Resa dei conti (3).

Il ricatto del capitalismo finanziario

1.

Nel corso dell'ultimo trimestre, il ritornello da parte di politici, economisti, banchieri, capitalisti, "faccendieri", ecc. è stato, con rare eccezioni, incessante: la crisi inaugurata dai mutui subprime è giunta al fondo e si va verso la ripresa. Si tratta di una menzogna.

Su Repubblica del 7. 9, Giuseppe Turani fa riferimento alla paura del terzo crollo, che potrebbe avere effetti ancora non del tutto prevedibili:

“Se la finanza internazionale fosse una barca, si potrebbe dire che ci sarà da ballare ancora per un bel po’. Il crollo di questi giorni, con perdite che nel giro di una settimana si collocano fra il 3 e il 7 per cento, era stato previsto e annunciato.

Aveva anche una specie di nome in codice: "la seconda ondata". Dopo i crolli iniziali, si era detto, arriverà la seconda ondata, una volta fatti un po’ di conti dentro le banche. E è esattamente quello che è successo.

Adesso, si può star sicuri che le Borse si riprenderanno, prima o poi. Di sicuro prima della fine dell’anno. E per almeno tre buone ragioni:

1- Un rimbalzo tecnico è di fatto quasi inevitabile dopo le cadute di queste giorni (e quelle che seguiranno a ruota).

2- Le grandi banche internazionali (le mani forti dei mercati, cioè) sono stufe di dover passare le giornate a spiegare ai clienti perché diventano ogni ora più poveri e perché loro, nonostante operatori molto esperti, economisti e analisti in grande quantità, non sono capaci di produrre qualche dollaro di plusvalenza.

3- Le stesse banche, infine, al 31 dicembre dovranno fare i loro bilanci. E questo è stato un anno orribile. Tutti i presidenti di banca preferirebbe dover scrivere un milione di volte "Sono un asino" sulla lavagna piuttosto che mettersi a allineare le cifre del proprio bilancio. Da qui la necessità, vitale, di dare una scrollata verso l’alto ai listini, in modo da rendere meno spaventosi i rendiconti di fine anno.

E quindi, visto che ci sono tutti questi elementi, non si sbaglia nel dire che anche dalla seconda ondata si risalirà. Non subito, ma si risalirà.

E si correrà verso listini più umani e meno terrorizzanti.

Naturalmente, per convincere il grosso pubblico a puntare qualche fiches sul mercato borsistico, si dirà (con dovizia di analisi e di expertise) che la crisi è finita, che il peggio è ormai alle spalle e che si potrà guardare al futuro con una riconquistata (e meritata) serenità. Anche perché, si dirà, ormai la ripresa economica è alle porte, Europa e America hanno finito la penitenza, e si può cominciare a puntare su economie che finalmente tornano a crescere, a espandersi e a produrre profitti.

Ma saranno tutte bugie. Semplici e colossali bugie. In realtà, dietro l’angolo si profila già la terza ondata, cioè il terzo crollo.

In termini di calendario possiamo collocarlo verso febbraio-marzo, forse anche un po’ prima. Insomma, subito dopo le feste.

E la terza ondata arriverà perché non è vero che la ripresa è vicina. L’attuale stato di crisi (sempre che non si trasformi strada facendo in qualcosa di peggio) è destinato a aggravarsi e a durare a lungo. Oggi, di fatto abbiamo l’economia mondiale che tende alla crescita zero. L’Europa e l’America ci sono già arrivate (o sono vicinissime) e (novità) anche qualche paese emergente sta gettando la spugna. Solo la Cina sembra decisa a resistere: che gli Dei dell’economia l’assistano.

Oggi, gli ottimisti collocano la svolta (nel senso dell’avvio di una ripresa congiunturale) non prima dell’estate del 2009. Ma accanto a questa previsione si premurano di spiegare che in giro ci sono ancora molti fattori di instabilità: dalla Russia all’Iran, tanto per dirne un paio.

Inoltre, la nuova amministrazione americana non entrerà in carica prima di febbraio e avrà bisogno di almeno qualche mese prima di capire che cosa le conviene fare.

In sostanza, oggi il punto di svolta è collocato (dagli ottimisti) verso la prossima estate, ma con molte possibilità di slittare ancora in avanti. L’America, si fa notare, probabilmente va a zero adesso, e, una volta lì, bisognerà vedere quanto tempo ci metterà a tirarsene fuori. Impresa che potrebbe rivelarsi più complicata del previsto. Anche perché non è detto che una volta arrivata alla crescita zero, si fermi lì. Potrebbe anche andare più sotto.

Pensare che in un clima del genere (con l’economia mondiale a zero) le Borse possano scattare verso l’alto, e "definitivamente", già a ottobre o novembre di quest’anno, è un sogno o, più prosaicamente, una truffa.

A tutto questo si aggiunga che la famosa crisi subprime, all’origine di tutto questo pasticcio, molto probabilmente non ha finito di emanare i suoi gas velenosi. Nel corso dell’ultimo anno ci hanno spiegato in almeno tre o quattro occasioni che tutto era venuto a galla, e che tutto era finito. Ma non era vero. Come sappiamo oggi, si trattava solo di bugie per guadagnare tempo. E anche oggi, a oltre un anno dall’inizio di quell’uragano, niente ci assicura che sia venuto tutto a galla. Inoltre, non abbiamo ancora visto il "ridisegno" della finanza internazionale, i cui perversi modi di funzionamento sono all’origine della crisi di cui stiamo parlando. Il virus, insomma, si aggira ancora fra di noi e è esattamente lo stesso virus di un anno fa. C’è solo da sperare che, avendolo già preso una volta, nessuno abbia più voglia di ripetere l’esperimento. Ma la finanza internazionale è fatta da migliaia e migliaia di persone, e non tutte hanno la testa esattamente sul collo.

Insomma, si ballerà ancora per un po’.”

Che la crisi sia più profonda di quanto si voglia ammettere è attestato, tra l’altro, dal viraggio della politica economica del governo statunitense dalla deregulation, inauguratasi alla metà degli anni ’80 del secolo scorso con la reaganeconomics, che confidava nelle “magnifiche sorti e progressive” del mercato capace di autoregolazione, all’interventismo statale sopravvenuto da alcuni mesi, che ha trovato il suo coronamento nel “salvataggio” (scandaloso in termini liberistici) dei due istituti sull’orlo del collasso (Fannie Mae e Freddie Mac) che controllano la metà dei mutui americani.

A cose fatte, Federico Rampini, su Repubblica dell’8 luglio, dedica al salvataggio un articolo pungente, il cui titolo è Il capitalismo irresponsabile:

“È scattato il più grande salvataggio pubblico nella storia americana: la nazionalizzazione dei colossi bancari Fannie Mae e Freddie Mac, due istituti che controllano metà di tutti i mutui immobiliari negli Stati Uniti. I due giganti finanziari erano ormai sull’orlo della bancarotta. Un loro fallimento, secondo il ministro del Tesoro Henry Paulson, avrebbe «precipitato nell’instabilità l’intera economia mondiale». Lo stesso Paulson ha ammonito che «non ci sarà ripresa economica finché non si esce dalla crisi immobiliare»: una previsione sconfortante, visto che il mercato della casa continua a degradarsi. Il maxi-salvataggio di Fannie e Freddie a questo punto era inevitabile e tuttavia i suoi effetti sono controversi. Allarga di colpo i confini del settore pubblico, con una sterzata interventista quale non si vedeva dai tempi della Grande Depressione. L’America si accolla costi esorbitanti ma non trae le lezioni da questa crisi.

Gli errori che hanno portato al disastro potranno ripetersi. Ieri Paulson ha eluso le domande sul prezzo che pagherà il contribuente. La reticenza ufficiale è comprensibile: le cifre vere fanno tremare i polsi. Le perdite ufficiali contabilizzate dalle due banche negli ultimi dodici mesi sono di "soli" 14 miliardi di dollari, ma i loro bilanci sono notoriamente inaffidabili. Ben più significativo è il fatto che questi due istituti gestiscono o garantiscono ben 5.200 miliardi di dollari di mutui per la casa. Quel volume di prestiti è pari al 58% dell’intero debito pubblico americano. Anche se si deve sperare che solo una parte di quei mutui si rivelino insolventi, resta il fatto che la dimensione della perdita potenziale è sconvolgente. Da ieri sera infatti i 5.200 miliardi di dollari entrano a pieno titolo a far parte del "rischio sovrano" che fa capo al Tesoro di Washington. Ovvero, in ultima analisi, fa capo al contribuente americano, già il più indebitato del mondo. Si capisce che a due mesi dalle elezioni Paulson abbia preferito "glissare" sui numeri reali, perché la loro dimensione è spaventosa. Al confronto impallidiscono tutti i salvataggi pubblici della storia americana: la Lockheed sotto il presidente Nixon, la Chrysler sotto Carter, le casse di risparmio (Savings and Loans) che costarono 124 miliardi di dollari ai contribuenti nell’èra Reagan. Da quando è scoppiata la crisi dei mutui dell’estate 2007, la banca di Wall Street Bear Stearns ha avuto anche lei diritto all’aiuto governativo, ma oggi quell’operazione che a marzo costò 30 miliardi di dollari appare come un minuscolo assaggio.

Fannie e Freddie avevano già perso più del 90% del loro valore di Borsa in 12 mesi. Ancora più grave era il rischio di insolvenza su una montagna di titoli obbligazionari emessi dalle due istituzioni. E’ vero che la stabilità del sistema finanziario mondiale è a repentaglio: quei bond sono stati venduti nel mondo intero, acquistati in grandi quantità perfino dalle banche centrali, inclusa la banca centrale cinese che oggi è il principale creditore degli Stati Uniti. La bancarotta di quelle due istituzioni avrebbe avuto ripercussioni drammatiche in Europa e in Asia. L’interconnessione dei mercati finanziari ha accelerato la diffusione capillare dei titoli-spazzatura nei bilanci degli istituti di credito e dei fondi d’investimento, perfino nelle casse dei Comuni italiani. Nessuno è al riparo. Fannie e Freddie dunque erano "troppo grandi per lasciarle fallire". Ma proprio questa consapevolezza ha favorito una cultura dell’impunità ai loro vertici. Il disprezzo delle regole che dilaga da tempo in ampie zone dell’establishment finanziario, regnava anche in due istituti che dovevano gestire il credito più tradizionale. I tempi della nazionalizzazione di Fannie e Freddie hanno avuto un’accelerazione quando sono venute a galla gravi irregolarità nei bilanci. I metodi contabili sono stati stravolti per occultare le perdite. I top manager si sono avventurati in speculazioni azzardate, con comportamenti più adeguati agli "avvoltoi" degli hedge fund. Tutto ciò accadeva da tempo. Era stato denunciato dai grandi quotidiani americani, ma ignorato dalle autorità di vigilanza. Nel 2004, per esempio, nel bilancio di Fannie Mae erano emersi "errori contabili" per 6,3 miliardi. Eppure solo ieri il governo si è finalmente deciso a commissariare le due aziende. E’ un nuovo scandalo Enron, un altro colpo alla credibilità del capitalismo finanziario americano.

Da un crac all’altro, la costante è la socializzazione delle perdite provocate da manager incompetenti e disonesti. Nei tempi di vacche grasse, il top management incassa stock option e bonus stratosferici. Quando le aziende sono rovinate, il conto passa alla collettività. Si stravolge così tutto il sistema di incentivi e deterrenti che è l’abc dell’economia di mercato. Il principio di responsabilità è ormai un’astrazione. La selezione operata dalla concorrenza viene falsata. La capacità del mercato di allocare le risorse in modo efficiente, punendo le aziende decotte e premiando quelle sane, viene distorta da una perversa garanzia di ultima istanza: la promessa implicita che il governo salverà quelli che sono "troppo grossi per fallire". Quale sarà la prossima banca scaricata sulle spalle del contribuente americano? Spalle sempre più fragili. Perché nel frattempo l’economia reale non accenna a migliorare. I pignoramenti delle case sono ai massimi da 40 anni. Il tasso di disoccupazione è salito al 6,1%. Con le famiglie assediate dalla recessione, le prossime crisi finanziarie sono in agguato: verranno dalle insolvenze sulle carte di credito, e sui finanziamenti rateali degli acquisti di auto. Per l’americano medio le speranze di aiuto sono modeste. Il socialismo è riservato ai banchieri.”

Nel primo articolo dedicato alla crisi avviatasi nell’estate dell’anno scorso, ho scritto che la strategia del capitalismo finanziario degli ultimi anni (definito effervescente e creativo) è assolutamente chiara: speculare sotterraneamente, utilizzando i punti deboli del sistema e profittando della carenza dei controlli nazionali e internazionali, al fine di produrre enormi profitti a vantaggio di pochi e, al tempo stesso, un danno patrimoniale societario di dimensioni tali da costringere lo Stato ad intervenire per salvaguardare il "bene comune", vale a dire per impedire una destabilizzazione del sistema.

Se si tiene conto che il denaro dello Stato è ricavato dalle tasse, è evidente che quella strategia mira a privatizzare i profitti e a socializzare le perdite, a realizzare, in breve, un trasferimento di ricchezza da chi ha meno a chi ha di più che è iniquo in sé e per sé, ma diventa intollerabile nel momento in cui coloro che si arricchiscono hanno posto in essere strategie criminose.

Riprendendo la metafora del sistema come una barca, cara a Turani, il capitalismo finanziario apre delle falle a tal punto enormi da comportare il rischio di un naufragio. Per scampare al naufragio, che coinvolgerebbe tutti all’interno di una nazione ma anche a livello internazionale, è necessario che lo Stato intervenga.

Il “socialismo di Stato” a vantaggio dei banchieri è a tal punto scandaloso che, nel momento in cui viene proposto ai cittadini, questi, anche se in genere hanno competenze economiche limitate al loro portafoglio, capiscono di cosa si tratta: di un sacrificio collettivo, che sottrae risorse alle spese sociali, a vantaggio di quelli che hanno prodotto le falle arricchendosi smisuratamente. Si tratta dunque di fare accettare un'evidente iniquità con la promessa di una giustizia futura. E’ ciò che sta accadendo. Le indagini sulla crisi dei mutui subprime hanno portato alcuni mesi fa, negli Stati Uniti, all’arresto di alcuni manager e alla denuncia di altri (in tutto circa cinquecento persone). Le indagini proseguono e, alla luce di ciò che sta accadendo, sono prevedibili altri arresti e altre denunce.

Si tratta, però, di una giustizia tardiva.

Le falle economiche aperte dalla crisi hanno, infatti, una dimensione tale che se anche i patrimoni personali di tutti i manager coinvolti, molti dei quali hanno provveduto accortamente a sistemarne gran parte presso impenetrabili paradisi fiscali, fossero confiscati, essi inciderebbero in misura minimale sui debiti dei quali lo Stato deve farsi carico.

Il problema è che anche il Tesoro statunitense non ha risorse inesauribili. Certo, esso si può indebitare in misura maggiore rispetto a qualunque soggetto o istituzione privata, ma, oltre al fatto di dovere agire contro i principi del liberismo che l'Amministrazione americana ha difeso a spada tratta nel corso degli ultimi venti anni, esso non può correre il rischio di operare salvataggi di banche e società finanziarie in nome del bene comune con manovre che possano venire immediatamente identificate dall'opinione pubblica come del tutto contrastanti con gli interessi della collettività. Questo è il motivo per cui, dopo il salvataggio di Fannie e Freddy, il Ministro del Tesoro statunitense ha fatto presente che non ne saranno operati altri. Dopo vani tentativi di salvare il salvabile (ormai ben poco), la Lehman Brothers, la quarta banca statunitense, con una storia alle spalle di 150 anni, è stata costretta, il 15 settembre, a dichiarare fallimento, denunciando debiti per la somma colossale di 613 miliardi di dollari e trascinando nella catastrofe le Borse di tutto il mondo.

Le petizioni di principio, però, nell'attuale frangente, valgono ben poco. Subito dopo la Lehman Brothers, è entrata in fibrillazione la Aig (American international Group), una delle più grandi compagnie assicurative al mondo, il cui fallimento potrebbe innescare una reazione a catena a livello planetario dalle conseguenze imprevedibili. Analizza la situazione di emergenza su Repubblica il 17 settembre Federico Rampini:

"È un colosso delle assicurazioni il nuovo epicentro della crisi finanziaria mondiale. Si chiama American International Group (Aig) il "buco nero" che nella sua implosione può risucchiare nuove perdite e fallimenti a catena, con ripercussioni nel mondo intero.

