Sulla tragedia di Novi Ligure

Nell’immaginario collettivo, la sacralità dei vincoli di sangue e affettivi persiste come un dato assoluto in conseguenza del quale gli atti di violenza privati (dai maltrattamenti alle violenze, fisiche e psichiche; dai figlicidi ai parricidi, ai matricidi agli uxoricidi) vengono immediatamente stigmatizzati come contronatura. Paradossalmente, però, l'interpretazione dei fatti, alimentata dai mass-media e da non pochi commentatori (opinionisti, psichiatri, psicoanalisti), giunge regolarmente ad evocare il fantasma di una natura umana intrinsecamente antisociale e violenta. Si tratta, con evidenza, di un presupposto ideologico profondamente radicato nel senso comune ad alimentare il quale concorrono sia la cultura cattolica - che vuole l'anima inquinata dal male originario - sia la cultura borghese - che vuole l'uomo naturaliter egoista e antisociale.

Il turbamento dell’opinione pubblica raggiunge il suo acme in occasione di atti di violenza perpetrati dai figli a danno dei genitori, tanto più quando essi si realizzano con modalità efferate e non danno luogo ad alcun apparente rimorso. Da Pietro Maso a Erika De Nardo si ritrova, nella cronaca nera italiana degli ultimi dieci anni, un filo continuo di crimini agghiaccianti ai quali i mass-media concedono un’attenzione smisurata, nel tentativo spesso sterile di capirne il significato. I commenti, anche quando coinvolgono gli esperti, mettono in luce la precarietà teorica delle scienze umane e sociali, oscillando tra un’interpretazione vagamente sociologista, che assume tali crimini come indiziari di un malessere diffuso a livello familiare e giovanile che non viene però analizzato in termini storicosociali, un’interpretazione psicologista che denuncia pedissequamente le difficoltà di comunicazione tra genitori e figli incolpando implicitamente ora gli uni ora gli altri, e una frettolosa "spiegazione" psichiatrica che fa riferimento tout-court ad una malattia mentale grave latente sino all’actin-out.

Per sormontare queste ottiche, riduttive quando non pregiudiziali, e inoltrarsi sul terreno di interpretazioni più verosimili per quanto inquietanti, occorre anzitutto tenere conto di due presupposti.

Il primo è che non esistono "mostri", vale a dire persone che vengono al mondo con una vocazione antisociale, predipsosti a fare male, ad aggredire e ad uccidere. Non si tratta di un presupposto ideologico. In un aureo libricino, sepolto dall'oblio che ha investito tutta la cultura marxista degli anni '70 del secolo scorso, Agnès Heller ha confutato con valide argomentazioni l'esistenza di un istinto aggressivo nell'uomo. Nonostante tale confutazione contrasti profondamente col senso comune, essa ha un fondamento immediato, intuitivo, che può essere comprovato dall'esperienza. L'uomo è un animale radicalmente sociale che deve la sua sopravvivenza come specie all'appartenenza ad un gruppo. Confermato dalla teoria evoluzionistica e dalla paleoetnologia, questo dato è comprovato dalla disponibilità sociale dimostrata da ogni infante, che si traduce nell'attaccamento affettivo e nella tendenza, spiccata nei primi mesi di vita, a rispondere col sorriso a qualsivoglia volto umano.

L'attribuire all'uomo una predisposizione sociale e una vocazione a stabilire con l'altro una relazione armoniosa non significa negare la realtà dei comportamenti aggressivi che hanno segnato sinoira la storia umana. Significa solo assumere il "male" come una potenzialità e non una fatalità della natura umana. Ciò impone, quando essa si realizza, d'impegnarsi ad interpretarla prescindendo dal vedere nel "male" un'espressione immediata della natura umana in ciò che essa avrebbe di antisociale e di selvaggio.

