Resa dei conti (2)

1.

Non sono un economista di professione, per quanto, sull’onda della lettura giovanile di Marx, ho studiato nel corso degli anni abbastanza intensamente e approfonditamente l’economia. Proprio non essendo specialista, grande è la meraviglia per le reazioni dei vertici politici ed economici che sembrano essere stati colti in contropiede dalla crisi finanziaria che sta investendo progressivamente tutto il mondo.

In un articolo del 2004, che peraltro faceva seguito ad altri sullo stesso tema, scrivevo:

“Le prospettive dell'economia americana, nonostante la ripresa, non sono affatto prive di rischi. L'enorme debito pubblico e quello non meno inquietante privato un giorno o l'altro dovrà essere pagato. Puntare, come fa l'Amministrazione Bush, su una crescita che ripianerà il debito pubblico attraverso l'aumento delle entrate fiscali e sull'aumento dei titoli azionari che consentirà agli americani di continuare a spendere denaro che non hanno non è un azzardo, bensì un miraggio. Per sanare il debito pubblico, la crescita dovrebbe attestarsi per alcuni anni su tassi dall'8 al 10%. Nessuno pensa che ciò sia possibile. Per sostenere i consumi, la Borsa dovrebbe produrre valori reali e non fittizi. Per ora, la realtà è un aumento reale sul quale ha già attecchito una bolla speculativa. Andando avanti, sarà questa a prevalere.

Dopo le elezioni, e quale che sia il loro esito, occorrerà necessariamente rialzare il tasso d'interesse e aumentare le aliquote fiscali. Gli effetti di questi due provvedimenti rischiano di realizzare una crisi dagli esiti imprevedibili.

La crescita americana dunque è una crescita drogata, ben poco rassicurante. Il modello neoliberista, vantato come miracoloso, non sembra in grado di produrre altro che un aumento della disuguaglianza all'interno e una tensione sempre maggiore, economica e politica, a livello internazionale.”

Di fatto, dopo le elezioni, il tasso di interesse è stato progressivamente aumentato, ma il regime fiscale è rimasto fermo ad un'iniqua riforma che, agevolando la concentrazione dei capitali in poche mani, ha dato via libera alla speculazione finanziaria "selvaggia".

Anche in articoli ulteriori, ho evidenziato che, con l’ossessione di far pagare al mondo intero il suo sfrenato tenore di vita (che peraltro non ha impedito che la massa dei poveri statunitensi abbia raggiunto la cifra mostruosa di 47 milioni) e con i suoi trucchi commerciali e finanziari, gli Usa si stavano approssimando ad un punto critico al di là del quale sarebbe potuto accadere di tutto.

Fin dal 2003, poi, ho fatto presente che la crisi avviatasi nel 2001, mesi prima dell’attentato alle Torri Gemelle, era di ordine strutturale, se non addirittura epocale: segnalava, insomma, sì il trionfo del sistema capitalistico sul comunismo sovietico, ma un trionfo che, con l’avvento di una globalizzazione a tutto campo, atta a sottrarre i capitali internazionali al controllo degli Stati nazionali, avrebbe definitivamente rivelato la natura intrinsecamente "perversa" del sistema stesso, confermando paradossalmente, ad un secolo e mezzo di distanza, l’analisi di Marx.

Rievocare queste previsioni non ha alcun intento autocelebrativo (non passerò alla storia in alcun modo, ma meno che mai come studioso di economia), quanto piuttosto quello di evidenziare un fenomeno intrinseco al sistema capitalistico, ai suoi fautori e anche ai suoi analisti. Il fenomeno consiste nel non volere capire, non volere vedere e non prendere atto di come stanno le cose finché le crisi non sopravvengono repentinamente. Con l’avvento delle crisi, naturalmente, tutti i responsabili del disastro, che sono manifestamente i politici e i responsabili economici, si stracciano le vesti nel denunciare il difetto dei controlli da parte dello Stato, l’imprevidenza delle banche, il gioco sporco delle agenzie di rating, la natura per molti aspetti truffaldina della finanza creativa (derivati, hedge fund, private equity, ecc.).

L’intento è di dimostrare che, nonostante il nuovo scandalo (che segue a distanza di soli 6 anni quello della bolla borsistica), il sistema capitalistico è comunque vitale e ha gli anticorpi giusti per fronteggiare le ricorrenti “malattie” che lo investono.

Oltre a menare il can per l’aia, per questa via si arriva al ridicolo. Alan Greenspan è andato in pensione con la fama di un eroe che ha salvato l’America dal precipizio borsistico nel 2001. Ora quasi tutti gli analisti identificano l’origine della crisi attuale nei tassi troppo bassi di interesse che egli ha mantenuto per anni, immettendo nel sistema una liquidità eccessiva che ha consentito agli speculatori internazionali di fare il loro mestiere, alle banche di prestare soldi a chiunque li chiedesse, ai cittadini di consumare indebitandosi, ecc.

C’è qualcosa di miserevole in tutto questo, ma occorre comunque tentare un'analisi.

Parto da una rassegna della stampa dell'ultimo trimestre, che, data la crisi in atto, è stata densa di commenti. Gli articoli sono stati pubblicati su Repubblica, sul supplemento Affari & finanza e sull’Espresso.

Esplicito e impietoso esplicito è il Commento sulla crisi dei mercati di George Soros, pubblicato sul Financial Times:

“L’attuale crisi finanziaria è stata fatta esplodere da una bolla nel mercato immobiliare Usa. Perdiversi aspetti assomiglia ad altre crisi che si sono verificate fin dalla fine della seconda guerra mondiale, a intervalli variabili tra i quattro e i dieci anni.

Comunque, c’è una profonda differenza: l’attuale crisi segna la fine di un’era di espansione delcredito basata sul dollaro come moneta di riserva internazionale. Le crisi periodiche erano parte di un più vasto processo di espansione-recessione. La crisi attuale è ilpunto culminante dl i un super-boom durato più dl 60 anni.

I processi di espansione-recessione normalmente ruotano intorno al credito e spessoimplicano una deviazione o un’idea errata Questo è di norma un errore ne! riconoscere una connessioneriflessiva, circolare, tra la propensione a concedere prestiti e li valore del collaterale.

Lafacilità di credito genera domanda che spinge in alto il valore della proprietà, che a sua volta aumenta l’ammontare nèdel credito disponibile. Una bolla inizia quando la gente compra case nell’aspettativa che esse possano rifinanziare i loro mutui con un profitto. IIrecente boom immobiliare Usa è il caso in questione. II super-boom di 60 anni è un caso piùcomplicato.

Ognivolta che l’espansione del credito è finita in difficoltà, le autorità finanziarie sonointervenute iniettando liquidità e trovando altre strade per stimolare l’economia. Ciò ha creato un sistema di incentivi asimmetrici, noto anche come “azzardo morale”, che ha incoraggiato una sempre più gronde espansione del credito. Il sistema ha avuto così successo che la gente è arrivata a credere in quella che l’ex-presidente Reagan chiamava, la «magia del mercato» e io chiamo il «fondamentalismo del mercato». I fondamentalisti credono che il mercato tenda verso l’equilibrio eche l’interesse comune sia meglio servito permettendo ai partecipanti di perseguirei1 proprio interesse. E’ un’idea chiaramente errata, perché è stato l’intervento delle autorità che ha preservato i mercati finanziari dai crolli, non i mercati da soli. Tuttavia, il fondamentalismo di mercato è emerso come ideologia dominante negli anni ‘80,quando i mercati cominciavano a diventare globali e gli Usa iniziavano a fare crescere il deficit deiconti correnti.

La globalizzazione ha permesso agli Usa di assorbire il risparmio del resto dei mondo e di consumarepiù di quanto producevano. Il deficit dei conti correnti Usa è arrivato al 6,2% del Pil nel 2006, 1 mercati finanziari hannoincoraggiato i consumatori a indebitarsi con l’introduzione di strumenti più sofisisticati e dicondizioni più generose. Le autorità hanno permesso e finacheggiato il processo, intervenendo ogni volta che il sistema era a rischio. Fin dal 1980 le misure di regolazione sono state progressivamente«rilassate», fino a scomparire nei fatti.

II super-boom è sfuggito di mano quando i nuovi prodotti sorto diventati così complicati chele autorità non potevano più calcolare i rischi e hanno cominciato ad affidare i metodi di gestione delrischio alle banche stesse. Allo stesso modo, le agenzie di rating si sono fidate delle informazioni forrnite da chi dava origine ai prodotti sintetici. E’ stata un’indecente abdicazione di responsabilità.

Tutto quello che poteva andar storto è stato fatto. Ciò che è iniziato con la diffusione dei mutuisubprime verso tutte le obbligazioni di debito collaterali, ha danneggiato le assicurazionimunicipali e quelle del mutui, e minacciato di disfare il mercato multimiliardario de default credit swap (larivendita di crediti derivanti da fallimenti, ndt). Gli impegni delle banche di investimento nei leverage buyout (acquisizioni a debito, ndt) sono diventati passività. Gli hedge fund “neutrali” non sono risultati affatto neutrali ed è stato necessario scaricarli. II mercato delle carte commerciali asset-backed si è arrestato e i veicoli speciali di invstimento impostati dalle banche per portare i mutui fuori dai lorobilanci non possono più ottenere finanziamenti esterni. La tormenta finale è arrivata quandoil prestito interbancario, che è il cuore del sistema finanziario, e stato mandato in frantumiperché le banche hanno dovuto risparmiare le loro risorse e hanno perso fiducia nellecontroparti. Le banche centrali hanno iniettato un ammontare di denaro senza precedenti edesteso il credito a una cerchia di istituzioni largo come mai prima. Il che ha reso la crisi piùsevera che mai, dalla seconda guerra mondiale ad oggi.

L’espansione del credito deve ora essere seguita da un periodo di contrazione, perché alcuni dei nuovi strumenti e pratiche sono sbagliati e insostenibili. La capacità delle autorità finanziarie di stimolare l’economia è frenata dall’indisponibilità del resto del mondo ad accumulare riserve addizionali in dollari. Ancora di recentè gli Investitori speravano che la Federal Reserve facesse tutto quanto è in suo potere per evitare una recessione, perché questo è quello che era avvenuto in altre occasioni. Ora devono prendere atto che la Fed non è più nella condizione di poterlo fare. Tra petrolio, cibo e altre materie prime, e il renminbi che si sta rivalutando piuttosto rapidamente, la Fed deve preoccuparsi dell’inflazione. Se i fondi federali si sono indeboliti fino ad un certo punto, il dollaro potrebbe finire sotto rinnovate pressioni e i titoli a lungo termine porterebbero su i rendimenti. Ma è impossibile determinare dove sia questo punto. Quando viene toccato, la capacità della Fed di stimolare l’economia arriva alla fine.

Benché una recessione nel mondo sviluppato sia ora più o meno inevitabile, Cina, India e alcuni Paesi produttori di petrolio si trovano in forte controtendenza. Così, l’attuale crisi finanziaria - più che causare una recessione globale - può causare un riallineamento nell’economia globale, con un relativo declino degli Usa e l’ascesa della Cina e di altri paesi del mondo sviluppato.

Il pericolo è che le conseguenti tensioni politiche, incluso il protezionismo Usa, possano mandare a pezzi l’economia globale e gettare il mondo nella recessione o peggio.

(trad. di Francesco Piccioni)”

Lapidaria è l’intervista rilasciata dal Gran Vecchio dell’Economia Paul Samuelson a Paolo Pontoniere:

“Professor Samuelson, perché i mercati finanziari sono sull'orlo del collasso?

"Colpa delle banche internazionali e degli organismi di controllo. Le prime hanno creato alchimie contabili che sfuggono alla comprensione degli operatori economici e che mascherano il rischio. I secondi sono venuti meno al loro ruolo di guida e di controllo dell'economia".

A che cosa si riferisce di preciso?

"A strumenti finanziari astrusi come i CDO, le ABS e i SIV, introdotti durante il laisseiz-faire economico che ha caratterizzato le amministrazioni repubblicane dai tempi di Reagan a oggi. Si tratta di strumenti che in teoria averebbero dovuto redistribuire il rischio e prevenire il ripetersi di un altro lunedì nero. Invece, a causa dell'irresponsabilità degli operatori finanziari, sono diventati loro stessi parte del problema. Anzi lo hanno esacerbato, trasformando una bolla edilizia in un panico di portata globale".

Perché è così importante il caso Citicorp?

"Per le dimensioni dell'ammanco. Non sappiamo quale sia la portata reale del buco di Citicorp. Inoltre è stata proprio Citicorp, più di altre banche, a concepire l'ingegneria finanziaria che ha portato a questo disastro. Citicorp è riuscita a coinvolgere banche inglesi, tedesche, giapponesi e, sono sicuro, in parte anche quelle italiane. Adesso i capi di Citicorp, di Bank of America e delle banche svizzere si mostrano sorpresi. Dicono di saperne di meno del loro barbiere, ma sono loro che hanno presieduto le operazioni di massimizzazione del rischio e di totale offuscamento delle transazioni finanziarie che venivano condotte dai loro sottoposti. Vendevano obbligazioni garantite dai mutui come se si fosse trattato di formaggi: alta, media e bassa qualità...".

Crede che i fondi sovrani contribuiranno ad alleviare la crisi?

"Te li raccomando quelli. I paesi del surplus hanno deciso di comprare proprietà americane, come facevano i giapponesi con i grattacieli di Manhattan negli anni Settanta. Ma quando eravamo responsabili del 45 per cento della crescita mondiale vantavamo anche il primato politico; adesso ne generiamo sì e no il 20 per cento della crescita e il nostro primato è sfumato. In questo quadro l'investimento straniero assume una rilevanza strategica per noi. Il paese è più dipendente dal resto del mondo".

Quindi lei vede dei rischi nell'intervento dei fondi sovrani...

"Supponiamo che si crei una situazione di disaccordo politico tra Usa e Arabia Saudita e che i sauditi decidano nel giro di una notte di vendere al ribasso i loro possedimenti Usa. Quali ripercussioni ci sarebbero nell'economia del paese?".

Come se ne esce?

"Per cominciare, liberandoci dell'incompetenza che regna a Washington, ma badando bene a non sostituire un incompetente repubblicano con uno democratico. I lobbisti sono bravissimi a salvaguardare i loro interessi, chiunque sia il vincitore".”

I due commenti segnalano la gravità della crisi in corso, a lungo minimizzata. Il problema è che, ancora a fine gennaio, nessuno è in grado di quantificare l’entità della crisi, vale a dire la “voragine” prodotta dalla finanza creativa. Ettore Livini scrive:

“ Il toto-perdite della bufera subprime sfonda in surplace quota 100 miliardi di dollari e non accenna – almeno per ora – a fermarsi. Le maxi-svalutazioni annunciate da Citigroup e Merrill Lynch nei giorni scorsi hanno già portato a quota 105 miliardi la voragine aperta dai mutui a rischio nei conti delle banche mondiali. Non solo. Il contagio – invece che circoscriversi – sembra destinato ad allargarsi. A livello geografico (persino la Bank of China contabilizzerà un rosso di oltre 2 miliardi), ma soprattutto a nuovi settori come le riassicurazioni di bond a rischio, già crollate a Wall Street, e il mondo delle carte di debito, messo alle corde dal rischio che gli americani non riescano più a onorare i loro prestiti. Tanto che la previsione fatta a settembre dal presidente della Fed Ben Bernanke («la crisi potrebbe costare 150-200 milioni di dollari») rischia oggi di rivelarsi addirittura approssimata per difetto. Anche perché i mercati sembrano convinti che il piano fiscale della Casa Bianca non basti a tamponare l´emorragia.

La contabilità dello tsunami subprime si rinnova in effetti giorno dopo giorno. Le banche in ogni angolo del mondo stanno passando al setaccio i loro patrimoni. E tra le pieghe delle decine di prestiti strutturati costruiti dai maghi della finanza derivata negli ultimi anni – un business che ha regalato ai big del credito utili miliardari e ai loro vertici bonus da favola – continuano a emergere prestiti a rischio che gli americani non riescono più a onorare. La maglia nera spetta per ora a Merrill Lynch che in due tornate ha messo assieme 22,4 milioni di svalutazioni, seguita a ruota da Citigroup (19,9) e dalla svizzera Ubs (14,4). L´elenco delle "vittime" spazia dall´America alla Francia, dalla Gran Bretagna all´Australia, seguendo le tracce di questa catena di Sant´Antonio della finanza globale, dove un mutuo della Florida viaggia (impacchettato in complessi prodotti finanziari) da un continente all´altro, da una banca all´altra finendo spesso nelle tasche di risparmiatori ignari.

Il peggio però rischia di non essere ancora alle spalle. Il momento, dicono gli analisti, è delicato. Se inizieranno a saltare i conti dei giganti delle carte di credito, se cominceranno ad aprirsi buchi anche nel credito al consumo, le conseguenze della bufera subprime potrebbero andare oltre quei 300-600 miliardi di danni pronosticati oggi dai più pessimisti, con conseguenze inimmaginabili per i mercati mondiali.