La bancarotta di Lehman Brothers appare già un capitolo di storia lontano, mentre incombono preoccupazioni più gravi. La compagnia assicurativa Aig non è solo una delle più grandi del pianeta, con centomila dipendenti. Occupa un posto speciale nel mezzo di una complessa ragnatela di rapporti finanziari con centinaia di banche. Perciò la notizia del declassamento di Aig da parte delle agenzie di rating Standard&Poor e Moody's ha aperto un nuovo fronte di pericolo. Il peggioramento della sua solvibilità finanziaria può essere l'anticamera del fallimento. Ieri mattina David Paterson, il governatore dello Stato di New York (da cui dipende per legge la vigilanza sulla compagnia assicurativa) è stato lapidario: «In queste condizioni Aig ha un giorno di vita». L'ultima speranza è una cordata d'investitori che sarebbe pronta a rilevare l'Aig. La guida, ironia della sorte, il fondatore Maurice Greenberg che fu defenestrato dai vertici della compagnia per irregolarità contabili.

Il crollo del colosso assicurativo è un evento di cui nessuno riesce a prevedere l'impatto, se non che sarà disastroso. La compagnia infatti non esercita soltanto attività assicurative tradizionali. Ha sviluppato, con un'importante divisione a Londra, un intero business speculativo sui titoli derivati, compresi i titoli "infami" che sono il frutto della cartolarizzazione dei mutui. E c'è di più. Aig si è lanciata da tempo in un altro business finanziario, i "credit default swaps" (Cds). All'origine si tratta proprio di contratti assicurativi. Il rischio contro cui essi proteggono riguarda l'insolvenza di molteplici soggetti economici. In una fase come questa dove i fallimenti si susseguono a valanga, questo business è diventato una palla al piede per Aig. Inoltre i "credit default swaps" con il tempo hanno assunto vita propria, sono diventati a loro volta degli strumenti altamente speculativi. Con una perversione della loro vocazione originaria, i Cds sono diventati un modo per scommettere sui fallimenti (dei titolari di mutui, delle aziende, delle banche) e guadagnarci sopra. Se per una parte del mondo della finanza essi continuano a essere una indispensabile copertura del rischio-clienti, per un'altra parte sono uno strumento di speculazione ribassista. E il business dei Cds è sfuggito ad ogni controllo. La lievitazione di questi strumenti è impressionante. Nell'insieme il volume delle esposizioni su questo mercato supera i 60.000 miliardi di dollari, il quadruplo del Pil americano. L'Aig è un protagonista centrale di questo settore. Travolto dall'impossibilità di onorare tutti quei contratti anti-fallimento, a sua volta con il suo crac può affondare l'intero sistema. Un esempio delle diramazioni internazionali: ieri la banca svizzera Ubs ha perso il 24% in Borsa, nonostante abbia garantito di avere chiuso tutti i rapporti con Aig dopo una perdita di 300 milioni di dollari.

L'importanza dell'American International Group spiega la frenesia con cui le autorità Usa si affannavano ieri attorno al suo capezzale. Lo Stato di New York, facendo una trasgressione clamorosa alle sue stesse leggi che regolano i comportamenti prudenziali delle assicurazioni, ha autorizzato Aig a farsi prestare 20 miliardi di dollari dalle sue filiali. Praticamente l'azienda ha avuto un nulla osta inaudito per infilare le mani nella cassa del ramo-vita e del ramo-rischi, con buona pace dei suoi clienti. Non è bastato. A riprova che l'intera stabilità del credito è in gioco, sul caso Aig è intervenuta la Federal Reserve, "sconfinando" nel settore assicurativo che esula dalle sue competenze. La Fed ha intimato a JP Morgan Chase e Goldman Sachs di mettere assieme un prestito-ponte di 75 miliardi di dollari: la bombola d'ossigeno per mantenere in vita il gigante assicurativo. Uno degli effetti del declassamento del rating, infatti, è che automaticamente molti creditori devono richiedere il rimborso di titoli derivati. Un'emorragia di liquidità che Aig non è in grado di fronteggiare.

Ma l'ipotesi di un nuovo salvataggio pubblico è stata attaccata da John McCain, candidato repubblicano alle presidenziali. "Lasciamo che Aig fallisca", è stato il suo commento. Dopo i costi sopportati dalle finanze pubbliche per il crac di Bear Stearns (30 miliardi di garanzie dalla Fed all'acquirente JP Morgan) e l'onere incalcolabile della nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac (200 miliardi la stima più ottimista), i repubblicani non vogliono affrontare le presidenziali con un deficit pubblico allo sbando. Se regge la linea del rigore applicata alla Lehman - o se JP Morgan e Goldman Sachs non trovano i "prestatori" volonterosi per 75 miliardi di dollari - il destino dell'Aig è segnato: un'altra bancarotta. A meno che intervenga il "cavaliere bianco" Greenberg con la sua cordata di investitori privati.

Dall'inizio di questa crisi di dimensioni storiche, le perdite totali per il sistema bancario - che il Fondo monetario internazionale stimava a 950 miliardi di dollari - salgono verso i 1.500 miliardi. Le voci di difficoltà lambiscono le due ultime merchant bank sopravvissute, Morgan Stanley e Goldman Sachs (i cui risultati sono crollati del 70%). La più grande cassa di risparmio americana, Washington Mutual, anch'essa vicina al fallimento, potrebbe essere "ingoiata" da JP Morgan. Come nell'acquisizione di Merrill Lynch da parte di Bank of America, queste operazioni decise nel nome della stabilità sistemica e dell'interesse nazionale avranno costi pesanti: ristrutturazioni e licenziamenti di massa.

L'ondata di sfiducia è inarrestabile e lo si è visto nell'impennata del costo del denaro. In una sola notte sul mercato interbancario americano è raddoppiato il costo per ottenere prestiti: il tasso Libor è schizzato da 3,20% a 6,44%, ritrovando i massimi dell'11 settembre 2001. La paralisi del credito e il dilagare della paura provocano scosse sismiche anche nella valutazione del rischio-sovrano. E' sintomatico il balzo che ha subito il rischio-Italia. Il differenziale tra i rendimenti dei nostri Btp decennali e gli equivalenti Bund tedeschi è salito di 74 punti raggiungendo un massimo storico: il record dalla nascita della moneta unica nel gennaio 1999."

Il salvataggio di fatto avviene il 17 settembre con un investimento da parte dello Stato di 85 miliardi di dollari, ma sembra non bastare. Aig continua a perdere valore, altre banche statunitense ed europee sembrano in sofferenza, e l'Asia stessa è coinvolta nella crisi. Lo spettro del '29 torna ad affacciarsi, ed è sorprendente che esso sia evocato dagli stessi operatori di Borsa che, negli ultimi anni, hanno tentato in ogni modo di rassicurare gli investitori e che, appena qualche settimana fa, sostenevano che il peggio era passato. L'intervista di Massimo Giannini su Repubblica del 18 settembre ad uno di essi è estremamente eloquente:

"Forse non avete capito cosa sta succedendo. Qui il problema non è Wall Street che perde il 4%. Qui siamo a un passo dal collasso totale dei mercati, dalla crisi del sistema finanziario globale". Il noto trader milanese consulta le carte, snocciola le cifre, riordina i fatti, e in cima alla giornata più drammatica e indecifrabile di questo Settembre Nero dei mercati avanza l'ipotesi più funesta: "Non si può escludere nulla. Nemmeno che da un momento all'altro si decida la chiusura delle principali Borse mondiali...".

Benvenuti nel Nuovo '29. Evocata, temuta, ma in fondo mai presa sul serio, la "crisi di sistema" del capitalismo finanziario globale si materializza nelle parole dell'operatore che la sta vivendo in presa diretta, minuto per minuto. È anonimo, e non può essere diversamente, perché quello che dice è talmente preoccupante da non poter essere "firmato" da chi, ogni giorno, compra e vende titoli per milioni di euro. "In questo momento - spiega - ogni parola può creare altro panico, ed è meglio evitare...".

Ma se quello che racconta è vero - e a giudicare dall'andamento degli scambi sui mercati e dalle mosse delle autorità politiche e monetarie non possiamo dubitarne - il panico è già abbondantemente giustificato. "Sta accadendo qualcosa di inedito, che non abbiamo mai visto prima. Dall'America si sta diffondendo una crisi di fiducia senza precedenti, tra banche e banche e tra banche e clienti. Una crisi che colpisce in prima battuta quelle che un tempo avremmo chiamato le "Big Five", cioè le grandi "investment banks" : Bear Stearns, Lehman Brothers, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sachs. Le prime due ce le siamo già giocate, la terza prova a salvarla Bank of America, ma ora il punto è che stanno finendo nel mirino anche le altre due".

Non a caso, i titoli Morgan e Goldman, a New York, sono letteralmente crollati, lasciando sul campo oltre il 40% del proprio valore. "Ma quello è solo il sintomo, la febbre - spiega l'operatore - perché la malattia è molto più grave. E la malattia è questa: dopo il crac della Lehman gli investitori istituzionali, e soprattutto gli hedge funds, stanno chiudendo le proprie posizioni presso le grandi banche d'investimento americane, perché non si fidano più della loro solvibilità. Questo sa cosa significa? Significa il collasso dei mercati azionari e obbligazionari mondiali, il "meltdown" totale di tutti gli scambi finanziari del pianeta".

Non è un'esagerazione. È la pura realtà, che deriva da un dato di fatto che ci porta a riflettere sulle distorsioni del modello capitalistico "drogato" da Greenspan e cavalcato da Bush: "Queste grandi "investment banks" muovono ogni giorno trilioni di miliardi di dollari. Hanno in custodia, in regime di sostanziale monopolio, la quasi totalità dei titoli posseduti dagli investitori istituzionali e dagli hedge funds di tutto il mondo.

Ora, se questi ultimi cominciano a ritirarli, perché temono il default delle stesse banche d'affari, non si rischia solo qualche altro "fallimento eccellente", ma si blocca tutto il meccanismo che regge i mercati finanziari. Glielo spiego con un esempio: le banche d'affari sono il "motore" del sistema finanziario globale. I loro clienti, investitori istituzionali ed hedge funds, sono l'olio che fa girare quel motore. Nel momento in cui l'olio viene a mancare, perché i clienti smettono di versarlo, il motore fonde, e la macchina è da buttare".

Questa è la posta in gioco. "Con un'aggravante. Investitori ed hedge funds chiudono le loro posizioni, e per esempio sulla piazza di Londra stanno cercando di dirottare i propri investimenti sulle grandi banche "retail", che al momento sembrano più sicure: Deutsche Bank, Santander, Bnp. Ma ormai non funziona più neanche questo, perché i mercati, terrorizzati dal fantasma del crac globale, sono totalmente illiquidi. Non si riesce né a comprare né a vendere, perché mancano le controparti.

Per questo la crisi è di sistema, e rischia di travolgere tutto. Non c'è più fiducia. Le mosse di Paulson non convincono nessuno, la gente non crede al salvataggio di Aig, che infatti continua a perdere a rotta di collo, e i "Treasury bond" americani hanno raggiunto un rendimento dello 0,23%, una cosa che non si vedeva da mezzo secolo. Le stesse banche centrali, la Fed e la Bce, non sanno che pesci prendere, perché hanno capito che questo non è un "trend" classico dei cicli borsistici: rialzi e crolli non sono mai stati un problema, figuriamoci, ci siamo abituati, fanno parte del gioco. Il guaio, stavolta, è che è proprio il gioco in sé che si sta rompendo".

Il trader italiano, di stanza a Piazza Affari, vive ai margini del ciclone finanziario americano. Ma cita altri due indizi, che danno la misura del livello di allarme scattato anche nelle "province" dell'impero del capitale globale: "Primo: stamattina la Banca d'Italia ci ha chiesto di fornirgli entro mezz'ora, e dico entro mezz'ora, le posizioni aperte con Lehman da tutti noi operatori nazionali: una roba mai successa. Secondo: nel pomeriggio abbiamo vissuto momenti di forte tensione, perché neanche la Cassa di compensazione aveva più liquidità sufficiente. Cioè: la Cassa non paga, noi non paghiamo, e così tutto l'ingranaggio va in tilt da un momento all'altro". Il tema vero è: ci si può ancora salvare da questo Nuovo '29 che incombe?

L'operatore spera, ma non si avventura: "Parliamoci chiaro: qui, se siamo ancora in tempo, ci sono solo due possibilità per non far fondere tutta la macchina. La prima possibilità è che almeno un paio di grandissime banche commerciali di dimensione mondiale, che so, Hsbc tanto per fare un nome, si comprino le banche d'affari americane a un passo dal tracollo: operazione possibile, anche se molto complicata, che richiederebbe comunque una fortissima "moral suasion" da parte del potere politico. La seconda possibilità è che invece sia proprio la politica americana a fare il passo più estremo, nazionalizzando Morgan e Goldman prima che sia troppo tardi. Operazione complicata e forse impossibile, se non al prezzo di addossare ai contribuenti i costi enormi del doppio salvataggio e snaturare per sempre il modello liberale del capitalismo Usa".

Altre soluzioni, per il trader milanese, non ne esistono. E oltre tutto bisogna fare presto, perché la velocità con cui questa crisi si sta avvitando su se stessa è impressionante. Per questo, in attesa che qualcuno decida qualcosa, l'operatore ipotizza addirittura il ricorso all'arma fine di mondo: "Se questo è il clima, ci può stare anche che le autorità decidano, da un giorno all'altro di chiudere le Borse. È un'ipotesi estrema, è chiaro, che in Italia è successa solo nel luglio '81 dopo lo scandalo P2, e in America dopo l'attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre. Ma ora come ora non mi sento di escludere niente. Qualcosa bisogna pur fare. Bisogna prendere il toro per le corna. Anzi, stavolta bisogna prendere l'orso per la coda, visto che sul mercato, di tori, non ce ne sono più"

E' dal 2003 che, senza essere uno specialista, sostengo che la crisi avviatasi nel 2001 è una crisi epocale del sistema. Adesso, lo riconosce anche Alan Greespan, l'ineffabile ex-governatore della Fed, responsabile almeno in parte di ciò che sta avvenendo avendo inaugurato l'era della liquidità a bassissimo costo (tale da invogliare qualunque speculatore a fare i suoi giochi con denaro altrui).

Prima di discutere come si è arrivati a tanto, è opportuno fornire un ragguaglio sulle stime e sui commenti che sono stati forniti sulla crisi nell’ultimo trimestre.

La stampa finanziaria ha il vantaggio, rispetto ad altri ambiti pubblicistici (per esempio la politica estera, quella interna, la cronaca, la cultura, ecc.), di essere agganciata a dati quantificabili (quando naturalmente si riesce a farli venire alla luce). Essa, dunque, nonostante non sia immune da controverse interpretazioni degli stessi dati, ha una certa attendibilità.

2.

Partiamo dai dati di fatto, vale a dire dall’andamento della crisi.

Il 16 giugno, su Affari & Finanza, Massimo Giannini evoca lo spettro, tutt’altro che remoto, della stagflazione, la peggiore delle “malattie” del sistema che, associando la stagnazione all’aumento dei prezzi, viola una delle leggi storiche del mercato liberista: quella per cui, data una depressione economica. la discesa dei prezzi funziona come volano del superamento della crisi. La diminuzione dei prezzi, infatti, giunta ad un certo livello, rianima i consumi e innesca il circolo virtuoso tra la domanda e l’offerta (la produzione di beni) che si adegua ad essa.:

“C’è nell’aria una paura di stagflazione da anni ’70, dice sul Financial Times Stephen Roach, uno dei più brillanti banchieri d’affari della Morgan Stanley. Provate a dargli torto. Le prospettive della congiuntura, nel medio periodo, restano nere. La bolletta petrolifera impone un conto salatissimo alle economie mondiali. Per avere un’idea, nell’ultimo mese i consumi di benzina negli Stati Uniti sono scesi del 9%. Un dato che ha un solo precedente: gli anni della Seconda Guerra Mondiale. È vero che la stagflazione moderna è diversa da quella del passato perché oggi l’inflazione, priva dei vecchi meccanismi di indicizzazione, non ruota attorno alla spirale perversa prezzi/salari. Ma questo, paradossalmente, complica le cose. Ed è altrettanto vero che oggi Usa e Europa importano inflazione dall’Asia, dove i prezzi corrono a ritmi del 7,5%.

Parzialmente diverso è il quadro dei mercati, dove i problemi strutturali sono acuiti dai fenomeni speculativi. Nel breve periodo qualche «bolla» potrebbe esplodere. Dal grano al cacao, dall’olio alle commodities: gli aumenti esponenziali di queste ultime settimane non si spiegano solo con la «fame» di materie prime degli emergenti del «Bric». Prima dell’estate potrebbero in parte rientrare. E questo, come prevede George Soros, potrebbe generare un «rimbalzino» delle borse.