Il secondo presupposto richiede di tenere ferma la distinzione tra comprensione e giustificazione. Posto che non esistono "mostri", tutti i comportamenti umani devono essere ricondotti a motivazioni psicologicamente comprensibili consce e inconsce. Ogni uomo può ricostruire dentro di sé il tragitto di esperienza di un altro uomo e arrivare a capire che esso rappresenta uno dei modi possibili d'interpetare la vita e di agire in conseguenza dell'interpretazione. Nell'adottare il principio della comprensione, le scienze umane e sociali non hanno fatto altro che realizzare l'intuizione del poeta latino che scriveva: nihil umani a me alienum puto. La comprensione serve ad evitare l'estraneazione, il considerare il comportamento di un simile aberrante, assurdo e irrazionale.

Posto però che qualunque comportamento umano possa essere compreso, esso va nondimeno valutato nelle sue conseguenze oggettive, negli effetti sociali che produce. La valutazione oggettiva può pervenire ad un giudizio negativo, alla stigmatizzazione e alla sanzione. Ciò che può essere compreso, non necessariamente dunque va giustificato;

Alla luce di questi presupposti, cosa si può dire riguardo alla tragedia di Novi Ligure? La difficoltà di interpretare fatti del genere è reale. Da un lato, la loro eccezionalità e l’efferatezza non possono essere ricondotte alle consuete tensioni interpersonali che sottendono le esperienze familiari; dall'altro, si tratta di fornire interpretazioni che si fondano su di una conoscenza sommaria (quella fornita dai mass-media) delle situazioni, delle persone e della storia interiore dei soggetti. Ciò comporta il rischio della generalizzazione e dell’arbitrio interpretativo. L’unico modo, quindi, per minimizzare tale rischio è partire da dati certi e procedere induttivamente, con l'aiuto di strumenti culturali non inquinati da presupposti ideologici.

I dati certi, per quanto riguarda la sventurata Erika, che, presumibilmente, ha coinvolto Omar nel massacro sfidandolo a non essere codardo, sono tre: l’efferatezza con cui ha agìto nei confronti della madre e del fratello; l’assenza pressoché completa di una reazione emozionale adeguata all’accaduto, vale a dire di un qualunque rimorso; e la strategia di depistaggio adottata che, fallita l’attribuzione del delitto agli albanesi, l’ha indotta ad accusare il fidanzato.

L’ultimo dato è il più facile da spiegare. Se è vero, come risulta dalle cronache, che l’alterco con la madre, che ha avviato il massacro, si è fondato sulla rivendicazione da parte di Erika di una maggiore libertà, la necessità soggettiva di scampare alla prospettiva di una reclusione istituzionale appare immediatamente spiegabile. Che senso avrebbe un delitto commesso per affermare la propria libertà se, in conseguenza di esso, si accettasse la perdita completa della stessa? L’angoscia claustrofobica, che ha promosso il delitto, permette di comprendere il tentativo di negare le proprie responsabilità e l’ingenua strategia mirante a farla franca.

L'efferatezza del delitto è riconducibile a due diverse motivazioni: la vendetta e la paura. La vendetta promuove un comportamento orientato a ripagare l'altro del danno che ha fatto secondo la legge del taglione. Se ciò è vero, occorre pensare che Erika abbia sofferto le pene dell'inferno nel rapporto con la madre.

La paura è un meccanismo ancestrale. Nella misura in cui si fa del male a qualcuno, si vive nell'angoscia che egli - vio o morto - possa vendicarsi. Infierire sulla vittima - fino a dissanguarla o a smembrarla - è un modo inconsapevole per metterla in condizione di non nuocere.

