Il capitalismo globalizzato e il potere politico

1.

In occasione delle recenti elezioni regionali in Italia, contrassegnata da una vittoria schiacciante del centro-sinistra, nessun commentatore ha sottolineato un paradosso denso di significato. Per la seconda volta, un governo presieduto da un premier imprenditore, con un programma manifestamente neo-liberista (per quanto temperato dal rifiuto, almeno verbale, di Alleanza nazionale di rinunciare ad una sua vocazione sociale, identificandosi, per alcuni aspetti, con la compassionevole destra americana), fallisce sul piano che avrebbe dovuto rappresentare il suo punto di forza: quello economico.

La prima volta, nel 1994, il fallimento è stato attribuito alla brevità del governo, durato solo un anno, che avrebbe impedito di portare avanti un progetto riformistico radicale, incentrato sostanzialmente sulle privatizzazioni, sulla riforma delle pensioni e sulla diminuzione progressiva del potere del sindacato. L'analisi non era esauriente. Quello che, di fatto, si verificò nel corso di quell'anno, fu la fuga dei capitali stranieri dalla Borsa italiana, con una pesante ricaduta sugli investimenti. Il secondo fallimento, al quale il governo di centro-destra pensa di rimediare per recuperare il terreno perduto e presentarsi alle elezioni politiche del 2006 con qualche chance di successo, è stato attribuito dal Presidente stesso del Consiglio ad una sfavorevole congiuntura economica, dovuta all'attentato dell'11 settembre negli Stati Uniti e ai problemi che da esso sono derivati: il tracollo delle Borse, l'insicurezza internazionale, la paura dei cittadini in rapporto al futuro, ecc. Anche quest'analisi è carente.

Intanto perché, come tutti sanno, la crisi delle Borse, dovuta ad una mostruosa bolla speculativa statunitense, si è avviata almeno sei mesi prima dell'attentato alle Torri Gemelle. Era dunque già in atto allorché lo schieramento del Polo si presentò alle elezioni del 2001 con un programma che prevedeva, per l'Italia, un miracolo economico equivalente a quello realizzatosi negli anni ë60.

In secondo luogo, la congiuntura internazionale non ha inciso allo steso modo in tutti i Paesi occidentali: in Italia essa ha avuto le conseguenze peggiori, con un'economia che ormai è ferma, in odore di recessione, e con una preoccupante e progressiva perdita di competitività sui mercati. Che il governo di centro-destra abbia operato male su di un piano economico, come ho illustrato in un precedente articolo, è ormai noto a tutti. C'è dunque un'indubbia responsabilità politica nella crisi in atto.

Quello che i commentatori non hanno rilevato è il paradosso per cui un Presidente del Consiglio esplicitamente liberista, che ha realizzato un'alleanza privilegiata (e servile) con gli Stati Uniti e il capitale internazionale, una quota consistente del quale è per l'appunto americano, è stato ciò nondimeno penalizzato dai mercati, che hanno diminuito piuttosto che incrementato i loro investimenti in Italia. Si potrebbe pensare che ciò dipenda solo dallo scarso credito di cui gode, nonostante la sua fama di imprenditore di successo, il Presidente del Consiglio presso gli investitori istituzionali finanziari internazionali. Tale discredito è confermato dagli attacchi pesanti che sono sopravvenuti nei suoi confronti da parte della stampa la più accreditata sul piano economico: l'Economist, il Wall Street Journal, il Financial Times. Pur potendosi considerare indubbio, questo fattore, però, non basta a spiegare la crisi italiana.

A mio avviso - questo è il tema dell'articolo - essa, che in parte deve essere ricondotta alla politica economica del governo, è l'indizio di un turbamento più profondo che pervade i mercati internazionali, il quale lascia pensare che la crisi del capitalismo inaugurata dal tracollo delle Borse sia di ordine strutturale (dunque epocale) più che congiunturale. Parlo di crisi strutturale non perché preveda il crollo del sistema capitalistico, che i marxisti ortodossi auspicano e aspettano da settant'anni e più a questa parte. Si tratta piuttosto, a mio avviso, di una crisi che si risolverà e in una certa misura si sta risolvendo) solo con una riorganizzazione del sistema ad un livello peggiore rispetto a quello precedente: peggiore, naturalmente, per i lavoratori e i cittadini medi dei paesi occidentali (oltre che per gli abitanti dei paesi sottosviluppati), non per i capitalisti.