Qualcosa però è certo già oggi: la crisi di questi giorni, nel bene e nel male, ha cambiato per sempre la mappa della finanza mondiale. Giganti come Citigroup e Merrill Lynch, orgoglio e bandiera dei mercati a stelle e strisce, sono stati costretti a presentarsi con il cappello in mano dai fondi sovrani di Singapore, Abu Dhabi e Kuwait a caccia di capitali per far quadrare i loro bilanci. La legge del mercato, del resto, è implacabile. Oggi nei conti delle banche Usa ci sono vere e proprie voragini mentre le casseforti dei paesi in via di sviluppo o baciati dal petroldollari traboccano di liquidità. E le conseguenze di questo ridisegno della proprietà dei colossi di Wall Street rischia di avere conseguenze ben più importanti a lungo termine della crisi dei mutui a rischio.”

Anche gli esperti riuniti al World Economic Forum di Davos hanno le idee confuse sull’entità della crisi, come riferisce Federico Rampini:

“«Ancora non abbiamo un´idea di quanto sia vasta l´esposizione globale verso i mutui subprime: potrebbe variare tra i 250 e i 600 miliardi di dollari». Altri 100 miliardi di dollari potrebbero essere i finanziamenti irrecuperabili sulle carte di credito. E ancora altre centinaia di miliardi di dollari sarebbero i «buchi» creati da crediti al consumo irrecuperabili, per esempio sugli acquisti rateali di automobili. Ad elencare queste cifre che danno le vertigini è un "banchiere dei banchieri", uno dei massimi arbitri del sistema finanziario internazionale: Malcom Knight, direttore generale della Banca dei regolamenti internazionali (Bri) di Basilea. Al World Economic Forum di Davos si moltiplicano le rivelazioni allarmanti sulla crisi globale. Knight non esita a parlare di «una incertezza enorme che circonda le dimensioni di questo dissesto, ancora oggi».

Tra i Vip del capitalismo riuniti sulle montagne svizzere dilaga lo sconcerto creato dall´ultimo scandalo, quello che ha colpito la Société Générale. Per coprire il buco di 4,9 miliardi di euro creato dal suo trader Jerome Kerviel, la banca francese è stata costretta a liquidare improvvisamente massicce posizioni di titoli, contribuendo al panico che lunedì e martedì scorso ha fatto crollare le Borse europee (ma le autorità del mondo intero lo hanno saputo solo a cose fatte). Sembra incredibile che un solo operatore sia riuscito a creare danni di proporzioni simili. Ormai gli scenari più estremi sono verosimili, in un sistema finanziario internazionale dove gli arbitri e i regolatori sono impotenti o latitanti da tempo. Il capo della Bri ammette sconsolato che «il problema è la balcanizzazione della vigilanza sui mercati».

Walter Kielholz, presidente del Credit Suisse, davanti alla platea dei suoi colleghi si abbandona a uno sfogo: «In tutta la mia carriera non mi sono mai trovato in una situazione simile: è quasi paralisi nei prestiti tra le banche, ogni istituto di credito si tiene stretta la propria liquidità, deciso a non concedere finanziamenti alla banca di fronte». Kielholz mette sotto accusa le agenzie di rating, quelle che assegnano i «voti» ai titoli e in qualche modo ne dovrebbero certificare la solvibilità. «Gli emittenti di titoli pagano per ottenere il rating - dice il banchiere svizzero - e questo crea un evidente conflitto d´interessi. Aggiungo che il business del rating è sostanzialmente in mano a un duopolio, e che queste agenzie non rispondono dei loro atti, non c´è nessun principio di responsabilità».

Perfino nell´atmosfera felpata di Davos si avverte il bisogno di una resa dei conti: che finalmente all´interno dell´establishment finanziario emergano i colpevoli del disastro. Questo sarebbe il luogo perfetto per avviare un processo virtuale. I massimi dirigenti delle banche travolte dalla crisi dei mutui sono tutti qui a godersi il sole sulle vette alpine. C´è il chief executive di Citigroup, Vikram Pandit; quello di Merrill Lynch, John Thain; il numero uno di Morgan Stanley, John Mack; il suo collega di J. P. Morgan Chase, James Dimon; il presidente di Ubs Marcel Ospel.

Nessuno ha rinunciato all´appuntamento annuo del Gotha mondiale. «Neanche uno che abbia sentito il dovere di restare a casa per rispetto verso gli azionisti», osserva caustico l´inviato del Wall Street Journal. Peggio ancora: neanche uno abbozza un inizio di autocritica, un´analisi convincente delle scelte strategiche e dei metodi di management che hanno portato a questa débacle.

Così per la prima volta nella storia del World Economic Forum tocca ai leader dei paesi emergenti darci lezioni anche nel campo della buona gestione finanziaria. Dal Messico, un paese che non associamo all´idea della stabilità finanziaria, il governatore della banca centrale Guillermo Ortiz è venuto a porre ai suoi colleghi occidentali una domanda semplice e ineludibile: «Ma chi è che controlla le agenzie di rating?» Il ministro delle Finanze indiano, Palaniappan Chidambaram, si lancia in una requisitoria severa: «Mancanza di regole, difetti nei controlli, assenza di sanzioni. Questo è il modello che ci viene dai paesi più sviluppati. Gli stessi che venivano a darci lezioni sulla trasparenza dei mercati finanziari. Siamo di fronte a un fallimento dei regolatori». Dieci anni fa il mondo era stato scosso dalla crisi asiatica, quella che ebbe origine dalla svalutazione del bath tahilandese e poi contagiò vari «dragoni» d´Estremo Oriente. Allora il Fondo monetario internazionale per andare in soccorso ai paesi indebitati impose dure condizioni. Da quando è scoppiata la crisi dei subprime si assiste a un salvataggio alla rovescia, e di proporzioni ben più considerevoli.

I capitali che in pochi mesi le nazioni emergenti hanno versato all´America per ricapitalizzare le sue banche - con l´ingresso dei famosi fondi sovrani - superano di gran lunga tutti i prestiti che il Fmi erogò ai paesi asiatici nel 1997 e nei periodi successivi.

«E´ vero - ammette Robert Zoellick che fu per anni il responsabile del Commercio estero Usa e ora dirige la Banca mondiale - oggi siamo noi l´anello debole del sistema internazionale». Con la differenza che oggi l´America non viene sottoposta ai diktat del Fondo monetario come accadde a Thailandia, Indonesia, Malesia. Il francese Dominique Strauss-Kahn, di recente nominato alla direzione del Fmi, ammette sottovoce: «Al massimo posso fare delle prediche agli americani, e comunque non le ascoltano».

Sparito dall´orizzonte il movimento no global, praticamente invisibili i leader sindacali, inesistenti i rappresentanti dei risparmiatori, qui a Davos mancano le controparti per un vero dibattito sulle responsabilità di questa crisi. I dirigenti delle nazioni emergenti come India e Messico possono esprimere tutto il loro scetticismo sul modello occidentale di trasparenza dei mercati, ma la loro attenzione prioritaria si concentra sui pericoli per l´economia reale: una recessione americana non li lascerebbe immuni. Alla fine l´unica voce autorevole che tenta di trarre una lezione «etica» è quella del presidente della banca centrale tedesca, Axel Weber. «I dirigenti delle banche - dice il numero uno della Bundesbank - sono l´élite meglio pagata del mondo. Se dopo le avvisaglie di crisi iniziate un anno fa questi signori non sono stati capaci neppure di ripristinare condizioni normali sul mercato del credito, dovrebbero andarsene a casa».”

Uragano, tempesta, bufera, tsunami, terremoto sono i termini immaginifici che vengono utilizzati dagli analisti per definire la situazione.

Aspettando il terremoto è, per l’appunto, il titolo di un fondo di Federico Rampini:

“«The Big One deve ancora arrivare», dice un autorevole banchiere americano. Il Big One, che nel gergo dei geologi è il terremoto che un giorno forse sprofonderà la California nel Pacifico, per i mercati è il botto finale, il crac che incombe sulla finanza globale e di cui ieri si sono avvertiti gli scossoni premonitori. L´ondata di vendite da panico che ha affondato le Borse è il segnale che nessuno è immune.

La crisi finanziaria contagia l´economia reale; la recessione americana minaccia l´Asia e l´Europa. A nulla sono servite le rassicurazioni della Commissione di Bruxelles sulla solidità dell´economia europea. È dall´estate scorsa che questa catastrofe era annunciata, anche se molti scelsero di minimizzare le avvisaglie. La spirale di insolvenze che è partita dai mutui subprime ormai si è estesa ben oltre. Uno dopo l´altro crollano altri castelli di carta, quell´economia del debito su cui ha galleggiato l´America e non solo lei. L´American Express ha rivelato che molti dei suoi clienti ormai non riescono a smaltire gli scoperti sulle carte di credito. Nelle voragini di perdite che le maggiori banche americane aggiornano continuamente al rialzo, vengono risucchiate ora quelle compagnie assicurative che dovevano coprire proprio i rischi di insolvenze del settore immobiliare. È un gioco al massacro in cui chi affoga trascina sott´acqua anche i presunti soccorritori. Per coprire i buchi nei bilanci si vende di tutto, senza più distinguere i titoli sani dalla spazzatura. I fondi comuni d´investimento sono assediati dalle domande di riscatto dei risparmiatori. E la metastasi ormai si è estesa nell´economia reale. Anche se le statistiche arrivano sempre tardi a confermare i fatti, perché funzionano come uno specchietto retrovisore, è molto probabile che l´America sia già entrata in una recessione a Natale. Negli Stati Uniti calano i consumi, scende l´occupazione, si riducono gli investimenti. Anche se all´origine gli errori hanno avuto il loro epicentro nella finanza allegra dell´establishment di Wall Street, milioni di famiglie americane sono costrette a ridurre il loro tenore di vita. L´ultimo colpo alla tenue fiducia dei mercati era giunto venerdì scorso quando George Bush ha annunciato una "manovra di salvataggio" in extremis: 145 miliardi di dollari di sgravi fiscali alle famiglie e alle imprese. Un pacchetto non proprio insignificante – è l´1% del Pil americano – eppure Wall Street ha reagito con delusione. Infatti ci vorranno mesi perché quei soldi arrivino alle famiglie, e quando l´assegno del Tesoro verrà recapitato nelle cassette delle lettere, è ormai chiaro come verrà speso: non certo in nuovi consumi che rilancerebbero la crescita. Quegli assegni da 800 dollari per i single (1.500 per le famiglie) alla maggioranza dei destinatari serviranno a malapena per ridurre lo "scoperto" dei mutui o delle carte di credito, per rientrare un po´ dai debiti accumulati. Un tampone, non un rilancio. L´urgenza con cui Bush lo ha annunciato ha confermato che la situazione è grave, ma il rimedio sarà tardivo e debole.

La giornata di ieri ha incrinato pericolosamente un´altra speranza: che le locomotive asiatiche possano salvarci trascinando dalle secche l´economia mondiale, e sostituendosi all´America. Per il gioco dei fusi orari sono stati i tonfi delle Borse di Shanghai e Mumbai a precedere i mercati europei. Si sa che le Borse delle potenze emergenti negli ultimi anni hanno attirato troppi capitali speculativi, domestici ed esteri, col risultato di creare delle bolle speculative. Ieri si è avuta la conferma che la Bank of China, seguendo il cattivo esempio delle sue consorelle americane Citigroup JP Morgan e Merrill Lynch, si è riempita il bilancio di titoli-spazzatura che ora deve svalutare. Ma anche in Asia ormai la preoccupazione non è più solo l´effetto-domino del panico finanziario: è l´economia reale. Cina e India continueranno probabilmente a crescere, ma non saranno immuni da un rallentamento. Nelle loro economie le esportazioni occupano una parte importante. Se gli sbocchi all´export negli Stati Uniti si deprimono perché le famiglie americane stringono la cinghia, l´Asia pagherà un prezzo. Senza immaginare scenari catastrofici, basta qualche punto percentuale in meno nella crescita del Pil: ed ecco che a loro volta le imprese europee faranno più fatica di prima ad esportare anche in Estremo Oriente.

L´Unione europea è stretta in questa tenaglia. L´impatto che avrà su di noi una recessione americana non si misura meccanicamente in base al calo delle nostre esportazioni. Il mercato Usa per noi è meno importante di una volta: sia perché l´euro forte ha penalizzato la competitività delle nostre imprese, sia perché l´Asia ha sostituito l´America come sbocco principale per il made in Europe. Tuttavia la cinghia di trasmissione della malattia americana nella sfera finanziaria è ancora potente; e l´impatto della frenata Usa sulla psicologia delle nostre imprese è reale. Pur con una leadership ridimensionata nella nuova gerarchia planetaria, l´America riesce ancora a esportare panico grazie all´interconnessione dei mercati.

La reazione di ieri delle Borse europee è aggravata dalla sensazione che non ci siano molti spazi di manovra per le nostre politiche economiche. Non esiste un governo europeo che possa decidere misure d´emergenza per il rilancio della crescita. I singoli governi nazionali agiranno secondo logiche diverse: molti Stati membri dell´Unione hanno debiti pubblici così elevati da impedire corpose riduzioni della pressione fiscale.

Anche per l´Europa e per l´Italia il 2008 sarà un anno molto difficile. Un rallentamento della crescita è ormai certo. Soffriranno l´occupazione e il potere d´acquisto dei lavoratori. La Banca centrale europea finora non ha dato nessun segnale di voler seguire l´esempio della sua consorella americana, la Federal Reserve, che ha già iniziato a tagliare i tassi d´interesse. L´inflazione reale in Europa viaggia probabilmente attorno al 4% cioè il doppio dell´aumento dei prezzi che la Bce giudica "sano". L´istituto di Francoforte ha come compito istituzionale la stabilità dei prezzi, non la crescita economica. Questo mandato la rende per vocazione più rigorosa e restrittiva della Fed.

D´altra parte lo stesso prestigio della Fed è stato seriamente intaccato. La crisi di oggi è figlia degli errori compiuti in passato dalle autorità americane, compresa la Banca centrale. Il nuovo governatore Bernanke rischia di ripetere gli errori del suo predecessore Greenspan: quando nel 2000 e 2001 si sgonfiarono la bolla speculativa della New Economy e scoppiarono gli scandali dell´èra Enron, la Fed con le sue riduzioni dei tassi diede nuove overdose di droga alla economia del debito. Dal Gotha finanziario di Wall Street giù giù fino ai consumatori meno abbienti, tutti furono illusi dal denaro facile di Greenspan.

La lezione di allora non è stata appresa. L´accumulazione di rischi, dalle grandi banche ai bilanci familiari, è continuata perché la generosa Fed sembrava garantire l´impunità a tutti. Alla fine l´impunità rimane un privilegio dei soli banchieri. Sotto l´albero di Natale del 2007 i "bonus" distribuiti dalle istituzioni finanziarie americane hanno superato i record storici.”

L’incubo ovviamente è quello di una recessione degli Usa, che trascinerebbe nella catastrofe il resto del mondo. A questo incubo è dedicato un articolo di Eugenio Occorsio:

“Anche i più ottimisti ammettono: per l’economia Usa sono pochissime le speranze di evitare la recessione. Premi Nobel, economisti di banche, esperti di lunga esperienza, concordano che la crisi innescata in estate dal tracollo dei subprime stia per giungere al temuto epilogo. Ne abbiamo sentiti molti e il responso è negativo quasi per tutti. Il primo a cedere è stato il comparto finanziario, ora il malessere si diffonde al settore manifatturiero. Ormai non c’è dato che non testimoni il profondo disagio della maggiore economia mondiale: occupazione, superindice, consumi, inflazione, per non parlare di immobili e Borsa. Tutti volgono al ribasso.

Di fronte al degenerare della situazione, le autorità corrono ai ripari. Il presidente Bush ha annunciato venerdì un pacchetto di interventi fiscali (agevolazioni alle imprese, benefici a favore dei più disagiati, incentivi vari) per un valore di 140 miliardi di dollari, pari all’1% del pil. Ma Wall Street non si è lasciata illudere, e ha proseguito la sua discesa che l’ha portata a perdere nei pochi giorni dall’inizio dell’anno il 10%. Né il mercato sembra destinare maggior fiducia alla Federal Reserve, che ha fatto capire in tutti i modi che il 30 gennaio abbasserà di nuovo i tassi di interesse. E dovrebbe essere un intervento deciso, di mezzo punto. Anzi, il 44% degli economisti, secondo un sondaggio del Cnn, prevede un ribasso dello 0,75%.

Non era scontato che andasse così, ma di fronte al peggiorare degli eventi lo stesso Bernanke ha ammesso che «le prospettive economiche per il 2008 stanno peggiorando e i rischi di un declino economico sono diventati più pronunciati». Bernanke, ci ha fatto notare il capo economista di Moody’s al telefono dal suo ufficio di Wall Street, è stato nominato dai repubblicani, ed è quindi (tutto il mondo è paese) interessato a non far arrivare alle elezioni di novembre l’America nel mezzo di una recessione. Quindi spingerà sulla leva più immediata a sua disposizione, quella dei tassi.