L’assenza di rimorso a livello cosciente, frequentemente riscontrabile in ambito criminologico, non può trovare altra spiegazione che nella convinzione soggettiva di avere agito comportamenti giusti e necessari per affermare i propri diritti o ripagarsi di gravi e intollerabili torti subìti. Tale spiegazione s’imbatte, nel caso di Erika, in gravi difficoltà. Quali torti o soprusi subìti in famiglia possono infatti rendere comprensibile un’emozionalità vendicativa a tal punto smisurata da indurre ad infierire selvaggiamente sulle vittime? Per chiarire questo aspetto, occorre tenere conto che la giustizia oggettiva e quella soggettiva sono dimensioni del tutto diverse. La giustizia oggettiva, oltre che la sensibilità naturale, vieta di uccidere, tranne che per legittima difesa. Per quanto grave, una situazione di tensione interpersonale familiare o di oppressione non rientra nell'ambito della legittima difesa. Se però, a livello soggettivo, la relazione è vissuta come a tal punto oppressiva e persecutoria da mettere in gioco la propria identità psicologica, il mors tua vita mea diventa una motivazione non solo lecita ma necessaria.

Nel caso di Erika c'è da pensare che la relazione con la madre e con il fratello abbia assunto questa configurazione.

Come spiegare questo vissuto?


Le risposte immediate sono due: una malvagità d'animo naturale e/o una malattia mentale. Non si tratta però di spiegazioni bensì di scorciatoie interpretative.

Una spiegazione deve tenere conto di un aspetto che concerne la vita familiare solitamente ignorato. Il rapporto tra genitori e figli non è solo un rapporto affettivo. Oltre all'affetto, i genitori trasmettono ai figli i valori culturali in cui credono e si impegnano a farli rispettare.

Per quanto riguarda Erika, posto che, come risulta dalle cronache, sia stata la madre ad impegnarsi prevalentemente nel processo educativo, il quadro di valori trasmesso appare piuttosto rigido. La povera donna veicolava, infatti, in assoluta buona fede, due sistemi di valori intrinsecamente coercitivi: un cattolicesimo integralista, vissuto con piena partecipazione, e un codice di rispettabilità borghese espresso da un’attenzione maniacale per l’ordine e la pulizia domestica. L’atteggiamento educativo che muove da questi sistemi di valori produce un campo d’interazione all’interno del quale il riferimento al "male", inteso come disordine morale e comportamentale, è pressoché continuo. In assoluta buona fede, il genitore sente come suo dovere imprescindibile dirigere, correggere, sanzionare, punire il figlio per salvarlo dal male e dalla catastrofe della devianza. La rigidità del quadro di valori di riferimento induce un atteggiamento ossessivamente partecipe e inconsapevolmente persecutorio. Dato un campo del genere, il figlio non ha che due scelte: adattarsi a quei valori, manifestando un comportamento adattivo e perfezionistico, che non dà spazio alcuno agli squilibri e ai "disordini" che sottendono il naturale sviluppo della personalità, o ribellarsi con tutte le proprie forze. Il fratello di Erika ha interagito secondo la prima modalità, Erika viceversa si è opposta all’inconscio perfezionismo materno.

Alcuni suoi comportamenti sembrerebbero corroborare tale ipotesi. Erika – pare – ha manifestato precocemente una certa insofferenza nei confronti del modello di vita proposto dalla madre; è stata sempre "una ribelle"; ha smesso di frequentare la chiesa e ha manifestato, dall’avvio della prepubertà, comportamenti tendenzialmente anticonformistici e trasgressivi, poco compatibili sia con i valori religiosi che con i principi della rispettabilità borghese. La tensione verso l’individuazione non ha peraltro, data la giovane età, dato luogo ad un’identità definita. Ribelle, aggressiva, trasgressiva secondo alcuni testimoni, Erika viene descritta da altri come una ragazza altruista, ancora religiosa, addirittura buona.