2.

Sul piano apparente, eccezion fatta per l'insicurezza dei cittadini, non sembra che le cose vadano tanto male. L'economia americana, che continua a tirare, si è attestata su di una crescita che oscilla tra il 3 e il 4%. Si tratta, come ho cercato di dimostrare altrove, di una crescita drogata, che avviene sulla base di un indebitamento progressivo pubblico e privato. Ma pur sempre di una crescita si tratta, e c'è chi confida che essa possa incrementarsi ulteriormente, concedendo alla Banca Centrale americana di rialzare gradualmente i tassi d'interesse senza attivare il rischio della recessione.

L'Europa è in affanno, con un tasso di crescita che è la metà di quello statunitense. Ma, se essa perde di competitività rispetto ai paesi emergenti (Cina, India), guadagna rapidamente terreno in termini di competitività sugli Stati Uniti. In previsione, eccezion fatta per un declino inarrestabile del dollaro e per un aumento vertiginoso del prezzo del petrolio, questo dovrebbe significare il mantenersi di un forte flusso di esportazioni verso gli Stati Uniti.

Di una crisi indubbiamente si tratta, tanto più se si pensa all'euforia che pervadeva il mondo occidentale alla fine degli anni Novanta. Ma, in apparenza, sembra una classica crisi congiunturale destinata a risolversi, come tutte quelle che l'hanno preceduta, con un ulteriore balzo in avanti del capitalismo. Quali elementi, dunque, corroborano l'ipotesi che si tratti di una crisi strutturale? L'elemento essenziale è di natura paradossale, poiché fa capo alla tenute delle Borse occidentali. Il crollo borsistico del 2001, come noto, ha spazzato via un buon 70% di capitali investiti speculativamente negli ultimi anni Novanta, e trasformatisi poi in una bolla di enormi proporzioni. Le Borse però si sono lentamente riprese, e hanno cominciato una lenta ma graduale marcia in avanti. Non si tratta certo più della galoppata trionfale del passato, e qualche segnale inquietante periodicamente affiora sotto forma di caduta repentina dei valori azionari. Il trend però nel suo complesso è positivo. Se si assume la Borsa come termometro del capitalismo, l'andamento dei titoli sembra attestare una salute almeno discreta o, nella peggiore delle ipotesi, una convalescente.

Che cosa porta a pensare che potrebbe trattarsi dell'incubazione di una "malattia" è presto detto. La tenuta delle Borse non ha quasi più alcun rapporto con l'economia reale. Essa invece si fonda sull'aspettativa degli investitori che le cose vadano male, o addirittura che sopravvenga una recessione: si aspettano qualcosa che è nell'aria. Tale aspettativa tiene su i valori di borsa per due motivi. Il primo è che, eccezion fatta per il settore immobiliare, che è già saturo e in preda ad una bolla speculativa, i capitali, che rappresentano un'enorme massa di liquidità, non sanno dove andare. Non potendo rinunciare alla logica del profitto, essi si dirigono in borsa puntando sul fatto che, corroborati dal loro apporto, indipendentemente o quasi dalla salute delle aziende, i titoli tenderanno ad aumentare sia pure lentamente, Un nuovo gioco speculativo? Ma certo, considerando che, nonostante la discesa catastrofica del 2001, molti analisti finanziari sostengono che gli attuali valori di Borsa sono già sovrastimati di un buon 30%.