Ma la Fed, a differenza della Banca centrale europea, ha fra le sue missioni fin dalla sua "rifondazione" del 1932 anche la tutela dell’occupazione, e non solo la stabilità monetaria. A questo fine potrebbe non essere la cura più adatta, sul medio termine, un taglio secco dei tassi, che potrebbe favorire l’inflazione, il più tipico nemico dell’espansione economica e quindi dell’occupazione. Senza contare, come rilevano molti degli economisti che abbiamo interpellato, che la colpa della bolla debitoria all’origine della crisi attuale, va ascritta in buona parte ai tassi tenuti troppo bassi da Greenspan per la prima parte di questo decennio. Insomma, è recessione, o quasi. Più o meno conclamata, più o meno ammessa.

Per l’America è arrivato il freno dopo tanti anni di crescita ininterrotta. E’ dal 1992 che l’economia, sotto la spinta propulsiva dei miglioramenti di produttività dovuti alle nuove tecnologie, della forza del settore finanziario e negli ultimi anni anche del vantaggio competitivo dovuto alla svalutazione del dollaro, correva a perdifiato. Con una piccola eccezione: una minifrenata del marzo-aprile 2001. Un episodio isolato, al quale però come si diceva vengono fatte risalire tutte le colpe: in quell’occasione, pur di sostenere l’economia, la Fed di Alan Greenspan portò i tassi così in basso come non si era mai visto dal 1958. Ben presto scesero fino all’1%, e infatti l’economia ripartì subito.

Disgrazia volle però che di lì a poco, l’11 settembre dello stesso anno, lo spaventoso attentato alle Twin Towers gettasse la sua sinistra ombra anche sui mercati: allora, per evitare il materializzarsi delle più fosche aspettative in un momento in cui l’America e il mondo tremavano frastornati, Greenspan tenne i tassi a quell’irrealistico livello molto più a lungo del previsto. Diversi economisti ritengono che così si incentivò l’indebitamento, delle famiglie e delle imprese, oltre ogni ragionevole livello. L’esplosione della bolla creditizia, a partire dai famigerati subprime, ha provocato l’effetto domino che culmina nella situazione di oggi. Non a caso, le più duramente colpite sono le banche, che sono state le prime a cedere. E hanno trascinato nel baratro l'intero apparato finanziario e ora verosimilmente quello produttivo.”

La responsabilità dei governi nell’aver chiuso gli occhi su di una crescita balorda della ricchezza sono evidenti. Ancor più lo è quella delle Banche, che, negli ultimi anni, sembrano aver dato il meglio di sé sul piano di una gestione truffaldina del denaro. La crisi suona per loro come una (ironia delle parole!) resa dei conti, come sostiene Arturo Zampaglione:

“L’anno scorso di questi tempi Charles Prince, allora Ceo di Citigroup, cercò di tranquillizzare i vip dell’economia – finanzieri, capitani d’industria, columnist – convenuti per l’appuntamento-show di Davos. Si intravedevano i segnali della crisi legata all’immobiliare e alcuni colleghi di Prince, da Lloyd Blankfein della Goldman Sachs a James Dimon della JPMorganChase, stavano imboccando strategie più prudenti. «Il 2007 sarà un anno benigno per i mercati finanziari», disse il capo di Citigroup, alimentando un falso ottimismo e incoraggiando i soliti brindisi. Fu una previsione infausta. Schiacciato dalla crisi dei subprime, Prince è stato mandato via: il timone del più grande gruppo bancario mondiale è finito all’indiano Vikram Pandit.

Negli Stati Uniti la recessione è alle porte: data per "probabile" dall’ex-governatore della Federal Reserve Alan Greenspan è al centro di un pacchetto economico-fiscale discusso da Casa Bianca, Congresso e candidati alla presidenza. All’edizione 2008 del World Forum, questa settimana a Davos, si constaterà lo spostamento degli equilibri di ricchezza e potere dalle capitali occidentali a quelle orientali; dalle multinazionali petrolifere ai produttori di greggio; dalla banche americane ai fondi sovrani mediorientali e asiatici. Alla vigilia dell’incontro svizzero, la finanza newyorkese ha vissuto una delle settimane più umilianti della sua storia: non ci sono stati assalti agli sportelli bancari, né suicidi dai grattacieli, ma le cifre fornite giovedì scorso al Congresso da Bernanke, sono mozzafiato: la crisi subprime costerà 100 miliardi di dollari.

I primi a farne le spese sono gli americani cui è stata pignorata la casa. Gli investitori hanno perso fiducia negli strumenti usati per raccogliere il credito garantendolo con i mutui: i Cdo (collaterized debt obligations). Banche e istituti si sono trovati con montagne di prodotti finanziari di valore decrescente, che li hanno costretti ad assorbire in bilancio le perdite e svalutare il capitale. L’intervento della Fed, della Bce e di altre banche centrali per aumentare la liquidità è servito ad attenuare la stretta. I tassi sono un po’ diminuiti. Ma la sensazione è che ci vorranno tempi lunghi per smaltire la sbornia.

La borsa americana è crollata e pochi intravedono una svolta prima della fine del 2008 o dell’inizio 2009. Scrive il Wall Street Journal: «Dopo lo scoppio della bolla della new economy e poi della bolla della casa, siamo alla bolla della finanza». Si punta il dito su un settore cresciuto troppo in fretta, passando dal 4,4% del pil americano nel 1977 al 7,7 nel 2005. Un quinto dei ragazzi usciti nel 2007 da Harvard è finito a Wall Street.

Citigroup e Merrill Lynch hanno il primato delle perdite. Entrambe hanno licenziato il vecchio management, e alla Merrill Lynch è arrivato John Thain, excapo del New York Stock Exchange. Entrambe hanno aperto le porte a capitali esteri. E hanno dovuto annunciare la settimana scorsa in rapida successione perdite e svalutazioni miliardarie, e prospettive di affari molto più grigie di una volta.

Le emissioni di Cdo erano diventate una gallina alle uova d’oro, garantendo fino all’inizio del 2007 utili record: non sono ripetibili, i prezzi del mattone non si sono affatto stabilizzati. A battersi il petto è Citigroup: Pandit ha annunciato che per il calo del valore delle security in portafoglio e il pessimo andamento di prestiti al consumo e carte di credito, il quarto trimestre 2007 si chiude con 9,9 miliardi di perdite. Il capitale societario è stato svalutato per 18 miliardi di dollari. Il neopresidente, che si appresta a varare una ristrutturazione con, si dice, 20mila licenziamenti, nonché la vendita di interi settori di business, ha anche ceduto partecipazioni del gruppo, per un totale di 14,5 miliardi di dollari, al fondo sovrano di Singapore, al principe Alwaleed, a Sandy Weill, allo stato del New Jersey. Il tutto si aggiunge ai 7,5 miliardi incassati da Citigroup con l’ingresso del fondo sovrano di Abu Dhabi.

Due giorni dopo, è stato il turno di Thain: la Merrill Lynch ha avuto le perdite trimestrali peggiori della sua storia, 9,8 miliardi di dollari. L’anno si è chiuso in rosso per 7,8 miliardi rispetto a 7,5 miliardi di utili nel 2006. Il capitale è stato svalutato per 16,7 miliardi di dollari. Ha commentato Thain: «Sono convinto che abbiamo basi solide per affrontare il 2008». Dopo la vendita a novembre del 4,5% al fondo di Abu Dhabi, e ai 7,5 miliardi incassati per una analoga partecipazione dal governo di Singapore, la Merrill Lynch ha reclutato per altri 6,6 miliardi di dollari la Investment authority del Kuwait, l’Investment corporation della Corea del sud e il Mizuho financial group giapponese.

L’ingresso dei fondi sovrani cambia la geografia della finanza e internazionalizza Wall Street. Il terremoto del subprime porterà a cambiamenti legislativi e a un ulteriore consolidamento della finanza. Anche la Bank of America e la JPMorgan Chase hanno registrato perdite, ma di tutt’altra dimensione rispetto a Citigroup e in un contesto diverso. Si sono difese prima e meglio dalla crisi subprime e ora si guardano intorno per approfittare delle difficoltà delle rivali. La JPMorgan ha già superato Citi per capitalizzazione di borsa, ha aumentato la sua quota di mutui sul totale americano dal 6 all’11% e ora punta a qualche grande acquisizione. Nel mirino, la Sun Trust Bank di Atlanta e la Washington Mutual di Seattle, le cui quotazioni sono scese di molto. Ma c’è anche chi ipotizza che la banca abbia in mente un colpo grosso, magari la Morgan Stanley o la Bear Stearns, la società di Wall Street più danneggiata dai subprime. Intanto la settimana scorsa, con una mossa coraggiosa, il Ceo di BankAmerica, Kenneth Lewis, ha rilevato per 4 miliardi di dollari, salvandola dal fallimento, la Countrywide financial, l’azienda-simbolo della crisi subprime. «E’ un’occasione irripetibile», ha spiegato Lewis. Ma in molti tremano.”

Tutti insomma sono in attesa di misurare l’entità della recessione Usa, che sembra inevitabile. Nouriel Rubini, docente di Economia alla Stern School of Business della New York University, che è stato negli ultimi anni uno dei pochi a prevedere il disastro, risponde in questi termini a Federico Fubini che lo intervista:

“Borse in caduta nell’Asia emergente, a Tokyo e in Europa sulla scia della lunga scivolata di Wall Street e dei timori sempre più concreti di una recessione americana. Una spirale di perdite nelle istituzioni finanziarie che va ormai oltre i mutui a rischio («subprime») e tocca larghe aree del credito e dei derivati di copertura dalle insolvenze. Gli argomenti non mancano a chi come Nouriel Roubini, docente della New York University, avverte da tempo che l’America trascinerà il resto del mondo nella dolorosa fine di un party speculativo durato già troppo.

Professor Roubini, le cadute degli indici azionari in Asia questa notte indicano che il contagio della crisi è arrivato anche alle economie emergenti?

«Sì e si tratta di un contagio che ha cause economiche di fondo. A questo punto una recessione negli Stati Uniti è inevitabile, anzi probabilmente è già iniziata in dicembre. Sono convinto che il resto del mondo non riesca a isolarsi: non credo che siamo avviati verso una recessione globale, ma verso una forte riduzione della crescita. Dai rapporti commerciali, alla finanza, ai tassi di cambio fra le valute, all’impatto sulla fiducia: sono molti i canali di trasmissione che implicano un passaggio degli choc dall’America al resto del mondo. Una recessione negli Usa e un rallentamento economico altrove comportano una netta caduta degli utili delle imprese. Per questo le Borse vanno giù».

La correzione al ribasso sarà severa o lieve?

«Se guardiamo al mercato immobiliare, alle vendite al dettaglio, alla disoccupazione, tutto indica che che la recessione negli Stati Uniti non sarà lieve ma severa. E la sofferenza si trasmetterà anche all’Europa e all’Asia. Quello che sta accadendo nei mercati è una nuova riponderazione di fondo del valore degli attivi: gli investori stanno prendendo atto delle conseguenze di questa situazione sull’economia globale. Vedo mercati negativi per tutto il 2008».

In questa condizioni, cosa può fare la Federal Reserve?

«Da settembre ha già tagliato i tassi dell’1%, a gennaio li taglierà di nuovo almeno dello 0,5% e continuerà a farlo fino a portarli sotto al 3% entro l’anno (attualmente i fed funds sono al 4,25%, ndr). Ma qualunque cosa la Fed faccia, è troppo poco e troppo tardi. La Fed ha sbagliato la valutazione sull’effettiva portata e le implicazioni della caduta del mercato immobiliare, su come avrebbe debordato sul resto dell’economia e sul contagio dei "subprime". Ora ha iniziato a tagliare i tassi aggressivamente, teme le strozzature del credito e della liquidità. Ma la Fed non può evitare una recessione, esattamente per le stesse ragioni per cui non potè nel 2001. Una politica monetaria più accomodante renderà la recessione meno profonda e meno lunga, ma nient’altro. Nel 2001, con la recessione si verificò un ingorgo di investimenti tecnologici in eccesso. Ora l’ingorgo è nel mercato immobiliare, nei beni durevoli di consumo, nelle auto».

Tecnicamente una recessione accade quando l’economia, ossia il prodotto interno lordo, si contrae per almeno due trimestri di seguito. Questa quanto durerà?

«Nel 2001-2003 un taglio dei tassi dal 6,5% all’1% non evitò la recessione, ora i margini per ridurre i tassi sono minori. Inoltre le istituzioni finanziarie e gli altri attori del mercato hanno problemi di insolvenza, non solo di liquidità: non è solo che il denaro circola poco, è che gli attori sul mercato non riescono a far fronte ai loro impegni. Per smaltire questi problemi serve tempo. Per gli Stati Uniti, prevedo quattro trimestri consecutivi di contrazione dell’economia. Si tenga conto che le ultime due recessioni, nel ’91 e nel 2001, durarono due trimestri. Ma questa sarà più seria».

Tutti ora danno la colpa ai banchieri americani, che hanno esteso mutui con leggerezza perchè confidavano di rivenderli al mercato sotto forma di titoli strutturati, passando così il rischio ad altri. Ma la Fed non ha nulla da rimproverarsi?

«I semi della crisi in effetti li ha piantati la Fed tagliando troppo i tassi e tenendoli bassi troppo a lungo. Così ha incoraggiato un’assunzione di rischio eccessiva. C’è poi da considerare che la supervisione e la vigilanza del sistema finanziario sono state di gran lunga insufficienti. I mercati sono avidi, tendono a eccedere quando i regolatori sbagliano o sono distratti».

Ma se questo è vero, tagliando i tassi in gran fretta la Fed non rischia ora di gettare le basi dei prossimi eccessi?

«In effetti c’è chi dice che così la Fed corre in soccorso dei banchieri che hanno sbagliato e crea "moral hazard", un incentivo psicologico al rischio eccessivo. E c’è chi dice che un taglio dei tassi in America rischia di rilanciare ancora di più l’inflazione, che a dicembre era al 4,1%. Io non sono d’accordo: non può esserci "moral hazard" perché qualunque cosa faccia, la Fed oggi non è in condizione di salvare il sistema finanziario. Lì dentro ci sono perdite massicce e problemi di solvibilità e questo non si risolve con una manovra di politica monetaria. Le perdite possono essere superiori ai mille miliardi di dollari tra titoli contenenti "subprime", altre perdite sui crediti immobiliari, carte di credito, mutui per l’auto e derivati di copertura sul rischio di credito. Le istituzioni che le subiranno avranno la loro punizione indipendentemente da quello che farà la Fed. Quanto all’inflazione, con l’aumento della disoccupazione e la caduta della domanda non sarà più un problema».

Insomma, è giusto tagliare i tassi il più possibile?

«La banca centrale non deve punire l’economia reale per punire la finanza. Deve salvare l’economia e non gli investitori. Semmai, deve punire la finanza con un buon lavoro da regolatore per evitare che si creino nuove bolle».

È così sicuro che l’Europa subirà in pieno questa crisi? Dopotutto oggi sono molto più forti di prima i legami economici con l’Asia.

«Non credo l’Europa possa sganciarsi. La gente di solito sottovaluta i canali di trasmissione degli choc. L’America rappresenta un quarto del prodotto interno lordo mondiale: è meno di qualche anno fa, ma è sempre moltissimo. Negli ultimi anni gli americani sono stati i compratori-consumatori di ultima istanza dei beni e servizi prodotti dal resto del mondo».

Pensa che non ci sia abbastanza domanda nel resto del mondo?

«Non c’è. La ripresa in Europa è stata trainata dalle esportazioni, soprattutto in Paesi come la Germania. Lo stesso vale per il Giappone, mentre in Cina le esportazioni contano addirittura per il 40% del prodotto interno lordo. Anche ammettendo che Cina e India continuino a crescere, la spesa per consumi di questi due colossi in totale è di 1.500 miliardi di dollari all’anno, mentre quella degli Stati Uniti è di 9.000 miliardi di dollari. Cina e India non hanno la forza di compensare la caduta dei consumi americani. E l’Asia oggi dipende ancora di più dalla domanda di importazioni degli Stati Uniti, non meno di prima come si crede».

Eppure la Banca centrale europea non accenna a ridurre i tassi, anzi minaccia di farli salire. Vive nel mondo di ieri?

«La Bce considera che ci siano dei rischi al ribasso per la crescita e vede anche che l’inflazione, al 3,1%, resta comunque più alta di quanto vorrebbe. È l’effetto dei rincari delle materie prima, dal petrolio agli alimenti. Ma molti indicatori mostrano ormai che la crescita frena in Europa e alcuni Paesi più esposti all’esplosione della bolla immobiliare, dalla Spagna, all’Irlanda alla Gran Bretagna, rischiano addirittura una recessione. Quando c’è un rallentamento così serio, l’inflazione è destinata a calare. E che ci sia una frenata in Europa, lo dicono molti indicatori: gli indici della produzione industriale, la fiducia dei consumatori, la forza dell’euro verso il dollaro e la sterlina, il contagio finanziario che dall’America ha già investito in pieno anche i mercati del Vecchio Continente. In più, anche in Europa il mercato del credito resta contrassegnato da una serie di strozzature».”