Il carattere oppositivo di Erika merita una particolare attenzione. Si tratta infatti della spia di un corredo costituzionale. Si danno, infatti, per una scelta della natura, bambini tendenzialmente facili da educare in quanto docili e sensibili alle influenze ambientali, ossessivamente talora preoccupati di assicurarsi la conferma dei grandi e di non entrare in conflitto con loro, e bambini difficili da educare in quanto il loro orientamento oppositivo implica, per rispettare i canoni normativi che vengono loro proposti, un’adesione partecipe, vale a dire la convinzione che essi sono giusti. In difetto di tale convinzione, il loro comportamento è disadattivo e apparentemente insensibile ai rimproveri e ai sensi di colpa.

Solo gli psicoanalisti ortodossi e i benpensanti possono interpretare gli atteggiamenti di ribellione filiali come indizi di una natura intrinsecamente refrattaria alle regole e ai valori. La ribellione, anche quando si traduce in comportamenti anarchici, non esclude affatto l’interiorizzazione dei valori culturali. Intanto perché tale interiorizzazione è un momento inesorabile dello sviluppo originario della personalità, in difetto del quale l’io non riuscirebbe ad assumere consapevolezza di sé. In secondo luogo, perché l’entità della ribellione infantile e adolescenziale, che fa capo ad un bisogno di opposizione rappresentato in tutti i corredi genetici ma di sicuro più spiccato in alcuni di essi, è di solito direttamente proporzionale alle pressioni normative esterne e interne.

Dato un quadro di valori piuttosto rigido, di fronte agli atteggiamenti ribelli del figlio il genitore non può venire meno al suo dovere di redarguire e correggere. Sottoposto alle critiche e ai rimproveri, il fgilio oppositivo non puù che reagire esasperando i suo comportamenti ribelli. Questo circolo vizioso si traduce in un vissuto di oppressione, di rabbia e di odio filiale.

Circostanze del genere sono oltremodo frequenti. C'è da chiedersi come, a partire da queste circostanze, si sia realizzato nel caso in questione il passaggio all'atto.

Occorre tenere conto che i valori culturali trasmessi dalla famiglia sono inesorabilmente interiorizzati e richiamano l'adolescente ai suoi doveri dall'interno della soggettività. Se egli non si comporta in maniera conforme a tali valori, si sente inesorabilmente in colpa anche se la necessità di rivendicare la sua libertà lo spinge a negare i sensi di colpa. Se il rapporto col genitore s'inasprisce, l'adolescente si trova tra due fuochi. I rimproveri esterni rimbombano, infatti, all'interno amplificati. L'effetto di ciò può essere un vissuto di oppressione e di colpa intollerabile.

Un meccanismo di difesa contro questo vissuto è ancora la negazione, che spesso si realizza in virtù dell'assunzione di un atteggiamento sfidante, insensibile e cinico. Tale meccanismo può essere favorito sia dall'adesione ad un codice di valori che si va diffondendo a livello giovanile incentrato sulla fobia della debolezza e sulla negazione delle emozioni, sia dal ricorso alle droghe.

Si tratta però di un meccanismo inadeguato poiché, al di sotto della coscienza, il vissuto di oppressione e di colpa continua a crescere. C'è un punto critico al di là del quale sono possibili solo due sviluppi: o il crollo psicologico in una situazione di angoscia o la negazione radicale del vissuto che comporta il passaggio all'atto.

Questa seconda possibilità si è realizzata nel caso di Erika. Cosa può essere accaduto nella sua mente? Presumibilmente che, oppressa dai sensi di colpa, essa si sia imposta, per non crollare sotto il loro peso, di agire la colpa. Agire la colpa, in circostanze del genere, si pone come una sorta di imperativo categorico ("devo assolutamente farlo") la cui realizzazione attesta l'affrancamento dalla sensibilità intesa come patetica, infantile debolezza. Anche questa motivazione concorre a fare sì che l'azione delittuosa abbia un carattere di efferatezza e di crudeltà.

