare sul massacro della altre specie e sul saccheggio della natura, e conviene estenderne il beneficio alle generazioni future. E' per questa ragione che la nostra lotta si colloca risolutamente a sinistra.


Intervista a Riccardo Petrella

docente di economia all'Università di Lovanio e promotore del Contratto mondiale dell'acqua

di Achille Rossi

l'Altrapagina, 15 gennaio 2006

Negli ultimi 30 anni c'è stato un impoverimento generalizzato della popolazione e sono cresciute anche le disuguaglianze all'interno dei paesi del nord del mondo. L'economia deve puntare ad assicurare e garantire, nel più breve tempo possibile, il diritto alla vita di tutti gli esseri umani. A colloquio con Riccardo Petrella, docente di economia all'Università di Lovanio e promotore del Contratto mondiale dell'acqua.

Per quali ragioni è andata in crisi l'idea di sviluppo nel mondo occidentale?

Originariamente il concetto di sviluppo aveva un significato ampio, indicava la capacità di liberarsi dalla condizione di povertà ed era legato all'idea di giustizia. Negli ultimi tempi, invece, è stato identificato sempre di più con l'aumento della capacità produttiva, con la tecnologia e quindi con la crescita economica. Sviluppo è passato a significare crescita quantitativa dei prodotti destinati al consumo. Lo sviluppo è diventato sempre meno sociale, meno umano, più finanziario, più abusivo e predatore della natura. Cos" già attorno agli anni Sessanta ha preso corpo la reazione ambientalista contro uno sviluppo che non rispetta la natura. Sempre nello stesso periodo è sorta una critica alla tecnologia disumanizzante, accusata a giusto titolo di essere distruttrice sia della libertà umana che della natura. Ecco come si è affermata l'idea che questo sviluppo, identificato con la produzione massificante di oggetti destinati al consumo individuale, non sia più praticabile.

Per uscire dall'attuale crisi economica i politici parlano di accrescere la competitività e di rilanciare i consumi. Lei ritiene che sia una strada percorribile nel lungo periodo?

Mi sembra, anzi è, sbagliata e falsa. Invece di promuovere un'"altra crescita" che non aumenti i consumi, i cui processi produttivi sono devastanti, s'invita la gente a comprare. Ma cosa dovrebbe comprare: più macchine, più telefonini, più case? Una delle caratteristiche dello sviluppo degli ultimi 30 anni è stato l'impoverimento sempre più generalizzato della popolazione e la crescita delle ineguaglianze all'interno dei paesi del nord del mondo. In questa situazione rilanciare i consumi mi pare addirittura perverso, perché significa premiare solo coloro che posseggono il potere d'acquisto nel momento in cui non tutti lo detengono e rinforzare la disuguaglianza sociale ed economica fra la gente e fra i paesi.

Alcuni studiosi ritengono che si debba abbandonare l'idea di sviluppo sostenibile e parlare addirittura di decrescita. Qual è il suo parere?

Il concetto di sostenibilità aveva rappresentato un grande passo avanti e anche una risposta del sistema alle critiche nei confronti di un modello di sviluppo rivolto a consumi sempre più quantitativi e massicci. Proporre uno "sviluppo sostenibile" significava aver accettato l'idea che non si potevano produrre beni e servizi senza rispondere a determinati requisiti fondamentali sul piano umano, sociale, ambientale. Pian piano, però, il sistema dominante si è appropriato di questo concetto e lo ha addirittura pervertito, teorizzando l'idea che uno sviluppo sostenibile sia la condizione migliore affinché le imprese capitalistiche operanti sul mercato diventino competitive.

La cultura dominante ha completamente snaturato l'idea di sostenibilità, reintroducendola nel sistema come parametro strumentale al servizio della competitività e quindi della creazione di valori per il capitale finanziario. Cos" la sostenibilità è perfettamente coerente con lo sviluppo dei consumi e dev'essere rifiutata nell'uso che ora ne fa il sistema dominante, che ha bruciato il concetto di sviluppo sostenibile qual era stato originariamente concepito.

Oggi tatticamente bisogna opporsi allo sviluppo sostenibile, com'è predicato e raramente praticato dal sistema dominante e introdurre due concetti alternativi.

E quali sarebbero?

Il primo, già proposto negli anni Novanta, è l'"altra crescita". Non si può tollerare che tra 20 anni più di due miliardi di persone abitino ancora in bidonville. Deve crescere la capacità della gente di procurarsi alloggi anche su base comunitaria e per mezzo di cooperative. Alloggi costruiti magari dagli stessi abitanti. Questo tipo di crescita mi sembra assolutamente indispensabile. L'altro concetto è quello di decrescita: è necessario ridurre, eliminare processi produttivi inquinanti, prodotti che implicano la sostituzione del lavoro umano quando non è giustificata. Bisogna ridurre non solo i processi di produzione ma anche l'uso dei prodotti stessi. In un mondo dove un miliardo e mezzo di persone non hanno accesso all'acqua potabile, i 2 miliardi e 400 milioni che l'hanno già devono diminuirne il consumo. L'economia consumistica, capitalistica e finanziaria, si basa sull'amplificazione dello scambio. Da 50 anni a questa parte i teorici del sistema ci ripetono che non c'è ricchezza né futuro senza aumentare gli scambi internazionali. Il Wto riposa sull'ideologia che la ricchezza passa attraverso lo scambio. Invece è necessario ridurre le logiche dello scambio. In Italia, ad esempio, bisogna contrastare la pratica commerciale di tipo capitalistico che fa s" che le popolazioni del Meridione consumino acqua minerale in bottiglia prodotta nelle regioni del Nord. Ogni giorno assistiamo a mille treni di chilometri equivalenti di camion che trasportano, con grande spreco di energia, le acque minerali imbottigliate nel Nord per venderle al Sud e viceversa. » un nonsenso che dev'essere eliminato.

In fondo lei auspica un'economia più saggia che sappia usare le risorse disponibili in maniera più umana, più democratica, più rispettosa dell'ambiente, della bellezza, delle diversità, dei diritti delle generazioni future.

Facendo cos" cresce la libertà dalla miseria, dalla massificazione, dall'esclusione e le risorse vengono usate in spirito di giustizia e di solidarietà.

Basta auspicare una tecnologia più efficiente per ridurre i consumi di risorse e di energia o bisogna mettere in discussione il nostro modello di società?

Si tratta di ripensare il ruolo della condizione umana e la finalità stessa del vivere insieme, sia a livello locale che a livello mondiale. All'interno di questo quadro è necessario ridefinire la funzione della conoscenza, quale è stata applicata attraverso i metodi scientifici e gli strumenti tecnologici. La tecnoscienza si è appropriata del concetto di sviluppo, dando a credere che la creatività e il progresso degli esseri umani passino attraverso l'aumento di conoscenze derivanti da tecnologie capaci di soddisfare sempre più i bisogni individuali. Tutto questo dev'essere cambiato; le forze di sinistra devono rivedere profondamente la concezione della scienza e della tecnologia, perché il loro sviluppo e il loro uso negli ultimi cento anni è stato orientato dalla logica di crescita della ricchezza individuale.

Potrebbe descriverci le caratteristiche di un paradigma economico che prenda congedo dallo sviluppo e realizzi un futuro sostenibile?

Due ne sono gli elementi definitori: il primo è il diritto alla vita di ogni essere umano e di tutti gli abitanti del pianeta. Le regole dell'economia, che etimologicamente significa proprio "regola della casa", devono puntare, nel più breve tempo possibile, ad assicurare e garantire il diritto alla vita di tutti gli esseri umani senza alcuna discriminazione o condizione. Il secondo elemento del paradigma è che le stesse regole permettano all'insieme dei membri di una comunità, dal villaggio alla comunità internazionale, di vivere insieme in maniera ragionevole, pacifica e solidale. Questo significa reintrodurre nella teoria e nella prassi economica i concetti di amicizia, solidarietà, cooperazione, che ne sono stati espulsi da più di un secolo, perché si sono privilegiati l'interesse, la competizione, la rivalità, la conquista.


Interviste a Serge Latouche

di Onofrio ROMANO

Bari, 20 novembre 1997

La sua opera più nota - L'occidentalizzazione del mondo - è uscita in Francia nel 1989. Il disegno teorico in essa tracciato, tuttavia, era già riconoscibile nel saggio di tre anni precedente, Faut-il refuser le développement? (apparso in Italia col titolo I profeti sconfessati). Un decennio, dunque. Un decennio nel quale molta acqua è passata sotto i ponti, a cominciare dal crollo dei paesi del socialismo reale: è perciò giunto il momento di chiedersi, parafrasando un vecchio adagio, a che punto è il processo di occidentalizzazione del mondo?

Più avanzato che mai. Il movimento di uniformazione planetaria, di unificazione del mondo sotto il segno dell'Occidente (e dell'America, in primo luogo) è entrato in una fase superiore, quella che oggi denominiamo mondializzazione e della quale tanto si è scritto. La straordinaria riduzione dei costi di comunicazione e di trasporto ha abolito le distanze, disintegrato le coordinate spazio-temporali, svalutando le frontiere e lo spazio politico: viviamo effettivamente in un mondo unico, in un villaggio planetario globale nel quale i mercati finanziari, al fine unificati, dominano incontrastati sul resto dell'economia. Chi non trova il proprio posto in questo universo uniformizzato è semplicemente condannato a scomparire.

Una visione che sembra non lasciare scampo. Eppure, contemporaneamente al movimento di uniformazione, si sono sviluppate in questo decennio alcune forme di resistenza. E' lei stesso a parlarne diffusamente nel suo ultimo lavoro, L'Altra Africa, e, sempre recentemente, ha dedicato diversi saggi al fenomeno dei sistemi di scambio locale (S.E.L. o Local exchange trade systems) - che si stanno diffondendo a macchia d'olio in molti paesi occidentali -, nei quali gli esclusi creano reti di mutuo sostegno, mettendo a disposizione vicendevolmente il proprio tempo e le proprie risorse.

Sfortunatamente non ci sono molte forme di resistenza. Assistiamo piuttosto a reazioni di rigetto da parte di popolazioni risentite, frustrate e umiliate dal processo di occidentalizzazione - penso, in particolare, all'esplosione del fondamentalismo islamico. Sono delle forme ad un tempo perverse ed ambigue, in quanto articolate sul modo della gelosia o dell'invidia: seppur nel rifiuto di alcune sue manifestazioni, il desiderio di Occidente resta molto profondo. Ne L'Altra Africa parlo di qualcosa che non si può propriamente chiamare resistenza: l'Africa non è più in corsa, non ha la pretesa di

opporsi all'Occidente, è ampiamente marginalizzata in questo processo di uniformazione, del quale, al contrario, desidererebbe essere parte integrante. Piuttosto che di resistenza, si potrebbe parlare di forme di dissidenza, che si manifestano nella straordinaria capacità degli africani di tenere vivo il legame sociale malgrado le condizioni di estrema difficoltà, testimoniando cos" la possibilità di auto-organizzare la propria esistenza pur collocandosi al di fuori di un processo totalitario che non ammette resistenze.

Per quanto riguarda i sistemi di scambio locale, occorre in primo luogo mettere le cose al loro giusto posto: malgrado la straordinaria esplosione di questo movimento in Francia, siamo pur sempre nell'ordine di qualche migliaio di persone coinvolte. Quantitativamente, il dato non è significativo. Si tratta di micro-esperienze di laboratorio che hanno, comunque, un notevole valore di testimonianza: vi sono persone che non intendono lasciarsi schiacciare dalla logica dell'occidentalizzazione integrale, che si riorganizzano ai margini della " grande società " secondo altre logiche, altri valori e pongono le basi per la ricostruzione del legame sociale.

Al centro della sua riflessione sulla cultura - pardon, sull'anti-cultura - occidentale vi è la tecnica. Ne La Megamacchina ha sostenuto che l'una si sostanzia di fatto nell'altra e ne ha additato tutte le conseguenze deleterie. Vi sono diversi filoni del pensiero marxista, in particolare quello gauchista (nei cui confronti lei ha mostrato in passato qualche simpatia), che hanno intravisto, al contrario, nella tecnica una possibilità di liberazione per l'uomo. Liberazione, in primo luogo, dal lavoro. Qual è il suo giudizio su questa prospettiva?