A fine gennaio, la fotografia della situazione è fornita da Enrico Pedemonte (Espresso):

“Dall'America a Shanghai, da Mosca a Mumbay: la crisi dei subprime è innescata da meccanismi finanziari complicati e misteriosi. Ecco perché è difficile capire dove arriverà e come potrà essere superata.

Lo chiamano l'uragano Katrina di Wall Street, un disastro finanziario che sta risucchiando in un vortice le case di milioni di americani, mettendo in crisi banche, assicurazioni, la stessa stabilità del sistema economico e delle Borse internazionali. Ed Yardeni, economista capo della Oak Associates, osserva che "tra gli investitori di Wall Street c'è ormai un clima di diffusa isteria". Gli esperti di Citigroup, in una ricerca appena pubblicata, usano un termine ancor più netto: "Panico". E in questa gara all'espressione più colorita Nariman Bheravesh, economista capo di Global Insight, scherza con 'L'espresso': "Nei prossimi sei mesi le Borse andranno sulle montagne russe". Gli chiediamo di spiegarci le ragioni di questa instabilità: "Semplice: le istituzioni finanziarie sono irresponsabili, non sanno neanche esattamente quale sia la loro esposizione finanziaria...".

Bheravesh coglie esattamente il punto: nessuno conosce le dimensioni dei buchi creati dalla bolla della casa esplosa un anno fa, e i piccoli investitori fanno fatica a capire i meccanismi di una crisi che ha le sue radici in innovazioni finanziarie sempre più misteriose. Quella che fino a ieri era stata battezzata bonariamente 'finanza creativa' si è trasformata in una trappola, un gioco perverso di scommesse incrociate tra istituti finanziari, nuovi strumenti di investimento dai nomi impenetrabili (Cdo, Abs, Mbs...) e istituti assicurativi (Ampac, Mbia, Aca...) la cui azione sfugge anche all'analisi dei più esperti.

I tecnici discutono se l'economia americana sia già entrata in una fase di recessione, ma il dibattito assume un sapore accademico di fronte ai fatti che scandiscono la cronaca. Negli ultimi giorni le Borse internazionali hanno subito i crolli più gravi dall'11 settembre 2001, e in tre mesi l'indice Dow Jones ha perso oltre 2 mila punti, scivolando sotto quota 12 mila, meno 15 per cento. Intanto la disoccupazione è salita al 5 per cento, l'inflazione ha toccato il 4,3 per cento e soprattutto due giganti bancari come Citigroup e Merrill Lynch hanno chiuso il quarto trimestre 2007 con un debito di 20 miliardi di dollari, facendo temere per la loro stabilità.

Un anno dopo l'inizio della crisi dei mutui subprime, gli analisti sono concordi nel definire le cause del disastro. Tutti ammettono che quello della casa era un mercato cresciuto in modo artificioso, una bolla che si è creata grazie alla possibilità di chiedere prestiti a tassi iniziali bassissimi, e poi crescenti, senza seri controlli sulla solvibilità del compratore. Era l'effetto della politica del credito facile che Alan Greenspan, allora capo della Federal Reserve, aveva utilizzato per far uscire il paese dalla crisi provocata dalla bolla di Internet. Così, piccoli istituti di credito collezionavano legioni di mutui facili e li vendevano alle banche, le quali li impacchettavano a loro volta in nuovi strumenti finanziari e li rivendevano ad altri, scommettendo sulla loro solvibilità dopo averli assicurati presso particolari agenzie (Ambac, Mbia, Aca...), conosciute agli addetti ai lavori come 'monoline', per la loro specializzazione. Sono agenzie nate negli anni Settanta per garantire le obbligazioni lanciate dagli enti pubblici e locali. Visto il loro successo, negli anni Novanta queste società cominciano a differenziare il loro rischio, accettando di assicurare anche i pacchetti di mutui offerti loro dalle banche, un affare che, dopo il 2000, sembra diventare sempre più redditizio e che si basa sull'illusione che l'aumento del valore delle case sia destinato a durare in eterno.

L'anno scorso, quando i tassi cominciano a salire, in pochi mesi la bolla esplode perché milioni di americani non sono più in grado di pagare le rate. Così i fallimenti si moltiplicano, il valore delle case scende dell'8 per cento - in alcune aree del 40 - e le banche si ritrovano con ammanchi di miliardi di dollari nei loro bilanci.

Quanto sono profondi questi buchi? Nessuno lo sa con esattezza, perché i mutui sono stati spezzettati qua e là, sparsi in mille strumenti finanziari. Ma non ci sono solo gli enormi buchi accumulati dalle banche. Improvvisamente si scopre che gli istituti assicurativi che dovrebbero essere i garanti dei 2.400 miliardi di dollari di obbligazioni, non sono così solidi come si poteva immaginare. Il primo a cadere è l'Aca, il più piccolo e più giovane, che a dicembre viene cancellato dal listino di New York perché il suo valore è sceso a zero e Standard & Poor's gli abbassa il rating al livello 'junk', spazzatura. Ma nei giorni scorsi anche il rating della più grande società del settore, l'Ambac, viene abbassato da Fitch, un'altra società di valutazione, da AAA ad AA. E anche la Mbia, altra big del comparto, è messa sotto osservazione in modo negativo da Standard & Poor's. Nell'ultimo anno entrambe le società sono crollate in Borsa: l'Ambac ha perso il 91 per cento del suo valore, la Mbia l'82 per cento. La Danske Bank di Copenaghen sostiene che il solo abbassamento del rating da AAA a AA potrebbe causare la perdita di 200 miliardi nel settore delle obbligazioni, perché è proprio la tripla A a garantire la certezza di avere un ritorno positivo a chi investe in obbligazioni. E il degrado di queste aziende può far vacillare un settore che solo in Europa, stando a valutazioni di Barclay's Capital, vale 50 miliardi di dollari.

Jim Ryan, un analista di Morningstar esperto del ramo, dice a 'L'espresso' che le società assicurative del settore soffrono della loro avventatezza: "Si sono fatte prendere la mano dall'euforia speculativa che ha accompagnato il boom della casa e hanno garantito con il loro rating obbligazioni delle quali neppure capivano la natura, un comportamento che rasenta l'assurdità e l'illegalità. L'abbassamento del loro rating da parte di Standard & Poor's è un fatto gravissimo che ha un impatto estremamente negativo sul mercato finanziario internazionale". Ed Yardeni, di Oak Associates, dice che "la possibilità di un grande crack è reale, e questo spiega l'isteria tra gli investitori che vanifica in parte l'azione della Federal Reserve" che proprio martedì scorso ha tagliato drasticamente il rating di tre quarti di punto, un record negli ultimi dieci anni, per rilanciare gli investimenti e dare respiro all'economia.

John Reese, capo economista di Validea Capital, è ancora più pessimista e sostiene che "nemmeno i capi azienda capiscono i libri contabili delle loro assicurazioni". E aggiunge: "Se crollassero le obbligazioni che rendono possibile il funzionamento degli enti locali, il crack diventerebbe generalizzato e farebbe saltare tutta l'infrastruttura sociale". David Roche, un analista britannico di Independent Strategy, è ancora più crudo: "Il modello di business di queste aziende è morto. Il governo sarà obbligato a ricapitalizzare l'intero settore o ci saranno intere comunità negli Stati Uniti dove i cittadini non potranno nemmeno più tirare la catena del bagno, perché non potranno permettersi neanche i servizi igienici". Il crollo delle società di assicurazione monoline non creerebbe solo nuove voragini nei bilanci delle grandi banche, ma farebbe saltare i conti di migliaia di amministrazioni locali.

Si tratta ovviamente di eventualità irrealistiche, perché le aziende di cui si parla sono troppo importanti per andare in bancarotta e il governo ha già annunciato nuove norme per regolamentare il settore e favorire l'arrivo di capitali freschi.

Ma la drammaticità delle reazioni degli esperti spiega perché la settimana scorsa i capi di Citigroup e di Merrill Lynch hanno fatto il giro del mondo col cappello in mano per chiedere ai fondi sovrani del Kuwait e di Singapore, della Corea del Sud e della Cina, ingenti iniezioni di capitali per evitare la bancarotta. In totale hanno raccolto oltre 19 miliardi di dollari, e Citigroup ha offerto le proprie azioni a metà prezzo rispetto al valore di dicembre. Solo i fondi sovrani della Cina, per un veto del governo, hanno rifiutato il proprio contributo. Le proteste di molti politici, preoccupati del potere crescente dei fondi sovrani stranieri, spesso controllati da governi autoritari, nell'economia americana, sono state ignorate dai capi delle aziende finanziarie, preoccupati di salvare il salvabile. Stuart Schweitzer, responsabile per le strategie globali di JPMorgan, ha detto: "Le banche americane andranno a prendere i soldi ovunque possano trovarli".

Anche perché la vicenda è ben lungi dall'essere terminata. È opinione diffusa che i buchi finanziari finora emersi siano solo l'inizio di una lunga catena. Se non ci saranno pesanti interventi di sostegno da parte del governo, nei prossimi due anni e mezzo altri tre milioni e mezzo di americani perderanno la casa e questo diluvio di insolvenze moltiplicherà la crisi del sistema, oltre a creare problemi sociali disastrosi nel Paese.

Nouriel Roubini, l'economista di New York diventato famoso per aver previsto la gravità della crisi già più di un anno fa, sostiene che negli Usa la recessione è ormai inevitabile, e sarà peggiore di quelle vissute nel 1990-91 e nel 2001. Dean Baker, direttore del Center for Economic and Policy Research, lo spalleggia, affermando che sarà "la crisi finanziaria più grave dai tempi della Grande Depressione, e la più grave recessione dalla Seconda guerra mondiale in poi".

In questa situazione gli interventi finora promessi dal presidente Bush, 150 miliardi di dollari di tagli alle tasse, sono considerati solo pannicelli caldi che avranno un impatto limitato. È probabile che nei prossimi giorni l'amministrazione prenderà decisioni assai più drastiche. I democratici sembrano intenzionati a collaborare a una soluzione bipartisan, perché non vogliono ereditare un Paese al collasso, in caso di vittoria democratica alle elezioni di novembre.

E mentre a Wall Street si consuma il dramma, nelle città americane accadono episodi al limite del paradosso. Per esempio a Cleveland, dove il municipio ha deciso di far abbattere un migliaio di case, abbandonate da famiglie che non riuscivano a pagare il mutuo. Le case stavano diventando bersaglio dei vandali, e demolirle con le ruspe era meno costoso che farle pattugliare dalla polizia. Di ridare le abitazioni ai senza casa, neanche a parlarne. Non a caso l'uragano che sta spazzando l'economia americana è stato paragonato a Katrina.”

Giunge, poi, il commento come sempre lucido di J. Stiglitz:

“Il sogno infranto della deregulation

Che l´atmosfera al World Economic Forum di quest´anno sia stata cupa non dovrebbe sorprendere. Avevano l´aria sconfitta coloro che ritengono che a risolvere i problemi del mondo saranno la globalizzazione, la tecnologia e l´economia di mercato. Più abbattuti di tutti sono sembrati i dirigenti alla guida delle banche. Sullo sfondo della crisi dei mutui subprime, dei disastri di molte istituzioni finanziarie e dell´indebolimento del mercati finanziari, questi "capitani dell´universo" sono apparsi meno onniscienti di quanto non lo fossero poco tempo fa.

E a Davos, a essere nei guai non erano soltanto i grandi amministratori delle banche, ma anche chi sul sistema dovrebbe vegliare, vale a dire i titolari delle banche centrali.

Chiunque frequenti le conferenze internazionali è abituato a sentire gli americani impartire lezioni sulla trasparenza a tutti. È successo anche Davos quest´anno, ma molto meno. Tra chi lo fa solitamente, ho sentito un ex segretario del Tesoro, che al tempo della crisi del Sudest Asiatico non aveva usato i toni bassi per ammonire in questo senso, ribadire la necessità di trasparenza nei fondi sovrani di investimento, gli Swf, senza tuttavia menzionare gli hedge fund statunitensi o europei.

Questa volta, invece, non sono riusciti a trattenere dei commenti sull´ipocrisia insita in tutto ciò i paesi in via di sviluppo. Si è percepito persino un certo compiacimento per la sfortuna altrui, una certa Schadenfreude, per i problemi che gli Stati Uniti stanno vivendo in questo momento, compiacimento contenuto tuttavia dalla preoccupazione per l´impatto che questa crisi potrebbe avere sulle loro economie.

Ma davvero gli Stati Uniti hanno suggerito agli altri di rivolgersi ai responsabili delle banche americane per imparare a gestire i propri affari? Ma davvero gli Stati Uniti hanno millantato la superiorità dei propri sistemi di gestione del rischio, arrivando addirittura a sviluppare un nuovo sistema per la vigilanza bancaria, il Basilea II? Il Basilea II è morto, almeno finché non saranno svanite le memorie sull´attuale disastro.

Gli uomini che guidano le banche – e le agenzie di rating – hanno creduto nell´alchimia finanziaria. Hanno creduto nel fatto che i nuovi prodotti finanziari avrebbero in qualche modo trasformato i mutui a rischio in titoli di valore, cui si poteva attribuire dei rating AAA. Ma una delle lezioni della teoria della finanza moderna è che, in mercati finanziari che funzionano come si deve, riconfezionare il rischio non cambia molto le cose. Per esempio, dal prezzo della panna e da quello del latte scremato, possiamo calcolare il prezzo del latte che contiene un 1 per cento di panna, del latte che ne contiene il 2 per cento e di quello che ne contiene il 4 per cento. Riconfezionando il rischio si può probabilmente ricavare del denaro, ma non certo i miliardi che le banche hanno guadagnato affettando, tagliando a pezzetti e riconfezionando i mutui a rischio in pacchetti il cui valore era molto più alto di quello del contenuto.

Era troppo bello per essere vero, e così è stato. Peggio ancora, le banche non hanno compreso il primo principio della gestione del rischio: che la diversificazione funziona soltanto quando i rischi non sono correlati e che gli shock a livello macroeconomico (come quelli che stanno colpendo i prezzi delle case o la capacità di onorare i mutui accesi) hanno un effetto sulla capacità generale di ripagare i mutui.

A Davos ho sostenuto che anche i titolari delle banche centrali hanno sbagliato, con una erronea valutazione della minaccia di un andamento negativo dell´economia e non fornendo gli strumenti regolatori adeguati. Hanno aspettato troppo a lungo per agire. Poiché, di norma, occorre un anno o più perché gli effetti della politica monetaria siano percepiti, le banche centrali devono agire preventivamente invece di reagire.

Peggio ancora, a creare questo problema potrebbero aver contribuito la Federal Riserve e il suo precedente titolare, Alan Greenspan, rassicurando chi temeva una bolla immobiliare che tutt´al più sul mercato si era formata una "certa schiuma" e incoraggiando quindi le famiglie ad accendere dei rischiosi mutui a tasso variabile. Solitamente, i partecipanti al forum di Davos avrebbero fatto quadrato attorno ai responsabili delle banche centrali. Questa volta, invece, con un voto tre contro uno, alla fine della sessione hanno condiviso il mio punto di vista.

L´argomento dei titolari delle banche centrali, secondo il quale «nessuno poteva prevedere questi problemi», è stato convincente solo per pochi dei partecipanti. Ciò si spiega forse col fatto che alcuni dei presenti avevano, come me, negli anni precedenti, avvertito del pericolo incombente. Abbiamo sbagliato soltanto la valutazione su quanto fossero poco virtuose le pratiche delle banche per la concessione del credito, su quanto realmente fossero poco trasparenti le banche e su quanto inadeguati fossero i loro sistemi di gestione del rischio.

È stato interessante osservare le differenze culturali dell´atteggiamento di fronte alla crisi in atto. In Giappone, l´amministratore delegato di una banca avrebbe chiesto scusa ai propri dipendenti e al Paese, rifiutando pensione e bonus, per condividere con chi subiva le conseguenze della cattiva gestione societaria le risorse disponibili. E si sarebbe dimesso. Negli Stati Uniti, si tratta soltanto di capire se il consiglio di amministrazione costringerà un amministratore delegato a lasciare la poltrona e, in questo caso, a quanto ammonterà il suo pacchetto di buonuscita. Quando ho chiesto a un amministratore delegato se si fosse parlato dell´opportunità di rifiutare i bonus, la risposta non è stata semplicemente un no, bensì un´aggressiva difesa del sistema dei bonus.

Negli Stati Uniti, questa è la terza crisi degli ultimi vent´anni, dopo quella della Savings & Loan del 1989 e quella Enron/WorldCom del 2002. La deregulation non ha funzionato. I mercati con poche regole possono fruttare bonus generosi per gli amministratori delegati, ma non conducono, come se fossero guidati da una mano invisibile, al benessere delle società. Finché non arriveremo a un equilibrio più valido tra mercati e governo, il mondo continuerà a pagare un prezzo alto.

