Una morte annunciata

Un'adolescente di diciassette anni che si butta giù da un ponte non fa notizia. La madre però si rivolge ai giornali per denunciare l'isolamento in cui è vissuta la figlia e gli insuccessi degli interventi terapeutici La denuncia occupa una pagina di cronaca del giornale (Repubblica 21. 2. 2003). Il commento dell'esperto, uno psichiatra assurto a fama per via delle frequenti comparse in televisione, è del tutto fuori misura. Egli stigmatizza l'abbandono degli adolescenti da parte delle famiglie distratte e stressate e degli insegnanti frustrati, e prescrive la consueta cura dei semplici di spirito: parlare, parlare, parlare con i ragazzi. Non lo sfiora il dubbio che alcune problematiche giovanili eccedono le possibilità di capire dei famliari e, purtroppo, degli operatori psichiatrici.

Nel caso in questione, la testimonianza della madre attesta che la famiglia ha fatto il possibile. Ha ascoltato la ragazza e, non avendo risposte ai suoi problemi, si è rivolta agli esperti ottenendo solo un incremento della rabbia e dell'esasperazione dell'interessata. Ha lottato sino all'ultimo per trovare una soluzione. Non c'è stato alcun abbandono, quanto piuttosto la rassegnazione di fronte ad una problematica che appariva difficile da affrontare anche da parte degli esperti.

I mali dell'anima - scrive sullo stesso giornale un'opinionista evidentemente stizzita dall'improprio commento dell'esperto - sono tali che, talora, occorre arrendersi al fatto che essi risultino insolubili. Ma le cose stanno proprio così?

La ragazza - Michela - aveva diciassette anni e stava male già da tempo. Di cosa era malata? Di solitudine secondo i familiari, di fobia sociale secondo gli psicologi. Di fatto due anni fa Michela, che frequentava con ottimo profitto un istituto per il turismo, ha chiesto di cambiare sezione per sfuggire ad un isolamento nella classe che le pesava come un macigno. L'isolamento si è ripetuto anche nella nuova classe, e Michela ha cominciato a lamentarsi di essere invisibile, vale a dire insignificante per tutti fuori della cerchia familiare e dunque priva di valore. Una terapia familiare, durata alcuni mesi, è fallita.

Michela era una bella ragazza, magra, bruna. Si curava, si truccava, ma non riesciva a legare con gli altri. Qualche ragazzo le si è avvicinato ma, preso atto che Michela era una ragazza seria, che voleva un rapporto significativo, è scomparsa.

La frustrazione del bisogno sociale ha portato Michela a minacciare il suicidio. Qualche mese fa ha deciso di non mangiare più, di lasciarsi morire. Da dieci giorni non assumeva cibo. Non frequentava più il corso di danza, e ha raccontato un sogno in cui Dio le prometteva di chiamarla a sé entro il 14 febbraio. Il 20 è uscita da casa per andare in Chiesa a fare la comunione e poi in giro. A mezzanotte ha telefonato ai suoi. Era' fuori di sé. Pochi minuti dopo si è lasciata cadere dalla Tangenziale.

Nonostante gli elementi sono scarsi, questa drammatica vicenda è ricca di significati.

La solitudine giovanile, che comporta il senso del vuoto e dell'insignificanza dell'esistenza, è un male molto diffuso. Il significato generico di questo problema ho cercato di illustrarlo in un articolo (Il buco nero nell'anima giovanile). L'esperienza di Michela è però singolare per due aspetti.

Il primo è legato al fatto che essa era credente. Nell'articolo citato ho detto che la fede è un rimedio magico per l'ansia esistenziale perché essa può permettere al credente di sentirsi legato a Dio e alla comunità dei credenti. Il rimedio evidentemente funziona però quando la fede anima nella soggettività la presenza di Dio. In Michela non solo questo non è accaduto. Come accade a molti credenti che ritengono la fede una sorta di salvacondotto contro il dolore, sperimentare la sofferenza e l'ingiustizia non solo attenta alla credenza, ma porta, inconsciamente, a ritenere Dio responsabile del dolore e dell'ingiustizia. Non pochi credenti, quando soffrono, nel loro intimo sono arrabbiati anche con Dio che non rende loro merito. Non si può pretendere peraltro che una ragazza di diciassette anni abbia meditato e fatta propria la lezione del libro di Giobbe, che peraltro fa violenza alla razionalità.