Per dirla con Marx, è una visione che confonde l'apparenza e l'essenza delle cose. La liberazione dal lavoro mediante la tecnica porrebbe innanzi tutto un problema paradossale: nella visione marxista, infatti, il lavoro è il mezzo attraverso il quale l'uomo accede alla sua realizzazione. Liberare l'uomo da ciò che lo rende tale, da quel che lo conduce all'auto-consapevolezza sarebbe, dunque, catastrofico. Ancor più grave, tuttavia, è la pretesa di considerare la tecnica come un fatto in sé, prescindendo dalla valutazione del suo senso nella società moderna. Una società, vale a dire, il cui progetto specifico è il dominio totale dell'universo, quindi il dominio della natura e, per tale via, degli uomini. La tecnica è essenzialmente uno strumento di potere, rispetto alla cui logica contingente l'uomo è due volte spossessato della sua umanità: prima in quanto ridotto a strumento di lavoro, poi in quanto deprivato del suo lavoro. Occorre sempre risituare i fenomeni nella logica complessiva del sistema. La visione emancipatrice della tecnica è, in fin dei conti, estremamente superficiale ma, per la stessa ragione, molto diffusa. Non si giungerà mai a far credere ad una casalinga che gli elettrodomestici non la liberano ma la vincolano.

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Prendendo spunto da questo statuto ambiguo del lavoro, vorrei attirare la sua attenzione su altre parole chiave dell'Occidente, le cui potenzialità evocative e mobilitanti appaiono oggi alquanto appannate. Quando lei parla della necessità di un mutamento d'immaginario, pensa che questo debba passare per una riscoperta del senso originario di parole come " democrazia ", " libertà ", " autonomia ", " solidarietà ", " coscienza civile ", ecc. o ritiene che esse siano da bocciare puramente e semplicemente? In altri termini, le nefandezze dell'Occidente, da lei instancabilmente denunciate, sono imputabili ad un tradimento di quelle parole o ne sono il frutto autentico e necessario?

Questa domanda tira in ballo il percorso di alcuni miei cari amici - Alain Caillé, Cornelius Castoriadis, Pietro Barcellona ed altri -, impegnati costantemente nel tentativo di restaurare il senso originario della democrazia. Se è vero che molte di queste parole possono ancora suscitare delle reazioni nell'immaginario delle persone, se è vero che in esse è possibile rinvenire un'aspirazione che oltrepassa il loro mero statuto storico, io resto comunque piuttosto cauto. Ho sempre manifestato una certa riserva in relazione alla rivendicazione democratica e non perché io non mi senta profondamente democratico. Cos" come il socialismo si è tradotto nel " socialismo reale " e lo sviluppo nello " sviluppo realmente esistente ", la democrazia è stata 'intrappolata' nella storia reale dell'Occidente, quindi della democrazia parlamentarista occidentale. Le società africane hanno dei funzionamenti molto più " democratici " delle nostre società, ma non si sono mai pensate attraverso questa concezione della democrazia. Anche rispetto al concetto di libertà, sono giunto alla conclusione che in Africa l'individuo abbia un posto ben più importante rispetto a quello riconosciutogli realmente nelle nostre società. La maggior parte delle comunità tradizionali producono socialmente delle " persone ", attraverso una lunga stagione formativa scandita da rituali d'iniziazione.

Presso i Senoufo, ad esempio, questa dura ventuno anni e si sviluppa in tre fasi - la primaria, la secondaria e la superiore. Il risultato è la produzione di personalità straordinarie, armate per affrontare degnamente le sfide della vita, portatrici dei valori della propria etnia e al contempo di una peculiarità irriducibile al gruppo d'appartenenza. Non è un caso, del resto, che l'Africa mostri questa straordinaria capacità di dissidenza nel processo di appiattimento planetario: la forza di personalità del Senoufo gli permette di sfidare le sollecitazioni del sistema occidentale, di disprezzare il denaro, di opporre altri valori, poiché egli ha una rotta da seguire nella sua vita. Nelle nostre società, al contrario, l'individuo è completamente isolato in un sistema che manipola il suo immaginario tramite la pubblicità e la propaganda: il suo comportamento tradisce un conformismo assoluto, un'obbedienza supina a tutte le mode. Gli italiani ieri hanno votato in massa per Berlusconi, oggi votano in maniera altrettanto compatta per la sinistra: questo significa che non sanno più chi sono, che cosa vogliono. Il mito occidentale dell'individuo autonomo e onnipotente è una grande fandonia: l'individuo nelle nostre società è una pecora in mezzo al gregge.

Le vostre analisi si concentrano sempre sugli estremi: l'Occidente da un lato, l'Africa dall'altro. Qui nel Mezzogiorno d'Italia, come in molte altre regioni del pianeta, ci ritroviamo in una situazione ibrida, in cui modernità e tradizione si fondono in sintesi nient'affatto virtuose, che attingono spesso al peggio delle due forme. Succede cos" che coloro i quali non vogliono consegnare totalmente il Sud al rullo compressore occidentale, si sentono sovente accusati di legittimare indirettamente fenomeni deleteri come la mafia, il lavoro nero e forme più o meno rinnovate di banditismo, di illegalità diffusa, di comparaggio. Com'è possibile uscire da questa strettoia?

La modernità è innanzi tutto un mito. Essa ha prodotto senza dubbio una rottura, ma questa non è stata percepita come tale dalla gente comune, in quanto la storia delle società appare sempre come un continuum. Negli Stati Uniti la realtà è stata spinta il più lontano possibile nella direzione del mito. Si è tentato di realizzarlo fin nei minimi dettagli attraverso la sigla di un contratto sociale tra presunti individui liberi ed eguali, che hanno deciso di fondare una società e di darsi delle leggi (secondo il modello di Hobbes e di Locke). In compenso, se si guarda all'America Latina, si ha a che fare con una società moderna o con una società tradizionale? Vi è uno straordinario meticciato, vi coabitano indiani, africani, spagnoli, i quali non possono dirsi né moderni né tradizionali, né occidentali né estranei all'Occidente. In questo senso si può davvero affermare che siamo tutti africani (sebbene alcuni lo siano più di altri).

E' vero che i meridionali non si sentono completamente americani, tuttavia, restano, solo per fare un esempio, sposati con l'automobile (a Bari questo è particolarmente evidente). Tutti desideriamo beneficiare degli apporti della modernità e della tecnica; è diventato un dovere, una seconda intima natura, ma al contempo vorremmo preservare i valori dell'onore e della solidarietà. Sono problemi che i popoli devono risolversi in maniera autonoma. Ho sempre sostenuto di non avere soluzioni per gli africani, non posso dire adesso di avere soluzioni da proporre agli italiani del Sud: spetta a loro imboccare una via originale tra l'adesione implicita e imprescindibile alla modernità e le risorse della tradizione.

Spetta a loro inventare una forma di oltrepassamento, di postmodernità.

Al tentativo d'inventare questo oltrepassamento, sta lavorando da alcuni anni, almeno a livello intellettuale, il suo amico pugliese Franco Cassano (i saggi raccolti ne Il pensiero meridiano stanno riscuotendo una vasta eco). Lei crede ad un'alterità meridiana?

No. Apprezzo moltissimo gli scritti di Franco Cassano, ma se dicessi che ci credo mentirei. Penso che esista effettivamente una 'sensibilità meridiana', che questa possa spiegare molti atteggiamenti e tradursi in scelte individuali coerenti. L'idea di una reale alterità meridiana mi sembra però eccessiva.

Ancora alla fine degli anni ottanta le vostre idee erano pressoché tacciate d'eresia. Oggi conoscono una larga diffusione, per lo meno in alcuni ambienti intellettuali e della società civile. Ciò che mi sorprende, tuttavia, è che l'adesione alle sue categorie interpretative non si traduce quasi mai in un coerente mutamento di prospettiva e, ancor meno, in un mutamento di prassi. Un esempio per tutti. Guglielmo Minervini ha scritto recentemente un piccolo saggio sulla cittadina meridionale di cui è sindaco (Molfetta). Egli denuncia vigorosamente i disastri provocati nel corso del secolo dalla modernità e dallo sviluppo, salvo poi, una volta arrivati al sodo, cioè alle cose da fare, reclamare per la città " una politica di rilancio dello sviluppo produttivo ", " l'integrazione coerente di tutti gli strumenti di pianificazione ", la transizione verso un modello comunitario civile... non più feudale ma moderno ", ecc. La 'buona modernità' contro la 'cattiva modernità', al solito. Come spiega questo scarto ricorrente?

Molte persone, specie quelle che lavorano nel campo dello sviluppo, dopo aver letto i miei libri, dopo aver assistito alle mie conferenze ne concludono entusiasticamente che, ad onore delle analisi tracciate, occorrerebbe lavorare alla costruzione di uno sviluppo alternativo. Ed io puntualmente mi metto le mani nei capelli. E' vero, a volte mi sento malcompreso, ma non ho mai pensato che questo tipo d'analisi dovesse sfociare immediatamente su delle posizioni o dei cambiamenti concreti: il ruolo degli intellettuali è di apportare un'illuminazione, le persone ne fanno poi ciò che vogliono. Negli anni ottanta, si può dire che nessuno accettasse la critica dello sviluppo da me condotta. Oggi è diventata persino banale, ma ciò non vuol dire che si sia abbandonato questo tipo d'immaginario. Io confido, piuttosto, nei cambiamenti sotterranei, sottili e il cui impatto va verificato a lungo termine. La storia ci dirà.

C'è da aggiungere, ad onor del vero, che quando si fa un'analisi del movimento storico di uniformazione planetaria e dei misfatti dello sviluppo si obbedisce ad un'etica della convinzione, ma quando abbiamo da gestire la nostra vita o quella degli altri (come nel caso del buon sindaco di Molfetta) entra in gioco l'etica della responsabilità: occorre trovare la porta stretta tra le convinzioni e le posizioni concrete, quindi operare necessariamente dei compromessi se si vogliono cambiare le cose, perché il mondo non si modellerà mai secondo i nostri desideri. Si vive, malgrado tutto, in una realtà determinata e bisogna viverla nella maniera migliore.

L'importante è non tradire i propri ideali, non passare, vale a dire, dal compromesso alla vera e propria connivenza.


Sviluppo sostenibile? Un inganno

Intervista di Vincenzo R. Spagnolo

Dunque, professor Latouche, lei sostiene che persino l'idea stessa di sviluppo è in crisi.

"Senza dubbio. La crisi della teoria economica dello sviluppo, iniziata negli anni Ottanta, si è ormai aggravata. Con la caduta del muro di Berlino, aziende e mercati avevano annunciato ufficialmente che il pianeta si era unificato. Poi, l'avvento della globalizzazione ha mandato in frantumi il quadro statale delle regolamentazioni, permettendo alle disuguaglianze di svilupparsi senza limiti e segnando la comparsa del cosiddetto "trickle down effect", ossia la distribuzione della crescita economica al Nord e delle sue briciole al Sud. Dal 1950, la ricchezza del pianeta è aumentata sei volte, eppure il reddito medio degli abitanti di oltre 100 Paesi del mondo è in piena regressione e cos" la loro speranza di vita. Si sono allargati a dismisura gli abissi di sperequazione: le tre persone più ricche del mondo possiedono una fortuna superiore alla somma del prodotto interno lordo dei 48 Paesi più poveri del globo.

In simili condizioni, lei comprende che non è più di attualità lo sviluppo, ma solo piccoli aggiustamenti strutturali. Che passano sotto il nome di "sostenibilità" e sono invece una spaventosa mistificazione".

Perché, professore?

"Perché tutte le varie espressioni "sviluppo sostenibile", "vivibile" o "sopportabile" sono solenni imposture: negli ultimi due secoli, lo sviluppo è sempre stato contrario all'idea di sostenibilità, poiché ha cinicamente imposto di sfruttare risorse naturali e umane per trarne il massimo profitto. Oggi il vecchio concetto è stato rivestito con una patina d'ecologia, che tranquillizza l'Occidente e nasconde la lenta agonia del pianeta. Lo sviluppo cambia pelle, insomma, ma resta se stesso. In Africa, in nome dello sviluppo, i fedeli musulmani della località di Kulkinka, nel Burkina Faso, hanno deciso che alleveranno maiali. Niente è proibito, se porta lo sviluppo. E non serve da freno la morale, né la cultura. Il "pensiero unico" del mercato annulla perfino le identità nazionali: desideriamo gli stessi beni e quindi siamo tutti uguali. Senza contare i danni che il progresso tecnologico causa all'intero pianeta.