Copyright Project Syndicate, 2008

Traduzione di Guiomar Parada”

A febbraio si riunisce a Tokio il G7, in un atmosfera inconsueta. L’incontro è commentato da Federico Rampini:

“Era una regola dei vertici internazionali: produrre comunicati blandi e rassicuranti per non destabilizzare i mercati. Riuniti a Tokyo, i ministri dell´economia e i governatori delle banche centrali del G7 non sono riusciti a rispettare la tradizione. A conferma che la situazione dell´economia mondiale è grave, le dichiarazioni del summit tradiscono allarme e impotenza. Il comunicato finale non alimenta illusioni.

«In tutte le nostre economie la crescita è destinata a rallentare, in conseguenza degli sviluppi economici e finanziari globali». Il segretario al Tesoro americano, Henry Paulson, ha parlato di «turbolenza finanziaria seria e persistente». Unanimi nel pessimismo, i leader del G7 si sono divisi nelle ricette: ciascuno per sé. Non c´è l´ombra di una strategia comune per contrastare l´arrivo di una recessione. Non c´è neppure un gesto di fermezza verso quel sistema bancario che è in parte all´origine del marasma sui mercati. Crac dei mutui, scandalo Société Générale: sembra quasi che si tratti di calamità naturali, i governi alzano le braccia disarmati.

Eppure la tempesta è ben lungi dall´essersi placata. Il governatore della Banca d´Italia Mario Draghi ha detto che le prossime due settimane possono essere cruciali nella scoperta di nuovi buchi tra i bilanci bancari, oltre ai 146 miliardi di dollari di perdite sui mutui insolventi già riconosciute. Draghi dirige una task force sovranazionale con il compito specifico di disegnare un´architettura più stabile della finanza globale. Nel rapporto che ha presentato al G7 indica varie ragioni del disastro: vi figurano l´incompetenza delle banche che hanno sottoscritto montagne di titoli complessi senza capire bene quel che facevano; i conflitti d´interesse delle agenzie di rating che avrebbero dovuto misurare la qualità dei titoli; fino a veri e propri comportamenti fraudolenti. Draghi paventa la possibilità di nuovi choc, e di un «aggiustamento prolungato e difficile» prima che i mercati del credito ritrovino un equilibrio sano. Ha invitato gli europei a non illudersi che il peggio sia passato: se le banche americane sono state più rapide nel rivelare voragini di perdite (provvisorie), l´Europa è a metà del guado e le brutte sorprese sono in agguato. Riguardo all´ammontare complessivo dei debiti irrecuperabili, il governatore della Banca d´Italia ha ammesso: «L´unica cosa che sappiamo è che l´esposizione è grande, e continuiamo a scoprirne nuove dimensioni». Questa amara constatazione doveva scatenare una mobilitazione dei governi e delle autorità di vigilanza. Dal G7 ci si poteva attendere un piano per fare pulizia nel settore creditizio, garantire la massima visibilità dei bilanci, "purgare" il sistema dei soggetti più malati, proteggere i risparmiatori e le aziende industriali che hanno bisogno di credito per investire. Invece dal rapporto Draghi i ministri del G7 hanno tratto una lezione minimalista. In sostanza hanno esortato le banche perché si facciano carico di una operazione-trasparenza rivelando il vero valore dei cosiddetti "titoli strutturati" che hanno in portafoglio, e migliorando l´informazione sugli investimenti extra-bilancio come i derivati. Visto che le stesse banche sono descritte come irresponsabili o peggio, colpevoli di frodi, un appello alla loro buona volontà e autodisciplina è pura incoscienza da parte dei responsabili della politica economica. Questo fiasco dei governi è proporzionale alla loro presunzione. Negli Stati Uniti un´orgia di ideologìa neoliberista ha indebolito l´idea stessa della regolazione dei mercati. Le autorità bancarie americane non hanno neppure aderito alle cosiddette regole di Basilea 2 che impongono dei criteri di solidità di capitale alle banche. D´altra parte è da molto tempo – sotto l´Amministrazione Clinton prima ancora di Bush – che il dicastero del Tesoro di Washington è in appalto a ex-banchieri d´affari, legati a doppio filo con i vertici delle Goldman Sachs, Citigroup, Merrill Lynch e JP Morgan, cioè i "soliti sospetti". Non offre uno spettacolo migliore la Francia dirigista e statalista. Dopo la figuraccia rimediata con lo scandalo della Société Générale, Nicolas Sarkozy ha lanciato un solo messaggio chiaro e forte: Parigi impedirà che quella banca finisca in mani straniere. Le ottusità nazionaliste, che si ammantino del linguaggio neoreaganiano a Washington o di quello colbertista a Parigi, hanno l´unico risultato di lasciare i mercati allo sbando. Intanto continuano a diffondersi i segnali che la crisi sta contagiando nuovi settori della finanza: i pericoli di insolvenza e la crisi di sfiducia non riguardano più solo l´universo dei mutui, ma anche i prestiti raccolti dal private equity, perfino da aziende industriali e bancarie un tempo al di sopra di ogni sospetto.

Sullo sfondo naturalmente c´è il male più vasto che incombe sull´economia reale. La crescita americana è rallentata già allo 0,6% nell´ultimo trimestre. Kenneth Rogoff, l´economista di Harvard che è stato chief economist dell´Fmi, accosta gli eventi attuali alle cinque più gravi recessioni del passato, che si sovrapposero ad altrettante crisi finanziarie: in media ci vollero più di tre anni per uscirne. Christine Lagarde, ministro dell´Economia francese, uscendo dal vertice di Tokyo ha voluto offrire almeno una dichiarazione positiva: «Noi dottori al capezzale dell´economia mondiale stiamo serrando i ranghi. Dopo questo vertice ho la sensazione che abbiamo un forte spirito di corpo». Al malato queste frasi fanno venire i brividi.”

A fine di febbraio, Luigi Spaventa pubblica un articolo “tecnico”, ma molto lucido dal titolo La catena spezzata del credito:

“Si era consentito al sistema finanziario di erigere in pochi anni, a ritmi velocissimi, un castello di carte di altezza spropositata: le politiche macroeconomiche avevano creato le condizioni perché ciò avvenisse. Né, al di là di generiche esortazioni, ci si era soverchiamente preoccupati di compiere ispezioni in situ per controllare la stabilità dell’edificio. Crollati i piani più alti, ci si accorge quanto sia difficile operarne una ristrutturazione ordinata in vista di un assetto più stabile senza provocare un crollo rovinoso. Il castello fu costruito con dosi crescenti di leverage, ovvero l’impiego di risorse in modi tali da moltiplicare gli esiti, positivi o negativi, dell’investimento.
L’indebitamento rispetto al capitale ne è la manifestazione più nota. Il livello di leverage del sistema dipende dalla disponibilità di credito e dalla propensione degli operatori al rischio (e dunque all’indebitamento effettivo o potenziale) nota come "appetito per il rischio". L’una e l’altro si impennarono dopo l’inizio del secolo sino alla brusca inversione avvenuta la scorsa estate. Un paio di numeri, anche se non misurano propriamente il leverage, sono indicativi. A un dollaro di maggior prodotto si associava un aumento di credito di 1,5 dollari prima degli anni 90, di 3 negli anni 90, sino a toccare 4,5 nel 2007. Il rapporto fra attività totali e fondi propri degli hedge funds si era impennato in pochi anni sino a giungere a quota tre. I fondi di private equity hanno avuto una vicenda simile. E’ parimenti esploso il valore dell’esposizione su strumenti derivati. Dei modi in cui il nuovo business model dell’intermediazione bancaria e l’innovazione finanziaria generavano un’offerta di credito extracorporea e costruivano una finanza ombra opaca e non vigilata, atta a soddisfare l’appetito di rischio (e di facili profitti) diffuso nel sistema, si è detto altre volte su questo giornale.

Verso la primavera dello scorso anno la voracità per il rischio si trasformò, come ogni indigestione, in nausea: avvenne quando ci si rese conto delle perdite che la crescita delle insolvenze dei mutui americani di bassa qualità avrebbe prodotto sulle obbligazioni strutturate che li incorporavano. La nausea si manifestò nel rifiuto indiscriminato di tutta la classe degli strumenti finanziari basati sul credito e delle loro componenti, anche indipendentemente dal merito intrinseco; in conseguenza, nella caduta dei loro prezzi e della loro già esigua liquidità; nell’incertezza sul grado di coinvolgimento delle controparti in quegli strumenti. Il tentativo collettivo di ridurre l’esposizione al rischio si è rivelato vacuo: l’effetto è stato quello di trasformare le perdite temute in perdite effettive e di diffonderne le conseguenze al resto del sistema, con un contagio reso più pernicioso dalla constatazione di un pesante quanto inatteso coinvolgimento diretto e indiretto delle banche nel giro degli strumenti strutturati.

Considerati i livelli toccati e le fragilità accumulate, un deleveraging del sistema finanziario era inevitabile; e anche benefico, se ordinato e graduale. Ma per i fenomeni finanziari la gradualità e l’ordine non sono di questo mondo, perché i processi non sono governati ma affidati ai comportamenti di gregge degli investitori. Per come sta avvenendo e per i suoi effetti sulle banche, il processo di deleveraging rischia di innescare un pericoloso ciclo del credito con conseguenze nefaste sull’economia reale. Le perdite sinora rivelate dalle banche superano i 120 miliardi di dollari. Ci si attende che possano superare i 300 miliardi per tre ragioni: è probabile che ve ne siano altre nascoste; la caduta dei prezzi degli strumenti di credito, dovuta sia al peggioramento delle insolvenze sul mercato immobiliare sia alla situazione sempre più precaria delle società che assicurano i crediti, ne provoca un aumento nel tempo; altre ne emergono man mano che vengono riportate nei bilanci le entità fuori bilancio (Siv e quant’altro) che erano particolarmente esposte. Alle banche sono rimaste in pancia quantità imprecisate, ma certamente ingenti, di crediti ponte concessi per le iniziative di private equity che esse non sono più in grado di cartolarizzare e trasferire al mercato, come avevano previsto di fare. Si sono rattrappite financo le operazioni più tradizionali e immuni dalle complessità della nuova finanza, come le vendite di crediti in sofferenza. Si manifesta quindi una forte tensione sui bilanci delle banche, costrette a restringere l’erogazione di credito e inasprirne le condizioni per ridurre l’esposizione al rischio. Frattanto, si è inaridita la provvista di credito da parte di soggetti non bancari, che avveniva con l’acquisto di obbligazioni rappresentative di mutui e che consentiva alle banche di originare un volume di credito superiore a quello tenuto in portafoglio. Se protratti, questi fenomeni possono provocare il credit crunch. La stretta potrebbe danneggiare la situazione di famiglie e imprese e dunque peggiorare ancora quella delle banche: il timore che possa avvenire è documentato dalla crescita dei prezzi dei credit default swap, gli strumenti derivati con cui si compra protezione dalle insolvenze.

Scrive il Financial Stability Forum presieduto da Mario Draghi: «E’ probabile che si debba affrontare un aggiustamento prolungato, che potrebbe essere difficile». Scrive il Financial Stability Report della Banca Centrale Europea: «Un periodo protratto di incertezza potrebbe contribuire a una più sostanziale stretta del credito…così aumentando la probabilità di effetti della tempesta nel mercato finanziario sull’economia reale». Ma, ci si deve chiedere, questi esiti perniciosi non possono essere evitati da mosse appropriate di politica economia, ad opera delle autorità nazionali e dei tanti fori internazionali che si occupano di stabilità finanziaria producendo metri cubi di rapporti? Le autorità, purtroppo, hanno poche armi a disposizioni, e spuntate. La provvista di liquidità a breve sinora generosamente concessa, è utile per evitare momenti acuti di crisi, ma non serve a impedire le conseguenze strutturali di un mutamento nella valutazione del rischio e nella propensione ad assumerlo, o di fenomeni di insolvenza vera o presunta. Né fa molto una riduzione dei tassi, i cui effetti si manifestano con difficoltà e sfasamenti temporali. Il consenso su migliori assetti di regolazione e di informazione, su cui si sta lavorando, è importante per definire i lineamenti di un nuovo assetto, che conservi i meriti di quello collassato senza averne i difetti, ma non affronta i problemi della transizione. Per facilitare questa, un utopista che si ispirasse a esperienze nazionali proporrebbe l’istituzione di una bad bank la quale ripulisse i bilanci degli intermediari (tutti, e non solo alcuni di essi, come si è tentato di fare senza successo) dalle attività illiquide connesse alla crisi dei mutui fondiari: assumendole sul bilancio in contropartita di obbligazioni emesse con garanzia pubblica. Ma quale entità pubblica potrebbe montare e garantire l’operazione? In questo mondo globale, di globale vi è solo la finanza: non certo chi la finanza dovrebbe regolare.

Ci si è ridotti a tornare indietro di settant’anni: a chiedere con insistenza, per voce del Fmi, e a mettere in opera negli Stati Uniti programmi di temporaneo sostegno fiscale. Forse avevamo capito male quando ci avevano insegnato che interventi siffatti hanno modesto effetto reale e comunque non sanano le crepe prodottesi nel sistema. Ma forse è chi li propone ad aver mal capito Keynes: profondo conoscitore della finanza, non avrebbe pensato che un aumento di spesa o un taglio temporaneo di tasse potessero risolvere un problema finanziario della dimensione di quello che oggi ci affligge.”

Alla fine di febbraio interviene sul The New York Times Ben Stein, singolare figura di economista eclettico, liberal e dotato di un micidiale sarcasmo. Il titolo dell’articolo, preceduto da una citazione di E. Pound, è: “Il fascino irresistibile del pasto gratis

“Sì, lo so che Ezra Pound era un antisemita e un ammiratore di Mussolini, ma più avanti si pentì di entrambe le cose e fece ammenda. A mio avviso, se escludiamo Bob Dylan, Pound è stato il più grande dei poeti americani del XX secolo, e spesso ha colpito nel segno, malgrado la sua evidente eccentricità. I suoi versi sull’usura la pratica di concedere in prestito denaro a interessi altissimi mi sono venute in mente considerando i problemi legati ai subprime che questa grande nazione deve ora affrontare. Ecco come sono andate le cose: John Jones intendeva comperarsi una casa, e avendo un credito insufficiente si è rivolto a George Smith, che eroga prestiti ipotecari nella sua città. Si è così procurato un mutuo a un basso tasso di interesse iniziale, destinato però ad aumentare molto, molto di più col passare del tempo. George Smith si è procacciato i soldi del prestito ipotecario che ha concesso a John Jones sottoscrivendo un prestito da un erogatore regionale, che a sua volta ha ottenuto un finanziamento offrendo prestiti a breve-medio termine agli investitori.
A quel punto il signor Smith, insieme a moltissimi altri suoi pari, ha venduto i suoi finanziamenti a qualche grosso ente di investimenti. I vari prestiti e finanziamenti sono stati assortiti in modo raffazzonato, così come capitava, così che alcuni pacchetti contenevano finanziamenti con crediti mediamente decenti, altri scadenti, altri ancora davvero pessimi. Il tutto è stato quindi impacchettato in giganteschi involucri e rivenduto alle agenzie americane di assicurazioni, ai fondi di copertura, alle banche, ai miliardari, ai fondi del mercato monetario e agli investitori stranieri, che erano anch’essi banche, assicuratori, fondi del mercato monetario, ricchi investitori singoli o hedgefund.

Gli acquirenti sapevano che ciò che stavano comperando era rischioso in misura superiore al normale, ma tali dispositivi ripagavano più dei prestiti prime, e quelli davvero molto rischiosi ripagavano davvero molto di più. (Si trascurò completamente di predisporre adeguate misure precauzionali). Eppure, in un mondo di bassi tassi, i prestatori «mirano sempre al guadagno» (espressione di Mike Milken), per ottenere più utili per i loro azionisti, per siglare più accordi, per assicurarsi più profitti e procurarsi bonus molto più cospicui. L’usura è un bene, se ti permette di comperarti una grossa casa a Greenwich. Bene, a questo punto cerchiamo per un momento di congelare i dettagli del quadro complessivo. Il Signor Jones ha avuto i suoi soldi e si è comperato la casa dei suoi sogni. (O forse era il Signor Blandings?) (personaggio di "La casa dei nostri sogni", 1948, NdT). Il costruttore, gli operai, i fornitori sono stati pagati. Il Signor Jones e la sua famiglia si sono trasferiti nella nuova casa e se la godono. Sono stati comperati i mobili e pagati gli imbianchini.

È passato un po’ di tempo. Poco alla volta è diventato evidente che il Signor Jones vive al di sopra dei propri mezzi: allora ha considerato le cedole del mutuo, forse ha rifinanziato il tutto a un tasso più alto. Ha osservato che il mercato della casa si stava già sgretolando e ha capito che la sua casa valeva meno di quello che l’aveva pagata. Non solo: la stava anche pagando più – spesso molto di più – di quello che poteva permettersi di pagare o di quello che avrebbe dovuto pagare per un canone di locazione analogo. Così ha traslocato e ha spedito le chiavi della casa dei suoi sogni al Signor Smith, che concede prestiti nella sua stessa comunità. Scongeliamo il resto dello scenario: molti Signori Jones, moltissimi, stanno facendo la stessa cosa, spediscono le chiavi delle loro case a chi ha prestato loro i soldi per sottoscriverne il mutuo. Molti Signori Smith, moltissimi, da tempo hanno chiuso bottega. Le chiavi di tutte queste case sono fatte pervenire alla banca di investimento, la quale però non è più proprietaria di quei mutui, tranne quei pochi che non è riuscita a sbolognare al più credulone degli investitori esteri.