Il secondo motivo è che, se le cose dovessero andare male, e le economie scivolare in recessione, nessuna banca centrale al di qua e al di là dell'Atlantico oserà innalzare i tassi di interesse. Questo per gli investitori significa che il denaro continuerà a costare poco. Cosa di estrema importanza per loro, visto che il costo del denaro ormai, dato il carattere speculativo dei giochi di Borsa, è la variabile indipendente: indipendente, ovviamente, in rapporto all'economia reale. In quest'ottica, il ruolo della liquidità non può essere minimizzato. Il neoliberismo, che ha quasi del tutto debellato il keynesismo, ha enfatizzato al massimo grado tale ruolo. L'effetto delle politiche neoliberiste, in massima misura negli Stati Uniti, ma in misura rilevante anche in Europa, è stato quello di agevolare, nel corso degli anni Novanta e con una progressione geometrica nei primi anni del nuovo millennio, la concentrazione dei capitali e di mantenere, attraverso i bassi tassi di interesse, i tagli fiscali, ecc., una quota imponente di liquidità.

Il principio su cui si basava (e si basa) tale strategia è che i capitali, concentrati e quindi meglio utilizzabili dagli operatori istituzionali, dovessero confluire nella direzione degli investimenti. E' accaduto, invece, che una quota sempre più consistente di capitali abbia imboccato la via della speculazione finanziaria: una via che produce denaro dal denaro senza passare attraverso la produzione. Capitali produttivi e capitali finanziari non sono due entità diverse: è l'uso che li differenzia, il quale dipende solo dalla volontà di chi li possiede. Ed eccoci dunque al paradosso di fronte al quale si trova il sistema capitalistico e i governi che riconoscono l'economia del mercato neoliberista. Se, per evitare di penalizzare gli investimenti produttivi, si tengono bassi i tassi di interesse, è impossibile scongiurare il capitalismo finanziario, il cui obiettivo ormai dichiarato è di trasformare in bolla speculativa qualunque bene (mobiliare o immobiliare) cui dedica interesse. Per non rallentare la produzione, occorre accettare che, in una qualche misura, l'economia sia drogata. Se, viceversa, s'intende porre fine al gioco delle tre carte speculativo, occorre rialzare nettamente i tassi di interesse, aumentando il costo del denaro e restringendo con una certa decisione la liquidità. Questa terapia, però, rischia di fermare la crescita economica e di indurre la recessione. Essa, tra l'altro, non sarebbe neppure risolutiva, perché, come accennato, in caso di recessione, gli speculatori, sia pure con capitali ridotti, continuerebbero a fare i loro giochi: a tenere su artificialmente i valori di borsa, del tutto indipendentemente dall'economia reale.

C'è un rimedio a questa situazione che, anche se i cittadini non se ne rendono conto, equivale a giocare a palla con il loro futuro immediato? Il rimedio, sulla carta, è una lentissima crescita dei tassi di interesse, sul modello della ricetta che sta adottando Greenspan negli Stati Uniti. Tale lentezza dovrebbe infatti non penalizzare in maniera rilevante gli investimenti produttivi e frenare in qualche misura la speculazione. In quale misura? Questo è il problema. Nonostante nessun politico voglia riconoscerla, la verità è che la globalizzazione neoliberista ha creato una situazione tale per cui l'incidenza del potere politico, che non può andare al di là dei confini nazionali, sull'economia dispone ormai di margini ridottissimi. Il neoliberismo di fatto ha esautorato lo Stato dal piano economico, tranne che per gli interventi, come i tagli fiscali, che di fatto concorrono ad aumentare la liquidità. E' la subordinazione del potere politico nazionale al potere economico internazionale il dramma del nostro tempo. Non è detto che questa debba essere l'ultima fase di sviluppo del capitalismo: di fatto, è però la più insidiosa.

3.