La concorrenza e il libero mercato hanno effetti disastrosi sull'ambiente: niente limita più il saccheggio delle risorse naturali, la cui gratuità spesso permette di abbassare i costi".

Un quadro davvero sconfortante, professor Latouche. Non teme le accuse di catastrofismo?

"No, perché quello che dico è sotto gli occhi di tutti: la concorrenza esacerbata spinge i Paesi del Nord a manipolare la natura con le nuove tecnologie e quelli del Sud ad esaurire le risorse non rinnovabili. In agricoltura, l'uso intensivo di pesticidi e irrigazione sistematica e il ricorso a organismi geneticamente modificati hanno avuto come conseguenze la desertificazione, la diffusione di parassiti, il rischio di epidemie catastrofiche. Il collasso del pianeta si avvicina, insomma, ma invece di lavorare a un'alternativa che eviti la fine delle risorse naturali, si continua a ragionare su correttivi più o meno efficaci, sulla "sostenibilità" appunto. Ma cos" si confonde il morbo con la cura"".

Qual è la cura, allora, a suo parere?

"C'è un vecchio proverbio che suona più o meno cos": "se hai un martello conficcato in testa, tutti i tuoi problemi avranno la forma di chiodi". Dobbiamo levarci dalla testa il martello dell'economia, decolonizzare il nostro immaginario dai miti del progresso, della scienza e della tecnica. Far tramontare l'onnipotenza dell'"assolutismo razionale" che crede di poter assoggettare ogni cosa al suo volere e sostituirlo col "ragionevole", che si adegua alle mutate condizioni della natura. Questo è il primo sforzo a livello concettuale.

Concretamente, poi, bisogna proseguire nell'opera di contrasto della "megamacchina" dello sviluppo".

E come? Con lo strumento del boicottaggio?

"Ho poche speranze sul successo finale delle pratiche di boicottaggio delle multinazionali.

Anche se hanno dato frutti di recente, come nei casi della Shell in Germania e della Del Monte in Kenya, non hanno verdi prospettive: i grandi gruppi economici stanno infatti reagendo rapidamente, formando cartelli in settori vitali come quello farmaceutico, agro-alimentare o delle comunicazioni per impedire ai consumatori qualsiasi alternativa. Io stesso, nelle scorse settimane, volevo boicottare il gruppo Total-Fina, proprietario della petroliera Erika che ha causato il disastro delle maree nere sulle spiagge della Bretagna, e mi sono ritrovato impotente in autostrada a dover fare benzina ai loro distributori, perché erano gli unici nel raggio di migliaia di chilometri. Insomma è giusto far diventare, come scrive l'economista italiano Antonio Perna, un "bisogno" la scelta etica del consumatore, ma non basta. » necessario, aggiungo io, affiancare alla guerra di trincea il concetto di "nicchia", un luogo cioè dove progettare una seria alternativa da estendere poi a grandi settori della società. Io studio da anni certe economie cosiddette "informali", che sono in realtà veri e propri laboratori del dopo-sviluppo".

Si riferisce al tipo di società basata sulle relazioni interpersonali descritta nel suo libro L'altra Africa?

"Esattamente. Anche se, di fronte alla evidenza dei successi di certi "imprenditori a piedi scalzi", gli occidentali continuano scioccamente a pensare a quella africana come a un'accozzaglia di "straccioni" che sopravvive in attesa di accedere alla terra promessa della modernità, dell'economia ufficiale e del vero sviluppo. In realtà le migliaia di piccole imprese e il colorato insieme di mestieri (dalle intrecciatrici di strada ai bana-bana, commercianti ambulanti che vendono alle donne senza frigorifero olio "sfuso" o sacchetti di latte in polvere) non possono essere etichettati semplicemente come "naufraghi dello sviluppo". Essi sopravvivono perché hanno prodotto un tipo di società basata non sui rapporti economici ma sul valore delle relazioni sociali e sulla logica del dono. Intendiamoci, parlo di una società non assolutamente affrancata dal mercato ma che, comunque, non obbedisce supinamente alla logica mercantile. In questo tipo di società, che io chiamo vernacolare, ciascuno investe molto nei legami interpersonali, dà in prestito denaro, beni materiali e perfino tempo o lavoro. Lo fa senza pensare a un tornaconto immediato, perché reputa importante crearsi un gran numero di "cassetti", per usare un espressione della periferia di Dakar, cioè di persone debitrici a cui attingere in caso di bisogno. Un po' come le esperienze che noi occidentali stiamo riscoprendo e che vanno sotto il nome di "banca del tempo" o "local exchange trade systems" (sistemi di scambio locale)".

Ci sono segnali di speranza quindi?

"Oltre alla presenza di nuovi modelli di società, mi conforta che le coscienze di alcuni Paesi si stiano lentamente risvegliando. Lo mostrano ad esempio i recenti fatti di Seattle. Il gigantesco baraccone del "Millennium Round" messo su dalla World Trade Organization non è crollato solo per le forti proteste di piazza delle organizzazioni non governative. » fallito, ed è ciò che più conta, anche per il dissenso dall'interno dei rappresentanti di molti Paesi in via di sviluppo, alzatisi dai tavoli delle trattative perchè indignati dall'incredibile arroganza delle nazioni occidentali".


Contro l'universalismo

Intervistadi Antonio Caronia

marted" 28 settembre 2004

Nelle prime pagine di Giustizia senza limiti, leggo: "Le associazioni e le reti che, a torto o a ragione, pretendono di fare da contrappeso [alla potenza finanziaria delle aziende transnazionali] sono in larga misura strumentalizzate dai giganti dell'economia e della finanza. Una società civile mondiale non esiste." Può chiarire a chi sono rivolti questi rilievi critici?

Quando scrissi quel passaggio pensavo alle Ong. Pensavo, più precisamente, a quello che è successo a Rio e a Johannesburg.

A Rio [Conferenza dell'Onu sull'ambiente e lo sviluppo, 1992 - ndr] abbiamo visto le grandi imprese internazionali creare delle proprie Ong, per poter partecipare a questo movimento, per poter mettere lo zampino anche nella corrente delle Ong, e portare avanti le loro tesi anche in quest'ambito. D'altra parte, molte Ong dipendono fondamentalmente dai finanziamenti pubblici e privati, per cui la loro pretesa di rappresentare la società civile mondiale va presa con molta cautela. Beninteso, ci sono delle Ong che fanno delle cose egregie, ma molte altre Ong sono fasulle, sono di fatto delle organizzazioni governative o dipendenti dalle aziende, quindi di fatto sono schierate da quella parte.

Perché non bisogna mai sottovalutare la capacità di reazione dell'avversario. » una cosa che le aziende hanno capito benissimo: hanno capito che i movimenti ecologisti, i movimenti di contestazione della globalizzazione etc., potrebbero rappresentare una minaccia per il funzionamento del sistema sul quale esse aziende si basano, e quindi bisogna recuperare, lavorare dall'interno, fare in modo che anche in quei movimenti ci sia una voce sostanzialmente favorevole agli interessi delle aziende. Le Ong possono essere un cavallo di Troia per recuperare dei legami con questi movimenti.

» un discorso estremamente complesso. A Johannesburg [Vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile, 2002 - ndr] il World Business Council, che è l'organizzazione delle imprese per la conservazione dell'ambiente (ma che raggruppa tutti i più grandi inquinatori del pianeta, come Esso, Nestlè, Total, etc.) ha contattato Greenpeace, dicendo loro: "Guardate, una cosa è sicura, non saranno certo gli stati a salvare il pianeta". Questo discorso è interessante. Dice: gli stati non sono capaci di decidere nulla. Dunque se c'è qualcuno che può fare qualcosa siamo noi, o nessun altro. E perciò dovete lavorare con noi, bisogna lavorare insieme. Ora io non nego che ci possano essere dei responsabili di impresa che siano coscienti dei pericoli per l'ambiente rappresentati da un'attività industriale sregolata, e che quindi con loro si possano fare dei compromessi. Ma non credo che questi compromessi possano portare molto lontano, non credo che possano riguardare più che degli obiettivi limitati: ciò di cui c'è bisogno qui sono delle regolamentazioni, dei vincoli forti all'attività industriale, e una vera regolamentazione non può andare nell'interesse delle aziende transnazionali, oggi.

Criticando l'utilitarismo, lei cita spesso la famosa formula del filosofo scozzese del Settecento Francis Hutcheson: "La maggiore felicità per il maggior numero di persone possibile," a cui gli utilitaristi come Bentham e Stuart Mill appunto si ispirarono. Vuole tornare sull'argomento, e dirci cosa c'è di sbagliato in questa formula?

» una formula un po' assurda. Molto semplicemente, dal punto di vista logico, dire "la felicità maggiore per il numero maggiore" significa massimizzare due cose nello stesso tempo. O si ha la maggior felicità per un numero ristretto di persone, o c'è una certa felicità per la maggioranza - ma non si possono avere entrambe le cose. Se abbiamo due cose che crescono contemporaneamente, possiamo dare la stessa felicità a un numero sempre più grande di persone, e cos" avremo massimizzato il numero di coloro che godono di questa "felicità," oppure possiamo dare la più grande felicità, ma soltanto a qualcuno. In ogni modo, con il sistema attuale, in cui si realizzano profitti giganteschi, si può dare "la maggiore felicità" a un numero maggiore di persone solo perché si sono massimizzati degli elementi (insomma perché è cresciuta la ricchezza). Nel sistema dello Stato sociale, nessuno aveva profitti cos" giganteschi, ma tutti avevano un aumento misurato del proprio benessere. Insomma, è un sistema contraddittorio e assurdo.

E poi la formula è criticabile anche perché è un effetto della hybris, l'orgoglio smisurato che gli antichi greci criticavano appunto perché rappresenta l'eccessivo, ciò che non ha misura né limite. Ma che cosa significa poi "la maggiore felicità?" Io non ho bisogno della maggiore felicità, ho bisogno della felicità e basta. Essere felici è già sufficiente. Al limite, se anche volessimo parlare di dimensione, si potrebbe dire che non è male neanche una "piccola felicità." Ma in realtà quantificare la felicità è stupido. » evidente che questo atteggiamento apre la porta all'economicizzazione del mondo e all'economicizzazione dello spirito. Per poterla quantificare, la felicità deve essere ridotta al prodotto nazionale lordo, e questo è assurdo, stupido e pericoloso, anche perché gli effetti sono sotto gli occhi ti tutti.

Io credo che quando Beccaria utilizzò anche lui questa formula non fosse del tutto cosciente dei suoi effetti, dell'ipertrofia dell'economia che si andava preparando e che si sta realizzando pienamente oggi. Adesso nel dibattito, evidentemente, c'è una consapevolezza maggiore, ma le radici di questo atteggiamento risalgono ai tempi di Francesco Bacone. La colonizzazione dell'immaginario è un processo che ha ormai una certa storia, in fondo segna già l'inizio della modernità.

Lei critica la prospettiva universalista, cioè la pretesa della civiltà occidentale di imporre a tutto il mondo una serie di valori considerati validi per tutto il genere umano. Ma criticando l'universalismo, non c'è il rischio di cadere in un eccessivo relativismo? La difesa a oltranza delle culture particolari (come abbiamo già visto) non crea lacerazioni e conflitti in nome di una visione ristretta dell'identità?

Sono contro l'universalismo perché è una creazione dell'occidente, perché è un'ideologia occidentale, e una forma di imperialismo culturale: in fondo, è l'identità della "tribù occidentale" (per riprendere il termine di Rino Genovese). Io credo invece che dobbiamo valorizzare l'aspirazione a un dialogo fra le culture, a una coesistenza delle culture. Per questo alla prospettiva dell'universalismo opporrei piuttosto un "universalismo plurale," che consiste nel riconoscimento e nella coesistenza di una diversità, e nel dialogo fra queste diversità. Dietro a tutto ciò sta una questione filosofica molto importante, perché l'universalismo si è fondato sulla credenza in valori "naturali": si pensa che i valori occidentali siano degni di essere diffusi ovunque, che siano migliori dei valori di altre culture, perché li si considera insiti nella natura dell'uomo, si pensa che l'occidente abbia espresso meglio di altre culture ciò che accomuna tutti gli esseri umani.