Ma sarebbe poca cosa. Nel frattempo, come la tortura della goccia cinese, lo spillover che trabocca da un barile di greggio a 130/140 dollari nei prossimi mesi tormenterà l’economia reale. L’intera struttura dei prezzi sconterà l’effetto di questo shock petrolifero strisciante. A partire da quelli alimentari, che la Bce già prevede in crescita del 44%. I consumi, di riflesso, si contrarranno in misura più che proporzionale. A partire da quelli sull’energia, sui carburanti, sui trasporti, sul turismo. It’s the stagflation, stupid: almeno questo, ormai, l’abbiamo capito. Quello che non abbiamo capito è cosa aspettano i banchieri centrali a concertare una politica monetaria all’altezza della sfida. La Bce, finora, ha avuto ragione a tenere stretti i cordoni della borsa sulla stabilità dei prezzi, mentre la Fed ha pagato la manica troppo larga di questi anni. Ma ormai è giudizio unanime che un rafforzamento del dollaro aiuterebbe a calmierare il prezzo del petrolio, e quindi attenuerebbe l’impatto recessivo dello shock. «È troppo chiedere una collaborazione tra Francoforte e Washington?», chiedeva tre giorni fa James B. Stewart sul Wall Street Journal. Buona domanda. Si attende risposta.”

Il problema è che la Bce non ha alcuna intenzione di aiutare la Fed a rimediare ad una situazione che essa, attraverso i bassi tassi di interesse praticati per anni, ha contribuito a creare. Il sistema bancario europeo, poi, ha il dente avvelenato con le istituzioni statunitensi che, sommergendo il mercato di titoli-spazzatura, lo ha coinvolto a sua insaputa nel disastro dei subprime.

L’anniversario della crisi, come riferisce Giovanni Pons su Repubblica a fine giugno, vede ancora in atto strategie divergenti tra Fed e Bce:

“La crisi dei mutui subprime ha il suo inizio circa un anno fa quando la New Century Financial Corporation ha cominciato a registrare un’ascesa vertiginosa del tasso di insolvenza sui mutui. In breve tempo si è scoperto che le banche americane nel corso degli ultimi cinque anni hanno erogato mutui immobiliari a controparti considerate poco "solvibili" sotto il profilo dell’affidabilità finanziaria. A volte non veniva neanche richiesto un contratto di compravendita di una casa per accedere a queste forme di finanziamento che sono state denominate "subprime" proprio per indicare l’elevato grado di rischio insito in questo tipo di credito. I mutui subprime venivano poi impacchettati all’interno di prodotti finanziari collaterali, i cosiddetti Cdo, a cui veniva assegnato un rating con l’obbiettivo di rivenderli a terzi sul mercato. In questo modo le banche riuscivano a "disintermediare" il rischio distribuendolo sul mercato attraverso altri operatori che negoziavano questo tipo di strumenti ad alto contenuto finanziario.

Dall’inizio dell’agosto 2007 la crisi ha cominciato a espandersi in maniera significativa su ampie fette del sistema bancario americano innescando una serie di svalutazioni e di crolli di Borsa che ancora oggi non sembrano giunte al termine. Una stima recente da parte del Tesoro americano indica in circa 1000 miliardi di dollari le perdite complessive registrate dalle banche mondiali, alcune delle quali hanno rischiato il collasso. La Countrywide, uno dei principali operatori in mutui ad alto rischio, è stata salvata da un intervento provvidenziale della Bank of America. E quando la banca d’affari Bear Stearns ha sbattuto la faccia contro la crisi di fiducia la Fed ha dovuto far intervenire la JP Morgan per evitare il peggio.

La crisi dei mutui subprime ha poi avuto e sta avendo riflessi importanti sull’economia reale. L’ex presidente della Fed Alan Greenspan è stato uno dei primi a prevedere un rallentamento dell’economia come principale effetto della crisi del mercato immobiliare americano. Ma lo stesso Greenspan è entrato ben presto nel mirino dei critici che hanno individuato nel livello troppo basso dei tassi di interesse Usa la principale causa della bolla speculativa immobiliare.

La crisi dei subprime ha messo a dura prova anche la tenuta delle banche centrali. Di fronte ai tassi di pignoramento in rapido aumento, al crollo dei corsi di Borsa delle principali merchant bank quotate e allo spettro della recessione all’orizzonte, Ben Bernanke e Jean Paul Trichet hanno scelte strade divergenti per difendere le economie dalla bufera. In un primo momento le banche centrali di tutto il mondo hanno immesso una grande quantità di liquidità nei mercati per alleviare l’emergenza della stretta monetaria. Poi la Fed ha portato avanti una politica di ribassi successivi dei tassi interesse che hanno ridotto il saggio di sconto fino all’attuale 2%. Dal canto suo la Bce ha preferito invece mantenere intatto l’obbiettivo della lotta all’inflazione mantenendo invariati i tassi di interesse. A tutto ciò si è aggiunta l’incredibile ascesa dei prezzi delle materie prime, e in particolare del petrolio, che ha aggiunto altre tensioni su mercati già messi a dura prova. E il nuovo scenario che si sta prospettando è composto da un pericoloso mix tra rallentamento economico e crescita dell’inflazione, difficilmente governabile attraverso la leva dei tassi di interesse.”

Gli Stati Uniti capiscono rapidamente che i mercati aspettano un segnale forte sulle loro responsabilità. Le ammettono parzialmente e indirettamente facendo scattare le manette. A ripetizione, tra l’altro.

Su Repubblica, il 30 giugno, Massimo Giannini scrive:

“Ralph Cioffi prelevato in manette dai federali a New York è l’immaginesimbolo della crisi che torna a minacciare il capitalismo globale. Come in «Wall Street», il filmcult di Oliver Stone, l’arresto di Cioffi e del suo collega Matthew Tannin, manager di hedge fund falliti con Bear Stearns, chiude idealmente un ciclo dei mercati finanziari e ne apre virtualmente un altro. Con la cinematografica retata dell’Fbi cala il sipario sul primo atto del «crime scene» dei subprime. Ora si apre il secondo atto, persino più inquietante: le sue ricadute sull’economia reale, l’effettodomino sulla capitalizzazione dei sistemi bancari, il rischio di altri fallimenti nel settore immobiliare.

Il fantasma del Big Crash irrompe nuovamente sul set. Le banche denunciano sui mutui perdite «ufficiali» per 400 miliardi di dollari: quelle vere superano il trilione di dollari. In questo vicolo cieco, hanno solo tre vie d’uscita: fare utili giganteschi altrove, provvedere a massicce ricapitalizzazioni, procedere a cospicue cessioni di asset. La prima soluzione è impossibile per ovvi motivi congiunturali. La seconda è possibile solo grazie all’intervento dei «fondi sovrani» (arabi o cinesi che siano) con tutti i problemi geopolitici del caso. La terza è preclusa dalle condizioni oggettive dei mercati, dove non si vende quasi più nulla. E allora, «che fare?». Alla domanda di Lenin c’è una sola risposta: se parte un’epidemia tra le banche, l’unica via sono le nazionalizzazioni a pioggia o i fallimenti a catena.

Con il blitz «Mutui maligni» la repressione dei reati finanziari in Usa si manifesta ancora una volta in tutta la sua geometrica potenza. È una fortuna, ma qui nasce anche il problema. Reprimere è giusto, ma oggi più che mai (se siamo ancora in tempo) è urgente prevenire. Non basta far scattare le manette ai polsi a 400 Gordon Gekko, per chiudere la partita. Show must go on? D’accordo, ma solo a patto che il gioco non ricominci con le vecchie regole. Non siamo di fronte a quattro immobiliaristi di Zagarolo. Sui subprime è prosperata una rete di «furbetti del quartierone». Henry Paulson, segretario al Tesoro Usa, coglie il punto con colpevole ritardo: «Dobbiamo dare alla Fed il potere di accedere a tutte le informazioni delle banche». Come ai tempi del crac delle casse di risparmio o dell’Enron, l’America genera il male, e poi prova a produrre gli anticorpi necessari a curarlo. L’Europa soffre un po’ meno. Ma di anticorpi ne ha ancora meno. Insomma, è un gran brutto film. Speriamo solo che non vada mai in onda.

L’estensione dei provvedimenti repressivi è delineata da Andrea Greco su Repubblica, sempre a fine giugno:

“Un anno dopo l’annuncio di problemi dei due fondi hedge di Bear Stearns che hanno il poco invidiabile vanto di avere aperto la crisi mondiale, i loro due gestori, sotto inchiesta da parte dell’Fbi, finiscono in carcere. Matthew Tannin è stato fermato in New Jersey, il collega Ralph Cioffi nel suo appartamento di Manhattan. Sono accusati di cospirazione e frode. «Capri espiatori», dicono gli avvocati, colpiti per essere i primi di una lunga serie di manager che hanno contribuito a volatilizzare 400 miliardi di dollari. Conto peraltro parziale. Il braccio investigativo del Dipartimento di giustizia degli Usa li accusa di avere «gravemente violato la fiducia pubblica», tradendo gli investitori mai messi al corrente dell’andamento reale dei fondi, che gestivano 1,8 miliardi volatilizzati alla bancarotta giunta l’estate scorsa.

Tappata con faticosi interventi delle banche centrali - specie la Fed di Washington - la falla finanziaria, sembra giunto il momento della sanzione per chi ha sbagliato; altro passaggio fondamentale nelle ricorrenti catarsi del capitalismo anglosassone. Così ieri il Dipartimento e l’Fbi hanno annunciato la messa in stato di accusa - negli ultimi tre mesi e mezzo - di 406 persone, con centinaia di arresti, per frodi legate all’erogazione dei mutui di cattiva qualità. "Operazione ipoteche maligne", è il nome dell’inchiesta, che si allarga a tutti gli stati americani. I numeri sono impressionanti: 287 arresti da marzo (173 persone già condannate), 60 solo nelle ultime 24 ore.

I due fondi, lanciati nel 2006 all’apice del boom creditizio, fin dalla primavera scorsa erano nei guai, per l’eccessivo uso della leva debitoria e l’alta esposizione ai mutui subprime (circa il 60 per cento del patrimonio, secondo l’inchiesta parallela della Sec che vigila sul mercato). Nel mirino dell’Fbi ci sarebbe, soprattutto, lo scambio di e-mail fra i due manager, da cui emergerebbe che mentre dichiaravano pubblicamente che non c’era nulla da preoccuparsi, erano pienamente coscienti dell’agonia dei due fondi. In una comunicazione inviata dal suo indirizzo privato Tannin suggeriva al collega la possibilità di discutere la chiusura degli hedge fund. Ci ha poi pensato il mercato, quando l’estate scorsa è giunta la bancarotta, primo evento di una catena di sventure che a fine anno ha portato l’allora quinta banca statunitense tra le braccia di Jp Morgan, a un valore ormai simbolico.

Inchieste e arresti non significano, però, che la crisi nata dai subprime sia finita. I listini hanno perso oltre il 20 per cento da inizio anno, anche se, dicono in tanti, «il peggio è alle spalle». Ieri l’indice Dow Jones ha perso quota 12mila punti in avvio, dopo l’uscita dell’indice Fed di Philadelphia sull’attività manifatturiera, sceso di 17 punti contro le attese di 10 punti. Poi Wall Street ha azzerato le perdite. Il segretario al Tesoro, Henry Paulson, ha detto che «i mercati devono essere preparati a eventuali nuovi fallimenti, dobbiamo limitare la percezione che alcune aziende siano troppo grandi per fallire». Paulson ha chiesto una normativa più severa, e che la Fed abbia nuovi poteri per garantire la stabilità finanziaria e la massima trasparenza di quelli che a Wall Street sono (erano?) chiamati masters of the universe.”

Il governo statunitense, dunque, fa sul serio per riabilitare la fiducia nel sistema capitalistico: si affida all’FBI. I manager in manette servono a placare la rabbia popolare, come riferisce Mario Calabresi su Repubblica ai primi di luglio:

“Le manette ai polsi dei manager di Wall Street Ralph Cioffi e Matthew Tannin, le loro facce distrutte, la notizia che da marzo 406 persone - avvocati, agenti immobiliari, costruttori, periti e funzionari di banca - sono state incriminate, 273 arrestate e 170 già condannate, servono a dare qualche sicurezza al popolo americano, in un estate che si apre con l’ansia per il crollo dei prezzi immobiliari e per il costo alle stelle della benzina.

C’era bisogno di risposte simboliche, forti, l’Amministrazione repubblicana voleva mandare un segnale ad un Paese dove la fiducia nel presidente e nelle istituzioni è ai minimi storici. Così George Bush prima ha affrontato il problema del prezzo del petrolio trovando il colpevole nel Congresso guidato dai democratici che impedisce di trivellare nelle riserve naturali dell’Alaska, poi il suo Dipartimento della Giustizia e l’Fbi hanno sbandierato gli arresti dei manager per placare la rabbia della gente.

Nel mese di maggio sono state pignorate 261.255 case, si tratta di un record assoluto, il 48 per cento in più rispetto allo scorso anno, e i proprietari di un’abitazione ogni 483 hanno ricevuto l’avviso dell’inizio della procedura di fallimento. I prezzi degli immobili dall’inizio dell’anno sono scesi del venti per cento e ci sono quasi cinque milioni di case vuote sul mercato. Le banche mondiali, dall’inizio della crisi, si stima abbiano perso mille miliardi di dollari.

Qualcuno doveva pagare. Il nome dell’operazione dell’Fbi - "Mutui maligni" - è già un manifesto: bisogna far pulizia delle mele marce, senza mettere in discussione il sistema finanziario che ormai ciclicamente ripropone crisi che distruggono risparmio e credibilità. Non a caso si è partiti dai due gestori dei fondi di Bears Stearns da cui è partita la crisi e l’effetto domino sul mercato. Ralph Cioffi, 52 anni, e Matthew Tannin, 46, non sono però dei capri espiatori come sostengono i loro avvocati, marci lo erano davvero, uno scambio di e-mail della primavera del 2007 mostra che ingannarono gli investitori anche quando avevano già chiaro che il mercato stava crollando. Tannin prima ammetteva che «il mercato dei subprime è bollito, è un vero schifo» poi si vantava «di essere riuscito a convincere la gente a investire ancora più soldi». Tre giorni dopo aver sostenuto che i fondi «erano da chiudere subito» i due presentarono agli investitori più preoccupati un’immagine rosea, senza accennare al fatto che il valore stava crollando, tanto che Cioffi aveva già trasferito tra i 2 e i 6 milioni di dollari di suoi investimenti personali su un fondo più sicuro. Per questo su di lui grava anche l’accusa di insider trading e rischia quarant’anni di carcere, il doppio del socio. Oggi la loro banca, la storica Bear Stearns, non esiste più, ma solo quattordici mesi fa - come raccontano i fascicoli processuali depositati presso la corte federale di Brooklyn - brindavano con la vodka perché il loro portafoglio indicava una perdita di solo lo 0,08 per cento.

L’indagine, anzi le indagini perché i filoni sono due, promette di andare avanti e fare altre vittime illustri. Da una parte ci sono i pesci grossi di Wall Street, tanto che il direttore dell’Fbi, Robet Muller, ha rivelato che sarebbero 19 le «grandi società» finanziarie sotto inchiesta: banche d’investimento, agenzie di rating e hedge fund. Dall’altra i piccoli truffatori che hanno agito in ogni parte d’America truffando famiglie che sognavano di avere una casa di proprietà. Per dare il segno dell’azione il Dipartimento della Giustizia ha presentato tutte le indagini insieme, ma i due di Bear Sterns da soli hanno fatto più danni degli altri 406 messi insieme.

A Wall Street le teste cadute a causa dei mutui subprime sono già molte: travolti dalle perdite se ne sono andati Marcel Ospel di Ubs, Charles Prince di Citigroup e Stanley O’Neil di Merrill Lynch. Ma ora ci sono le manette e le accuse penali per chi nascose la portata reale della crisi agli investitori.

L’altra faccia dell’offensiva giudiziaria portata avanti in 15 Stati racconta tre tipi di frode fatte ai piccoli risparmiatori che avevano comprato casa: si va dalla truffa sui prestiti in cui venivano gonfiati i valori immobiliari, ai cosiddetti schemi di presunto salvataggio della casa, fino alla bancarotta sui mutui.