Di conseguenza, una marea di prestatori si ritrova in mano un sacco di chiavi di casa e un sacco di mutui per i quali nessuno paga più le rate. Molti sono enti fiduciari che per legge devono abbassare i prezzi dei loro asset al valore di mercato, solo che non sanno quale sia questo valore di mercato. Hanno indici di scambio, ma come tutto ciò che è legato agli scambi, è altamente soggetto a cambiamenti e vittima di manipolazioni. Si accollano le perdite. Se l’azienda è quotata, le sue azioni e obbligazioni crollano (a meno che non siano stati così in gamba da ribassare gli indici vedendo appropinquarsi il tracollo). Gli investitori perdono soldi. La repubblica traballa, si presentano proposte di legge per sovvenzionare i mutuatari o per prendere in prestito i soldi dalle future generazioni per rinvigorire l’economia nel suo complesso.

A questo punto diamo un’occhiata a che cosa è accaduto. I soldi coinvolti in alcuni dei mutui subprime non sono semplicemente scomparsi. Almeno per qualche tempo sono stati in buona misura un regalo fatto ai mutuatari che godevano di scarso credito, un regalo che ha consentito loro di provare il brivido di diventare proprietari di casa. I soldi sono andati ai costruttori di casa, le cui azioni sono andate molto bene e i cui rappresentanti hanno finito col potersi comperare barche e case. In un certo senso, quindi, qualcuno ci ha effettivamente guadagnato. Le competenze per le vendite e il "confezionamento" dei mutui sono andate ai broker locali e in seguito ai grossi enti che hanno messo insieme il tutto. Quindi, anche per loro è andata bene. E per un annetto o giù di lì, coloro che hanno comperato fette di finanziamenti se la sono passata bene, quanto meno finché i mutuatari non hanno smesso di pagare.

Ma chi ci ha rimesso, allora? Le banche di investimento che non hanno venduto l’intero assortimento di subprime – e lo hanno venduto solo in parte – stanno subendo un duro colpo. Le banche, gli assicuratori e i fondi di copertura che li hanno comperati e si ritrovano titoli subprime ne risentono parecchio. I loro azionisti ne risentono molto di più. E nella misura in cui il prezzo delle case sta precipitando e si respira un clima di paura che i media alimentano dopo averlo ventilato, pare che tutto ciò rallenterà l’economia nel suo complesso, e molti, moltissimi altri ne stanno per subire le conseguenze. Ciò che irrita oltremodo è che tutto ciò in passato era già accaduto. Ci sono stati così tanti colpi inflitti a inconsapevoli mutuatari o prestatori ingenui da gente astuta che ha offerto loro un prodotto che presentava insoliti alti tassi di guadagno: le obbligazioni spazzatura, Milken, le case, i prestiti associati alle case fatti ad acquirenti meno meritevoli di credito.

Gli esseri umani sembrano proprio predisposti per natura a credere di poter davvero ottenere qualcosa gratis e ne pagano sempre il prezzo, caso dopo caso, circostanza dopo circostanza. Ci credono soprattutto se prestano e investono i soldi di qualcun altro, e se ci sono incentivi a breve termine che consentano loro di saltare con un balzo sul carro dei facili guadagni. Alla lunga, invece, il balzo lo fanno sull’imbroglio successivo. In questo scenario, però, manca qualche altra cosa. È dagli anni di Ronald Reagan che gruppi influenti e potenti ci dicono che le normative sono un male e che la nostra economia potrà magicamente crescere se svincolata e affrancata da esse. E così, ogni protezione di legge è stata tolta ai risparmi e ai prestiti, spietatamente saccheggiati.

Si è revocata la Legge Glass Steagall, così che le grandi banche commerciali potessero lanciarsi nella vendita degli investimenti, e ci siamo ritrovati col tracollo pressoché totale di enormi banche. La normativa relativa ai titoli legati alle ipoteche è stata confinata in un articolo secondario che dice tutto senza significare nulla. A Washington le cheerleader schiamazzano: «Adesso ci servono ancor meno regolamenti». E la Corte Suprema, il soggetto giudiziario al più alto livello in questo Paese, si è appena espressa per voce delle sue più autorevoli e illustri toghe, limitando inflessibilmente la possibilità degli azionisti di intraprendere azioni giudiziarie collettive federali nei confronti delle banche di investimento che hanno aiutato una società accusata di aver commesso una frode. Si riuscirà mai a scuotere la gente? A farle capire che nel cuore umano vi è moltissima disonestà e che ci sono moltissimi agnelli pronti a farsi sgozzare e che i regolamenti non sono un male? O dovremo semplicemente rassegnarci a passare barcollando da un tracollo di massa a un furto di massa e così via ripetendo? C’è qualcuno, uno soltanto, in grado di capirlo?

Copyright The New York Times

Traduzione di Anna Bissanti”

Nouriel Rubini, ai primi di marzo, traccia un inquietante panorama delle dodici tappe che possono portare il sistema in crisi:

“Sul fatto che gli Stati Uniti siano ormai entrati in recessione non sussistono più dubbi; resta da vedere soltanto se la recessione sarà breve e leggera (due trimestri fino alla metà dell´anno) o più lunga, più profonda e più dolorosa. Ma i rischi ora appaiono quelli di una recessione profonda e di una crisi finanziaria sistemica grave. Anzi, per comprendere le recenti mosse della Banca Centrale degli Stati Uniti – una riduzione molto aggressiva del tasso di rifinanziamento – occorre rendersi conto della possibilità sempre maggiore che si vada verso una evoluzione catastrofica della finanza e dell´economia – un circolo vizioso dove una profonda recessione aggrava le perdite finanziarie e dove, a loro volta, le perdite finanziarie ingenti e in aumento e il tracollo del settore finanziario rendono la recessione ancora più grave. Una tale crisi sistemica finanziaria potrebbe svolgersi secondo uno scenario che prevede dodici fasi:

1. A questo punto è chiaro che questa è la peggiore recessione del settore immobiliare dalla grande depressione e che i prezzi delle case negli Stati Uniti crolleranno tra il 20 e il 30 per cento rispetto al picco della bolla. Ciò implicherà anche che un altissimo numero di famiglie, tra i 10 e i 20 milioni, si ritroverà proprietario di case il cui valore sarà inferiore a quello del mutuo ipotecario e che si troverà quindi costretto a cederle, incrementando massicciamente le perdite delle banche che hanno concesso il credito.

Inoltre, ben presto potrebbero essere costrette a dichiarare bancarotta anche alcune delle grandi società immobiliari del settore residenziale.

2. Le perdite procurate al sistema finanziario dal crollo catastrofico del settore dei mutui ad alto rischio, una cifra che, si stima, potrebbe sfiorare i 300 miliardi di dollari, stanno intaccando ora anche i mutui a basso e a bassissimo rischio, in quanto le avventate pratiche utilizzate per concedere i mutui subprime sono le stesse impiegate nell´intero spettro del settore dei mutui. Si tratta quindi di una crisi e di un crollo generalizzati del settore dei mutui, e non soltanto di quello ad alto rischio. Le perdite riguardanti questi vari tipi di mutui saliranno drammaticamente con la caduta dei prezzi delle case e con la discesa a spirale dell´economia verso una grave recessione. a queste perdite occorre aggiungere quelle catastrofiche ammontanti a centinaia di miliardi di dollari non iscritti a bilancio causate dagli strumenti di investimento strutturati come i Siv e i Conduits, che le banche sono state costrette a iscrivere a bilancio a seguito dell´inventario degli Abcp, i titoli di debito a breve termine con asset a garanzia. A causa della cartolarizzazione, questa spazzatura è tracimata dalle banche ai mercati del capitale e ai loro investitori, negli Stati Uniti e nel resto del mondo, incrementando, piuttosto che riducendo, il rischio sistemico e rendendo globale la crisi del credito.

3. La recessione porterà - come sta già facendo - a un notevole aumento del numero di prestiti al consumatore di altre tipologie non onorati: carte di credito, prestiti per l´acquisto di auto e per lo studio. Negli Stati Uniti i prestiti ad alto rischio concessi tramite carte di credito e quelli per l´acquisto di automobili ammontano a centinaia di miliardi di dollari.. Ne consegue che anche queste perdite dovranno essere aggiunte alle perdite finanziarie delle banche e delle altre istituzioni finanziarie, il che, a sua volta, aggraverà ancor di più la stretta creditizia.

4. Il mercato dei prestiti per l´acquisto di immobili commerciali potrebbe ritrovarsi presto in una situazione catastrofica analoga a quella dei mutui subprime, giacché le pratiche per la cessione di prestiti nel settore immobiliare commerciale sono state altrettanto avventate di quelle del settore immobiliare residenziale. La crisi immobiliare residenziale non può che condurre, con un lieve ritardo, allo scoppio della bolla del settore della costruzione di immobili non residenziali, in quanto nessuno vorrà più costruire uffici, negozi o centri commerciali in città fantasma.

5. Se da una parte resta incerta l´entità delle perdite che le società di assicurazioni mono-ramo specializzate subiranno a causa delle assicurazioni concesse ai titoli con sottostanti i mutui residenziali, alle obbligazioni garantite da junk bond (i Cdo) e ad altri prodotti finanziari garantiti da asset tossici; dall´altra, ora è chiaro che queste perdite sono molto più ingenti del pacchetto di salvataggio di 10 o 15 miliardi di dollari che le autorità stanno tentando di raffazzonare. L´abbassamento del rating di queste assicurazioni mono-ramo e´ necessario e sara´ inevitabile - anche se le agenzie di rating stanno seguendo strategie dilatorie - e si tradurrà in altri circa 140 miliardi di dollari di perdite derivanti dai portafogli di titoli con asset a garanzia che delle istituzioni finanziarie, che hanno già subito massicce perdite, dovranno iscrivere a bilancio. Questo porterà a ulteriori perdite nel portafoglio delle obbligazioni emesse dalle municipalità..

6. Non è da escludere che alcune importanti banche regionali o addirittura nazionali molto esposte ai mutui ipotecari, sia residenziali sia commerciali, siano costrette a dichiarare bancarotta. Se ciò accadesse, alle 200 o più e istituzioni creditizie che hanno concesso prestiti ad alto rischio, andrebbero ad aggiungersi alcune grandi banche, contribuendo ad aggravare la seria stretta creditizia.

7. Le banche vedranno lievitare le proprie perdite, perché i prestiti concessi sulla base di leve finanziarie per centinaia di miliardi di dollari, saranno iscritti nei bilanci con valori molto inferiori al valore nominale (attualmente circa 80 centesimi su un dollaro, ma presto molto meno). Sono stati questi prestiti a leva finanziaria a finanziare, a loro volta, gli acquisti di aziende con leva finanziaria (gli Lbo), molti dei quali ora stanno saltando.

8. Una volta che questa grave recessione sarà in corso, si verificherà una massiccia ondata di fallimenti di società. Tipicamente, in un anno, il tasso di fallimenti di compagnie è del 3,8 per cento circa; nel 2006 e nel 2007, questo tasso è sceso a un quasi trascurabile 0,6 per cento. Tipicamente, negli Stati Uniti, in un anno di recessione, questo tasso balza a più del 10 per cento, potendo arrivare a un 15 per cento. I tassi di fallimento molto bassi degli ultimi due anni si spiegano con l´eccesso di liquidità, le agevolate condizioni del credito e gli spread molto bassi. Ma, d´allora, il riprezzamento del rischio è stato massiccio. Occorre inoltre notare che se, in media, in termini di profittabilità e di indebitamento, le aziende statunitensi ed europee si trovano in condizioni migliori rispetto al 2001, molte società a bassa profittabilità hanno accumulato debiti con junk bond che presto dovranno essere rifinanziati con spread molto più larghi. Il tasso di fallimento di aziende potrebbe salire fortemente dunque durante la recessione del 2008. Una volta che i fallimenti e lo spread del credito saranno aumentati, nel settore degli Cds, i credit-default swaps ovvero gli strumenti derivati che hanno fornito protezione contro eventuali dissesti delle società, si verificheranno massicce perdite. Si valuta che le perdite potrebbero aggirarsi tra i 20 miliardi e i 250 miliardi di dollari, ma probabilmente la cifra si avvicinerà di più a quest´ultima stima.

9. Anche il «sistema finanziario ombra» (cioè composto da istituzioni non bancarie) si ritroverà presto nei guai. Questo sistema finanziario ombra è formato da istituzioni che, come le banche, ottengono prestiti a breve termine e in forme liquide, mentre concedono prestiti o investono a lungo termine in asset molto meno liquidi. Questo sistema include i Siv (i veicoli di investimento strutturati), i conduit (veicoli finanziari extra-bilancio), i fondi monetari, le assicurazioni mono-ramo, le banche di investimento, gli hedge fund e altri istituti finanziari non bancari. queste istituzioni sono tutte soggette al rischio di mercato, rischio del credito (dati i loro investimenti rischiosi) e, in particolare, al rischio di mancanza di liquidità legato al rinnovo delle scadenze debitorie, in quanto le loro passività a breve termine possono essere inventariate facilmente, mentre i loro asset sono a lungo termine e illiquidi. Diversamente dalle banche, queste entità non hanno accesso diretto o indiretto al sostegno delle banche centrali, neanche come fonte di finanziamento in extremis, in quanto non sono istituzioni depositarie. Così, di fronte a situazioni di difficoltà o di mancanza di liquidità, sono soggette al fallimento perché non sono in grado di procrastinare o rifinanziare le loro passività a breve termine. L´approfondirsi di questi problemi nell´economia e nei mercati finanziari, così come una inadeguata gestione del rischio, porteranno diversi di questi istituti a dover gettare la spugna..

10. I mercati azionari negli Stati Uniti e all´estero cominceranno a conteggiare nel prezzo delle azioni una recessione statunitense grave, invece di una lieve, e un deciso rallentamento dell´economia globale. La ripresa delle borse di fine gennaio sembra essere svanita, perché gli investitori hanno iniziato a rendersi conto che la crisi economica è più grave di quanto prospettato, che le assicurazioni mono-ramo non saranno facilmente salvate, che le perdite finanziarie continueranno a lievitare e che, in una recessione, si contrarranno drasticamente i guadagni delle aziende, e non soltanto quelle del settore finanziario. Alcuni hedge fund con quote di investimenti azionari alte falliranno nel 2008. Per quanto riguarda gli investimenti a maggioranza azionaria, la possibile ondata di richieste di integrazioni dei depositi in garanzia porterebbe a una ulteriore massiccia vendita di titoli azionari, dando il via a un effetto a cascata che dai mercati azionari degli Stati Uniti si trasmetterebbe a quelli globali. I mercati azionari statunitensi e del mondo entrerebbero quindi in un periodo persistente di mercato ribassista, dove la caduta dello Standard & Poor 500 potrebbe toccare il 28 per cento, come accade tipicamente negli Stati Uniti nei periodi recessivi.

11. La stretta creditizia che colpisce la maggior parte dei mercati del credito e dei mercati dei derivati del credito porterà a un prosciugarsi della liquidità in diversi mercati finanziari, tra i quali anche gli altrimenti molto liquidi mercati dei derivati. Ciò sfocerà in un´altra ondata di stretta creditizia nei mercati interbancari, innescata dal rischio che pongono le controparti, dalla mancanza di fiducia, dal costo della liquidità e dal rischio del credito e, di conseguenza, cresceranno una serie di tassi interbancari. Anche l´allentamento della stretta di liquidità, ottenuto con decise mosse delle banche centrali di dicembre e gennaio, perderà efficacia perché le preoccupazioni sul credito continueranno a mantenere larghi gli spread interbancari, nonostante ulteriori iniezioni di liquidità da parte delle banche centrali.

12. Ciò risulterà in un circolo vizioso di perdite, contrazione del capitale, contrazione del credito, liquidazioni forzate e svendite massicce di asset a prezzi inferiori ai fondamentali, portando a un ciclo di perdite e di ulteriore contrazione del credito sempre più lungo. Le perdite in conto capitale daranno luogo a ulteriori richieste di integrazione dei depositi di garanzia e a una iscrizione nei bilanci di asset e passività rimaste fino a quel momento fuori bilancio nel sistema finanziario ombra. L´evento che innescherà la successiva fase di questo fenomeno a cascata sarà l´abbassamento del rating delle assicurazioni mono-ramo e il conseguente veloce crollo dei mercati azionari, che, a loro volta, porteranno a ulteriori richieste di integrazione dei depositi e di iscrizioni a bilancio degli asset e delle passività rimaste fino a quel momento fuori bilancio.