Naturalmente le cose non stanno affatto cos": non ci sono e non ci sono mai stati "valori naturali," i valori sono tutti culturali, quindi semmai c'è c'è una diversità, che bisogna sostenere con il dialogo. Pensiamo alla cultura indiana. Per un indiano la vita di una mucca è fondamentale. Non si può uccidere una mucca. Noi invece, tanto per fare un esempio, a causa della mucca pazza abbiamo massacrato milioni di mucche. Ora, se vogliamo coesistere con gli indiani e rispettare i loro valori, dobbiamo capire che bisogna dialogare anche con le cose che non ci piacciono. Ci sono delle cose che fanno gli indiani e che a noi sembrano orribili, come ci sono cose che noi facciamo e che sembrano orribili agli indiani. Allora, dobbiamo accettare questa situazione, poi, una volta accettata la diversità possiamo anche negoziare, ma da uguale a uguale.

Il problema è che l'universalismo è una trappola, potremmo dire un "errore universale": noi abbiamo preso i nostri valori, considerati espressione di un modo di pensare "naturale," e abbiamo voluto imporli a tutti gli altri.

Be', è come dire (e mi sembra che qualcuno l'abbia detto) che tutte le culture sono uguali, ma ce n'è qualcuna che è più uguale delle altre...

S", è quello che diceva il mio amico Castoriadis. Io non ho mai accettato questa formula: ci sono delle culture che sono più potenti di altre, che possono imporsi alle altre, che possono anche distruggerle, ma più uguali di altre, via... Eppure questa formulazione è interessante, perché indica che in certe circostanze alcune culture possono, almeno in parte, prendere le distanze da se stesse.

Il problema è che la consapevolezza della propria cultura in una certa misura rende più difficile porre la questione della diversità delle culture. Insomma, il dialogo fra culture è necessario, ma bisogna essere consapevoli che al di là di un certo limite sarà un dialogo tra sordi. Certo, possiamo capirci perché condividiamo certe cose, ma questa comprensione non può mai essere totale, perché ognuno di noi è sempre all'interno di una cultura, e guarda i problemi in funzione della propria cultura. Non c'è una soluzione definitiva a questo problema: c'è solo il rispetto della diversità. Nel momento in cui si ha un minimo di rispetto, di tolleranza per l'altro, allora si può fare qualche passo avanti.

Che cosa pensa dell'elaborazione delle femministe a questo proposito? In fondo, è stato il femminismo che ha posto con più forza (e a volte anche con chiarezza) il problema dei limiti culturali, del "punto di vista" inevitabilmente parziale da cui ognuno di noi parla.

Sono d'accordo, con delle precisazioni. A volte vengo aggredito da qualche femminista, che mi rimprovera di non parlare delle donne. Be', rispondo dicendo che non ne ho parlato perché non sono una donna, siete voi donne che ne dovete parlare. Si comincia a parlare dall'"io sono," non è vero?

Secondariamente, c'è un malinteso su questo punto quando si apre un dialogo con altre culture, perché anche il femminismo è nato in una società occidentale, ed è nato a partire dalla visione individualista della nostra cultura, che sacralizza l'individuo a scapito delle altre dimensioni, di gruppo o anche personali. Per noi l'individuo è tutto, ma non è cos" per altre società, per altre culture, che spesso hanno una visione olistica, integrale, del rapporto fra gli esseri umani e il mondo.

Perciò riconosco la legittimità del movimento femminista all'interno del mondo occidentale, che concepisce la società come un'associazione di individui. » normale che in una situazione come questa le donne, per cos" dire, rivendichino la loro parte; ma al tempo stesso bisogna comprendere che può non essere lo stesso in altre società, in cui il rapporto fra i sessi, il rapporto fra uomini e donne, è concepito a partire da una visione globale: in queste società non è detto che le donne stesse maturino un punto di vista "femminista" all'occidentale. Malgrado tutto, siamo sempre alienati. Alienati può essere un altro termine per designare una situazione in cui tutto è formattato, in un modo o in un altro. Se non si è formattati in un certo modo lo si è in un altro. Da questo punto di vista l'individualismo è una forma di alienazione.

Nel suo intervento, oggi, lei ha detto che "il multiculturalismo è il cosmetico della mondializzazione." Può spiegare questa affermazione?

Mi riferisco a un certo discorso multiculturalista, quello, ad esempio, sviluppato dalle agenzie di viaggio, che promuove la "scoperta di nuove culture" come una cosa fantastica, e parla di una diversità che non si era mai vista nella storia dell'uomo. Questa è una forzatura, un errore storico. Il multiculturalismo non è stato una scoperta della modernità, né della postmodernità. Ci sono già state esperienze di convivenza tra culture diverse, e non cos" livellatrici come quella di oggi. L'antropologo Marco Aime lo dice bene. A Venezia, fra il XIII e il XV secolo, c'erano albanesi, c'erano ottentotti, che vivevano in certi quartieri, gli ebrei vivevano nel ghetto, ma non era una condizione realmente escludente. Nessuno era uguale, e ognuno era differente in rapporto al potere. Non voglio dire che tutto funzionasse, ma c'erano dei meccanismi di bilanciamento e di compensazione.

Quello che va demistificato è l'uso che si fa del multiculturalismo per nascondere il terribile dramma dell'uniformazione planetaria: la diffusione generalizzata di McDonald's, della Coca-Cola, di un modo di vita occidentale che viene presentato come ideale, e che colonizza le menti delle persone distruggendo al tempo stesso i loro mezzi di sussistenza. Quando si fa bere la Coca-Cola a delle popolazioni africane o latino-americane, si distruggono le imprese locali, l'artigianato locale, le tradizioni locale, in cui ci sono bevande particolari come succhi di frutta o succo di canna da zucchero, etc. La stessa cosa avviene per l'alimentazione, con McDonald's e il fast food. Questa è un'uniformazione culturale. E la stessa cosa avviene per la musica: si esalta la musica folk, la musica etnica, ma tutto ciò in realtà passa attraverso una formattazione hollywoodiana, americana...

Ma allora non è possibile un multiculturalismo che vada in un'altra direzione, che costruisca un vero dialogo fra le culture?

Bisogna capire che ogni cultura, in se stessa, è multiculturale. Ma lo è realmente, autenticamente, non perché si costruisce un discorso artificiale sulle culture "esotiche", che è solo uno specchietto per le allodole. Ogni cultura è multiculturale perché è necessariamente aperta agli apporti di altre culture. La sua identità sta nella pluralità. Quella che viviamo adesso, invece, è la distruzione di ogni identità, di ogni capacità di orientamento. All'interno della propria cultura oggi ognuno sta perdendo i propri punti di riferimento, nessuno sa più chi è, nessuno sa più a cosa credere: e questa è la porta aperta al totalitarismo, è cos" che si crea il potere totalitario. La gente diventa facile preda di più o meno astuti "imprenditori di identità." La cosa più grave è che tutto questo è già successo, e noi ce ne stiamo dimenticando. L'analisi che ha fatto Reich dell'ascesa del nazismo (utilizzando strumenti della psicanalisi e del marxismo), mostra bene che una delle cause principali di quel fenomeno fu che la classe media tedesca aveva perso tutti i suoi punti di riferimento, le sue difese. Perché i punti di riferimento sono anche delle difese immunitarie.

Lei crede che il movimento antiglobalizzazione sia in grado di cambiare - almeno in parte - questa situazione?

Non so se possa farlo nella sua forma attuale. Ma penso che questo movimento abbia già dato dei buoni risultati: è stato in grado di mettere in crisi alcuni progetti dei governi e delle aziende transnazionali, ha diffuso nell'opinione pubblica un certo numero di temi. Certo, è un movimento ben lontano dall'essere monolitico, unificato, è attraversato da contraddizioni le più varie. Ma penso che sia un movimento importante. Ma io confido anche in un altro antidoto, che è un modo di trasformare in ottimismo il pessimismo, ed è quello che io chiamo "la pedagogia delle catastrofi." Io sono sicuro che questo sistema mondiale abbia una indubbia capacità di autodistruzione. E credo che questa consapevolezza possa essere diffusa. Noi possiamo attrezzarci a vivere questo cambiamento, questa condizione, superando le tendenze alla distruzione, credo che possiamo costruire una sorta di laboratorio del futuro. E credo che questa oggi sia un po' la missione degli intellettuali impegnati.


Energia e miti economici

di N. G. Roegen.

Conferenza alla Yale University.

Prima parte

Ben difficilmente qualcuno esprimerebbe oggigiorno apertamente una fede nell'immortalità dell'anima. Eppure molti di noi preferiscono non escluderne la possibilità e a questo scopo cerchiamo di combattere qualunque fattore che possa limitare la vita dell'umanità. L'idea che vede tutti d'accordo è che la dote entropica dell'umanità sia inesauribile, primariamente grazie alla capacità intrinseca dell'uomo di aggirare la legge dell'entropia in una maniera o un'altra.

Per cominciare, c'è la semplice argomentazione secondo cui, come è già accaduto con molte leggi di natura, anche quelle su cui si basa la finitezza delle risorse accessibili saranno confutate a loro volta. La difficoltà con questa argomentazione è che la storia dimostra con ancora maggiore forza, primo, che in uno spazio finito può esserci soltanto una quantità finita di bassa entropia e, secondo, che questa si riduce continuamente ed irrimediabilmente. L'impossibilità del moto perpetuo (di entrambi i tipi) è altrettanto confermata dalla storia quanto la legge di gravità.

Strumenti più sofisticati sono stati messi a disposizione dall'interpretazione statistica dei fenomeni della termodinamica - un tentativo di ristabilire la supremazia della meccanica appoggiato da una nozione sui generis di probabilità. Secondo questa interpretazione, la reversibilità dell'entropia da livelli alti a livelli bassi è un evento molto improbabile, ma non totalmente impossibile. E poiché questo evento è possibile, dovremmo essere capaci di provocarne la realizzazione a nostro piacimento grazie ad un qualche dispositivo ingegnoso, proprio come un baro può far uscire un "sei" quando vuole. Questo ragionamento serve solo a portare alla luce le irrisolvibili contraddizioni e gli errori insiti nelle fondamenta dell'interpretazione statistica preferita dagli adoratori della meccanica. [32, c. 6] Le speranza suscitate da queste interpretazioni furono cos" accese che ad un certo momento P. W. Bridgman, un'autorità in campo termodinamico, credette necessario scrivere un articolo proprio per esporre la fallacia dell'idea che ci si possa riempire le tasche di denaro con il "contrabbando di entropia".[11]

Occasionalmente e in maniera sommessa, alcuni esprimono la speranza, un tempo sostenuta da un'autorità scientifica come John von Neumann, che l'uomo possa scoprire alla fine il modo di rendere l'energia una merce gratuita, "proprio come l'aria" [3, p. 32]. Alcuni immaginano per esempio un "catalizzatore" che scomponga le acque marine in ossigeno ed idrogeno, la cui combustione ci darebbe tutta l'energia di cui avessimo bisogno. Ma l'analogia con la scintilla che fa bruciare della legna non calza. L'entropia della legna e l'ossigeno usato nella combustione è minore di quella delle ceneri e del fumo risultante, laddove l'entropia dell'acqua è maggiore di quella dell'ossigeno e dell'idrogeno dopo la scomposizione. Perciò, anche il catalizzatore miracoloso implica il contrabbando d'entropia.(1)

Con l'idea, che ora viene propalata in tutti gli editoriali, che i reattori a generazione producano più energia di quanta ne consumino, la fallacia del contrabbando di entropia sembra aver raggiunto il suo culmine finanche tra gli ampi circoli letterati, compresi gli economisti. Sfortunatamente, l'illusione si alimenta di sconclusionati discorsi interessati da parte di alcuni esperti nucleari che cantano le lodi dei reattori che trasformano materiale fertile ma non fissile in materiale fissile come dei generatori che "producono più energia di quanta ne consumino" [82, p. 82]. La cruda verità è che il generatore non è affatto diverso da un impianto che produca martelli servendosi di martelli. Secondo il principio del deficit della legge dell'entropia [...] anche nell'allevamento di polli, è consumata una quantità maggiore di bassa entropia rispetto a quella contenuta nel prodotto.(2)

Apparentemente in difesa della visione standard del processo economico, gli economisti hanno tirato l'acqua al proprio mulino. Possiamo ricordare per prima l'argomentazione che "la nozione di limite assoluto alla disponibilità delle risorse naturali non è sostenibile nel momento in cui la definizione di risorse cambia radicalmente ed in maniera impredicibile nel corso del tempo... Un limite può esistere, ma non può essere né definito né specificato in termini economici" [3, pp. 7, 11]. Leggiamo anche che non esiste neppure un limite superiore della terra arabile perché "arabile è indefinibile" [5, p. 22] La sofisticheria di queste argomentazioni è flagrante. Nessuno potrebbe negare che non possiamo dire esattamente quanto carbone, per esempio, è accessibile. Le stime delle risorse naturali si sono dimostrate costantemente sottostimate. Ma anche cos", la possibilità che i metalli contenuti nei primi chilometri di profondità della crosta terrestre possano essere un milione di volte le attuali riserve conosciute [4, p. 338; 58, p. 331] non dimostra l'inesauribilità delle risorse, ma, in maniera caratteristica, ignora sia la questione dell'accessibilità e dei rifiuti.(3) Qualunque sia la risorsa o terra arabile di cui possiamo aver bisogno ad un dato momento, consisteranno sempre di bassa entropia accessibile e terra accessibile. E poiché la somma di tutti i tipi di risorse è pur sempre una quantità finita, nessun cambio tassonomico potrà mai superare quella finitezza.