Torniamo dunque nell'orizzonte nazionale. Il Presidente del Consiglio ha ragione nel sostenere che la crisi economica italiana va inquadrata nel più ampio contesto della crisi internazionale. Il paradosso però è che egli fa riferimento a quest'ultima come se fosse il prodotto di fattori esogeni (il terrorismo, il rialzo del prezzo del petrolio, ecc.). In realtà come ho tentato di argomentare, essa riconosce la sua matrice proprio nei principi del neoliberismo che il presidente del Consiglio ha tentato con scarso successo di introdurre e praticare in Italia. E' la crisi insomma del suo stesso modello di riferimento che gli si ritorce addosso, anche se egli, fautore delle magnifiche sorti e progressive del capitalismo, non se ne rende conto. Ha inteso curare la peste del capitalismo finanziario con il vaccino del suo credito personale di imprenditore che, come attestano i fatti accertati dai tribunali, è stato acquisito appunto con un uso piuttosto spregiudicato dei capitali sottratti al controllo nazionale. Neppure questo, però, basta a giustificare la regressione economica dell'Italia sul piano produttivo e competitivo.

C'è da giurare che il Presidente del Consiglio abbia giocato tutte le sue carte, soprattutto attraverso il rapporto privilegiato con l'"amico" Bush, per attirare capitali stranieri in Italia. Quali carte? Probabilmente la previsione che un andamento favorevole dell'economia italiana avrebbe potuto permettere al governo di centro-destra di rimanere al potere almeno fino al 2011 e di portare a compimento le riforme auspicate dal capitale: i tagli fiscali, pagati al prezzo di una riduzione delle spese sociali, la riforma delle pensioni, con ulteriori sgravi alle aziende, la liberalizzazione del mercato del lavoro con la messa fuori gioco del potere sindacale. Portate a termine queste riforme, l'Italia sarebbe potuta divenire per gli investitori una vera e propria area di colonizzazione neoliberistica. Che cosa non ha funzionato di questa strategia? Perché i capitali sono rimasti sordi alla sirena di uno, come il Presidente del Consiglio, che di uso disinvolto degli stessi se ne intende parecchio? La risposta è semplice.

Rivolgendosi a Bush, vale a dire all'uomo a capo dell'economia più potente della terra, il Presidente del Consiglio non ha considerato che, nel quadro del capitalismo globalizzato, anche Bush è una pedina dell'ingranaggio. Può, cioè, favorire i capitali, consentirne l'accumulazione e la concentrazione, chiudere gli occhi sulle bolle che essi producono (funzionali peraltro ad assicurare la crescita), ma in alcun modo condizionarli. Gli investitori che prediligono i giochi speculativi agiscono nell'ottica dell'hic et nunc: non sono, insomma, molto interessati a promesse di utili futuri. Il presidente del Consiglio, l'altro anno, li ha invitati esplicitamente ad investire in Italia con fiducia, vale a dire con la certezza dei profitti. Non è stato ascoltato perché, per i capitalisti, l'Italia è non solo poco produttiva, ma anche poco sicura a fini speculativi. Sottolineando il fatto che costà ci sono ancora troppi "comunisti" tra i politici, i giornalisti, i magistrati, ecc., il Presidente del Consiglio, tra l'altro, a fini elettorali, ha segnato un clamoroso autogol. Come poteva pensare che un discorso fatto per spaventare i cittadini italiani (a partire dalla fascia di quelli che posseggono una casa), avrebbe potuto rassicurare i capitalisti internazionali?

Se è vero, come a me sembra, che il capitalismo finanziario ormai non riconosce alcun controllo politico, tranne che questo non si eserciti immediatamente a tangibilmente a suo favore, ci sono alcune considerazioni ulteriori da fare. Di questa realtà nuova che si è determinata nel corso degli ultimi anni, i cittadini italiani (come peraltro quelli occidentali) sanno ben poco. Ciò comporta il rischio che, com'è accaduto con il privilegio accordato nel 2001 allo schieramento di centro-destra, essi, gravati da problemi economici e animati da aspettative di miglioramenti del tenore di vita, si rivolgano al centro-sinistra sulla base di risolvere (magicamente) quei problemi e rispondere a quelle aspettative. Per evitare delusioni, occorrerebbe cominciare ad informarli di quella che è la realtà del capitalismo internazionale e dei poteri limitati dei governi nazionali. Non lo si fa perché, cogliendo la loro insicurezza, non si ritiene opportuno preoccuparli ulteriormente. L'intento è buono, ma non del tutto ragionevole, e fors'anche pericoloso.

Giugno 2005