Negli schemi di presunto salvataggio veniva proposto al cliente che non era più in grado di pagare di rinunciare temporaneamente al diritto di proprietà, trasformandolo in una sorta di affittuario. Ma subito dopo la pratica veniva chiusa e i gestori si tenevano le rate già pagate o fingevano una rinegoziazione del mutuo facendosi pagare ulteriori commissioni.

Emerge sempre più inoltre che a molti proprietari non più in grado di pagare le rate mensili del mutuo non è stata concessa la possibilità di uscire dalla momentanea crisi, costringendolo alla bancarotta personale visto che il prestito viene ritirato. Al giudice che potrebbe concedere un periodo di transizione venivano fornite dai truffatori prove evidenti dell’incapacità del cliente di far fronte alle spese negli anni a seguire.

I casi sotto la lente dell’Fbi sono ben 1400. Si ha la sensazione che si stia facendo giustizia. Ma le famiglie che hanno perso la casa lo scorso anno sono state 2.203.295. Per curare la crisi americana non bastano sessanta arresti in un giorno.”

Non bastano per due motivi: primo, perché la severità giudiziaria è compensata da nazionalizzazioni che, agli occhi dei cittadini attestano che nel campo del capitalismo finanziario esiste di fatto un’impunità direttamente proporzionale all’entità delle colpe commessi dai manager; secondo, perché i capitali finanziari. se tendono a produrre periodicamente bolle speculative, quando esse si sgonfiano, si trasformano in avvoltoi capaci di puntare e di guadagnare sui ribassi (il cosiddetto Orso borsistico).

3.

Al di là dei fatti, c’è la necessità di analizzare le cause della crisi in corso. Che l’epicentro della crisi siano gli Usa è considerato ovvio da molti. Alcuni, però, fanno presente che la crisi rientra nel quadro di uno scompenso globale del sistema capitalistico. Questo è vero, ma non cambia molto i termini della questione. Il capitalismo è un sistema che, per la sua logica intrinseca, tende periodicamente allo squilibrio, che si realizza per forza di cose nel paese più avanzato (sotto il profilo dello sviluppo del sistema stesso). La deregulation della reaganeconomics è all’origine della crisi attuale e il neoliberismo ha trovato nel corso di questi anni i suoi più fanatici sostenitori negli Stati Uniti.

L’analisi delle cause non è particolarmente complessa.

Il 20 giugno, su Repubblica Daniel Cohen ne coglie la più importante, la tendenza alla speculazione utilizzando denaro altrui:

“Che cosa c'è alla base delle crisi finanziarie? Una cosa molto semplice: si tende a scommettere più facilmente con il denaro degli altri che con il proprio. Il ragionamento tipico di un gestore di fondi di investimento o innovatore finanziario è: "Se vinco, il mio profitto sarà proporzionale alle vendite lorde che ho realizzato. Se perdo, sarò licenziato e forse perderò la mia reputazione". Se va avanti nel ragionamento, il gestore si accorge che i lati negativi si limitano al licenziamento, mentre quelli positivi non hanno limiti. L'asimmetria tra guadagni e perdite incoraggia l'audacia: una volta superata una certa soglia di rischio, il gestore finanziario che piazza scommesse con i soldi degli altri, ignora il pericolo. Dal punto di vista sociale, il problema nasce della divergenza degli incentivi. Anche se l'intermediario è consapevole che potrebbe ricavarne una notevole perdita personale, questa non sarà mai comparabile alle perdite inflitte ai risparmiatori.

La finanza di Pangloss. Questa semplice regola i profitti sono miei (almeno in parte), mentre le perdite sono di altri ci permette di capire il "meraviglioso mondo della finanza". Il gestore vive in un mondo di valori "panglossiani", per utilizzare un'espressione di Paul Krugman: proprio come il personaggio di Voltaire, l'investitore vede soltanto il lato positivo dell'affare e non prende in considerazioni i rischi, non per negligenza, ma razionalmente.

È un meccanismo che spiega le crisi del debito sovrano degli ultimi quaranta anni. E può aiutarci a comprendere la crisi dei subprime dello scorso anno.

I principi panglossiani spiegano perché per la finanza sia necessaria una regolamentazione. Le regole prudenziali fissano un rapporto minimo tra capitale delle banche e ammontare dei loro investimenti. L'idea è di obbligarle ad avere sempre la liquidità necessaria per pagare, e dunque per anticipare, le potenziali perdite. Viceversa, la crisi dei subprime dimostra come funzionano le cose quando attraverso vari artifici gli intermediari finanziari riescono a liberarsi dei vincoli della regolamentazione.

All'origine della crisi dei subprime c'è una brillante innovazione. Per offrire crediti immobiliari a tassi interessanti a un pubblico più ampio di investitori, gli ingegneri di Wall Street hanno avuto l'idea di suddividere i portafogli con attività ipotecarie in diverse tranche: le tranche di più elevata qualità sono pagate per prime, seguite da quelle di medio livello, mentre le tranche di livello più basso sopportano il rischio di un eventuale fallimento. Si costruisce così un ventaglio di attività diversificate, che attraggono vaste categorie di investitori: fondi pensione per le tranche a livello più elevato e fondi speculativi per le attività di rischio.

L'invenzione, realizzata nel 1983 da una consociata della General Electric, era inizialmente rivolta ai normali mutuatari. Nonostante una prima crisi nel 1994, la tecnica decolla nel 2000, rendendo possibile l'allargamento della platea di famiglie che possono accedere a prestiti ipotecari: grazie agli ormai famosi subprime, anche le classi sociali più svantaggiate possono finalmente acquistare una casa a credito. È Wall Street che va in soccorso di Harlem con i prestiti "ninja", dall'inglese "no income, no job, no assets", ovvero nessun reddito, nessun lavoro, nessuna garanzia.

La prima fase. Il crollo del sistema dei subprime si dipana in diverse fasi, ognuna delle quali rivela la visione panglossiana degli intermediari finanziari. A monte della crisi, un fatto è diventato presto chiaro: la qualità di ipoteche così estese si è profondamente deteriorata, anche tenendo conto della nuova clientela per la quale erano pensate. L'affidabilità sotto il profilo del credito dei clienti è stata sistematicamente sovrastimata dagli intermediari responsabili della concessione dei mutui ipotecari. La causa del deterioramento è evidente. Un tempo, con la vecchia scuola del prestito bancario, gli emittenti di un prestito erano anche coloro che successivamente lo incassavano, e dunque avevano un incentivo a valutare correttamente l'affidabilità del cliente. Con l'avvento della cartolarizzazione dei prestiti, l'agente che emette il prestito lo rivende immediatamente sui mercati finanziari. Gli incentivi sono completamente cambiati: ciò che conta è moltiplicare i numeri, non valutare la qualità del cliente.

La fase due. Ma questo è solo il primo piano del castello di carte, il secondo è la leggerezza delle banche stesse. Per approfittare al massimo delle nuove opportunità nei prestiti ipotecari, le banche hanno creato nuovi strumenti fuoribilancio, i "veicoli strutturati di investimento", i famigerati Siv. Immettendo le nuove attività in questi strumenti ad hoc, le banche si sono liberate delle regole prudenziali e hanno potuto sfruttare la leva finanziaria per finanziare operazioni a credito assai redditizie, senza dover ricorrere al proprio capitale. La macchina delle scommesse con il denaro altrui si è così messa in moto.

La crisi iniziata nell'estate 2007 ha rivelato l'ampiezza del fenomeno: le perdite vanno dai 422 miliardi di dollari indicati dall'Ocse ai 945 miliardi dell'Fmi. Qualunque sia la cifra finale, che dipende dell'evoluzione della crisi, siamo in presenza di un effetto di "leverage" al contrario, quello che a Wall Stret chiamano appunto "deleveraging". Le banche sono costrette a ridurre il volume dei prestiti, (ri)proporzionandolo al capitale, proprio nel momento in cui questo si riduce a causa delle perdite. Diventa perciò inevitabile una contrazione del credito, che generalmente porta alla recessione.

La fase tre. E siamo così al terzo piano del castello di carte: la bolla immobiliare. Il denaro facile degli anni Duemila ha provocato un'esplosione dei prezzi delle attività, e in particolare di quelle immobiliari, che ha permesso alle famiglie americane di vivere a credito. Un sistema estremamente lassista ha fatto sì che il loro debito aumentasse progressivamente via via che cresceva il valore delle proprietà immobiliari. Tutto va bene finché i prezzi salgono, quando invece i prezzi cadono, le famiglie il cui mutuo eccede il valore della casa possono chiedere o essere costrette al fallimento.

La fase quattro. Entra di nuovo in scena il ragionamento panglossiano, ma questa volta a farlo è chi chiede il prestito. Le famiglie più fortemente indebitate hanno un incentivo a scommettere sul protrarsi della crescita, ignorando il rischio di un rovesciamento del mercato. E il rischio maggiore è nell'andare avanti a farlo. Negli Stati Uniti, la caduta nel prezzo delle case ora ha raggiunto un tasso annuale medio del 10 per cento. Si è avviato un circolo vizioso: la riduzione dei prezzi obbliga le famiglie a dichiarare bancarotta, il che porta le banche a mettere all'asta le case non pagate, con un'ulteriore riduzione dei prezzi. Molte di quelle stesse famiglie, poi, hanno preso in prestito altro denaro per acquistare automobili, hanno utilizzato in maniera disinvolta la carta di credito e così via: il "deleveraging" delle famiglie più deboli potrebbe diffondere la crisi ben al di là dei mutui.

Quello che il denaro facile ci ha dato negli anni Duemila, ci sarà tolto dalla stretta creditizia dei prossimi anni. È iniziato il "deleveraging" a tutti i livelli: per le banche, per le istituzioni finanziarie, come i fondi speculativi e le società di private equity, che hanno utilizzato la leva finanziaria fino all'estremo, per le famiglie stesse. È il disincanto verso il mondo della finanza? Senza dubbio. Fino alla prossima volta.”

Chiaro e cartesiano l’articolo di Cohen, che però non evidenzia un fattore di estrema importanza: la crisi di credibilità dei cittadini nei confronti del sistema capitalistico e dei suoi apparati di controllo. E’ questo fattore che fa vedere all’orizzonte, come scrive Federico Rampini (Affari&Finanza 23 giugno) il rischio di un grande crac:

“La maxiretata dei "banchieri dei mutui" effettuata dagli agenti dell’Fbi non è il capitolo finale del crac. Il sipario non si chiude con gli arresti di ieri. Il seguito della storia è ancora nascosto nelle pieghe dei bilanci delle banche. La pulizia delle perdite è stata tutt’altro che completa. Le voragini che devono ancora emergere possono infliggere colpi tremendi alla stabilità finanziaria, e nuove ondate di contagio da Wall Street verso il resto del mondo. Mentre la magistratura Usa procedeva alle retate dei primi manager bancari per la crisi dei mutui selvaggi, il segretario al Tesoro Henry Paulson concludeva un summit bilaterale con il governo cinese ad Annapolis nel Maryland.

In una vigorosa arringa Paulson ha spiegato perché la Repubblica Popolare deve liberalizzare al più presto i suoi mercati finanziari, adottando il modello della deregulation americana. Nelle foto del summit si notano i sorrisi divertiti dei dirigenti cinesi mentre Paulson parla. Avevano appena visto sfilare sugli schermi tv i banchieri americani in manette. Una volta tornati a casa, è poco probabile che si affrettino a trapiantare a Pechino la ricetta che Paulson (ex chief executive della Goldman Sachs) continua a propagandare.

Gli arresti legati al crac dei mutui - una crisi emersa alla luce del sole meno di un anno fa - possono suscitare ammirazione: l’Fbi e i procuratori distrettuali americani hanno agito in tempi record e con severità. Le pene saranno dure, nessuno in America contesterà l’azione dei magistrati, e attraverso le class action i risparmiatori forse otterranno qualche compensazione. Ma nel resto del mondo il sentimento dominante oggi non è l’ammirazione per il blitz della giustizia, che comunque non ripara gli effetti del contagio globale di una crisi finanziaria made in Usa. Il modello angloamericano è in una vorticosa caduta di credibilità. La Repubblica Popolare non offre certo un esempio migliore. I difetti dei mercati cinesi sono noti: banche opache, Borse ad alto rischio, risparmiatori poco tutelati, collusione fra capitalismo e potere politico. Oggi però lo stesso elenco può servire a descrivere i mercati americani. Nel mondo intero il sistema anglosassone soffre di un rigetto senza precedenti. E non solo presso regimi autoritari come la Cina. L’India ha preso una misura drastica vietando alla Borsa di Mumbai le contrattazioni sui futures di materie prime agricole: di fronte all’iperinflazione alimentare, il governo democratico di Manmohan Singh giudica inaccettabile lasciare in mano alla speculazione un mercato da cui dipende la sopravvivenza di centinaia di milioni di suoi concittadini. Anche ai vertici dei paesi ricchi dell’Occidente si sentono giudizi di una severità inusuale. Il presidente della Repubblica federale tedesca Horst Koehler ha pronunciato una requisitoria pesante contro la logica di Wall Street: «La complessità dei prodotti finanziari, e la possibilità per gli speculatori di prendere posizioni cospicue rischiando pochissimi capitali propri, hanno generato un mostro». Koheler prima di accedere alla massima carica dello Stato tedesco non era un agitatore dei no-global bensì il direttore generale del Fondo monetario internazionale, una venerabile istituzione dove in genere i mercati finanziari non vengono definiti "un mostro".

Il crollo di fiducia nel modello americano si insinua nel cuore di Wall Street. John Paulson (stesso cognome ma nessuna parentela col segretario al Tesoro) è uno dei più importanti gestori di hedge fund e fu uno dei primi ad avvertire le avvisaglie del crac dei mutui. In un’intervista al Financial Times ha stimato che il vero buco tuttora nascosto nei bilanci delle banche è di 1.300 miliardi di dollari, contro 380 miliardi di perdite finora riconosciute ufficialmente. Ha aggiunto che «la crisi del mercato immobiliare non accenna neppure a stabilizzarsi, il contagio continuerà a estendersi ad altri settori». Le manette scattate ai polsi di tanti manager americani non bastano ad arginare la metastasi.

Sempre a Wall Street la direttrice della vigilanza della Sec (l’autorità di controllo dei mercati finanziari), Linda Chatman Thomson, mette il dito sulla piaga più grave: l’illegalità dilagante ai vertici dell’establishment. «Sono turbata e sgomenta», ha detto osservando la montagna di indagini su casi insider trading che si accumula sulla sua scrivania. «Questi non sono pesci piccoli, ma dirigenti che stanno in cima alla piramide gerarchica». Dalla Morgan Stanley alla Ubs svizzera, gli scandali si moltiplicano e Linda Thomson invoca la necessità di un "global law enforcement", un poliziotto mondiale. Il suo suona come un grido di impotenza, venendo da quella istituzione che un tempo era considerata un guardiano invincibile. Sono passati appena sette anni dal crac Enron e quella lezione sembra non aver lasciato traccia. La caduta di legittimità mondiale del sistema americano ha qui la sua causa più profonda: proprio quei gruppi dirigenti capitalistici al centro di una grave "questione morale", sono anche i massimi beneficiari della globalizzazione. David Rothkopf, del Carnegie Endowment, li ha definiti la Superclasse, ovvero la nuova élite del potere sovranazionale. Rothkopf descrive una vera e propria mutazione della classe dirigente: «La metamorfosi della finanza internazionale è stata una delle tendenze portanti di quest’epoca. In un quarto di secolo i flussi di capitali sono diventati immensi, istantanei, e controllati da una nuova razza di trader che rappresentano un manipolo di colossi finanziari concentrati in pochissimi paesi. Le loro remunerazioni personali hanno polverizzato ogni precedente storico: il manager più pagato di uno hedge fund nel 2007 ha intascato da solo tre miliardi di dollari. La concentrazione di potere è cresciuta a dismisura. Le 50 maggiori istituzioni finanziarie controllano 50.000 miliardi di dollari di attivi, un terzo dei capitali mondiali. Il potere di ricatto di queste élite è tale che da una parte esse pretendono che i nuovi strumenti finanziari globali si autoregolino; d’altra parte quando è arrivata la crisi questi campioni del liberismo hanno convinto i governi a curare le loro ferite, mentre le famiglie dei lavoratori si vedevano pignorare le case. Queste élite guadagnano miliardi comunque, sia che i mercati vadano su o che vadano giù. Gli amministratori delegati delle multinazionali trent’anni fa guadagnavano mediamente 35 volte più dei loro dipendenti; oggi guadagnano 350 volte di più. I 1.100 capitalisti più ricchi del mondo controllano una ricchezza superiore a 2,5 miliardi di esseri umani».