La tesi degli economisti tradizionali e di quelli di orientamento marxista, comunque, è che il potere della tecnologia è illimitato [3; 4; 10; 49; 51; 69; 74]. Saremo sempre in grado non solo di trovare un sostitutivo di una risorsa che sia diventata scarsa, ma anche di accrescere la produttività di qualunque tipo di energia o materiale. Qualora dovessimo esaurire una certa risorsa, escogiteremo sempre qualcosa, proprio come abbiamo sempre fatto sin dai tempi di Pericle [4, pp. 332-334]. Perciò nulla potrebbe impedirci il cammino verso un'esistenza sempre più felice della specie umana. » difficile concepire una forma di pensiero lineare più ottusa di questa. Secondo la stessa logica, nessun giovane in salute dovrebbe mai essere afflitto dai reumatismi o da qualsivoglia altra malattia senile; né dovrebbe morire. I dinosauri, proprio poco prima di scomparire dal pianeta, avevano alle loro spalle non meno di centocinquanta milioni d'anni di esistenza davvero prospera. E non inquinavano l'ambiente con gli scarichi industriali! Ma la logica più gustosa è quella di Solo [73, p. 516]. Se la degradazione entropica potesse piegare l'umanità nel futuro, dovrebbe averlo già fatto dall'anno mille in qua. La verità di Seigneur de La Palice non era mai stata capovolta - ed in forma cos" divertente!(4)

A sostegno della stessa tesi si adducono anche argomentazioni che vanno più dirette al cuore del problema. Prima di tutto, vi è l'affermazione che solo alcuni tipi di risorse sono "tanto resistenti al progresso tecnologico da non ammettere l'estrazione a costi costanti o decrescenti" [3, p. 10].(5) Più recentemente, alcuni hanno formulato una legge specifica che, in un certo senso, è il contrario della legge di Malthus applicata alle risorse. L'idea è che la tecnologia migliora in maniera esponenziale [4, p. 236; 51, p. 664; 74, p. 45]. La giustificazione superficiale è che un progresso tecnologico ne induce un altro. Questo è vero, solo che non funziona in maniera cumulativa come nella crescita della popolazione ed è terribilmente sbagliato affermare, come fa Maddox [59, p. 21], che insistere sull'esistenza di un limite alla tecnologia significa negare la capacità dell'uomo di influire sul progresso. Anche se la tecnologia continuasse a progredire, non eccederà per forza ogni limite; una sequenza crescente può essere superiormente limitata. Nel caso della tecnologia, questo limite è definito dal coefficiente teorico d'efficienza [...] Se il progresso fosse davvero esponenziale, allora l'input i per unità di output seguirebbe la legge temporale i = i0(1 + r)/t che tende a zero. In altri termini a partire da un certo istante, la produzione diventerebbe incorporea e la terra un nuovo paradiso terrestre.

Infine, c'è la tesi che può essere definita l'inganno della sostituibilità infinita: "Pochi componenti della crosta terrestre, compresa la terra arabile, sono talmente specifici da rendere impossibile la sostituzione economica; [...] la natura impone delle scarsità specifiche, non una scarsità generica inevitabile" [3, pp. 10f].(6) Nonostante la protesta di Bray [10, p. 8], si tratta di "un trucco da economista". » vero, ci sono pochi elementi "vitaminici" che giocano un ruolo tanto specifico quanto quello del fosforo per gli organismi viventi. L'alluminio, però, è stato sostituito dal ferro e dal rame in molti, ma non in tutti gli usi.(7) E comunque, la sostituzione nell'ambito di scorte finite di bassa entropia accessibile, la cui degradazione è accresciuta dall'uso, non può continuare per sempre.

Nelle mani di Solow, la sostituzione diventa il fattore chiave che supporta il progresso tecnologico anche qualora le risorse divenissero sempre più scarse. Si realizzerà prima una sostituzione nello spettro dei beni di consumo. Poiché i prezzi reagirebbero all'aumento della scarsità, i consumatori comprerebbero "meno beni che richiedano un uso intensivo di risorse e più beni di altro tipo" [74, p. 47].(8) Più recentemente, ha esteso quest'idea anche all'ambito della produzione: potremmo, sostiene, sostituire "altri fattori alle risorse naturali" [75, p. 11]. Bisogna avere una visione completamente errata del processo economico nel suo complesso per non vedere che non vi sono fattori materiali che non siano risorse naturali. Sostenere che "il mondo può, di fatto, sopravvivere senza risorse naturali" è come ignorare la differenza tra il mondo reale ed il giardino dell'eden.

Più sorprendenti ancora sono i dati statistici invocati a sostegno di alcune delle tesi sopra elencate. I dati addotti da Solow [74, pp. 44f] mostrano che negli Stati Uniti tra il 1950 ed il 1970 il consumo di una serie di minerali per unità di PIL diminu" in maniera sostanziale. Le eccezioni erano attribuite alla sostituzione ma sarebbero rientrate nella tendenza, prima o poi. In senso stretto, i dati non provavano che in quello stesso periodo la tecnologia avesse avanzato necessariamente verso una maggiore economia di risorse. Il PIL può crescere più velocemente di ogni minerale usato come input anche se la tecnologia resta la stessa, o anche se peggiora. Ma sappiamo anche che praticamente nello stesso periodo, dal 1947 al 1967, il consumo pro capite di materie prime aumentò negli Stati Uniti. E nel mondo, nel corso di un solo decennio, dal 1957 al 1967, il consumo d'acciaio pro capite crebbe del 44% [12, pp. 198-200]. Ciò che conta, alla fine, non è l'impatto del progresso tecnologico sul consumo di risorse per unità di PIL, ma soprattutto l'incremento della velocità di esaurimento che è un effetto collaterale di quel progresso.

Ancora più sorprendenti - come si sono dimostrati essere - sono i dati usati da Barnett e Morse per dimostrare che, dal 1879 al 1957, il rapporto tra lavoro e costi di capitale rispetto alla produzione netta diminu" apprezzabilmente nell'agricoltura e nell'industria mineraria, entrambi settori cruciali per quanto concerne l'esaurimento delle risorse [3, 8f, 167-178]. Nonostante alcune incongruità aritmetiche,(9) il quadro che emerge da questi dati non possono essere contestati. Solo che la loro interpretazione deve essere corretta.

Perché la questione ambientale è essenziale per capire le forme tipiche in cui può avvenire il progresso economico. Un primo gruppo comprende le innovazioni economiche, che consentono un'economia netta della bassa entropia - grazie ad una combustione più completa, o per riduzione degli attriti, o ad una fiamma più intensa dal gas o dall'elettricità, oppure alla sostituzione di materiali che costano molto in termini energetici con altri che costano meno, e cos" via. In questo ambito dovremmo anche includere la scoperta di come usare nuovi tipi di bassa entropia accessibile. Un secondo gruppo consiste di innovazioni di sostituzione, che semplicemente sostituiscono l'energia umana con energia fisico-chimica. Un buon esempio è l'innovazione della polvere da sparo, che rese obsoleta la catapulta. Queste innovazioni in genere ci permettono non solo di fare le cose meglio, ma anche (e soprattutto) fare cose che non si potevano fare prima - volare in aeroplano, per esempio. Infine, c'è lo innovazioni di spettro, che portano in essere nuovi beni di consumo, come il cappello, le calze di nylon ecc. La maggior parte delle innovazioni di questo gruppo sono allo stesso tempo innovazioni di sostituzione. Di fatto, la maggior parte delle innovazioni appartiene a più di una categoria, ma la classificazione è utile a scopi analitici.

Ora, la storia economica conferma un fatto piuttosto elementare - il fatto che i passi decisivi nel campo del progresso tecnologico sono stati in generale compiuto grazie alla scoperta di come usare un nuovo tipo di energia accessibile. D'altro canto, un grande passo avanti nella storia del progresso tecnologico non si può materializzare a meno che l'innovazione corrispondente non sia seguita da una grande espansione mineraria. Anche un incremento sostanziale nell'efficienza dell'uso della benzina come combustibile sarebbe insignificante rispetto all'incremento dei campi di petrolio conosciuti.

Questo genere di espansione è quanto è accaduto nel corso degli ultimi cento anni. Abbiamo individuato petrolio e scoperto nuovi depositi di carbone e gas una proporzione molto superiore a quella che potevamo usare nello stesso periodo. Ancora più importante, tutte le scoperte minerarie comprendevano una proporzione significativa di risorse facilmente accessibili. Questa eccezionale esuberanza di per se stessa è servita a diminuire il costo reale del portare le risorse minerarie in superficie. Con l'energia prodotta dalla sorgente minerale sempre più economica, le innovazioni di sostituzione hanno fatto s" che il rapporto tra forza lavoro e prodotto netto decrescesse. Anche il capitale deve essersi evoluto verso forme che costano meno ma usano più energia per ottenere lo stesso risultato. Ciò che è successo durante questo periodo è una modifica della struttura di costo, con l'aumento dei fattori di flusso e la diminuzione dei fattori di FUND.(10) Esaminando, perciò, solo le variazioni relative dei FUND FACTORS, nel corso di un periodo di eccezionale abbondanza mineraria, non possiamo dimostrare né che il costo totale unitario seguirà sempre un andamento decrescente né che il progresso continuo della tecnologia renda praticamente inesauribili le risorse accessibile - come affermano Barnett e Morse [3, p. 239].

Poco dubbio resta del fatto che le tesi qui esaminate sono ancorate ad una fede profonda nell'immortalità dell'umanità. Alcuni dei loro sostenitori ci spingono ad avere fede nella specie umana: questa fede trionferà su tutte le limitazioni.(11) Ma né la fede né le garanzie fornite da qualche cattedratico di fama [4] possono alterare il fatto che, secondo la legge di base della termodinamica, la dote dell'umanità è finita. Anche se si inclinasse a credere nella possibile confutazione di tutti questi principi in futuro, pure non bisogna agire sulla base di questa convinzione ora. Dobbiamo considerare che l'evoluzione non consiste in una ripetizione lineare, anche se su brevi periodi possiamo ingannarci e credere il contrario.

Molta confusione sui problemi ambientali prevale non solo tra gli economisti in generale (come evidenziato dai numerosi casi citati), ma anche nei più alti circoli intellettuali, semplicemente perché la natura entropica di tutti i fenomeni è ignorata o incompresa. Sir MacFarlane Burnet, vincitore del premio Nobel per la medicina, in una conferenza speciale giudico imperativo "impedire la progressiva distruzione delle risorse non sostituibili della terra" [citato, 15, p. 1].

Ed un'istituzione prestigiosa come le Nazioni Unite, nella sua Dichiarazione sull'Ambiente umano (Stoccolma, 1972), ha fatto appello ad ognuno "per migliorare l'ambiente". In entrambi i casi, si può leggere l'errore di pensare che l'uomo possa invertire la rotta dell'entropia. La verità, per quanto spiacevole, è che tutto ciò che possiamo fare è impedire ogni consumo non necessario delle risorse e qualunque deterioramento non necessario dell'ambiente, ma senza crede di conoscere il preciso significato di "non necessario" in questo contesto.