La ricapitalizzazione delle banche da parte dei fondi sovrani d´investimento, che assomma finora a circa 80 miliardi di dollari, non sarà in grado di contrastare queste iscrizioni a bilancio di asset e passività rimasti fuori dai bilanci. Quest´inclusione nei bilanci delle voci rimaste fino a quel momento fuori, vale a dire, la trascrizione di queste voci dal sistema bancario ombra a quello ufficiale, causerà una nuova contrazione del credito, perché le perdite in aumento peseranno rispetto alla ricapitalizzazione delle banche da parte dei fondi sovrani con un margine molto più largo.

Questa spirale contagiosa e a cascata della iscrizione a bilancio di voci precedentemente tenute fuori, della contrazione del credito, della brusca caduta del prezzo degli asset e dell´allargamento degli spread creditizi si trasmetterà poi a quasi tutti i settori del sistema finanziario. La massiccia stretta creditizia renderà dunque la contrazione dell´economia ancora più grave cagionando ulteriori perdite finanziarie. Le perdite totali nel sistema finanziario potrebbero superare i 1.000 miliardi, acuendo, prolungando e aggravando la recessione economica. Con il diffondersi delle perdite e della stretta creditizia al resto del mondo, si arriverà a una recessione economica quasi globale. Gli Stati Uniti e i mercati finanziari globali vivranno la loro più gravi crisi degli ultimi 25 anni.

(traduzione di Guiomar Parada)

A metà marzo, alcune delle tappe preconizzate da Roubini si vanno realizzando. Alcune grandi banche statunitensi sono vicine al tracollo, come pure alcuni tra i maggiori Fondi di Private Equity. Ancora Roubini coglie il nodo di fondo: la necessità di salvare i "malfattori" per salvare il sistema:

«L´America sta vivendo la peggior crisi finanziaria dai tempi della Grande Depressione, e quel che è peggio è che si sta intervenendo con strumenti insufficienti e inadeguati». Nouriel Roubini, 50 anni, docente di economia internazionale alla New York University, è uno dei pochissimi economisti chiamato qualche giorno fa a dare la sua diagnosi e le sue ricette dal Congresso Usa. In quell´occasione ha espresso il suo pessimismo, e una profezia: almeno due grosse istituzioni finanziarie finiranno a gambe all´aria.

La Bear Stearns è la prima?

«Sì. Vuol sapere quale sarà la seconda? Non c´è che l´imbarazzo della scelta. Intanto io ho predetto che falliranno due maggiori istituzioni mentre molte minori già stanno conoscendo lo stesso destino. Ma la cura è spesso peggiore del male. Pochi giorni fa è uscita la stima che se la Bears Stearns aveva toxic waste (Roubini chiama così i titoli dall´incerta composizione e dal più alto rischio, ndr) per il 54,4% del suo capitale, la Lehman ne aveva per il 53,3. E indovinate cos´è successo subito dopo? La Lehman ha ricevuto una nuova linea di credito per 2 miliardi di dollari da parte di 40 banche».

Sembra una reazione logica. Non doveva essere salvata?

«Gli interventi di soccorso finanziario non risolvono il problema. Diffondono un panico generalizzato dando nel contempo la garanzia a chiunque che c´è qualcuno pronto a firmare un assegno in bianco per salvarti. Così vengono avallati i più incoscienti comportamenti».

La Fed però ha a cuore la stabilità del sistema...

«Intendiamoci, al punto in cui siamo è anche logico che si cerchi di tamponare una situazione che apre il rischio di un meltdown, di un disastro insomma. Ripeto, la crisi che si sta vivendo è di una gravità inaudita. Ma non bastano più gli interventi della Fed, i quali ormai si estendono a qualsiasi istituzione finanziaria e non più solo alle banche commerciali che sarebbero le uniche sulle quali ha la vigilanza e quindi un´esatta consapevolezza. Ha visto che la JP Morgan ha pagato 200 milioni per la Bear Stearns ma ha ricevuto 30 miliardi come fondo di dotazione per l´emergenza? Significa che la Fed non ha idea di che razza di voragine troverà. E questo caso rischia di ripetersi ancora e ancora. E´ successo qualcosa di sbagliato: la Fed, per la prima volta dagli anni ´30, si sta prendendo cura di tutto un sistema finanziario ombra che va dalle banche d´investimento agli hedge-fund, dalle società di gestione agli assicuratori, quando doveva vigilare solo sulle banche commerciali vere e proprie».

Sarà forse per l´emergenza?

«Certo, ma per gestire l´emergenza servono misure coordinate che coinvolgano il governo nella sua totalità. Le istituzioni ridotte come la Bear Stearns vanno nazionalizzate, rivendute le attività una ad una, e soprattutto licenziati i manager che invece così facendo non perdono nulla e continuano a giocare a golf e a bridge mentre dovrebbero essere trattati come dei malfattori».

Non le sembra un po´ pesante?

«E quello che hanno fatto loro? Hanno devastato il sistema finanziario americano, hanno preso rischi incredibili con una facilità sconcertante, hanno avallato le cartolarizzazioni più azzardate, e alla fine hanno distrutto un´enorme ricchezza».
Tutto questo si tradurrà in una recessione?
«E´ già cominciata, sotto la spinta di tre fattori: la crisi immobiliare, appunto la crisi sistemica del sistema finanziario strettamente correlata, e il blocco dei consumi che sono stati a lungo incoraggiati con il risultato che il risparmio si è azzerato e i soldi si sono bruciati».

E quanto durerà?

«Molto di più delle due precedenti, del 1992 e del 2001, almeno dodici mesi se non di più. E´ alto il rischio che si espanda in Europa: in Spagna e Gran Bretagna perché hanno anche loro la bolla immobiliare, in Italia per la forza dell´euro e la debolezza della domanda interna. Quest´ultima sono riusciti a svilupparla Francia e Germania, e per questo forse si salveranno».

La Bce però non tocca i tassi perché sostiene che l´unica cosa che deve tutelare, a differenza della Fed, è la stabilità monetaria. Regge ancora quest´assunto?
«Potrebbe rivelarsi insufficiente se la situazione continuerà a degenerare e l´euro sfonderà gli 1,60. Credo che verso l´estate anche la Bce comincerà ad abbassare i tassi».

Alla fine di marzo, il fantasma del 1929 comincia a prendere corpo. I più sono costretti ad ammettere che la crisi in corso è la più grave dopo quella che costò al mondo l'avvento del nazismo e che fu superata solo in "virtù" di una guerra mondiale.

Guido Rossi pubblica "Il mercato d'azzardo" nel quale sostiene che "il capitalismo finanziario è diventato incontrollabile" e che la crisi attuale è «più grave della crisi del ‘29». In una breve intervista, concessa a Walter Galbiati, egli illustra i motivi per cui si è arrivati al punto di non ritorno e i pericoli che ne derivano per la democrazia:

"Come è stato possibile arrivare a questo punto?

«Gli strumenti finanziari sono andati fuori controllo. Le autorità di vigilanza sono state costrette a peccare di negligenza per la complessità dei prodotti. Si doveva, invece, controllare chi li faceva».

Le leggi, quindi, non si sono mostrate adeguate?

«La crisi è iniziata con l´abolizione (avvenuta nel 1999 ndr) del Glass-Steagall Act, la norma introdotta dopo la crisi del ´29 che imponeva la separazione delle banche commerciali da quelle di investimento. E le origini si possono ravvisare in un episodio del ‘93, quando le prime dieci banche d´affari di New York vennero condannate a risarcire i danni creati dai loro stessi conflitti di interesse. Allora gli analisti consigliarono alle proprie reti commerciali di vendere titoli di società che da lì a pochi giorni sarebbero fallite. Fu un buco da 1,4 miliardi di dollari e solo 385 milioni tornarono nelle tasche dei risparmiatori».

Un gigantesco conflitto di interessi. Nessuno ha controllato ...

«Il capitalismo finanziario è stato più abile di tutti gli organismi di vigilanza. La Sec ha dovuto creare addirittura un nuovo organismo per controllare i bilanci, ma non è bastato».

Ma il libero mercato non si doveva regolare da sé?

«Il libero mercato non è più prodromico della democrazia, fu sbandierato da Milton Friedman a sostegno di Pinochet. Adam Smith prevedeva, invece, la necessità che lo Stato controllasse il mercato. Secondo una tesi di Robert Reich, contenuta nel suo libro "Supercapitalismo", prima della fine degli Anni 70 esisteva un capitalismo democratico. Dopo è iniziato il supercapitalismo, un periodo in cui la concorrenza sfrenata, pur abbassando i prezzi, ha affievolito la democrazia, i diritti di libertà, la sicurezza sul lavoro, la tutela dell´ambiente. Tutte le leggi si sono piegate alla volontà delle grandi corporation e delle grandi banche, che da sole hanno fatturati superiori a quelli di intere nazioni».

L'egemonia dell'economia rispetto al potere politico, però, negli ultimi anni ha superato il punto critico, al di là del quale il crollo del sistema è paventabile. Il pericolo di un crac a domino trova naturalmente il suo epicentro nel sistema bancario statunitense, che potrebbe collassare. L'articolo di Paolo Pontoniere a riguardo è documentato e inquietante:

"Com'è depressa quella BANCA

E se stessimo scivolando verso una nuova, grande depressione? Il timore fino a ora solo paventato sembra diventare più plausibile con ogni nuova notizia in arrivo dai mercati finanziari. Soprattutto da quando per salvare la Bear Stearns, una delle principali banche d'affari statunitensi che si trovava sull'orlo del tracollo, la Federal Reserve americana ha dovuto far ricorso a un'oscura legge approvata proprio durante gli anni del grande crollo economico. Infatti la banca centrale statunitense è obbligata per legge a fare prestiti solo alle banche tradizionali. Sono poi queste che fanno da interfaccia con istituzioni finanziarie come la Bear Stearns quando hanno bisogno di far ricorso al credito. Ma con l'iniziativa della settimana scorsa, la Fed per la prima volta dalla fine della grande crisi ha iniettato alcuni miliardi di dollari (30) nelle casse d'una istituzione che non è banca tradizionale. La Fed è stata inoltre decisiva nel convincere la JP Morgan, che invece è banca tradizionale, a rilevare la Stearns per 236,4 milioni di dollari. Non molto per un'istituzione che qualche giorno fa valeva oltre 14 miliardi di dollari.

Paradossalmente, la misura adottata dalla banca centrale Usa invece di alleggerire la situazione ha aggravato il quadro economico del Paese, interrompendo il recupero di Wall Street che era stato innescato proprio in quei giorni da un rapporto reso noto dalla Usb, la sesta banca americana. La Usb stimava per la prima volta con certezza la dimensione del buco dei subprime - posizionandolo a 600 miliardi di dollari - e dichiarava che il crollo finanziario dei mutui si stava apprestando finalmente a toccare il fondo. Seppure non escludendo ulteriori fallimenti, gli esperti della banca si dicevano convinti del fatto che ormai la dimensione dell'ammanco fosse stata appurata e che, terminate le sorprese, si avvicinava finalmente il momento di risalire la china. Questo avveniva sfortunatamente a ridosso della predizione formulata da Meredith Whitney, l'influente analista della Oppenheimer che aveva predetto la crisi del Citigroup, di un potenziale crollo del 50 per cento del valore dei i titoli bancari. La Whitney nella lista di quelli più a rischio ci metteva tra l'altro la Lehman Brothers, la Merrill Lynch e il Citigroup. Di li a poco la Ubs, la maggiore banca europea, aveva retrocesso da 'buy' a 'neutrale' il rating della Goldman Sachs, della Lehman, della Ameritrade, della Bank of New York Mellon, della State Street e della Ivesco. Così l'ottimismo iniziale s'è trasformato in disperazione. Neanche i 200 miliardi di dollari immessi d'urgenza dalla Fed nel mercato finanziario sono serviti a calmare la Borsa.

Secondo alcuni analisti, sarebbe proprio l'anomalo iperattivismo della Fed a creare le maggiori incertezze. La decisione di tagliare il tasso di sconto per ben due volte nel giro di tre giorni, una prima volta domenica 16 e una seconda martedì 18 (il costo del denaro è così sceso al 2,25 per cento) ha disorientato gli operatori. Difficile da metabolizzare è stata anche la scelta di creare una nuova agenzia incaricata di effettuare prestiti bancari d'emergenza ai 'primary trader'. "La Fed si comporta come un pollo al quale sia stata tagliata la testa", dice John Norris, direttore della Oakworth Capital Bank, una banca privata di Birmingham: "Le sue mosse sembrano dettate dal panico; è come se stesse giocando a Monopoli, gettando denaro sul mercato alla rinfusa".

In verità, da questo punto di vista la Fed non sta badando a spese. Oltre ai 30 miliardi sborsati per garantire lo scoperto della Bear Stearns, dall'inizio dell'anno la banca centrale statunitense ha immesso oltre 300 miliardi di dollari nel sistema finanziario, ma questi, se le cifre che girano sulla dimensione del buco sono affidabili, potrebbero rivelarsi solo una goccia in un mare di debiti. Secondo calcoli resi noti da George Magnus (consulente della Ubs) e Nouriel Roubini (fondatore della Roubini Global Insight), la voragine creata dalla crisi dei subprime potrebbe aggirarsi tra i mille e i 3 mila miliardi di dollari.

Se le cifre prospettate dai due economisti sono preoccupanti, quelle stimate da Stephen Roach, direttore della Morgan Stanley Asia, sono terrificanti. Secondo Roach, negli ultimi sei anni si sarebbe creata una bolla derivati, a livello mondiale, pari a 45 mila miliardi di dollari. Nessuno sa se finiranno con il tramutarsi in perdite, e come e quando questo potrà accadere. E se ciò non bastasse, c'è il rischio downgrading di oltre 700 delle maggiori aziende planetarie paventato da Standard&Poor's. Tra queste ci sono anche le 20 banche statunitensi che funzionano da sportello prestiti - i 'primary trader' - della Fed. Istituzioni come il Citigroup Global Markets Inc., la Merrill Lynch, la Morgan Stanley & Co. Incorporated e la JP Morgan. Quest'ultima, se la stretta creditizia dovesse protrarsi nei mesi a venire, potrebbe in breve finire anch'essa sul blocco delle svendite.

Tutto questo peraltro avviene mentre si acuisce il timore che nelle pieghe dell'economia internazionale si stiano formando altre bolle, in particolare quella relativa alla possibilità che le commodity subiscano nel corso di quest'anno un tracollo del 40 per cento. Un'altra bolla, secondo gli analisti dell'istituto Zacks Equity Research, potrebbe emergere da una improvvisa fuga degli investitori dalle T-notes. I titoli di Stato statunitensi a scadenza triennale e quinquennale finora sono serviti da bene di rifugio agli operatori internazionali, che però potrebbero abbandonarli alla ricerca di investimenti più redditizi: il loro rendimento è ai minimi storici.

Ai dati strutturali della crisi si aggiungono poi anche quelli di carattere psicologico e le manipolazioni informative. A sentire David Trone, analista della Fox-Pitt Kelton Cochran Caronia Waller, banca d'affari specializzata in investimenti globali, la Bear Stearns sarebbe stata travolta proprio da questi fattori. "Se una ditta solida può essere sbancata dai 'venditori di paura', nessun operatore è più sicuro fino quando non si approvano leggi per proibire la disinformazione", ha scritto Trone in una lettera ai suoi clienti.

L'intervento governativo a questo punto viene reclamato a viva voce da diversi esponenti del mondo economico. Robert Rubin e Lawrence Summers, entrambi ministri del Tesoro nell'amministrazione Clinton, hanno chiesto al governo Usa di acquistare i mutui a rischio. Cresce infatti il numero delle case definite tecnicamente sott'acqua (quando il loro valore di mercato è inferiore a quello del mutuo), cosa che spinge i propietari ad abbandonarle. Martin Feldstein, consigliere di Reagan, propone invece di autorizzare la Fed a emettere prestiti a tassi agevolati ai propietari di casa. I finanziamenti verrebbero usati dai consumatori per ridurre la loro esposizione e rifinanziare il prestito.

All'esperienza della Grande Depressione attinge anche una proposta lanciata da un gruppo bipartisan di economisti Usa. Prevede la formazione di un'agenzia che si faccia carico di rilevare i mutui in protesto a prezzi scontati per riemetterne di nuovi e più convenienti. La Fed intanto ha introdotto strumenti nuovi per far fronte alla crisi. Tra questi ci sono le Term Auction Facility e le Term Securities Lending Facility, che permettono alle banche di fare debiti con la Fed, offrendo come garanzia proprio le Mortgage Backed Securities. "Questo significa che se le banche dovessero mancare di onorare il loro debito, la Fed finirà col rilevare i subprime cedolizzati nelle MBS", afferma Nariman Behravesh, analista capo della Global Insight: "A mio parere si tratta di una soluzione moderna per una crisi di carattere moderno. Usando questi strumenti la Fed può travalicare il limite imposto dall'uso della semplice leva valutaria".

Tradizionalmente le riduzioni dei tassi di interesse ci impiegano dai 12 ai 18 mesi per influenzare l'output finanziario. Nel caso delle Taf e delle Tesfel la Fed opera in territorio sconosciuto. Bernanke scommette che l'uso di questi strumenti gli permetterà di rivitalizzare il credito senza alimentare l'inflazione. E chissà se avrà ragione."

2.