Se il consenso politico verso la globalizzazione perde colpi nel mondo intero, America inclusa, una parte della responsabilità va ai sabotatori dall’interno, i vertici del capitalismo americano. Noi non abbiamo ancora finito di pagare il conto.”

La fiducia dei cittadini nei confronti del sistema capitalistico si è fondata sulla promessa, ripetuta all'infinito, di produrre una crescente ricchezza e di consentire a tutti di aspirare ad appropriarsi di una quota di essa. E’ evidente che una fiducia così generica viene scossa nel momento in cui la crisi economica fa incombere lo spettro dell’impoverimento non solo sulle classi secolarmente abituate alla povertà, ma su quelle medie.

Il secondo atto della crisi dei subprime, come riferisce Eugenio Occorsio, è per l’appunto la perdita, da parte della classe media, della casa e il crollo del mercato immobiliare:

“Sembrava sopita, ed era uscita dalle prime pagine dei giornali. Invece all’improvviso la tempesta dei subprime torna ad esplodere nel modo più violento: alla fine della settimana scorsa in rapidissima successione da tutti i fronti sono arrivate notizie disastrose. Mentre gli agenti dell’Fbi arrestavano in ogni angolo d’America decine di broker che avevano lucrato sui bond fabbricati con i mutui a rischio spacciandoli per pregiatissimi, la Citigroup faceva sapere che per il trimestre che sta per finire dovrà contabilizzare nuove e impreviste perdite da brivido. Ma soprattutto, dal mercato immobiliare americano arriva la conferma che i prezzi sono in picchiata, e chissà quando si fermerà la caduta. E’ quest’ultima, in termini macroeconomici, la notizia più inquietante. Che si condisce di particolari sinistri. Interi quartieri, periferie un tempo pregiate, zone residenziali costruite con cura e addobbate con amore, si presentano agli occhi dell’incredulo passante come uno sconcertante paesaggio di devastazione. Un tempo le case gli americani le bruciavano, adesso le scassano a picconate: quelle belle casettine di legno a colori pastello con la cassetta delle lettere al bordo del giardino e la bandiera a stelle e strisce sul porch (veranda), distrutte senza pietà. Quando gli veniva dato fuoco senza troppi complimenti, era per convincere un affittuario ad andarsene, come racconta Tom Wolfe nel Falò delle vanità romanzo paradigmatico sulla New York da bere degli anni ’80 oppure per incassare l’assicurazione o più spesso ancora per non pagare le tasse, che in molti Stati vengono sospese se la casa è impraticabile. L’usanza di sfigurarle a colpi di piccone, sfasciare i vetri, sfondare i muri, è invece più recente: è la ritorsione contro la banca che pignora la casa perché non si è pagato il mutuo. Il padrone di casa sfrattato si vendica abbattendo il valore dell’immobile, e nel frattempo induce la banca a pensarci due volte prima di sfrattare l’amico parimenti in difficoltà. A Cleveland in Ohio, in un quartiere che si chiama Slavic Center e già evoca le scene della guerra in Bosnia, qualche giorno fa sono state contate 1.500 case in queste condizioni.

La crisi del mercato immobiliare è causa ed effetto insieme della crisi finanziaria che martirizza il sistema creditizio. L’ha avviata la bolla dei subprime, i cui lati illegali stanno venendo alla luce in questi giorni con l’ondata di arresti in tutta l’America. E mentre arriva al redde rationem l’inchiesta che decine di procure hanno condotto in silenzio per tre mesi e mezzo, la crisi immobiliare si sta annodando su se stessa e vive il momento più difficile. Qualsiasi possibilità di soluzione, che pure in certi momenti era sembrata a portata di mano nelle ultime settimane, è rinviata a data da destinarsi. «Il peggio deve ancora venire», ha sentenziato giovedì scorso John Paulson, uno dei più scaltri gestori di hedge fund, che peraltro aveva fiutato il cattivo vento già due anni fa (con l’aiuto del suo superconsulente Alan Greenspan) e aveva scommesso al ribasso sui titoli basati sui subprime guadagnando con il suo hedgefund Paulson & Co. (che oggi vale 33 miliardi) l’iperbolica somma di 6 miliardi di dollari nel solo 2007. Se ne è messi in tasca personalmente quattro, il maggior guadagno di sempre per un gestore di fondi, e questo mentre tutti gli altri perdevano e qualcuno architettava per salvarsi manovre che ora gli sono costate la galera.

La maggior parte degli economisti è d’accordo con Paulson (solo omonimo del ministro del tesoro) e fra questi Allen Sinai: «Mi aspettavo un clamoroso showdown giudiziario, anzi è arrivato fin troppo tardi. Ma dobbiamo concentrarci sulla crisi dell’immobiliare: non ne usciremo prima di metà 2009 e forse oltre». Gli ultimi dati sono scoraggianti. I pignoramenti ordinati dalle banche per morosità sul mutuo (73.000 nel solo maggio contro i 28.548 del maggio 2007) sono aumentati negli ultimi 12 mesi del 158%. Ad oggi 1,3 milioni di famiglie, secondo i calcoli della Mortgage Bankers Association, sono rimaste vittima di una foreclosure dall’anno scorso. I prezzi delle case dall’aprile 2007 all’aprile 2008, stando all’indice di riferimento CaseShiller, sono scesi del 14,1%. Il numero dei contratti di vendita è piombato del 17,5%. In maggio, nella sola California 20mila famiglie hanno perso la loro casa, e altre 72mila sono in possesso di un documento di repossession notificatogli dalla sceriffo della contea. L’amministrazione statale guidata da Arnold Schwarzenegger è stata la prima ad approvare una misura d’emergenza: una multa fino a mille dollari al giorno contro chi per incuria non ripara i vetri o perfino trascura di tagliare l’erba del prato, che si applica a chiunque sia proprietario in quel momento, un inquilino moroso, una compagnia di mortgage, una banca. E a Providence, Rhode Island, è in discussione una norma comunale che impone una tassa del 10% sulle case vuote.

Dove arriverà la crisi? Le prospettive sono le più fosche. Ben oltre la discesa media, ci sono situazioni di sofferenza che sconcertano. A Palm Beach, in Florida, una delle comunità più opulente del mondo, celebrata da Miami Vice, i prezzi delle case sono scesi in media del 38% nell’ultimo anno. A Greenwich, Connecticut, sobborgo di lusso di New York, i prezzi scrive il sito specializzato Trulia.com sono in ribasso del 15%, e nella dorata Beverly Hills del 6%, con sfrattati di lusso come lo showman Johnny Carson (5 milioni di valore della casa) o l’excampione (e forse assassino della moglie) O.J.Simpson (4 milioni). Peggio sta andando nel molto più popolare sobborgo di Wayzata, Minnesota, dove le case sono in ribasso del 28%, per non parlare della già ricordata città operaia di Cleveland oppure di Las Vegas, che registra cali intorno al 20% e fallimenti a catena di costruttori e immobiliaristi che proprio nella città del gioco vedevano la loro Mecca. Il nome più illustre è quello di Donald Trump, che non è proprio fallito ma è in perdita secca perché aveva poco brillantemente spostato i suoi interessi da New York nel Nevada. I libri in tribunale li ha invece già portati Harry Macklowe, un altro costruttore di New York celebre per aver comprato nel 2003 per 1,4 miliardi di dollari il General Motors Building sulla Fifth Avenue (angolo 59esima), uno dei simboli di Manhattan, e per averlo rivalutato fino a 2,7 miliardi (data dell’ultimo refinancing nel 2006). Ha però fatto il passo falso quando ha comprato altri sei grattacieli nel 2005, prendendo in prestito 7 miliardi di dollari che non ha saputo più restituire. A Chicago invece il tribunale l’ha conosciuto direttamente dalla parte della sbarra Tony Rezko, costruttore e intermediario, arrestato per bancarotta fraudolenta mettendo in forte imbarazzo Barack Obama di cui era un finanziatore.

Circolano previsioni da brivido, che arrivano al 50% di ribasso nelle zone più esposte, e al 2535% nella media del paese, entro un anno, il che significa che una tale perdita si realizzerà in soli due anni. E potrebbe andare anche peggio. C’erano state altre housing recession durate duetre anni, per esempio nel 197375 dopo lo shock petrolifero e nell’8081 dopo la rivoluzione iraniana, ma il calo medio era stato contenuto entro il 1520%. Il guaio è che prima che questa crisi cominciasse, nell’estate 2007, per undici anni il mercato non era andato altro che in salita, il che spiega la violenza del "botto" che sta azzerando i guadagni conseguiti in tanti anni. L’America era talmente abituata a considerare le case un mercato in perenne crescita che era nata una serie di reti televisive specializzate in questioni immobiliari. Una si chiama Tlc, che sta per tender&love caring, la voce usata dagli immobiliaristi per indicare che la casa ha bisogno di una ripulitura (audience media: 700.000). Mandava in onda serial con titoli come Flip that house, un altro gioco di parole che significa "cambiar casa in un battibaleno". Trovi un’occasione, la prendi al volo, dai pochi ritocchi e vendi all’istante, guadagno garantito. Niente più di tutto questo. E addio ai mutuilampo concessi via Internet senza controlli né garanzie, i prestiti "Ninja" (no income no job asset).

Una parziale eccezione a questo quadro disastroso è New York, anzi Manhattan. «Nel centro cittadino i valori non sono diminuiti. Neanche saliti, ma sono rimasti stabili», dice Antonio Cosentino, vice president della Corcoran, la maggiore agenzia immobiliare d’America. Guido Pompilj, presidente della Vivaldi Real Estate, spiega: «Manhattan è un caso a sé. Il 30% delle case è fuori mercato perché è costituito dalle Coop, una formula per cui se vuoi comprar casa serve l’approvazione del board del palazzo, che la nega sistematicamente ai non residenti. Poi c’è un 60% di case vendute in blocco: è impossibile comprarle se non compri l’intero palazzo, un mercato evidentemente assai ristretto. Resta il 10% di case normali, i condominium, sul libero mercato: su un’offerta così ristretta si affollano i compratori internazionali invogliati dalla debolezza del dollaro. Così, il mercato si sostiene». Dovunque altro ci si volti, il quadro è desolante. Per correggerlo, si muove l’amministrazione Bush, che ha rifinanziato le agenzie federali Freddie Mac e Fannie Mae per garantire i mutui ai meno abbienti. Poi ha cercato con la moral suasion di intervenire presso le banche perché siano più umane, peraltro con pochi risultati perché nel frattempo ha imposto alle banche stesse più rigidi ratio patrimonio\prestiti e gli istituti si sono rifatti sui clienti\mutuatari. Adesso sta provando ad impostare la tanto reclamata riforma dei sistemi finanziari, qualcosa di simile alla Sarbanes\Oxley che nel 2002, dopo lo scandalo Enron, riordinò la governance societaria. Ma è tardi: per una riforma del genere bisogna aspettare la nuova amministrazione. Solo che questa s’insedierà il 20 gennaio 2009.”

Il 15 luglio, su Repubblica, Joseph Stiglitz appone il suo timbro sulla crisi, denunciando il fallimento dell’”integralismo neoliberista”:

“Il mondo non è stato benevolo nei confronti del neoliberalismo, quella miriade di idee basate sul concetto integralista che i mercati si autocorreggono, allocano efficientemente le risorse e servono bene l’interesse pubblico. È stato questo integralismo di mercato il presupposto stesso del thatcherismo, della reagonomics, e del cosiddetto "Washington Consensus" a favore della privatizzazione, della liberalizzazione e della risoluta concentrazione sull’inflazione da parte delle banche centrali indipendenti.

Per un quarto di secolo tra i Paesi in via di sviluppo c’è stata un’agguerrita concorrenza ed è chiaro chi sono i perdenti: i Paesi che hanno perseguito politiche neoliberali non soltanto hanno perso la non irrilevante posta in gioco della crescita, ma oltre tutto quando hanno fatto progressi i benefici ottenuti sono andati in buona parte ad accrescere in maniera sproporzionata lo status di chi già stava in condizioni migliori rispetto agli altri.

Malgrado i neoliberali non siano disposti ad ammetterlo, la loro ideologia ha fallito un’altra prova. Nessuno può asserire che i mercati finanziari abbiano effettuato un lavoro straordinario nell’allocare le risorse alla fine degli anni Novanta, con il 97 per cento degli investimenti per la tecnologia delle fibre ottiche che ha richiesto anni prima di vedere la luce. Ma quanto meno quell’errore ha comportato un beneficio inatteso: abbassandosi i costi delle comunicazioni, India e Cina si sono integrate maggiormente nell’economia globale. Nondimeno, è difficile vedere benefici nelle ingenti allocazioni sbagliate di risorse al settore della casa. Le abitazioni costruite di recente per famiglie che non potevano permettersele sono ora in situazione critica e confiscate, mentre milioni di famiglie sono sfrattate dalle loro case, e in alcune comunità il governo finalmente è subentrato per confiscare ciò che restava. In altre, invece, i danni si sono allargati a macchia d’olio. Di conseguenza anche coloro che erano stati cittadini modello, avevano sottoscritto prestiti con grande prudenza riuscendo a conservare la propria abitazione, adesso scoprono che i mercati hanno drasticamente abbassato il valore delle loro case portandolo più in basso ancora dei loro incubi peggiori.

Certo, alcuni benefici a breve termine derivanti dall’ingente investimento nel settore immobiliare ci sono stati: alcuni americani (anche solo per qualche mese, forse) hanno goduto del piacere derivante dall’essere proprietari di una casa e di vivere in appartamenti più grandi di quelli che avrebbero potuto permettersi altrimenti. Ma a quale prezzo lo hanno fatto, per loro stessi e per l’economia mondiale! Milioni di persone perdendo la casa perderanno i risparmi di tutta una vita. Oltretutto i pignoramenti di tante case hanno provocato una svalutazione globale. C’è un consenso sempre più ampio sulla prognosi della situazione: questa recessione sarà duratura e di ampia portata.

Del resto i mercati non ci avevano neppure preparato adeguatamente all’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio e dei generi alimentari. Naturalmente, nessun settore è di per sé un esempio dell’economia del libero mercato, ma è proprio questo il problema, in parte: la filosofia del libero mercato è stata usata selettivamente, abbracciata quando serviva interessi speciali, liquidata quando non li serviva.

Forse, una delle poche virtù dell’Amministrazione di George W. Bush è che il divario tra retorica e realtà è più piccolo di quanto fosse con Ronald Reagan. Nonostante tutto il suo gran parlare di libero commercio, infatti, Ronald Reagan impose in tutta libertà restrizioni ai commerci, comprese le famigerate limitazioni "volontarie" alle esportazioni nel settore dell’automobile.

Le politiche di Bush sono state peggiori, ma nella misura in cui egli ha apertamente servito il comparto militare industriale americano è stato più trasparente. L’unica volta che l’Amministrazione Bush ha avuto un comportamento di maggior rispetto ambientale è stata quando ha messo a punto i sussidi all’etanolo, i cui vantaggi sull’ambiente sono comunque discutibili. Le distorsioni nel mercato energetico continuano (specialmente tramite il sistema fiscale) e se Bush avesse potuto averla vinta, le cose sarebbero state decisamente molto più gravi.

Questo miscuglio di retorica del libero mercato e di interventi governativi ha funzionato particolarmente male nei Paesi in via di sviluppo. È stato loro detto di smettere di prendere provvedimenti per l’agricoltura, esponendo così i loro agricoltori alla devastante concorrenza di Stati Uniti ed Europa. I loro agricoltori forse avrebbero anche potuto competere con i loro omologhi europei o americani, ma di sicuro non con i sussidi statunitensi e dell’Unione Europea. Non stupisce di conseguenza che gli investimenti nell’agricoltura dei Paesi in via di sviluppo siano calati e che si sia allargato il divario alimentare.

Quanti avevano divulgato questo erroneo consiglio non devono temere adesso di doversi sobbarcare le spese di un’assicurazione per coprire i guai provocati: i costi saranno sostenuti infatti dagli abitanti dei Paesi in via di sviluppo, specialmente i poveri. Quest’anno vivranno un considerevole peggioramento della loro condizione di poveri, specialmente se noi la calcoleremo e quantificheremo correttamente.

In poche parole, in un mondo di grandi ricchezze, milioni di persone dei paesi in via di sviluppo tuttora non si possono permettere i requisiti minimi nutrizionali. In molte aree, gli aumenti dei prezzi dei generi alimentari e dell’energia avranno un effetto particolarmente devastante sui poveri, perché sono queste due le categorie che assorbono la maggior parte delle loro spese.