Lo stato stazionario: un miraggio classico

Malthus, come sappiamo, fu criticato soprattutto perché assumeva che la popolazione e le risorse crescano in accordo ad una qualche legge matematica semplice. Ma queste critiche non aggiunsero a toccare il vero errore di Malthus (che è andato in apparenza sotto silenzio). Questo errore è l'assunzione implicita che la popolazione possa crescere oltre ogni limite, sia numericamente che nel tempo, a condizione che non cresca troppo rapidamente.(12) Un essere simile, nella sostanza, è stato commesso dagli autori di "The limits", dagli autori di "Blueprint for Survival", testo non matematico ma più articolato, e da altri autori anteriori. Infatti, come Malthus, essi volevano dimostrare soprattutto l'impossibilità della crescita e si lasciavano ingannare da un semplice sillogismo, oggi diffuso ma erroneo: poiché la crescita esponenziale in un modo finito condurrà a disastri di tutti tipi, la salvezza ambientale è legata allo stato stazionario [42; 47; 62, pp. 156-184; 6, pp. 3f, 8, 20].(13) H. Daly afferma addirittura che "perciò, lo stato stazionario è una necessità" [21, p. 5].

Questa visione di un mondo felice in cui sia la popolazione che il capitale restino costanti, originariamente descritta con la sua abilità tipica da John Stuart Mill [64, bk. 4, ch. 6], era rimasta nel dimenticatoio fino a poco fa.(14) A causa del suo spettacolare revival, è bene sottolinearne i problemi logici e fattuali. L'errore cruciale consiste nel non vedere che non soltanto la crescita, ma anche la crescita-zero, o meglio, finanche uno stato di decrescita che non converga all'annichilazione, non può esistere per sempre in un ambiente finito. L'errore forse deriva dalla confusione tra riserva finita e flusso finito, come lasciano pensare le dimensioni incongrue di alcuni grafici [62, pp. 62, 64f, 124ff; 6, p. 6]. E al contrario di quanto affermano alcuni sostenitori dello stato stazionario [21, p. 15], quest'ultimo non occupa una posizione privilegiata rispetto alle leggi della fisica.

Per andare al cuore del problema, diciamo S la quantità reale di risorse accessibili nella crosta terrestre. Diciamo poi Pi e si la popolazione e il consumo pro capite di risorse all'anno i. Chiamiamo L la "quantità totale di vita", misurata in anni e definita dalla formula L = &?i Pi, per i che va da 0 a ?. S impone un limite superiore ad L per via della condizione ovvia &?i Pisi ? S. Infatti, benché si è una quantità storica, essa non può essere zero o trascurabile (a meno che l'umanità non ritorni ad una economia basata di raccolta). Perciò, Pi = 0 per i maggiore di un certo valore finito n e Pi > 0 altrimenti. Questo n fornisce la durata massima della vita della specie umana [31, pp. 12f; 32, p. 304].

La terra ha anche una cosiddetta capacità di carico, che dipende da un complesso di fattori, tra cui la dimensione di si.(15) Questa capacità definisce un limite per ogni valore singolo di Pi, ma questo limite non rende superflui gli altri, quelli ai valori di L e n. » perciò inesatto dire - come il gruppo di Meadows sembra fare [62, pp. 91f] - che lo stato stazionario può durare all'infinito fintanto che Pi non eccede quella capacità. Coloro che sostengono che lo stato stazionario può portare la salvezza devono ammettere che tale stato può avere solo una durata finita - a meno che non vogliano unirsi al club di coloro che credono che non esistano limiti considerando la quantità S inesauribile o quasi - come di fatto fa il gruppo di Meadows [62, p. 172]. Al contrario, essi devono spiegare il mistero di un'economia intera, stazionaria per un lungo periodo, che giunga ad una fine improvvisa.

Apparentemente, i sostenitori dello stato stazionario considerano quest'ultimo come equivalente ad uno stato stazionario termodinamico in un sistema aperto, che mantiene costante la propria struttura entropica attraverso attraverso scambi materiali con il proprio "ambiente". Come si intuisce facilmente, questo concetto costituisce uno strumento fondamentale per lo studio degli organismi biologici. Dobbiamo, però, osservare che il concetto si basa su alcuni condizioni speciali che furono introdotte da L. Onsanger [50, pp. 89-97].

Queste condizioni sono cos" delicate (sono indicate come il principio del bilancio dettagliato) che sono valide solo "entro una deviazione di pochi punti percentuali" [50, p. 140]. Per questa ragione uno stato stazionario può esistere di fatto solo in maniera approssimata e su un periodo di tempo limitato. Questa condizione, l'impossibilità che un sistema che non si trovi in uno stato di caos possa durare all'infinito, potrà un giorno essere espressamente riconosciuta come una nuova legge della termodinamica, esattamente come accadde per l'impossibilità del moto perpetuo. Gli specialisti ammettono che le leggi della termodinamica non sono sufficienti a spiegare tutti i fenomeni non reversibili, soprattutto quelli legati ai processi vitali.

Indipendentemente da questi impedimenti, esistono ragioni semplici per non credere che l'umanità possa vivere in uno stato stazionario perpetuo. La struttura di uno stato simile resta invariabile per tutta la sua durata; non contiene in se stesso il germe della morte inesorabile di tutti i sistemi termodinamici. D'altro canto, un mondo con una popolazione stazionaria sarebbe costretto a cambiare continuamente la propria tecnologia ed il suo stile di vita in risposta all'inevitabile riduzione dell'accessibilità delle risorse. Anche se ignoriamo la questione di come il capitale possa cambiare qualitativamente eppure restare costante, potremmo dover assumere che la impredicibile diminuzione dell'accessibilità venga miracolosamente compensata dalla giusta innovazione al momento giusto. Un mondo stazionario potrebbe per un certo tempo essere interallacciato con l'ambiente mutevole che lo ospita attraverso un sistema di feedback compensativo analogamente a quanto accade con gli organismi viventi durante una fase della loro vita. Ma, come Bormann ci ricorda [7, p. 707], il miracolo non può durare per sempre; prima o poi il sistema di bilanciamento collasserà. In quel momento lo stato stazionario entrerà in crisi.

Bisogna stare in guardia anche rispetto ad un altro errore logico, quello che consiste nell'invocare il principio di Prigogine a sostegno dello stato stazionario. Questo principio afferma che il minimo di entropia prodotta da un certo tipo di sistema termodinamico si raggiunge quando il sistema diventa stazionario [50, ch. 16]. Non dice nulla della relazione tra questo minimo di entropia e quella prodotta da altri sistemi aperti.(16)

Le argomentazioni solite che si adducono in favore dello stato stazionario sono, comunque, di una natura diversa, più diretta. Si sostiene, per esempio, che in tale stato i processi naturali hanno più tempo a disposizione per ridurre l'inquinamento e la tecnologia per adattarsi alla diminuzione dell'accessibilità delle risorse [62, p. 166]. » chiaramente vero che oggi potremmo usare il carbone in maniera molto più efficiente che in passato. Il punto è che non avremmo appreso le tecniche più efficienti attuali se non avessimo bruciato tutto quel carbone in maniera "inefficiente". Che in uno stato stazionario le persone non debbano lavorare di più per accumulare il capitale (che alla luce di quanto ho affermato nell'ultimo paragrafo non è del tutto esatto) si lega all'affermazione di Mill secondo cui le persone potrebbero dedicare più tempo alle attività intellettuali. La storia, comunque, offre esempi molteplici - il Medioevo, per dirne uno - di società quasi stazionarie in cui le arti e le scienze sono state praticamente stagnanti. Anche in uno stato stazionario le persone possono lavorare nei campi e nei laboratori per tutto il giorno. Qualunque sia lo stato, il tempo libero per il progresso intellettuale dipende dall'intensità della pressione esercitata dalla popolazione sulle risorse. Qui risiede la maggiore debolezza della visione di Mill. Ne testimonia il fatto che - come Daly ammette esplicitamente [21, pp. 6-8] - che i suoi scritti non offrono alcuna base per determinare neppure in principio i livelli ottimi di popolazione e capitale. Ciò porta alla luce il punto, importante ma trascurato, che la necessaria conclusione dei ragionamenti in favore di quella visione è che lo stato maggiormente desiderabile non è quello stazionario, ma uno di decrescita.

Indubbiamente la crescita attuale deve cessare, meglio, deve invertirsi. Ma chiunque creda di poter fare un piano per la salvezza ecologica della specie umana non comprende la natura dell'evoluzione, o anche della storia - che è quella di una lotta permanente in forme sempre nuove, non quella di un processo fisico-chimico predicibile e controllabile, come far bollire un uovo o lanciare un missile sulla luna.

(1) Una visione suggestiva che sottintende il contrabbando di entropia è di Harry Johnson, che prevede la possibilità di ricostituire le riserve di carbone e petrolio "con un po' di fantasia" [49, p. 8]. Ma se ciò significa anche con sufficiente energia, occorre chiedersi perché perdere gran parte di quella energia nella trasformazione. (<<)

(2) La straordinaria resistenza del mito della produzione controllata, come in un allevamento, dell'energia è evidenziata dalla recente affermazione di Roger Revelle [70, p. 169] che "l'allevamento può essere pensato come una specie di reattore in cui si produce molta più energia di quanta se ne consumi". L'ignoranza delle principali leggi che governano l'energia è proprio diffusa. (<<)

(3) Anche gli economisti marxisti fanno parte di questo coro. Una recensione di [32], per esempio, obiettava che abbiamo appena scalfito la crosta terrestre. (<<)

(4) Per richiamare la famosa quartina francese: "Il Signor de la Palice / cadde nella battaglia di Pavia. / Un quarto d'ora prima della sua morte / era ancora vivo". (Traduzione mia) Si veda Grand Dictionnaire Universel du XIX~ Siecle, vol. 10, p. 179. (<<)

(5) Finanche alcuni studiosi di scienze naturali, per esempio in [1], hanno accettato questa posizione. Curiosamente, il fatto storico che alcune civiltà fossero incapaci di "inventarsi qualcosa" è spazzato via dall'osservazione che erano "relativamente isolati" [13, p. 6]. Ma l'umanità non è forse una comunità completamente isolata da ogni influenza culturale e, per di più, impossibilitata a emigrare? (<<)

(6) Argomentazioni simili possono essere trovate in [4, pp. 338f; 59, p. 102; 74, p. 45]. Significativamente, Kaysen [51, p. 661] and Solow [74, p. 43], pur ammettendo la finitezza della dotazione entropica dell'umanità, non prendono la cosa sul serio perché non "conduce ad alcuna conclusione interessante". Gli economisti, tra tutti gli studiosi, dovrebbero sapere che il finito, non l'infinito, solleva questioni estremamente interessanti. Questo saggio spera di esserne prova. (<<)

(7) Anche in questo caso tra i più citati, la sostituzione non è stata coronata da successo da ogni punto di vista come crediamo in generale. Recentemente si è scoperto che i cavi elettrici in alluminio creano il rischio di incendio. (<<)

(8) La perla a questo proposito, comunque, è offerta da Maddox [59, p. 104]: "Proprio come la prosperità nei paesi attualmente avanzati è stata accompagnata da una diminuzione di fatto del consumo di pane, allo stesso modo possiamo aspettarci che la ricchezza rendere le società meno dipendenti da metalli quali l'acciaio". (<<)

(9) L'incongruità sta nel sommare capitale (misurato in termini monetari) e la forza lavoro (misurata dal numero di lavoratori impiegati) come pure nel calcolo della produzione netta dalla produzione lorda fisica [3, pp. 167f]. (<<)

(10) Per queste distinzioni, si vedano [27, pp. 512-519; 30, p. 4; 32, pp. 223-225]. ENDNTOE

(11) Si veda il dialogo tra Preston Cloud e Roger Revelle citato in [66, p. 416]. Lo stesso refrain attraversa la critica di Maddox a coloro che mettono in primo piano le limitazioni dell'umanità [59, pp. vi, 138, 280]. (<<)

(12) Joseph Spengler, autorità riconosciuta in questo campo, mi dice che di fatto non conosce nessuno che possa aver fatto questa affermazione. Per alcune discussioni di Malthus molto penetranti e dell'attuale pressione demografica, si vedano [76; 77] (<<)

(13) La sostanza dell'argomentazione de I Limiti è presa in prestito da Boulding and Daly [8; 9; 20; 21]. (<<)

(14) Nell'Enciclopedia internazionale delle Scienze sociali, per esempio, questo punto è menzionato di passata. (<<)

(15) Ovviamente, qualunque aumento di si produrrà in generale la diminuzione di L e di n. Inoltre, la capacità di carico può aumentare per via di un uso maggiorato di risorse terrestri. Queste considerazioni elementari dovrebbero essere ricordate e usate. (<<)

(16) L'argomentazione richiama l'idea di Boulding secondo cui il flusso in entrata la processo economico, che chiama "velocità di trasmissione", è "qualcosa da minimizzare e non massimizzare" e che dovremmo passare da un'economia di flusso ad uno di riserva [8, pp. 9f; 9, pp. 359f]. L'idea è appariscente più che illuminante. » vero, gli economisti soffrono del complesso del flusso [29; 55; 88]; inoltre, non hanno ben compreso che la corretta descrizione analitica di un processo deve comprendere sia i flussi che i fondi [30; 32, pp. 219f, 228-234]. Gli imprenditori, per quanto concerne l'idea di Boulding, hanno sempre mirato a ridurre il flusso necessario a mantenere i loro fondi di capitale. Se il flusso in entrata attualmente dalla natura non è commensurato alla sicurezza della nostra specie, è solo perché la nostra popolazione è troppo ampia e una sua parte gode di confort eccessivo. Le decisioni economiche si baseranno sempre necessariamente sia sui flussi che sui fondi. Non è vero che il problema dell'umanità consiste nel fare economia di S (le riserve) per la massima durata possibile della vita, e che ciò implichi la minimizzazione di sj (un flusso) per una qualche "vita buona"?