Il tragico evento di Novi Ligure rientra, pertanto, a pieno titolo nei delitti da senso di colpa che la psicoanalisi ha posto in luce da molto tempo. Tali delitti si realizzano allorché un soggetto, gravato da terribili sensi di colpa, è spinto ad agirli con l’intento inconsapevole di dare ad essi una valenza reale. Talvolta tali delitti danno luogo ad una repentina presa di coscienza di ciò che si è fatto, vale a dire ad un’angoscia di colpa. Talaltra l’agirli determina una rimozione per cui il soggetto si sente affrancato dai sensi di colpa. E’ sorprendente che tale categoria, quasi sempre in gioco negli atti di violenza che pongono in essere i figli nei confronti dei genitori, sia stata ignorata anche dagli esperti.

Questa breve analisi, che tiene conto per il momento solo dei dati certi, porta ad interpretare la tragica vicenda come una sorta di "fatalità congiunturale". La madre di Erika, per il suo modo di essere e la sua visione del mondo, di fronte a comportamenti della figlia non conformi alle sue aspettative e ai suoi valori, non poteva fare a meno di insistere nel tentativo di correggerla e rimproverarla, esasperandola. Erika, in nome della sua vocazione libertaria e di un intimo dissenso con quei valori, non poteva che corazzarsi in un io antagonsitico, soffocando i suoi sensi di colpa ed esponendosi, pertanto, ad una persecuzione interna destinata a farle vivere la madre come una presenza intollerabile.

Al di là dell’episodio agghiacciante, non si può negare che esso allude ad una serie di problematiche sociali e psicologiche di vasta portata. Campi pedagogici familiari e istituzionali sostanzialmente persecutori sono reperibili ovunque nel corpo sociale. Dinamiche interattive e intersoggettive come quella descritta sono frequentemente riscontrabili a livello di psicologia giovanile sotto forma di odio cieco e pregiudiziale nei confronti soprattutto dei genitori, ma anche degli educatori e, in generale, del mondo degli adulti. Se ci si vuole sorprendere, occorre sorprendersi della rarità con cui tali emozioni danno luogo a tragici acting-out.

C’è qualcosa di intrinsecamente disumano nel nostro sistema sociale, di cui cadono vittime le famiglie e i figli. Ma cosa? Per provare a capirlo, è necessario affrancarsi dai luoghi comuni.

E’ troppo facile fare riferimento alla crisi dei valori di cui sarebbe oggi affetto il mondo giovanile. Se per valore si intende, come è giusto intendere, un qualunque criterio culturale che promuova un determinato e costante orientamento comportamentale, il mondo giovanile certamente non ne è privo. Il fatto che sempre più spesso gli adolescenti si modellino sul registro della legge del più forte (che richiede l’indurimento affettivo, l’insensibilizzazione morale e la vocazione a trasgredire) non è l’espressione di una crisi di valori, bensì di un’adesione ad un nuovo codice di valori incentrato sulla fobia della debolezza, sulla negazione degli affetti infantili, sull'anestesia della sensibilità, sull'affermazione egoistica e narcisistica della personalità, sull'apertura al rischio e alla sfida; un codice che si può definire adultomorfo, anestetico e libertarista. Tale codice, tra l’altro, benché i giovani lo considerino come una loro produzione, nella sua matrice profonda, è esso stesso il frutto della cultura borghese in ciò che essa ha di antisociale e selvaggio. E’ un codice insomma neoliberistico che inesorabilmente entra in conflitto con i sistemi di valori interiorizzati nel corso dell’infanzia, nel loro impianto tradizionalmente moralistico, perbenistico e, spesso, religioso.