La collera che dilaga nel mondo è tangibile. Gli speculatori – e non c’è da stupirsene più di tanto – sono stati oggetto di parte di questa collera e di questo sdegno. Sostengono tuttavia di non essere la causa principale del problema, ma di essere semplicemente impegnati in una "scoperta dei prezzi" – in altre parole "starebbero scoprendo", un po’ tropo tardi per poter fare qualcosa quest’anno – che c’è penuria.

Questa risposta, tuttavia, è insincera. Le aspettative di rialzi e i prezzi in costante oscillazione inducono centinaia di milioni di coltivatori a prendere qualche precauzione. Potrebbero guadagnare di più se oggi mettessero da parte una parte dei loro prodotti per rivenderli poi in seguito, e se non lo faranno, non saranno in grado di permetterselo più, qualora i raccolti dell’anno seguente fossero inferiori alle loro aspettative. Un pugno di cereali tolti dal mercato da centinaia di milioni di coltivatori di tutto il mondo messi insieme formano un’ingente quantità.

Chi difende l’integralismo del mercato è pronto a scaricare la responsabilità di tutto ciò dal fallimento del mercato al fallimento del governo. Si dice che una fonte cinese di alto grado abbia detto che il governo degli Stati Uniti avrebbe dovuto fare molto di più per aiutare gli americani con basso reddito a tenersi le loro case. Concordo, ma ciò non cambia in ogni caso i fatti: le banche americane hanno gestito male e su scala enorme i rischi, con ripercussioni globali, mentre chi dirigeva gli istituti finanziari coinvolti si è messo in tasca miliardi di dollari di bonus.

Oggi è in atto una discrepanza tra interessi sociali e privati. A meno di allinearli perfettamente, il sistema di mercato non può funzionare bene. Il fondamentalismo del mercato neoliberale è sempre stato una dottrina politica al servizio di determinati interessi. Non è mai stato sostenuto da una teoria economica, né e dovrebbe essere chiaro, ormai è supportato da un’esperienza storica. Apprendere una volta per tutte questa lezione potrà rivelarsi il piccolo raggio di sole in una nube scura che incombe ormai sull’economia globale.

Copyright: Project Syndicate, 2008. Traduzione di Anna Bissanti”

Il 22.07 Luigi Spaventa riconosce la gravità della crisi ma ritiene impossibile il ripetersi di una situazione come quella del '29 perchè il declino, o anche il crollo degli Usa, potrebbe essere compensato dal potere crescente delle economia asiatiche:

“Questa crisi finanziaria è forse la più grave dal dopoguerra: per la sua diffusione, per la sua persistenza, soprattutto per gli effetti che ha già dispiegato e potrebbe ancora dispiegare sull’economia reale. Di qui a evocare una ripetizione del 1929 tuttavia ce ne passa: troppo diverse, per fortuna, sono le condizioni ambientali. Si dice 1929; ma il crollo di borsa avvenuto in quell’anno segnò solo l’inizio di una profonda e lunghissima recessione. Ci volle quasi un decennio per tornare al punto di partenza: dopo una caduta di oltre il 25% fra il 1929 e il 1932, il prodotto interno americano recuperò il livello iniziale solo nel 1935, con un’altra recessione nel 1937.

Prima della guerra la disoccupazione toccò il 25% negli Usa e raddoppiò in Inghilterra. Il male americano si diffuse a tutto il mondo libero, che visse anni bui. Si dibatte ancora sulle cause di quella crisi, ma l’importanza di alcuni dati è generalmente riconosciuta. Gli Stati Uniti erano una potenza economica dominante, che non riusciva tuttavia a esprimere una leadership: se si fermava il suo motore, si fermava il mondo. Il pensiero economico prevalente, di cui erano prigionieri i responsabili della politica economica, forniva risposte esattamente sbagliate: la politica monetaria americana dell’epoca fu una somma di errori grossolani e tale fu, sino al "new deal", quella fiscale. In alcuni paesi la libertà di movimento era impacciata dai tentativi di ritorno a un cambio fisso con l’oro. L’impostazione isolazionistica americana produsse le tariffe della legge Smoot-Hawley: un’iniziativa protezionistica a danno delle altre economie e dei consumatori americani: prontamente reciprocata da altri paesi, provocò una drastica riduzione dei commerci e, con essi, della crescita mondiale.

Per grazia di Dio, oggi le cose stanno diversamente: la lezione del ’29 e la persistenza carsica delle lezioni keynesiane (depurate dalle sue scorie) ha cambiato in via definitiva il mindset dei responsabili della politica economica; la storia economica dell’ultimo decennio ha alterato - per il meglio, come ora ci si deve accorgere - la geografia della crescita. I cambiamenti introdotti dopo la seconda guerra mondiale hanno dotato le economie avanzate di un sistema di ammortizzatori che non esisteva nel decennio orribile: indennità di disoccupazione e altri meccanismi di sostegno dei redditi. Uno degli obiettivi assegnati dalla legge alla banca centrale americana è la crescita; un altro, implicito, è quello della stabilità finanziaria, che induce ad evitare il fallimento di grandi banche anche con mezzi eterodossi. La stessa Bce, più rigida sui tassi d’interesse, non ha esitato a provvedere al mercato tutta la liquidità necessaria accogliendo in garanzia anche titoli di dubbio valore. Il governo e il Congresso degli Stati Uniti sono anche troppo proni ad aprire il rubinetto delle elargizioni fiscali.

Questa crisi l’occidente industrializzato se l’è fatta tutta in casa: con la degenerazione di un suo modello finanziario, favorita da politiche monetarie permissive negli anni della grande bonanza e consentita da regolatori colpevolmente o dolosamente sonnacchiosi. Ne è rimasto relativamente immune il sistema finanziario dei Paesi emergenti. Questi Paesi, e non gli Stati Uniti, sono oggi il motore della crescita mondiale, a cui danno un contributo pari a un multiplo di quello dei paesi avanzati: non si tratta solo di esportazione, se oggi i consumi interni di Cina e India contano più di quelli degli Stati Uniti. In più, essi ormai impiegano le loro enormi riserve valutarie non solo in titoli del Tesoro americano, ma anche, con prospettiva di medio termine, in industrie e banche dell’occidente bisognose di capitale. Se continua, e soprattutto se non si alzano barriere di protezione, l’impetuoso sviluppo delle economie emergenti contribuisce a contenere i danni della crisi che i Paesi vecchi hanno voluto regalarsi: paradossalmente, un beneficio per essi della globalizzazione. A contenere i danni, ma non a lasciare le cose come stanno. La dislocazione ad est del motore della crescita, l’impiego all’ovest dei capitali dell’est, la contrazione del sistema finanziario occidentale, costretto a mettere a dieta i propri bilanci, la perdita di credibilità delle autorità preposte alla sua vigilanza (quelle che davano lezione all’Asia nel 1997) non possono alla lunga restare senza conseguenze più profonde. Questa crisi, al di là degli esiti immediati, segna comunque un’accelerazione nella ridefinizione degli assetti di potere e di influenza dell’economia mondiale.”

Già all’inizio della crisi l'ipotesi di un passaggio del "testimone" dai Paesi vecchi alle economie asiatiche è stata avanzata. Il problema, come illustra Federico Rampini, e che anch’esse potrebbero essere coinvolte nel grande crac:

“L'ultimo campanello d'allarme è venuto dall'improvviso aumento delle emissioni di "bond sovrani", ovvero titoli del Tesoro, da parte di alcuni paesi asiatici, Indonesia e Filippine in testa. Negli ultimi anni queste nazioni avevano disertato le emissioni obbligazionarie perché non ne avevano alcun bisogno; mentre i mercati le avrebbero assorbite senza batter ciglio. Accettando tassi d'interesse molto bassi. Ora invece il sudest asiatico torna ad avere una impellente necessità di capitali perché la situazione delle finanze pubbliche si deteriora rapidamente ma per piazzare i suoi bond deve offrire tassi superiori alla media. E' il segnale che la fiducia verso l'Asia si sta incrinando? Bisogna essere più precisi: c'è un pezzo di Asia che si sta "scollando" velocemente dal resto del continente, e rischia di tornare in una condizione molto precaria. Ma anche l'Asia più forte deve fronteggiare squilibri finanziari sempre più appariscenti e quasi ingovernabili.

I segnali di instabilità dei mercati si moltiplicano a Oriente con due elementi nuovi: da una parte l'eccessivo afflusso di capitali speculativi che affligge la Cina; d'altra parte invece l'indebolimento di alcune valute nei paesi con problemi di bilancia dei pagamenti (India in testa) che si stanno sganciando dai più forti, fino a seguire il percorso diametralmente opposto rispetto alla moneta cinese.

Cominciando dalla Repubblica Popolare, qui il problema in un certo senso è la troppa ricchezza. Le riserve valutarie di Pechino continuano a crescere, a un ritmo ormai preoccupante. Nel primo trimestre le riserve ufficiali in valuta estera sono aumentate di 154 miliardi di dollari, ad aprile di 75 miliardi, a maggio di altri 40. Solo una parte di questo aumento delle riserve valutarie è l'effetto dell'avanzo commerciale che la Cina continua ad accumulare verso Europa e Stati Uniti. Un'altra parte sono investimenti esteri diretti: acquisto di aziende cinesi da parte di società estere, spese in conto capitale da parte di multinazionali che aprono nuove fabbriche, ecc. Ma almeno 150 miliardi di dollari (c'è chi dice 170) sono in realtà capitali finanziari di natura puramente speculativa, "denaro caldo". Per quanto Pechino non abbia ancora adottato una piena convertibilità monetaria, e mantenga in vigore delle restrizioni normative alla circolazione dei capitali, tuttavia le soluzioni per importare valuta ci sono. Legalmente un non residente può introdurre fino a 50.000 dollari Usa all'anno (il limite è ancora superiore per i cittadini di Hong Kong). Poi c'è una inesauribile panoplia di metodi illegali come la dichiarazione di investimenti diretti che esistono solo sulla carta, o l'uso dell'importexport come un paravento per movimentare capitali.

A risucchiare dentro la Repubblica Popolare questi investimenti finanziari è una duplice attrattiva: il differenziale dei tassi d'interesse offerti in Cina rispetto all'area dollaro (i Buoni del Tesoro cinesi rendono l'1,7% in più rispetto ai Treasury Bonds americani) e la quasicertezza che il renminbi o yuan continuerà ad apprezzarsi sul dollaro. Sicché c'è addirittura la convenienza a indebitarsi in dollari, cambiarli in yuan e piazzare i soldi in Cina: se lo yuan dovesse rivalutarsi di un altro 10% in un anno, con l'aggiunta del differenziale sui tassi il rendimento per questi capitali speculativi sarà generoso. Può sembrare assurdo preoccuparsi per la crescita delle riserve valutarie. Dopotutto nel 1997 la precedente crisi asiatica fu determinata dal fenomeno opposto (fuga di capitali) e proprio quella lezione ha spinto i cinesi a dotarsi di un "arsenale" di sicurezza accumulando oltre 1.800 miliardi di dollari di riserve nei forzieri della banca centrale, risorse spendibili per difendere la propria moneta in caso di attacchi sui mercati.

Ma anche l'eccesso di riserve è dannoso, perché di fatto aumenta la liquidità, depotenzia il controllo della banca centrale sulla base monetaria, e in ultima istanza genera inflazione. Per quanto le banche centrali si sforzino di "sterilizzare" la base monetaria in eccesso, non riescono mai a farlo in misura soddisfacente finché continua l'inondazione di capitali dall'estero. Le autorità cinesi perciò stanno cercando di frenare questo afflusso di capitali speculativi. Hanno appena varato una misura restrittiva per impedire alle aziende esportatrici di gonfiare artificialmente le loro fatture (un modo attraverso cui la stessa industria cinese rimpolpa i propri depositi bancari per speculare sulla rivalutazione dello yuan). Ci sono molti dubbi sull'efficacia di quest'ultimo provvedimento.

Anche le ricette classiche contro l'inflazione alzare i tassi e rivalutare la moneta rischiano di essere controproducenti perché in questo caso premiano la speculazione e alimentano le sue attese di ulteriori apprezzamenti dello yuan sul dollaro. Insomma Pechino si sente in una impasse.

In ultima istanza la responsabilità è della Federal Reserve americana: la sua politica del credito facile, che ha indebolito il dollaro, è la causa di tutto questo. Finché la Fed non si decide a rialzare i tassi americani per combattere l'inflazione, le fragilità della finanza americana contagiano anche l'Asia.

Se il dollaro di Singapore e quello di Taiwan seguono lo stesso andamento del renmimbi cinese cioè continuano a rafforzarsi sul dollaro Usa c'è un folto gruppo di monete asiatiche che invece hanno il problema opposto, un accesso di debolezza. Le banche centrali dell'India, della Corea del Sud, della Thailandia, dell'Indonesia e delle Filippine sono dovute intervenire a più riprese sui mercati per difendere le rispettive valute. Vietnam e Mongolia raggiungeranno presto l'elenco dei paesi destinati a bussare sui mercati per raccogliere fondi con emissioni di bond sovrani. In effetti, se si eccettua la Repubblica Popolare, le riserve valutarie delle banche centrali asiatiche sono cadute di 10 miliardi di dollari ad aprile e di altri 9 miliardi di dollari a maggio: sono le munizioni "bruciate" per arginare la caduta delle monete asiatiche. Rupia indiana, won sudcoreano e peso filippino hanno subìto perdite dell'ordine del 10%.

Tutti questi paesi sono particolarmente vulnerabili per lo choc petrolifero, subiscono fiammate inflazionistiche (dall'India alle Filippine il carovita segna il record storico degli ultimi 14 anni), e i mercati giudicano che i recenti rialzi dei tassi d'interesse varati dalle loro banche centrali sono insufficienti per domare l'inflazione. Inoltre queste nazioni subiscono un rapido deterioramento dei loro conti pubblici, sempre per effetto del duplice choc energetico e alimentare. Per quanto India e Indonesia abbiano di recente rincarato i prezzi alla distribuzione dei carburanti, si tratta pur sempre di tariffe amministrate inferiori ai reali costi di approvvigionamento. Il differenziale come nel caso dei sussidi alla distribuzione dei generi alimentari si scarica sulle finanze pubbliche.

L'aumento dei deficit e dei debiti pubblici accentua la sfiducia dei mercati internazionali verso quest'area. Si assiste così a un "decoupling", un divorzio fra due Asie: da una parte paesi forti che hanno un problema di inflazione generato da un afflusso di capitali speculativi; dall'altro i paesi dove i capitali scappano per paura dell'inflazione. Va aggiunto il fatto che nell'Asia ricca di petrolio, il Golfo Persico, un fenomeno simile a quello cinese (eccessivo afflusso di capitali coniugato con alta inflazione) sta accelerando i tempi di uno sganciamento dal dollaro Usa delle monete degli Emirati Arabi Uniti e del Qatar: una mossa prima o poi inevitabile, ma che può aggiungere un'ulteriore incognita riguardo alle reazioni dei mercati.

E' un quadro altamente instabile, dove possono maturare delle improvvise crisi di panico.

Rispetto alla crisi del 1997, naturalmente, il peso dell'Asia in questo 2008 è assai superiore e dunque queste fragilità sono potenzialmente più pericolose di allora, per il resto del mondo.”

Giuseppe Turani, il 14 settembre su Repubblica, riassume icasticamente le cause della persistente turbolenza sistemica:

"C'è da chiedersi (ancora una volta) come è successo che il mondo intero sia finito dentro a questa crisi, a questo autentico disastro che sta mettendo in difficoltà l'economia di almeno due continenti (Europa e America).

Le cause più importanti sembrano essere due: l'avidità dei banchieri e una mancata recessione negli Stati Uniti.

1- Sul primo punto non ci sono molti ragionamenti da fare. Basta leggere i giornali. Pur di fare soldi, i maggiori banchieri del mondo hanno trovato il modo di prestare soldi anche a chi non aveva i requisiti necessari di solvibilità. La tecnologia per fare questo è abbastanza semplice e l'aveva già scoperta, in Italia, Michele Sindona moltissimi anni fa. Si tratta del "pacchetto". Sindona era diventato famoso perché, come banchiere d'affari, a volte comprava società decotte, mezze fallite, che nessun altro voleva. A chi gli chiedeva come contava di liberarsene, lui rispondeva tranquillo: farò un pacchetto. Nel senso che avrebbe messo quell'azienda decotta insieme a una cosa buona (una banca, una finanziaria rispettabile). E il cliente avrebbe dovuto comperare l'intero pacchetto, non divisibile. Affari suoi, poi, decidere che cosa fare dell'azienda decotta.