La situazione, in breve, è chiara dunque, per quanto concerne le cause della crisi, ma del tutto incerta per quanto riguarda gli sviluppi futuri. Solo Ben Stein e Roubini, per altro, hanno il coraggio di rilevare un fatto di estrema importanza: le crisi economiche comportano sempre ingenti perdite per qualcuno ma altrettanto ingenti guadagni per qualcun altro. Sono insomma trasferimenti di denaro, di solito da chi ha di meno a chi ha di più, che equivalgono a furti di massa legalizzati.

Ho espresso lo stesso concetto negli articoli dedicati alla crisi borsistica del 2001, sottolineando il vezzo degli economisti che, di fronte ai crolli dei valori azionari, fanno sempre riferimento a capitali bruciati e andati in fumo. Questo di solito è vero per i piccoli investitori, ma, quando la crisi sopravviene, qualcuno ha già speculato sulla loro ingenuità e imprevidenza. Parlare di malfattori è del tutto giustificato sia da un punto di vista morale che penale. Il problema è che, ora, a differenza di quanto accaduto dopo la crisi borsistica, che portò in carcere alcuni CEO, sono stati costretti alle dimissioni solo pochi manager, peraltro premiati per le loro imprese con liquidazioni esorbitanti. L'inerzia del potere giudiziario è giustificata dal fatto che la crisi in atto, per ora, viene attribuita alle leggi di mercato che, per quanto inique, non sono imputabili. In realtà, c'è una paura diffusa di avviare indagini sull'accaduto e di identificare colpe imputabili sul piano penale, perchè tutti sanno che, in questo caso, si scoperchierebbe la pentola di un sistema all'interno del quale l'illegalità è divenuta norma.

Per capire un po’ meglio quello che sta accadendo, occorre partire da una considerazione preliminare. L’economia, che è una scienza sui generis, estremamente capace sul piano dell’elaborazione statistica dei dati, ma sempre in difficoltà sul piano dell’interpretazione teorica, ama le metafore mediche. Dalla crisi del 1929, si parla costantemente di economia sana o malata come se il sistema economico fosse un organismo. In difetto di una concettualizzazione più profonda, vale a dire quella fornita da Marx, che fa riferimento ai rapporti di produzione come rapporti sociali che implicano un diverso potere degli agenti economici sulla proprietà e sull’uso dei mezzi di produzione, la metafora medica può avere un senso. Il problema è che coloro che la adottano non specificano mai che cosa intendono precisamente per stato di salute o di malattia del sistema economico o, meglio, lo specificano ma in maniera impropria. Per quanto riguarda lo stato di salute, essi intendono l’efficienza produttiva del sistema, la sua capacità di produrre ricchezza. In breve, fanno riferimento al PIL, che è un indice estremamente ingannevole poiché esso prescinde dalla genesi della ricchezza, che implica, per esempio, anche l’industria delle armi e addirittura quella del crimine, e poiché, nella sua genericità, pone del tutto tra parentesi la distribuzione della ricchezza stessa.

Si dà insomma come scontato che un sistema economico efficiente è in sé e per sé sano. In conseguenza di questo assunto, la malattia viene ricondotta ad uno spreco delle risorse produttive, al fatto cioè che esse rimangono inutilizzate. Esistono malattie mediche riconducibili ad una causa del genere? Di fatto esistono, ma sono poche. Un esempio classico è quello di anemie nelle quali il tasso di ferro nel sangue risulta normale, ma esso non viene utilizzato a livello dei centri di produzione della emoglobina. Accade qualcosa del genere nel corso delle crisi economiche? Per qualche aspetto sì, se si fa riferimento al fatto che si tratta in genere di crisi da sovrapproduzione. Il mancato utilizzo delle risorse, però, dipende di solito dal fatto che i consumatori, pur desiderandole, non hanno denaro sufficiente per acquistare le merci. La contrazione del consumo finisce, poi, per rallentare la produzione e innescare la spirale della depressione o della recessione.

La crisi attualmente in corso si inquadra solo in parte in una “patologia” del genere. E’ senz’altro vero che i consumi, particolarmente negli Stati Uniti, stanno rallentando, ma questa sembra una conseguenza di un’iniqua distribuzione della ricchezza. Le cause dei crescenti squilibri sociali nella distribuzione del reddito sono note e coincidono con un’organizzazione del sistema capitalistico che promuove la concentrazione di capitali verso l’alto della scala sociale. Occorrerà ripetere che, negli Stati Uniti, il rapporto tra reddito lavorativo di un operaio e quello di un manager nel giro di quindici anni è passato da 1 a 20 a 1 a 100?

Per descrivere questa patologia c’è un solo riferimento pregnante in ambito medico, ed è quello del cancro. Malattia singolare, essendo caratterizzata dal fatto che le cellule cancerogene prendono a svilupparsi ad un ritmo incredibile, finiscono con l’assorbire tutte le energie dell’organismo e si diffondono metastaticamente, invadendo tutto l’organismo. Si tratta, insomma, di una malattia che comporta uno sviluppo a tasso elevatissimo di un ceppo di cellule che porta a morte l’organismo.

Ho già fatto presente che questa metafora è implicita nell’analisi di Marx del sistema capitalistico, che lo ha portato a prevedere gli effetti della mondializzazione con un secolo e mezzo di anticipo.

Che Marx non sia citato da nessuno degli analisti, anche tra i più attenti, è un segno dei tempi. La rimozione ha un carattere superstizioso: dare ragione, almeno sul piano della diagnosi a Marx, equivale a far suonare la campana a morte sul sistema. Una prospettiva intollerabile, anche perché, nel corso di questi anni, nessuno si è preoccupato di elaborare un progetto alternativo.

L’articolo di Rubini, che profetizza un possibile disastro sistemico, è di particolare interesse.

Che cosa può scongiurarlo evitando che il mondo precipiti in una spirale disgregativa i cui effetti sono imprevedibili?

La cosa migliore, naturalmente, sarebbe prendere atto di una disfunzione intrinseca al sistema capitalistico e programmare un suo lento e graduale superamento in nome di un nuovo modello che vincoli il capitale al lavoro e privilegi i bisogni sociali più dell’onnivora pretesa del denaro di valorizzare se stesso. Non c’è però alcun segnale che possa far prevedere una cosa del genere, dato che essa postulerebbe una coalizione internazionale orientata a portare l’umanità fuori dalla sua preistoria. La situazione attuale è di quattro blocchi (Usa, Europa, India e Cina, Russia) in aspra competizione tra loro per assicurarsi l’egemonia mondiale, a cui occorre aggiungere la variabile dell’Islam, che partecipa al gioco solo in virtù delle riorse petrolifere, aggiungendo un fattore di grave instabilità.

E’ probabile, dunque, che la soluzione sia quella che si va profilando all’orizzonte soprattutto negli Usa: abbassamento graduale ma consistente dei tassi di interesse da parte della Banca centrale e intervento massiccio dello Stato per salvare, col denaro pubblico, le banche e le agenzie finanziarie il cui fallimento precipiterebbe l’economia in una spirale recessiva. Il primo rimedio creerebbe di nuovo una liquidità eccessiva che riattiverebbe le spinte speculative; il secondo, di fatto, premierebbe i responsabili dell’attuale disastro (direttori di banche, manager societari e finanziari) confermando che, nella cornice dell’attuale sistema, chi vuole farsi i fatti propri, arricchendo a danno degli altri, deve farlo su scala macroscopica, nel senso di speculare a proprio vantaggio aprendo voragini tali da costringere lo Stato ad intervenire a tutela dell'interesse pubblico.

Sembra una follia, ma è una follia del sistema, come nota lucidamente Federico Rampini su Repubblicail 15 marzo:

"SALVARE I RICCHI

È la conferma di una vecchia regola: se hai mille dollari di debito è un problema tuo, se hai un buco di un miliardo è un guaio per gli altri. Da una parte c' è lo stillicidio di bancarotte individuali: qualche milione di famiglie di "nuovi poveri" in America non riescono a pagare le rate del mutuo e si vedono pignorare la casa. A loro Washington riserva un' elemosina: assegni di 600 dollari (1.500 per le coppie) che arriveranno nella cassetta delle lettere troppo tardi, quando l' ufficiale liquidatore avrà già venduto la casa all' asta giudiziaria. Nel frattempo alcuni di loro saranno rimasti senza reddito, perché la recessione già riduce i posti di lavoro. La Casa Bianca predica fiducia. Bush assicura che quegli assegni - una goccia nel mare dei debiti accumulati dalle famiglie - serviranno a "rilanciare i consumi". Giusto così: non s' è mai visto che un governo drammatizzi la situazione, col rischio di creare panico e di peggiorare la crisi già in atto. Ma basta che la maxibanca d' affari Bear Stearns rischi il fallimento, e i toni cambiano. Il salvataggio deve essere immediato. L' emergenza lo impone. Si organizzano cordoni di soccorso pubblico e privato. Scende in campo la Federal Reserve con i potenti mezzi di una banca centrale, chiama a raccolta la solidarietà dei banchieri privati. Quando ce n' è veramente bisogno, si può star certi che il settimo cavalleggeri arriva in tempo."

Con il denaro, naturalmente, dei cittadini.

Non è detto che questa soluzione funzionerebbe. Potrebbe più facilmente creare una situazione atta a permettere al sistema di fare un nuovo giro sull’ottovolante della speculazione selvaggia, giungendo in pochi anni allo stesso punto. Qualche segnale in questa direzione già c'è se si considera il massiccio spostamento dei capitali finanziari sulle materie prime, in primis naturalemnte il petrolio.

Tutto ciò mette in luce un paradosso di grande interesse. Il neoliberisimo si è inaugurato all’insegna di una progressiva riduzione dell’intervento dello Stato in ambito economico. Nella cornice neoliberista, lo Stato dovrebbe ridursi a regolare, attraverso la Banca centrale, il flusso della liquidità, ad alleggerire progressivamente il carico fiscale, a snellire e rendere efficienti i servizi pubblici e a stabilire le regole del gioco capitalistico.

Quando, però, si profila una situazione di crisi, tutti i neoliberisti, compresi quelli che stanno al governo, diventano repentinamente neokeynesiani: si appellano insomma allo Stato come istituzione che deve risolvere i problemi prodotti dalla violazione delle regole del gioco e, naturalmente, porre altre regole che possano essere violate.

Occorre una riflessione storica su questo singolare paradosso.

3.

Se la storia insegna qualcosa è che valori elevati, espressivi presumibilmente di bisogni intrinseci alla natura umana, innescano spesso rivoluzioni che, nel corso del tempo degenerano. Questo principio si può applicare univocamente, nel contesto della nostra civiltà, al Cristianesimo, al Liberalesimo e al Comunismo. Tutti e tre si richiamano all’uguaglianza, alla libertà e alla giustizia, intese e declinate in maniera diversa.

L’uguaglianza cristiana fa riferimento alla fraternità, all’essere tutti gli uomini figli di Dio dotati della stessa dignità e degli stessi diritti. Questo valore ha posto il Cristianesimo originario in rotta di collisione con il regime schiavistico, che implicava la proprietà dell’uomo sull’uomo. In quanto creatura divina, l’essere umano non ha altro padrone che Dio padre. Egli può dunque rivendicare la libertà da qualunque potere mondano che coarti la sua dignità. La libertà cristiana è l’adesione del credente al volere divino.

La degenerazione della rivoluzione cristiana si realizza con l’ordinamento feudale che cristallizza una struttura sociale gerarchica che definisce lo status di nascita come espressivo dell’imperscrutabile volontà divina. Se il ricco e il povero nascono tali per decisione di Dio, la giustizia sociale non ha altro senso che non sia riconducibile alla carità, vale a dire alla sensibilità spontanea che i ricchi devono avere nei confronti dei poveri in nome del richiamo al messaggio evangelico.

L’uguaglianza liberale fa riferimento ai diritti naturali dell’uomo, che implicano l’affrancamento da una gerarchia di status in nome di potenzialità individuali che non possono essere vincolate alla casualità dei natali. In questa ottica, la libertà individuale è la possibilità di perseguire, attraverso il lavoro, l’autorealizzazione e la giustizia si pone come meritocrazia.

La degenerazione della rivoluzione liberale si realizza sotto forma di un sistema economico che definisce il mercato del lavoro come incontro tra agenti liberi che contrattano il loro rapporto reciproco, ma pone gli uni – i proprietari dei mezzi di produzione – in una situazione di vantaggio e gli altri – i lavoratori – nella condizione di dovere accettare che la loro forza-lavoro sia acquistata come una merce da sfruttare.

L’uguaglianza comunista raccoglie dal liberalesimo il tema delle pari opportunità e della meritocrazia, ma contesta l’ordine della natura ritenuto iniquo in quanto distribuendo le potenzialità casualmente, privilegia alcuni e handicappa altri. Data tale contestazione, lo Stato distribuisce la ricchezza in maniera tale da compensare gli squilibri naturali e da ripagare coloro che, pur meritevoli, dispongono di minori potenzialità di sviluppo. In questa ottica, la giustizia sociale si riconduce al principio secondo il quale a ciascuno occorre dare secondo i suoi bisogni e a ciascuno occorre richiedere ciò che gli può fare in base alle capacità di cui dispone.

La degenerazione comunista si realizza nel momento in cui una rigida struttura sociale, ritenuta necessaria per arginare gli “spiriti animali” prodotti dalla civiltà borghese, passivizza i cittadini e li trasforma in esseri i cui bisogni di sicurezza minimali vengono perseguiti delegandone la soddisfazione allo Stato. In conseguenza di questo, si definisce una mortificazione universale del bisogno di individuazione, che sottrae alla costruzione del socialismo un capitale di energie creative immenso.

Il tema dell’articolo rende necessario soffermarsi sulla rivoluzione liberale per approfondire la contraddizione ad essa intrinseca tra capitalismo e democrazia. Il liberalismo, infatti, rappresenta la cornice ideologica all’interno della quale il capitalismo ha potuto sprigionare i suoi “spiriti animali”, ma la sua espressione immediata sul piano politico è la democrazia.

Data la comune origine storica, il nesso tra capitalismo e democrazia appare scontato. Di fatto non lo è. Il capitalismo è una dottrina economica che postula uno Stato liberale che rispetti la libertà degli agenti economici e ponga le regole giuridiche di una corretta competizione tra essi. Tale postulato, però, contrasta con il fatto che il capitalismo ha un incoercibile vocazione monopolistica, tende cioè a sovrapporre alle regole del gioco l’interesse supremo del denaro che, per valorizzare se stesso, ha bisogno di subordinare quelle regole alle sue leggi.

La tendenza monopolistica del capitalismo è in aperto contrasto con lo spirito della democrazia, che, come ha intuito per primo Tocqueville, postula l’uguaglianza dei diritti tra i cittadini e, dunque, l’abbattimento di ogni iniquo privilegio. Il monopolio, vale a dire la possibilità di determinare i prezzi al di sopra della legge del mercato, mortifica e viola l’uguaglianza.

Il conflitto tra capitalismo e democrazia si è tenuto in equilibrio instabile fino all’avvento della globalizzazione perché l’attività economica locale ha dovuto sempre fare i conti con il potere locale, con lo Stato nazionale. Nonostante i suoi limiti, riconducibili al non potere usare al massimo grado la leva della distribuzione della ricchezza (limiti che hanno dato origine alla socialdemocrazia), lo Stato liberale ha sempre identificato nel monopolio del capitale una minaccia vitale e l’ha sempre contrattato. Nella patria del capitalismo, gli Usa, la legislazione antitrust è stata sempre severissima ed è valsa a smantellare a più riprese Società che avevano o tendevano a stabilire il monopolio.

Con l’avvento della deregulation, il vento ha cominciato a spirare a favore del capitale e dei suoi bisogni. Con l’avvento della globalizzazione, il potere economico, potendo avvalersi del libero flusso dei capitali, ha sormontato il potere di controllo del governo nazionale e si è autonomizzato rispetto ad esso.

La democrazia rimane come regime formale, ma si va progressivamente svuotando del contenuto suo proprio di regime che, sancendo l’uguaglianza dei cittadini, pone le premesse di una graduale affermazione della giustizia sociale.

Il capitalismo globalizzato, insomma, sta minacciando, come una serpe in seno, il sistema politico che lo ha generato e ha permesso ad esso di svilupparsi.

E’ questa la chiave delle crisi economiche che si stanno succedendo dalla fine del secolo scorso. E’ questa anche la chiave che spiega il progressivo spostamento dell’elettorato verso il conservatorismo di destra. I cittadini, la cui precarietà è dovuto alla globalizzazione, avvertono la minaccia che grava sulle loro teste, ma, non essendo in grado di analizzarne le cause, chiedono allo Stato di risolvere i loro problemi e di tutelare i loro privilegi. Essi non sanno che lo Stato liberale è ormai subordinato al potere economico e ben poco può contro i capitali finanziari e l’enorme massa d’urto delle multinazionali.

La crisi economica, dunque, si concluderà o con una crisi irreversibile del sistema capitalistico o con una crisi dagli esiti imprevedibili della democrazia. L’asserzione è grave. mi auguro che i fatti la smentiscano.