Un secondo luogo comune riguarda il funzionamento dell’istituzione familiare. Troppo spesso si sottolinea il disimpegno delle famiglie dai compiti educativi, l’abbandono dei figli a se stessi, un permissivismo deresponsalizzante, ecc. Ma questo contrasta con il fatto che tragedie gravi avvengono sempre più spesso all’interno di famiglie che non possono essere investite da tali accuse. Pur considerando che i livelli di stress genitoriali, legati ai ritmi della vita contemporanea, sono tali da comportare un’attenzione non sempre elevata nei confronti delle vicissitudini interiori dei figli, non si può negare che l’impegno educativo medio delle famiglie, sia quantitativamente che qualitativamente, è oggi di gran lunga maggiore rispetto al passato. Insistere su di una carente disponibilità all’ascolto dei genitori sembra ignorare che, fino a non molto tempo fa, ai figli non era concesso neppure di parlare, e non tenere conto che la comunicazione non dipende solo dall’emissione dei messaggi ma dalla capacità di interpretare i codici che presiedono alla loro formulazione.

Piuttosto che attestarsi su di una sterile stigmatizzazione dei comportamenti familiari, vanno evidenziati due problemi di fondo, entrambi dovuti a cambiamenti intervenuti nell’organizzazione sociale.

Il primo concerne il "mistero" per cui, in passato, allorché il regime familiare era gerarchiso e di fatto più rigido e repressivo di quello attuale, la tolleranza dei figli nei confronti dei limiti posti alla loro libertà era maggiore e le rabbie si esprimevano più raramente rispetto ad oggi sul registro della violenza. Ricavare da ciò la necessità di una restaurazione dell’autoritarismo familiare per contenere i disordini intrinseci alla natura umana, è un equivoco. In passato le famiglie potevano avvalersi di un contesto culturale e sociale che faceva dei genitori i rappresentanti della classe degli adulti, come è attestatpo dall’usanza di ricolgersi ad essi col Voi. Le ribellioni filiali, di conseguenza, anche quando erano giuste, incappavano nel controllo e nella rappresaglia sociale, vale a dire in un processo di emarginazione. Data tale situazione, esse, anziché esplodere, più spesso implodevano sotto forma di disagio psichico manifesto. Qunado non implodevano, poi, si realizzavano sotto forma di vendetta per cui i figli, divenuti genitori, facevano subire ai loro figli ciò che essi stessi avevano subito.

Il secondo è riconducibile alla privacy, che, prodotto della nuclearizzazione, è il nuovo valore-cult che soppianta le relazioni sociali, rende gli spazi familiari contesti all’interno dei quali possono realizzarsi arbitrii di ogni genere, consapevoli e inconsapevoli, e nei quali le interazioni tra genitori e figli, se imboccano una via patologica, non sono correggibili, e tendono a cronicizzare sino alle estreme conseguenze.

Al di là di questo, c’è da aggiungere che l’aspettativa univoca delle famiglie rivolta ai figli sembra caratterizzata dalla preoccupazione angosciosa di scongiurare da subito una possibile devianza piuttosto che promuovere, favorire e aiutare la realizzazione di un’identità ricca, differenziata e personale. Tale aspettativa, supportata da sistemi di valori banalmente conformistici (siano essi di matrice borghese o religiosa), finisce col tradursi in un atteggiamento solo ormai raramente repressivo, ma più spesso direttivo, correttivo e implicitamente rimproverante. Il problema è che tale atteggiamento, non potendo avvalersi di un potere coercitivo, si protrae nel corso degli anni, divenendo alla lunga esasperante e determinando spesso gli effetti stessi che tende a scongiurare.

C’è da considerare, infine, un ulteriore aspetto, del tutto nuovo. I sacrifici che le famiglie agiscono in nome del benessere dei figli sempre più spesso si traducono in una domanda implicita di contraccambio, vale a dire in un indebitamento ricattatorio. E’ per sfuggire a tale indebitamento che molti adolescenti sono costretti ad imboccare la via dell’insensibilizzazione e dell’indurimento affettivo e morale.

Su questi temi, che in una qualche misura si intrecciano con la tragedia di Novi Ligure, occorrerebbe soffermarsi, anziché abbandonarsi alle insignificanti denunce di ciò che di intrinsecamente oscuro, impenetrabile e selvaggio si dà nella natura umana, della fatalità della follia, ecc. ecc.