Le grandi banche internazionali hanno adottato lo stesso sistema. Emettevano obbligazioni per finanziare gente che non avrebbe dovuto essere finanziata. Ma quelle obbligazioni non venivano collocate direttamente sul mercato (presso i risparmiatori). Erano chiuse in un pacchetto insieme a obbligazioni relative a crediti più decenti e in ogni caso solvibili.

Naturalmente, non c'era una formula fissa per questo cocktail fra buono e cattivo, per questa macedonia di frutta buona e di frutta marcia. Ogni volta il cocktail era diverso e variamente assortito, messo insieme con formule sempre più elaborate. E le obbligazioni cocktail hanno invaso il mondo, fornendo a tutti in una prima fase rendimenti elevati e sicuri. Si è così generato un fiume di denaro che alla fine ha oscurato la mente di tutti i protagonisti, completamente dimentichi che stavano facendo soldi su affari che, semplicemente, non si sarebbero mai dovuti fare. I soldi erano così tanti e così facili che fermarsi a chiedersi da dove arrivavano sarebbe stato davvero inopportuno.

Alla fine, quando il costo del denaro è salito un po', e molti dei prestiti subprime sono saltati, è partito un effetto domino che non è ancora finito oggi, a oltre un anno di distanza e che ha travolto numerose rispettabili (fino a ieri) istituzioni finanziarie. E non si vede ancora l'uscita da questo tunnel infernale.

2- La seconda ragione per cui tutto questo esplode ha a che fare con una recessione non fatta. Nel 2001, quando c'è l'attacco alle Twin Towers, l'America sta andando in recessione. Subito dopo l'attacco terroristico, si decide che non si può mandare la più grande economia del mondo in recessione: sarebbe come dar ragione ai terroristi, a Bin Laden. Sarebbe come dimostrare che sono davvero in grado di mettere in crisi la potenza più potente del pianeta. A sistemare le cose ci pensa il presidente della Federal Reserve di allora, Alan Greenspan. E ricorre al metodo più semplice: abbassa drasticamente il costo del denaro. Questo salva l'America dalla recessione (che probabilmente arriva solo adesso, a sette anni di distanza). Ma fornire denaro a costo zero (o anche meno, se si tiene conto del costo reale, al netto dell'inflazione) è un po' come regalare alcool alla popolazione.

La percentuale di alcolismo sale inevitabilmente. E è appunto quello che accade. Decollano vari boom (da quello immobiliare a quello di Borsa) e alla fine, quando i tassi di interesse devono salire un po' per via dell'inflazione, esplode tutto. Solo che probabilmente, grazie all'avidità dei banchieri, l'inquinamento del mercato (i famosi cocktail di roba buona e di roba marcia) è andato, nel corso di sette anni, ben al di là di quello che tutti noi possiamo immaginare.
Questo spiega perché dopo un anno e moltissimi crack bancari questa storia non è ancora finita. E perché tutti temono che possa riservare altre e ancora più sgradevoli sorprese. In realtà, nessuno sa quanti di questi cocktail siano stati serviti alla clientela e chi se li sia bevuti. L'unico modo per capirci qualcosa è aspettare che i bevitori caschino per terra e poi portarli via. Sembra una faccenda di ubriaconi al bar, ma è esattamente quello che sta accadendo."

Vittorio Zucconi, il 16 settembre su Repubblica, analizza l'intrinseca sregolatezza del capitalismo americano:

"C'è qualcosa di spaventosamente banale, perché già visto molte volte come quegli uragani che si abbattono ogni anno, nel collasso della quarta banca d'affari americana consumato in questo weekend, la Lehman Brothers. Come nella fine di Bear Stearns, di Merrill Lynch - la numero uno risucchiata dalla Bank of America - nell'assalto in atto al titano delle assicurazioni Aig, nelle febbre che sta facendo rabbrividire marchi stellari come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Jp Morgan, c'è semplicemente l'altra faccia del "sogno americano". L'incubo americano.

La catastrofe della Lehman fallita, due settimane dopo il salvataggio governativo delle due principali fonti di mutui immobiliari semiprivate, Freddie Mac e Fannie Mae, e il panico che si sta impadronendo di un'industria finanziaria che si considerava inaffondabile e oggi vede un Titanic dopo l'altro inabissarsi, è la parabola dei trionfi e delle catastrofi inevitabili e necessari, che in un sistema di economia e di finanza spregiudicate trasforma pezzenti in miliardari con la stessa furia con la quale trasforma miliardari in pezzenti. Che travolge, devasta, terrorizza e poi diventa la premessa per ricostruire.

Non ci sarebbe l'America senza i disastri che l'hanno devastata e poi l'hanno rifatta. Quando Richard Fuld, presidente e profeta di questa casa finanziaria, addirittura vetusta per gli standard americani essendo nata 158 anni or sono, che dal 1993 era guardato come il mago capace di trasformare il nulla in oro e oggi come un apprendista stregone che ha lasciato 27 mila dipendenti sull'orlo del tuffo dalla finestra, ha dovuto arrendersi dopo un week end di inutile agonia e ha dovuto portare i libri in tribunale, un dramma rappresentato mille volte è andato in scena. Senza risalire alla preistoria e al crack del1929, che i grandi gufi come Allan Greenspan continuano a citare forse per far dimenticare la parte che loro stessi hanno giocato con la propria miopia, soltanto negli ultimi 20 anni abbiamo assistito al crollo fraudolento delle piccole casse di risparmio (nel quale fu coinvolto anche un certo senatore chiamato John McCain), costato 800 miliardi ai contribuenti americani; al "meltdown", alla fissione nucleare delle obbligazioni spazzatura, i junk bonds, che avevano alimentato i razziatori di aziende; al grande crack di Wall Street; all'esplosione tragica della millantata "new economy" e dei titoli bidone delle "punto com"; alla scomparsa (criminale) di colossi dell'energia come la Enron.

Questi eventi terrificanti sono insieme l'eccezione e dunque la regola che domina il respiro di una nazione che sa, per esperienza amara ma lunga, di dover pagare il prezzo dei propri eccessi, prima di bonificarsi e poi ripartire verso altri eccessi. In un universo dominato dai due poli estremi del "fear" e del "greed", della paura e dell'igordigia, i maghi di ieri, come Fuld delle Lehman, o come Kenneth Lay dell Enron, grande amico di George Bush, ucciso da un infarto dopo una condanna a 25 anni di carcere per bancarotta, sono i furfanti di domani, esecrati con la stessa violenza con la quale erano adorati fino a quando producevano soldi per i clienti. I 27 mila dipendenti della Lehman, pagati in titoli della loro banca, lo adoravano quando il titolo era oltre i 66 dollari e ricevevano "bonus" di fine anno raramente inferiori ai 350 mila dollari. Oggi, che quei titoli valgono 24 centesimi, quasi nulla, e si sono portati via risparmi, sogni, lussi, case, senza più speranze di quei bonus che alimentavano i prezzi astronomici delle abitazioni a Manhattan, lo maledicono.

Il caso della "Fratelli Lehman", ancora chiamata così in onore dei tre fratelli Henry, Immanuel e Mayer, tedeschi immigrati dalla Baviera nel 1850 senza uno scudo in tasca e divenuti ricchi (ecco il "sogno") facendosi pagare con il cotone coltivato dagli schiavi dell'Alabama, colpisce non soltanto per le dimensioni di questa casa finanziaria che, con 27 mila dipendenti, aveva un portafoglio nominale e un valore di mercato pre collasso superiore ai 500 miliardi di dollari. Colpisce perché, a differenza di fondi d'investimento puramente speculativi, come il famoso "Long Term Capital" concepito da due premi Nobel dell'Economia e andato in fumo nel 1991, la Lehman aveva una lunga e nobile storia di saggi e fruttuosi finanziamenti.

Con il suo aiuto, erano nate le prime grandi catene di magazzini popolari, come la Sears e la Macy delle celebri parate a Manhattan. Avevano permesso la nascita della Rca, signora e madre della radio e della televisione e della Halliburton, la società di ricerche e servizi all'industria del petrolio che il vice presidente Dick Cheney guidò prima di entrare alla Casa Bianca nel 2001. Era stata dunque parte della grande economica americana, prima di gettarsi sulla nuova frontiera dei mutui immobiliari e di quegli strumenti finanziari, come gli "hedge funds" e i "derivate" che nel anni 90 avevano promesso la pietra filosofale che ogni investitore sogna: guadagnare in ogni caso, qualunque zig zag compia il mercato.

Come vuole la saggezza popolare, se una cosa è troppo buona per essere vera, non è vera. Nel momento, previsto e ignorato, dell'inversione del mercato immobiliare dopo anni di aumenti insensati del valore delle case sostenute da profitti e "bonus" e da crediti a tutti, Lehman e il suo aggressivo leader, Fuld, hanno scoperto l'incubo: come si possono fare fortune puntando sui rialzi, così se ne possono fare scommettendo sui ribassi. Quando il sangue delle piccole banche esposte in crediti cattivi a debitori insolventi, i cosiddetti mutui subprime, a clienti sotto gli standard ottimali, ha cominciato a diffondersi nell'acqua, i grandi speculatori al ribasso hanno cominciato a mordere, sbranando pezzo dopo pezzo case come la Bear Stearns, la Countrywide mutui, ripescata dalla Bank of America, le due agenzie semiprivate Freddie e Fannie di sostegno ai mutui, nazionalizzate nel panico per non radere al suolo il già devastato mercato della casa e infine la Lehman, accusata di avere "cucinato i libri" e nascosto almeno 13 miliardi di crediti ormai non più recuperabili.

In un'economia che sbanda tra le onde della mancanza di fiducia, l'ingrediente essenziale di ogni credito, e della incertezza sul futuro, che non vede dove sia il fondo del mare, ci si chiede "who's next"? chi sarà la prossima vittima degli squali. La Merrill Lynch, la leggendaria "casa del toro furibondo" è stata assorbita, per 50 miliardi, dalla Bank of America, che sta saccheggiando i rottami per uscire come banca dominante quando il ciclone passerà. La Goldman Sachs sta innalzando muri di sacchetti di sabbia attorno ai propri debiti, con riserve di cash, di danaro liquido, come stanno facendo la Morgan Stanley e la JP Morgan. La Aig, American International Group, finanza e assicurazioni, vacilla ed è la preda attorno alla quale incrociano gli squali, mentre il governo Bush, dopo avere contribuito a salvare la Bear Stearns promuovendo l'assorbimento e nazionalizzando, con nobile sprezzo dell'ideologia liberista, le due grande agenzie di mutui, è stata costretta a chiamarsi fuori. Il mercato della liquidità, del credito, è paralizzato dal terrore.

Il ministro del tesoro Paulsen ha lasciato al suo destino la casa che i tre fratelli arricchiti dalla speculazione sul cotone 158anni or sono costruirono, scoprendo che sarebbe "immorale" usare soldi dei contribuenti per salvare o remunerare gli speculatori, o liberarli dai debiti assunti dalla mano pubblica, secondo quella formula Alitalia che qui sarebbe improponibile. A 50 giorni dalle elezioni, non ha più nè la volontà politica nè i soldi per farlo. Le grandi banche nazionali e straniere, come Citigroup, Chase, UBS, Bank of America hanno costituto in fretta un fondo d'emergenza di 100 miliardi di dollari per mutuo soccorso e la Federal Reserve, in consultazione con la Bce e con le altre banche centrali del mondo, tiene aperti i propri rubinetti di "extrema ratio" per i correntisti e risparmiatori, avvertendo che non è la Croce Rossa degli speculatori e la sua disponibilità non è infinita.

Ma in realtà nessuno ascolta le scontate e irritanti rassicurazioni di Bush, ripetute anche ieri, sull'"economia americana che rimane robusta". Tutti aspettano la nuova Presidenza per vedere se tenterà di riportare ordine, e qualche regola, nella finanza allegra, divenuta tristissima. Altri cadranno, ma altri cresceranno, come sempre, in questa che rimane l'ultima vera frontiera selvaggia, come la borsa, ha dimostrato ieri passando dalla furia iniziale del "vendere a qualsiasi prezzo" (il panico) alla voglia di cercare azioni scontante (l'ingordigia). Quando anche questa buriana sarà passata, i fratelli bavaresi che speculavano sul cotone saranno diventati una interessante lezione per master in economia, e l'America sarà pronta per un nuovo boom e poi uragano. Lehman Brothers aveva la propria sede nel World Trade Center, l'11 settembre 2001."

Il problema è se gli eccessi di cui parla Zucconi sono intrinseci alla cultura statunitense, il cui senso di onnipotenza comporta la sdrammatizzazione dei crolli economici (nonchè dei disastri in politica estera), o non vadano piuttosto ricondotti al sistema capitalistico che colà ha attecchito con particolare virulenza.

La risposta è nei fatti. La crisi sta facendo vacillare il sistema economico mondiale, coinvolgendo, oltre l'Europa, anche i paesi asiatici, come illustra su Repubblica il 16 settembre Federico Rampini:

"Le due principali banche centrali dell'Asia, quella di Tokyo e quella di Pechino, hanno deciso interventi d'emergenza per fronteggiare l'impatto del crac finanziario di Wall Street. La Banca del Giappone ha immediatamente offerto liquidità aggiuntiva al sistema creditizio nipponico, per un ammontare pari a 24 miliardi di dollari. La corsa degli investitori verso titoli sicuri ha determinato un forte rialzo dei buoni del Tesoro decennali giapponesi, il cui rendimento di converso si è abbassato ai livelli minimi degli ultimi cinque anni.

A Pechino l'intervento della banca centrale si è tradotto in una vistosa sterzata della politica monetaria: per la prima volta da oltre sei anni è stato abbassato il tasso di sconto ufficiale, dello 0,27%, a quota 7,2%. Sempre nel segno dell'allentamento della politica monetaria, la Banca Popolare della Cina (nome ufficiale della banca centrale) ha ridotto di un punto percentuale la riserva obbligatoria per le piccole banche nazionali, abbassandola al 16,5%.

E' la prima volta che la riserva obbligatoria viene ridotta dal 1999. Anche se il provvedimento non è stato esteso alle banche maggiori né alla Posta, esso si traduce comunque in una maggiore disponibilità di credito per il sistema. Questa manovra espansiva segna una chiara inversione di tendenza rispetto agli ultimi anni, in cui la priorità per la banca centrale cinese era lottare contro l'inflazione e raffreddare una crescita economica eccessiva. La crisi americana ha costretto anche le autorità cinesi a rivedere drasticamente lo scenario: ora è il rallentamento della crescita mondiale, con i suoi effetti deflazionistici, il pericolo numero uno.

Alle preoccupazioni delle banche centrali asiatiche per il dopo-Lehman si aggiunge un altro impatto negativo della crisi americana. Pechino, Tokyo e altre nazioni dell'Estremo Oriente, nonché il Golfo Persico e la Russia, hanno accumulato le più ricche riserve valutarie del pianeta. Una parte di queste riserve sono state affidate in gestione a fondi sovrani e altri investitori istituzionali sotto il diretto controllo dei rispettivi governi: in totale questi ultimi controllano un portafoglio di 2.500 miliardi di dollari. Alcuni fondi sovrani asiatici hanno investito attivamente nelle banche occidentali in difficoltà, dall'inizio della crisi dei mutui. Le perdite di questi investitori istituzionali sono pesanti. Per esempio, si stima che il valore dell'investimento della China Development Bank nella banca britannica Barclays sia più che dimezzato. Il fondo sovrano Temasek di Singapore ha visto il valore delle sue azioni in Merrill Lynch (appena rilevata dalla Bank of America) ridursi dei due terzi.

La "fuga verso la sicurezza" che caratterizza il comportamento degli investitori mondiali sta penalizzando tutti i mercati emergenti, le cui Borse soffrono perdite medie ancora superiori rispetto a Wall Street e all'Europa. La disaffezione dai mercati emergenti non colpisce solo quelli che sono legati alle materie prime - come Russia e Brasile - e che quindi soffrono per la caduta delle quotazioni dell'energia, dei metalli, delle derrate agricole. Anche la Cina e l'India, che sono importatori netti di petrolio e materie prime, registrano fughe di capitali stranieri. Ancora prima che fallisse la Lehman Brothers, negli ultimi tre mesi i deflussi di capitali esteri che hanno abbandonato i mercati azionari e obbligazionari dei paesi emergenti hanno raggiunto 30 miliardi di dollari."