Riferimenti bibliografici

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Seconda parte

Dovremmo guarire da quella che ho chiamato "sindrome circolare del rasoio elettrico", che consiste nel radersi più velocemente, in maniera da avere più tempo per lavorare ad un rasoio che permetta di radersi più rapidamente ancora, in maniera da avere ancora più tempo per progettare un rasoio ancora più veloce, e cos" via all'infinito.

Eccezion fatta per alcune eccezioni insignificanti, tutte le specie diverse da quella umana usano solo strumenti endosomatici - come Alfred Lotka propose di chiamare quegli strumenti (gambe, artigli, ali, ecc.) che appartengono all'organismo individuale sin dalla nascita. Solo l'uomo è giunto, nel tempo, ad usare un bastone, che non gli appartiene alla nascita, ma estende il suo braccio endosomatico e ne accresce il potere. In quel momento, l'evoluzione umana trascese i suoi limiti biologici per includere anche (e primariamente) l'evoluzione di strumenti esosomatici, cioè di strumenti prodotti dall'uomo ma non appartenenti al suo organismo.(18) » per questo che l'uomo può volare o nuotare sott'acqua anche se il suo corpo non ha ali, né pinne, née branchie.

L'evoluzione esosomatica portò con sé due cambiamenti fondamentali ed irrevocabili alla specie umana. Il primo è il conflitto sociale irriducibile che caratterizza le specie umane [29, pp. 98-101; 32, pp. 306-315, 348f]. Infatti, ci sono altre specie che pure vivono socialmente, ma sono libere da tale conflitto. L'uccisione periodica di gran parte dei fuchi da parte della api è un'azione biologica, naturale, non una guerra civile.

Il secondo cambiamento è la dipendenza dell'uomo dagli strumenti esosomatici - un fenomeno analogo a quello del pesce volante che divenne dipendente dall'atmosfera e si tramutò in pesce per sempre. » a causa di questa dipendenza che la sopravvivenza dell'umanità presenta una problematicità del tutto diversa da quella di tutte le altre specie [31; 32, pp. 302-305]. Non è né esclusivamente biologica, né esclusivamente economica. » bioeconomica. I suoi tratti complessivi dipendono dalle asimmetrie multiple che esistono tra le tre fonti di bassa entropia che, insieme, costituiscono la dote dell'umanità - l'energia libera ricevuta dal sole, da una parte, e l'energia libera e le strutture materiali ordinate nascoste nelle viscere della terra, dall'altra.

La prima asimmetria concerne il fatto che la componente terrestre è una riserva, mentre quella solare è un flusso. La differenza deve essere ben compresa [32, pp. 226f]. I giacimenti di carbone sono una riserva perché siamo liberi di usarlo tutto oggi (se possibile) o nel corso di secoli. Ma in nessun momento possiamo possiamo usare una qualunque porzione di un flusso futuro di radiazione solare. In aggiunta, il tasso di questo flusso di radiazione è interamente al di là del nostro controllo; è esattamente determinato da condizioni cosmologiche, tra cui la dimensione della nostra sfera.(19) Una generazione, per quanto ci provi, non può alterare la quota di radiazione solare che spetta ad una qualsiasi altra generazione futura. A causa della priorità che il presente ha rispetto al futuro e dell'irrevocabilità della degradazione entropica, il contrario è vero a proposito delle quote delle riserve terrestri. Queste ultime dipendono da quanto la dote terrestre sia stata consumata dalle generazioni precedenti.

Secondo, poiché non sono disponibili procedure pratiche su scala umana per la trasformazione dell'energia in materia... la bassa entropia del materiale accessibile è di gran lunga il fattore più critico dal punto di vista bioeconomico. » vero, un pezzo di carbone bruciato dai nostri bisnonni sarà per sempre andato, proprio come una parte dell'argento o del ferro, per esempio, che essi stessi estrassero. Invece le generazioni future riceveranno comunque la loro quota inalienabile di energia solare (che, come vedremo fra poco, è enorme). In questo modo potranno almeno usare ogni anno una quantità di legno equivalente alla crescita della vegetazione annuale. Per l'argento ed il ferro consumato dalle generazioni anteriori, non esiste una compensazione cos" semplice. » per questo in bioeconomia dobbiamo enfatizzare il fatto che ogni Cadillac o Zim - per non parlare degli strumenti di guerra - significa meno disponibilità per alcune generazioni future e, implicitamente, anche meno esseri umani in futuro [31, p. 13; 32, p. 304].

Terzo, c'è una differenza astronomica tra la quantità del flusso di energia solare e la dimensione della riserva terrestre di energia libera. A prezzo di una diminuzione della massa di 131 x 1012 tonnellate, il sole irradia annualmente 1013 Q - con un singolo Q pari a 1018BTU! [1 BTU è uguale a 256,5 chilocalorie, NDT] Di questo fantastico flusso, solo circa 5300 Q sono intercettati ai limiti dell'atmosfera terrestre, mentre la metà circa viene riflessa nello spazio. Alla nostra scala, comunque, anche questa quantità è fantastica, dato che il consumo di energia mondiale ammonta a non più di 0,2 Q all'anno. Dall'energia solare che raggiunge il suolo, la fotosintesi assorbe solo 1,2 Q. Dalle cascate potremmo ottenere al massimo 0,08 Q, ma al momento ne ricaviamo solo la decima parte. Si pensi anche al fatto aggiuntivo che il sole continuerà a brillare con la stessa intensità per altri cinque miliardi di anni (prima di diventare una gigante rossa che farà aumentare la temperatura a oltre 500"C). Indubbiamente, la specie umana non sopravviverà per godere di tutta questa abbondanza.

Passando alla dote terrestre, troviamo che, in accordo con le migliori stime, la dote iniziale di combustibile fossile ammontava a soli 215 Q. Le riserve rimanenti (conosciute e probabili) ammontano a circa 200 Q. Queste riserve, perciò, potrebbero produrre solo due settimane di luce solare sulla terra.(20) Se il loro consumo prosegue ai ritmi attuali, potranno sostenere l'attività industriale umana solo per pochi decenni. Anche le riserve di uranio 235 non dureranno per un periodo più lungo se le usiamo negli attuali reattori. Si nutrono speranze oggi nei confronti dei reattori autofertilizzanti, che, con l'aiuto di uranio 235, possono "estrarre" l'energia degli elementi fertili ma non fissili, l'uranio 238 ed il torio 232. Alcuni esperti sostengono che questa fonte di energia è "essenzialmente inesauribile" [83, p. 412]. Nei soli Stati Uniti, si crede che esistano ampie aree ricoperte da argilla nera e granito che contengono 60 grammi di uranio naturale o torio per tonnellata [46, pp. 226f]. Su questa base, Weinberg e Hammond [83, pp. 415f] hanno elaborato un grande piano. Estraendo e frantumando tutte queste rocce, potremmo ottenere abbastanza combustibile nucleare per 32 mila reattori autofertilizzanti distribuiti in 4 mila locazioni remote e capaci di rifornire venti miliardi di persone per milioni d'anni calcolando una quantità di energia pro capite pari al doppio del tasso di consumo attuale negli Usa. Questo piano grandioso è un esempio tipico di pensiero lineare, in accordo al quale tutto ciò che occorre per l'esistenza di una popolazione, anche "considerevolmente superiore di venti miliardi di persone", consiste nell'accrescere tutte le disponibilita proporzionalmente.(21) Non che gli autori neghino che esistono anche questioni non tecniche, solo che le minimizzano con un certo zelo [83, pp. 417f]. La più importante, cioè se una organizzazione sociale compatibile con la densità di popolazione e la manipolazione nucleare a grande scala possa essere ottenuta, è spazzata via da Weinberg in quanto "trans-scientifica" [82].(22) I tecnici dimenticano facilmente che a causa dei loro successi, oggigiorno, può essere più facile che la montagna vada a Maometto che Maometto alla montagna. Oggi l'ostacolo è ancora più palpabile, perché anche un solo reattore presenta pur sempre un rischio sostanziale di catastrofe nucleare ed il problema del trasporto sicuro dei combustibili nucleari e soprattutto quello dello stoccaggio delle scorie radiattive attengono ancora una soluzione, anche su scala operativa ridotta [35; 36; soprattutto 39 and 67].

Rimane il grande sogno dei fisici, la reazione termonucleare controllata. Affinché costituisca una vera rivoluzione, deve essere una reazione deuterio-deuterio, l'unica che potrebbe rendere accessibile una formidabile risorsa di energia terrestre per una lunga era.(23) Comunque, a causa delle difficoltà cui si accennava prima ... finanche gli esperi che vi lavorano non vedono ragioni di essere troppo speranzosi.

Per completezza, dovremmo anche menzionare l'energia delle maree e quella geotermica, che, benché non negligibile (in tutto, 0,1 Q all'anno) può essere raccolta solo in situazioni molto ristrette.

Il quadro generale è ora chiaro. Le energie terrestri su cui possiamo contare effettivamente esistono solo in piccolissime quantità, laddove l'uso di quelle che esistono in quantità maggiori è circondato da grandi rischi e ostacoli tecnici formidabili. D'altra parte, c'è l'immensa energia del sole che ci raggiunge senza fallo. Il suo uso diretto non è ancora praticato su scala significativa, e la ragione primaria è che le industrie alternative sono ancora molto più efficienti economicamente. Ma risultati promettenti vengono anche da altre direzioni [37; 41]. Ciò che conta dal punto di vista bioeconomico è che la fattibilità dell'uso dell'energia del sole direttamente non è circondata da rischi o grandi punti interrogativi; è un fatto provato.