Quando la fede, a livello giovanile, non consegue l'effetto di rendere tollerabile l'ansia esistenziale, essa non produce vantaggi soggettivi. Produce invece svantaggi. I principi religiosi infatti impongono un comportamento mediamente diverso rispetto al comportamento giovanile medio. Una ragazza educata nella fede è solitamente seria, posata, poco incline agli scherzi e al linguaggio volgare, che va per la maggiore. Tende naturalmente ad isolarsi e asentirsi isolata. Il suo comportamento relazionale è naturalmente orientato verso relazioni, soprattutto con l'altro sesso, serie, che spesso comportano il rifiuto di esercitare la sessualità.

Tutto questo però non basta a comprendere il dramma di una vicenda esitata in un suicidio, annunciato peraltro. La solitudine di Michela lascia pensare ad un orientamento introverso, corroborato dall'educazione religiosa. La carriera sociale degli introversi, che esita quasi sempre in un più o meno grave disagio psicologico, l'ho ricostruita in un articolo scritto qualche anno fa (Disagio psichico e introversione), che andrebbe aggiornato. In nome dell'egemonia che va assumendo il modello estroverso, l'introversione si sta configurando sempre più come una condizione di diversità invivibile. Quando non vengono considerati strani, scostanti, inaccessibili, gli introversi, sia a livello infantile che adolescenziale, soprattutto a livello scolare, vengono sottoposti a una serie di piccole e grandi crudeltà da parte degli altri. Il loro comportamento spesso è interpretato come un loro rifiuto delle relazioni, dietro il quale si intuisce un senso sprezzante di superiorità. La circostanza è aggravata dal fatto che gli introversi sono educati, rispettosi degli adulti, osservanti delle regole scolastiche e manifestano la loro superiorità intellettiva attraverso il rendimento scolastico.

Nel loro intimo, è vero che, talvolta senza rendersene conto, disprezzano la superficialità, la mediocrità e la volgarità degli estroversi. Purtroppo, però, assumono come metro di misura del proprio essere il modello estroverso. E' questo metro di misura che li porta a sentirsi inadeguati, difettosi, soli e gravemente carenti sotto il profilo relazionale. E' esso che spesso li induce a tentare di normalizzarsi comportandosi come gli altri. Ciò li espone però ad un patetico fallimento, perché il loro bisogno di socialità rimane caratterizzato da un orientamento selettivo. Sono rifiutati in nome della loro diversità ma, nel loro intimo, sono anche rifiutanti perché per loro passare il tempo a parlare del più e del meno, a "stronzeggiare" e ad abbandonarsi ai rituali del corteggiamento è insignificante.

In difetto di una comprensione del loro modo di essere, dei loro bisogni e dei loro tempi di evoluzione, gli introversi giungono facilemnet a sentirsi votati ad una solitudine totale. Temo che qualcosa del genere sia accaduto bnell'anima di Michela. Ma perché tanta disperazione e la decisione fatale? Semplicemente perché il sentirsi ingiustamente rifiutati dagli altri e assoggettati a giudizi, espliciti e impliciti, negativi, attiva una rabbia infinita nei confronti del mondo, ingiusto e cattivo.

Chiunque ha esperienza di adolescenti che hanno questo problema sa in quale misura la loro anima è attraversata da fantasie di vendetta contro coloro che fanno del male, e in quale misura questa rabbia cieca è compèensata da sensi di colpa e da giudizi non meno severi e sqaulificanti che essi rivolgono nei propri confronti.

Si tratta di una miscela emozionale tossica, che di solito produce episodi depressivi o attacchi di panico. L'anoressia segnala l'odio che il soggetto ha nei confronti di un bisogno di relazione che lo rende dipendente dagli altri, e allude alla soluzione totale dell'autosufficienza. Si tratta ovviamente di un vicolo cieco, al fondo del quale può accadere di tutto.

Il fallimento delle terapie fa capo al fatto che il problema dell'introversione, della carriera interiore e sociale degli introversi e dei conflitti che ne seguono è semplicemente ignorata dagli psicologi e dagli psichiatri. Incapaci di comunicare al soggetto il senso autentico della sua vicenda, essi si limitano spesso a giudicarlo come gli altri (Chiuso, strano, diffidente, incapace di contatto sociale, fobico) e a tentare di normalizzarlo.

Sono convinto da tempo che questo problema, se solo diventasse noto a tutti, eviterebbe un buon numero di drammi giovanili. L'introversione di fatto è una condizione di diversità genetica che, in sé e per sé, non comporta alcuna predisposizione aptologica, a patto che essa sia riconosciuta, coltivata e vissuta secondo quelle che sono le modalità sue proprie di relazione con il mondo. Il dramma di Michela rivela che siamo ancora molto lontani da questo obbiettivo.

Febbraio 2003