C'è una sola possibilità per impedire una catastrofe del sistema capitalistico. Le iniezioni di liquidità operate dalle banche centrali (ben 247 miliardi di dollari il 18 settembre) non bastano. Il 19 arriva il colpo di teatro. Il convitato di pietra G. Bush, che appena tre giorni prima ha dichiarato che l'economia statunitense è solida, evidentemente imbeccato da qualche consigliere più realista e quindi giustamente terrorizzato, annuncia che il governo con la Fed sta mettendo a punto un piano di intervento radicale fondato sull'acquisizione da parte dello Stato di tutti i titoli-spazzatura che rischiano di squilibrare irreversibilmente il sistema bancario. Le Borse festeggiano immediatamente con aumenti da record dei valori azionari. Gli agenti di Borsa esultano. Non hanno capito che la festa è finita.

Il 20 settembre, su Repubblica, Vittorio Zucconi, commenta così il piano annunciato:

"All'inferno le ideologie e il culto irrazionale del sacro mercato, l'America ritrova la virtù che l'ha resa l'America: il pragmatismo. "Misure senza precedenti per affrontare una sfida senza precedenti" annuncia Bush l'ex neocon trasformato in neokeyn, per spiegare che anni di anatemi antistatalisti sono stati buttati nel vento della crisi in favore dell'interventismo pubblico di sapore keynesiano.

Per salvare, se ancora si può, il salvabile. Sarà proprio la esecrata "mano pubblica", con soldi pubblici, a intervenire per stabilizzare i mercati isterici, facendo piovere senza limiti prefissati dollari stampati dalla zecca sui buoni e sui cattivi, su chi lo merita e su chi non lo merita.

George W. Bush è diventato Franklyn Delano Roosevelt, pronto a inondare Wall Street con almeno un trilione di dollari, mille miliardi di dollari, secondo i calcoli degli economisti, per evitare che la grande siccità del credito uccida i giusti e gli ingiusti nel deserto del credito. È una gigantesca "operazione Alitalia" fondata sullo stesso balordo, ma ormai inevitabile principio del "privatizzare i profitti" e "statalizzare i debiti". Con, alle spalle, lo stesso ricatto del fallimento epocale.

Non è finito, in queste ore sconvolgenti, il capitalismo americano. È finito un modo di concepire il capitalismo che aveva dominato il discorso nazionale americano dagli anni '80 di Reagan. Bush, che per mesi aveva ripetuto il mantra sempre più grottesco della "economia fondamentalmente sana", come aveva fatto McCain, ha fatto l'inversione a "U" che sarebbe stata necessaria nel 2007 e che la sua zavorra ideologica, e la fissazione sciagurata con la sempre sfuggente e costosissima "vittoria in Iraq", (700 miliardi finora) gli avevano impedito di fare.

Questa vacanza del potere politico centrale, che nessun tecnico per quanto competente, come sono i vecchi ragazzi della Goldman Sachs che oggi governano a fianco del Presidente, può surrogare in una democrazia, era il cuore infartato di questa crisi. Aggravata dalla confusione di una campagna elettorale che da 14 mesi rimbomba nella testa di una popolazione con messaggi contraddittori, confusi, propagandistici.

Dunque accentua quello stato di incertezza e di irrazionalità che è, sempre, la benzina sul fuoco di ogni incendio finanziario.

Quello che Bush ha annunciato ieri, affiancato dalla trimurti della governance economica americana per dargli autorevolezza, è keynesismo puro. È "deficit spending" classico, senza preoccuparsi di bilanci federali che sprofonderanno nell'inchiostro rosso e sono destinati a raggiungere il 7% del Pil. Ma lo schiaffo della realtà, che arriva sempre a svegliare i presidenti americani dall'ipnosi delle loro ideologie, nel mondo come in casa, ha svegliato anche un Bush che se avesse, quattro anni or sono, annunciato in campagna elettorale l'intenzione di gettare mille miliardi di dollari per salvare i mercati mobiliari e immobiliari sarebbe stato, più che sconfitto, arso vivo.

Ma qui siamo di fronte "a sfide senza precedenti", ha ammesso tardivamente e rischi senza precedenti richiedono "azioni senza precedenti", un eufemismo per dire: si cambia rotta. Lasciare che la nave di Wall Street s'inabissasse trascinando con sé le borse del mondo che rimangono tutte "wallstreet dipendenti", da Shanghai a Mosca, avrebbe devastato l'economia americana dove fa male e garantito la vittoria di Barack Obama, i cui sondaggi avevano ripreso a salire in relazione inversa ai listini di Borsa.

Avrebbe colto non soltanto nei "bonus" delle migliaia di brokers lasciati con lo scatolone dei loro ricordi in braccio, in fondo poche persone in un oceano di 150 milioni di famiglie, ma anche nell'esistenza quotidiana della gente di "Main Street", della via principale dei paesi, dove polizze vita, fondi comuni, gruzzoli di obbligazioni a reddito fisso, crediti al consumo e mutui sono il presente e il futuro dell'esistenza reale.
Sulla latitanza della guida politica del Paese e sulla confusione generata da candidati che dicono alla mattina il contrario di quello che dicono alla sera (McCain era fino a ieri il campione della "deregulation" e oggi invoca un controllore sotto ogni letto a Wall Street, mentre l'inesperienza di Barack Obama non rassicura) la famigerata speculazione aveva puntato.

Era sicura che questa amministrazione non avrebbe mai potuto rinnegare il proprio fondamentalismo liberista e la cultura delle cose che si aggiustano da sole. I ribassisti, coloro che puntano sulla caduta dei titoli e che sparecchiano quei miliardi che impropriamente i media definiscono "bruciati" ma invece arricchiscono tanto quanto i rialzi, avevano avuto il controllo del campo, alimentando una difficoltà di credito reale, ingigantita dalle loro azioni piratesche.
L'ideologo del Texas è stato persuaso a fare ciò che è necessario, non ciò che è ideologicamente corretto. Il Bush che sembrava il tragico Herbert Hoover ottimista del 1929 ("La prosperità è dietro l'angolo") è diventato il Roosevelt del 1932, che inventò quegli strumenti di protezione che da allora, come ha detto giustamente, "non hanno mai fatto perdere un centesimo a chi ha conti correnti", ma non certo per merito della destra.

Estenderà la protezione federale esistente sui CC, sui risparmi e sui certificati di deposito, anche ai fondi di "money market", quelli che fino a ieri non erano assicurati da Washington e flottavano pericolosamente sul mercato seguendo l'andamento degli interessi, costituendo una grossa parte, almeno il 30%, dei fondi pensione.

Prosciugherà, sempre con danaro pubblico, la palude dei mutui immobiliari inesigibili, i "subprime" definiti "tossici" perché avvelenano i bilanci delle banche. Dunque lo stato federale, cioè noi contribuenti, diventerà proprietario involontario di milioni di abitazioni in protesto e di passività che saranno smaltite in anni. Il gioco al ribasso contro le 799 finanziarie ancora in piedi sarà bloccato per dieci giorni e rinnovabile ancora, violando il loro sacro diritto alla speculazione, per salvare il salvabile.

E il Tesoro potrà stampare tutti i miliardi di dollari che desidera senza temere di accendere il falò dell'inflazione, come accadrebbe in tempi normali perché il nemico del giorno è la "deflazione", la paralisi del credito. Naturalmente pagheremo in futuro questo tsunami di dollari, in termini di inflazione, quando la bufera sarà passata, ma questo è un commento per la crisi di domani.

Bush, il cowboy neocon divenuto neokeyn, ha creato un'euforia irrazionale nei mercati eguale e contraria al panico di ieri nella solita altalena di ingordigia e paura. In attesa di un nuovo governo stabile, si può sperare che questa non sia la fine del mondo, ma soltanto la fine di un mondo, dal quale un altro nascerà. La ciclicità di "boom" e "bust", di fortune e di rovesci, di regole e di sregolatezza, è la sola certezza del capitalismo americano che sa, contrariamente a quello che sognava Karl Marx, sopravvivere anche al proprio peggior nemico, cioè se stesso."

Ritengo quest'ultima valutazione almeno azzardata. Sopravviverà il capitalismo alla scoperta dei cittadini che il loro denaro, già drenato dalla speculazione, finisce attraverso le casse dello Stato direttamente in quelle di coloro che hanno rischiato di farlo affondare? Reggerà il debito pubblico americano, che è già enorme, ad un ulteriore aggravio che rischia di rendere gli Usa una nazione insolvente?

4.

Si può discutere all’infinito sugli effetti positivi e negativi della globalizzazione, che si è avviata all’insegna del neoliberismo. E’ la correlazione tra essi che risulta significativa. E’ impossibile negare che la globalizzazione ha prodotto una crescita della ricchezza mondiale, ma è un fatto che essa ha accentuato drammaticamente gli squilibri socio-economici tra chi ha troppo e chi ha troppo poco. L’uno per cento della popolazione mondiale detiene il 40% delle ricchezze: è quella che David Rothkop, in un libro superficiale e di successo, ha definito Superclass.

Al di là del dato nudo e crudo della concentrazione della ricchezza mondiale in poche mani, occorre isolare, all'interno di questa Superclass, il sottoinsieme di persone che influenzano la politica "sponsorizzandola", e dunque assoggettandola ai propri interessi, o conseguendo il potere direttamente attraverso le elezioni. E’ la subordinazione della politica all’economia il fenomeno più rilevante degli ultimi venti anni. Che tale subordinazione si sia realizzata nel quadro della democrazia e che quindi si fondi sul consensum gentium, in gran parte promosso dall’influenza dei media, che, non per caso, stanno andando essi stessi incontro ad una concentrazione proprietaria oligarchica, significa semplicemente che la formula marxiana secondo la quale il governo borghese (o centrista o moderato che dir si voglia) è l’espressione di un comitato di affari, valida quando essa fu formulata e che, nel Novecento e soprattutto nel secondo dopoguerra, sembrava aver perso concretezza, è tornata ad essere più pregnante che mai.

La formula, però, va aggiornata. All’epoca di Marx, infatti, l’oligarchia economica al potere tutelava gli interessi dell’intera classe borghese al fine di utilizzare l'enorme base della piramide (la piccola borghesia) come bastione contro la crescente opposizione della classe operaia. L’alleanza tra il potere oligarchico e la classe borghese si è mantenuto in Occidente nel corso del tempo dando luogo ad una crescita del tenore di vita della popolazione e ad un imborghesimento della classe operaia che, con il crollo del muro di Berlino e lo sbandamento della sinistra europea, ha posto fine al sogno di una rivoluzione socialista.

Conseguito questo risultato, si è verificato un cambiamento radicale. Potendo agire a tutto campo a livello mondiale, il potere finanziario non ha più bisogno del piedistallo della classe borghese, bensì di governi locali, nazionali, che si subordinino ad esso o ne tutelino gli interessi, e di istituzioni economiche internazionali che non interferiscano sui suoi “giochi” speculativi.

Un aspetto che spesso viene trascurato nell'analisi della crisi è che questi giochi sono double-face. Le bolle speculative sono determinate da una tendenza al rialzo dei valori azionari e dei titoli che non ha corrispondenza nell'economia reale. Tale tendenza si realizza investendo somme crescenti di denaro, talora semplicemente preso a prestito, quindi virtuale, in azioni la cui crescita di valore induce il convergere su di essi del denaro dei piccoli investiitori (spesso attraverso i Fondi). Via via che le azioni si valorizzano, gli speculatori, che sanno quando esse raggiungono un livello critico (la bolla) per cui sono destinate a calare, rivendono quelle che hanno acquistato e ricavano come profitto la differenza tra il prezzo originariamente pagato e quello della vendita: denaro reale con una quota del quale pagano i debiti contratti. Quando la bolla si sgonfia, sono i piccoli investitori a rimanere con il cerino in mano.

Gli speculatori, però, sono in genere pronti anche a profittare della flessione del valore dei titoli, investendo sui ribassi. Il meccanismo ribassista è noto. Essi vendono, ad una data futura prestabilita, titoli allo scoperto, che non posseggono ma prendono in "affitto" a modico costo da chi ne ha impegnandosi ad acquistarli alla scadenza del contratto. La vendita massiccia dei titoli ne fa diminuire più o meno criticamente il valore. Quando i prezzi sono bassi, gli speculatori li comprano e li rivendono al prezzo in precedenza pattuito incassando il differenziale tra esso e quello di mercato (meno le spese dell'"affitto"). Ovviamente, più il valore dei titoli diminuisce, più è elevato il guadagno.

I teorici del liberismo affermano che anche gli speculatori svolgono un ruolo importante nell'ambito del sistema. Sulla carta è vero se rispettano le regole del gioco, che assegna ad essi il ruolo di ricondurre il valore delle azioni a quelli di mercato (verso l'alto o verso il basso). Quando barano, ed è ciò che è accaduto sempre ma sistematicamente negli ultimi quindici anni, il sistema entra in turbolenza.

Chiarito quest'aspetto si può capire meglio il rapporto tra economia e politica che si è venuto a determinare.

La democrazia politica vale come regime locale che alimenta nei cittadini la speranza che i governi nazionali provvedano al bene comune. Di fatto, nella misura in cui quei governi sono espressivi del potere finanziario o subordinati ad esso, la democrazia in senso proprio, imprescindibile dal diritto all’uguaglianza intesa nel senso di pari opportunità di sviluppo offerte ai cittadini, si è svuotata di senso. E’ una democrazia formale, fondata sul potere dei media e sulla mistificazione, di fatto subordinata alla tirannia di un’oligarchia finanziaria che detta le regole del gioco. Rispetto al passato, allorché il capitale finanziario agiva tra le quinte del potere (sotto forma di lobbies), adesso, come è assolutamente evidente negli Stati Uniti, esso viene alla ribalta promuovendo direttamente l'elezione al vertice dei suoi rappresentanti.

In breve, la democrazia occidentale è ormai una plutocrazia (termine linguisticamente infelice ma pregnante).

E’ vero: il Capitale ha trionfato sul Lavoro. Si tratta, però, di un trionfo che, paradossalmente ma non inspiegabilmente, ne ha rivelato la faccia reale, quella che per lungo tempo la democrazia borghese è riuscita a celare ridistribuendo la ricchezza prodotta in un modo che è stato sempre iniquo ma mai come oggi.

A cosa potrà mai servire una "epifania" del genere nessuno lo sa. Gli esseri umani ormai hanno sotto gli occhi la verità sulla logica del sistema capitalistico, ma si tratta di una logica a tal punto aberrante che stentano a prenderne coscienza. Seppure riuscissero a prenderne coscienza, non è prevedibile né una rivoluzione né una facile fuoriuscita dal sistema che ha permeato della sua logica non solo l’apparato politico, produttivo, giudiziario, burocratico, scolastico ma la mentalità collettiva.

Su quest'ultimo aspetto occorre fare una considerazione, che riprenderò negli articoli sulla crisi della democrazia.

Gli storici francesi della scuola de Les Annales hanno posto in luce l'inerzia della mentalità collettiva rispetto ai cambiamenti che riguardano l'economia e le istituzioni sociali. Se si applica questo criterio al mondo contemporaneo, soprattutto occidentale, non si rimane sorpresi che il principio di nazionalità, che ha stentato in passato ad affermarsi sui particolarismi regionali, sulle tradizioni linguistiche locali (dialetti), sulle classi e le corporazioni, ecc., risulti oggi profondamente radicato nell'immaginario collettivo. Non si va lontano dal vero identificando nel populismo nazionalistico e patriottico uno dei motivi che hanno determinato il viraggio a destra di quasi tutti i governi occidentali.

Il paradosso è che mentre i politici di centro-destra speculano sulla paura che la globalizzazione fa incombere sulle identità nazionali, ottenendo il consenso dell'elettorato, essi difendono il liberismo che esautora il loro potere di governo. Hanno successo insomma, promettendo di risolvere i problemi di una crescente precarietà che investe le collettività nazionali come se disponessero di un potere che, di fatto, hanno sempre meno, e che funziona solo se si subordina alle esigenze del capitale finanziario di una concentrazione crescente verso l'alto.

E’ un fatto epocale, però, che, dopo aver cooptato la classe borghese e avere prodotto l'imborghesimento della società, vale a dire l'aspirazione collettiva ad un tenore di vita agiato, il capitalismo è stato spinto dalla sua stessa logica dello sviluppo illimitato a cominciare a segare i rami su cui si poggia. Gli sviluppi storici di questa situazione, che non si è mai verificata in passato, non sono prevedibili. Se la storia rispondesse a principi razionali, una previsione ovvia dovrebbe essere l'alleanza tra tutti i ceti - emarginati, disoccupati, precari, lavoratori, piccola borghesia, media borghesia in affanno - contro il sistema capitalistico. Sul piano elettorale, come riesce evidente soprattutto in Italia, tale alleanza di fatto si è costituita, ma a vantaggio dei rappresentanti di quel sistema. La "follia" del mondo è, forse, senza rimedio.