La conclusione è che la dota entropica dell'umanità presenta un'altra importante scarsità differenziale. Dal punto di vista del periodo estremamente lungo, l'energia libera terrestre è molto più scarsa di quella ricevuta dal sole. Ciò denuncia l'inutilità delle grida di vittoria al pensiero che possiamo ottenere proteine a partire da combustibili fossili! La ragione ci dice di muoverci nella direzione opposta, e convertire massa vegetale in idrocarburi - ovviamente una linea di ricerca battuta da diversi studiosi [22, pp. 311-313].(24)

Quarto, dal punto di vista dell'utilizzo industriale, l'energia solare soffre di uno svantaggio enorme in confronto all'energia di origine terrestre. Quest'ultima è disponibile in forme concentrate; in alcuni casi troppo concentrate. Per effetto di ciò, ci permette di ottenere in maniera pressoché istantanea enormi quantitativi di lavoro, gran parte del quale non potrebbe neppure essere ottenuto in altro modo. Invece, il flusso di energia solare giunge a noi con una intensità estremamente bassa, come una pioggerellina, quasi una nebbia microscopica. La differenza importante dalla vera pioggia è che questa pioggia radioattiva non si raccoglie naturalmente in piccoli flussi, poi in ruscelli e fiumi ed infine in laghi in cui possiamo usarla in maniera concentrata, come nel caso delle cascate. Immaginiamo la difficoltà che ci troveremmo a fronteggiare se tentassimo di usare direttamente l'energia cinetica di gocce di pioggia microscopiche (cioè, non attraverso l'energia chimica della vegetazione, o l'energia cinetica del vento e delle cascate). Però, come si enfatizzava un po' di tempo fa, la difficoltà non è impossibilità.(25)

Quinto, l'energia solara, d'altro canto, ha un unico ed incommensurabile vantaggio. L'uso di qualsiasi energia terrestre produce una certa quantità di inquinamento, che, in aggiunta, non è smaltibile e quindi si accumula, fosse anche soltanto nella forma dell'inquinamento termico. Al contrario, l'uso dell'energia solare è privo di inquinamento. Infatti, che l'energia sia usata o meno, il suo destino ultimo non cambia, quello di dissiparsi sotto forma del calore che mantiere l'equilibrio termodinamico tra il globo e lo spazio ad una temperatura propizia.(26)

La sesta asimmetria riguarda direttamente il fatto elementare che la sopravvivenza di ogni specie sulla terra dipende, direttamente o indirettamente, dalla radiazione solare (in aggiunta ad alcuni elementi dello strato superficiale dell'ambiente). L'uomo soltanto, a causa della sua dipendenza esosomatica, dipende pure dalle risorse minerarie. Per l'uso di queste risorse l'uomo non compete con alcuna altra specie; però il loro uso da parte sua mette di solito in pericolo molte forme di vita, tra cui la sua propria. Alcune specie sono state costrette di fatto al limite dell'estinzione dai bisogni esosomatici dell'uomo o dal suo desiderio di ciò che è stravagante. Ma niente in natura raggiunge la ferocia della competizione umana per l'energia solare (nella sua forma elementare o in quelle derivate). L'uomo non si è spostato di un millimetro dalla legge della giungle, anzi, l'ha resa ancora più spietata con i suoi strumenti esosomatici. L'uomo ha cercato apertamente di sterminare ogni specie che lo privi del cibo o che si nutra a sue spese - i lupi, i conigli, l'erbaccia, gli insetti, i microbi ecc.

Questa lotta che l'uomo sostiene contro le altre specie per il cibo (in ultima analisi, per l'energia solare) ha degli aspetti che sfuggono. E, curiosamente, è uno di questi aspetti che ha ampie conseguenze e allo stesso tempo fornisce una confutazione estremamente istruttiva della comune credenza che ogni innovazione tecnologica costituisca un passo nella giusta direzione per quanto concerne l'economia delle risorse. Il caso riguarda l'economia delle moderne tecniche culturali. ...

Justus von Liebig osservò che la "civilizzazione ' l'economia del potere" [32, p. 304]. In questa ora, l'economia del potere in tutti i suoi aspetti ha bisogno di una svolta. Invece di continuare ad essere massimamente opportunisti e di concentrare la nostra ricerca nella individuazione di maniera economicamente efficienti di accedere alle risorse minerarie - tutte disponibili in quantità finite e tutte altamente inquinanti - dovremmo rivolegere i nostri sforzi verso il miglioramento degli usi diretti dell'energia solare - l'unica fonte pulita e praticamente illimitata. Tecniche già note dovrebbero essere diffuse senza ritardi tra tutte le persone cosicché possiamo apprendere tutti dalla pratica e sviluppare la forma corrispondente di scambio.

Un'economia basata primariamente sul flusso di energia solare farà anche a meno, anche se non completamente, del monopolio delle generazioni presenti rispetto a quelle future, perché anche in una economia del genere avremmo bisogno di far ricorso alla nostra dote genetica, soprattutto per il materiali. Le innovazioni tecnologiche avranno certamente un ruolo in questo senso, ma è il momento di smettere di dare importanza esclusivamente - come tutte le piattaforme hanno fatto finora - all'aumento dell'offerta. Anche la domanda può fare la sua parte, una anche più importante e di maggior efficienza in ultima analisi.

Sarebbe stupido proporre la rinuncia completa al comfort industriale dell'evoluzione esosomatica. L'umanità non tornerà nelle caverne, o, piuttosto, agli alberi. Ma vi sono alcuni punti che potrebbero essere inclusi in un programma minimo bioeconomico.

Anzitutto, la produzione di tutti gli strumenti di guerra, non solo la guerra stessa, dovrebbe essere proibita completamente. » del tutto assurdo (ed anche ipocrita) continuare a coltivare tabacco se, nelle dichiarazioni, nessuno vuole più fumare. Le nazioni che sono tanto sviluppate da essere i principali produttori di armamenti dovrebbe essere capaci di raggiungere un ampio consenso su questo divieto senza alcuna difficoltà se, come affermano, possiedono anche la saggezza per guidare l'umanità. Interrompere per sempre la produzione di questi strumenti di guerra non solo la farà finita con gli assassini di massa per mezzo di armi ingegnose ma libererà anche grandissime forze produttive che potranno essere impiegate per l'aiuto internazionale senza pregiudizio del livello di vita nei rispettivi paesi.

Secondo, grazie all'uso di queste forze produttive, come per mezzo di misure aggiuntive ben pianficate e oneste, le nazioni sottosviluppate devono essere aiutate a raggiungere il più rapidamente possibile un buon livello di vita (anche se non lussuoso). Entrambi questi aspetti devono pesare efficacemente negli sforzi richiesti da questa trasformazione per accettare la necessità di un cambio radicale nei loro sguardi polarizzati sulla vita.(27)

Terzo, l'umanità dovrebbe far decrescere gradualmente la sua popolazione fino ad un livello tale da poter essere alimentata esclusivamente dall'agricoltura organica.(28) Naturalmente, le nazioni che stanno conoscendo un'alta crescita demografica dovranno impegnarsi seriamente per ottenere i risultati più rapidi possibili in questa direzione.

Quarto, fino a che non sia diventato comune l'uso diretto di energia solare o sia ottenuta la fusione controllata, tutti gli sprechi energetici - dovuti ad eccesso di riscaldamente, eccesso di raffreddamento, eccesso di velocità, eccesso di illuminazione ecc. - dovrebbero essere evitati con cura e, se necessario, regolati strettamente.

Quinto, dobbiamo curarci dal desiderio smodato di gadget stravaganti e da splendori mammuthiani come le automobili gigantesche. Fatto ciò, i produttori dovranno smettere di produrre questi "beni".

Sesto, dobbiamo liberarci anche della moda, quella "malattia mentale umana", come l'abbate Fernando Galliani la caratterizzò nel suo celebre Della Moneta (1750). Costituisce infatti una malattia mentale liberarsi di un cappotto di un pezzo d'arredamento quando può ancora servire. Comprare un'automobile "nuova" ogni anno e riammodernare la casa ogni due è un crimine bioeconomico. Altri autori hanno già proposto di far produrre i beni in maniera tale da durare di più [e.g., 43, p. 146]. Ma è finanche più importante che i consumatori si rieduchino in maniera da disprezzare la moda. I produttori dovranno quindi concentrarsi sulla durevolezza.

Settimo punto, e strettamente legato al precedente, è la necessità che i beni durevoli siano progettati in maniera da essere riparabili. (Con un'analogia plastica, in molti casi oggigiorno dobbiamo gettare un paio di scarpe solo per un difetto minore).

Ottavo, in completa armonia con i pensieri sopraelencati, dovremmo guarire da quella che ho chiamato "sindrome circolare del rasoio elettrico", che consiste nel radersi più velocemente, in maniera da avere più tempo per lavorare ad un rasoio che permetta di radersi più rapidamente ancora, in maniera da avere ancora più tempo per progettare un rasoio ancora più veloce, e cos" via all'infinito. Questo cambiamento richiederà una buona dose di autocritica da parte di tutte quelle professioni che hanno allettato l'umanità a questo regresso infinito. Dobbiamo arrivare a capire che un requisito importante per una buona qualità di vita è una quantità sostanziosa di svago spesa in maniera intelligente.

Sulla carta, astrattamente, le raccomandazioni che ho elencato sovrebbero apparire ragionevoli nel complesso a chiunque voglia esaminare la logica alla loro base. Ma un pensiero ha continuato ad aggirarsi per la mia mente da quando ho cominciato ad interessarmi alla natura entropica del processo economico: l'umanità darà ascolto a qualsivoglia programma implichi una riduzione della sua dipendenza dal confort esosomatico? Forse il destino dell'uomo è quello di avere una vita breve ma di fuoco, eccitante e stravagante invece che un'esistenza lunga, priva di eventi e vegetativa. Facciamo in modo che le altre specie - l'ameba, per esempio - che non hanno ambizioni spirituali ereditino una terra ancora bagnata dai raggi solari.

Note

(17) Ho trovato questo termine usato per la prima volta in una lettera da Jiri Zeman. (<<)

(18) La pratica della schiavitù, nel passato, e la possibilità, in futuro, del commercio di organi sono fenomeni omogenei all'evoluzione esosomatica. (<<)

(19) Un fatto ampiamente incompreso: la terra per Ricardo ha valore economico per la stessa ragione per cui l'ha la rete di un pescatore. La terra cattura l'energia di maggior valore, approssimativamente in proporzione alla sua superficie totale [27, p. 508; 32, p. 232]. (<<)

(20) Le stime usate in questa sezione sono state calcolate dai dati di Daniels [22] ed Hubbert [46]. Questi dati, soprattutto quelli relarivi alle riserve, variano da autore ad autore ma non in misura realmente significativa. Comunque, l'affermazione che "i vasti giacimenti petroliferi che saranno scoperti in tutto il mondo [dureranno] per non meno di 40 mila anni" [59, p. 99] è pura fantasia. (<<)

(21) In una risposta ai critici (American Scientist 58, no. 6, p. 610), gli stessi autori dimostrano, ancora una volta lineramente, che i complessi agroindustriali potrebbero facilmente rispondere ai bisogni di una tale popolazione. ENFNOTE

(22) Per una discussione recente dell'impatto sociale della crescita industriale, in generale, e dei problemi sociali prodotti dall'uso su larga scala dell'energia nuclare, in particolare, si veda [78], una monografia di Harold e Margaret Sprout, pionieri in questo campo. (<<)

(23) Solo l'1% del dueterio nell'oceano potrebbe fornire 108 Q se impiegato in quella reazione, una quantità di energia ampiamente sufficiente per alcune centinaia di milioni di anni di elevano confort industriale. La reazione deuterio-trizio ha migliori possibilità di successo perché richiede una temperatura inferiore, ma poiché coinvolge il litio 6, che esiste in piccoli quantitativi, potrebbe fornire in totale 200 Q. (<<)

(24) Dovrebbe essere di interesse sapere che durante la secongua guerra mondiale, in Svezia per esempio, le automobili erano alimentate con il gas di risulta ottenuto dalla combustione del carbone in un contenitore che fungeva da serbatoio.! (<<)

(25) [Nota del redattore: gli scritti più recenti di Georgescu-Roegen sono meno ottimisti rispetto alle prospettive di uso diretto dell'energia solare. Si veda il suo "Energy Analysis and Economic Valuation," Southern Economic Journal, April 1979.] EDNOTE

(26) Una precisazione necessaria: anche l'uso dell'energia solare potrebbe alterare il clima se l'energia viene rilasciata in un luogo diverso da quello in cui viene accumulata. Lo stesso è vero per la dilazione temporale, ma in questo caso difficilmente in una misura di interesse nella pratica. (<<)

(27) Alla Conferenza Dai Dong (Stoccolma, 1972), ho suggerito l'adozione di una misura che mi sembra applicabile con molte meno difficoltà di installazioni di qualunque tipo. Il mio suggerimento, invece, consisteva nel permettere alle persone di muoversi liberamente da un paese ad un altro qualsiasi. L'accoglienza che ricevette fu meno che tiepida. Si veda [2, p. 72]. (<<)

(28) Per evitare qualsiasi fraintendimento, dovrei aggiungere che l'entusiasmo attuale nei confronti dell'agricoltura biologica non ha niente a che vedere con questa proposta [...] (<<)

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Traduzione di Sergio De Simone

Tratto da znet.it