Sull'infanticidio di Lecco

1.

Nonostante ciò che l'opinione pubblica continua a pensare, gli omicidi che vengono commessi in conseguenza di uno stato mentale psichiatrico sono estremamente rari. Tutte le statistiche fatte finora, assumendo un campione a caso della popolazione normale e un campione di soggetti affetti da disturbi psichici, attestano che, sotto il profilo criminologico, i sani sono più "pericolosi" dei malati. L'opinione pubblica evidentemente è fuorviata dall'attenzione, talora eccessiva, che i mass-media dedicano ai delitti commessi da questi ultimi. Tale attenzione è peraltro giustificata dall'interesse che la gente manifesta a riguardo e che, talora, sfiora la morbosità. Spiegare tale interesse non è difficile.

L'opinione pubblica si sta abituando a convivere con il crimine, ritenuto ormai un aspetto fisiologico della vita sociale, anche perché, nella maggior parte dei casi, i moventi sono immediatamente comprensibili. Solo nei casi in cui questi appaiono misteriosi, l'interesse si intensifica. La gente si chiede com'è possibile che accadano certe cose -, e la domanda stessa, incredula, pone in luce l'esigenza universale di dare comunque un senso a ciò che appare, d'acchito, assurdo.

Assurdi per eccellenza vengono considerati i crimini familiari - il parricidio, il matricidio, e soprattutto l'infanticidio -. Gli esperti si limitano di solito a stabilire la capacità di intendere e di volere del soggetto che ha commesso il delitto. Se essa viene (talvolta impropriamente) accertata, il crimine è ascritto alla malvagità che alligna nell'anima umana. Se, viceversa, si accerta uno stato di alterazione mentale, tutto diventa chiaro perché la malattia mentale non rispetta le regole della logica né degli affetti.

Si tratta di una spiegazione di comodo, che soddisfa la dissonanza cognitiva evocata da crimini che dissacrano miti e valori concepiti ancora in termini astratti.

Il discorso sull'infanticidio è stato già avviato sul sito con l'articolo sul delitto di Cogne, ma va approfondito, perché le situazioni di vita che determinano un comportamento genitoriale criminoso sono le più varie.

In quell'articolo, sottolineavo la potenziale pericolosità psicologica di un'esperienza materna portata avanti sulla base del perfezionismo morale. Il delitto di Lecco pone di fronte ad una situazione apparentemente di tutt'altro segno, più facilmente esposta, per alcuni aspetti, al rischio di un giudizio approssimativo.

La madre in questione, Maria Patrizio, infatti, è una giovane donna di 29 anni, di ceto piccolo-borghese e di modesta cultura, considerata bella nel suo cerchio familiare e di paese, infatuata del mondo dello spettacolo, che coltivava l'ambizione di diventare celebre almeno come "velina". I suoi sforzi di conseguire un posto al sole si sono infranti prima con la realtà di una statura piuttosto bassa e poi con la nascita di un figlio, alla quale ha fatto seguito una depressione post-partum, sottesa dalla drammatizzazione dei danni estetici prodotti dalla gravidanza.

Su questo sfondo matura il delitto assurdo. Sola in casa con il figlio di cinque mesi, Maria lo annega in una bacinella da bagno tenendo a lungo la sua testa sott'acqua. Poi organizzauna patetica messa in scena che dovrebbe depistare gli investigatori. S'imbavaglia, si lega ad una sedia, lega i polsi mantenendo le mani in grembo, e si fa trovare semisvenuta dai soccorritori, denunciando un'aggressione a fini di rapina e disperandosi per la morte del figlio.

In pochi giorni, gli investigatori accertano la verità. Maria, dopo una debole difesa, cede e confessa di avere ucciso il figlio senza sapere perché lo ha fatto. Ho sclerato - afferma, nell'orribile linguaggio dei giovani d'oggi.

Purtroppo, non solo la dinamica del delitto ma anche le sue motivazioni sembrano d'acchito più che chiare.

Maria - scrive Lidia Ravera su l'Unità del 27 maggio - "è la carina del profondo Nord, occupata a tempo pieno dal suo aspetto, vuota dentro e ben confezionata fuori, nei fronzoli regolamentari, come apparenza vuole e televisione premia.

Che cosa non ha funzionato? La depressione post parto? Non credo: se uccidi tuo figlio in una crisi di depressione , in genere, gli vai dietro subito dopo. Ti butti dalla finestra con tuo figlio tra le braccia. Se invece lo affoghi e poi ti leghi i polsi e metti in scena la rapina, non sei una poveretta in preda ad impulso suicida, quanto piuttosto una disgraziata che vuole sopprimere un bambino.

Si può arrivare a sfiorare la trentina, anche a sorpassarla e ancora essere terrorizzati da ogni responsabilità, riuscire a progettare soltanto divertimenti, amare soltanto se stessi."

Meno astioso è il commento di U. Galimberti su la Repubblica che incentra l'analisi su un tema che gli è caro - l'ambivalenza intrinseca al rapporto tra madre e figlio: "Qui gli psichiatri parlano di depressione post-partum. Vero, ma questa diagnosi rivela solo un sintomo non di una malattia, ma della condizione della maternità, di ogni maternità, dove l'amore per il figlio non è mai disgiunto dall'odio per il figlio, perché il figlio, ogni figlio, vive e si nutre del sacrificio della madre: sacrificio del suo corpo, del suo tempo, del suo spazio, del suo sonno, delle sue relazioni, del suo lavoro, della sua carriera, dei suoi affetti e anche amori, altri dall'amore del figlio.

Se poi la madre, come sembra sia il caso della madre di Mirko, ha aspirazioni di autorealizzazione nel mondo dell'apparire (televisivo), in una cultura che ci ha insegnato che l'apparire è l'unica condizione per essere, per ottenere quel riconoscimento che è il fondamento della nostra identità, allora l'ambivalenza amore/odio, comune a tutte le madri, si potenzia e chiede una soluzione: l'accettazione della propria maternità o la sua soppressione. Accettare la realtà quando questa è troppo distante dal proprio desiderio è per chiunque di noi il lavoro che ci affatica ogni giorno. Quando questa fatica supera oggettivamente o soggettivamente i nostri limiti, si affaccia come via di uscita il più terribile degli eventi: l'evento della morte. La morte propria o quella dell'altro, o entrambe.

Nel nostro caso il gesto omicida della madre lascia la madre viva e ben indaffarata a mettere in scena la finzione della rapina e a sostenere con ostinazione e lucidità la sequenza dei fatti che danno corpo alla finzione, allo scopo di salvare la propria vita e le proprie aspirazioni che erano già viste compromesse dalla maternità."

Per quanto più articolata e meno astiosa, anche l'analisi di Galimberti giunge ad identificare la motivazione del delitto in una personalità patologicamente narcisista che, trovatatasi in una situazione minacciosa per la sua identità immaginariamente vincolata alle apparenze, reagisce con un terribile egoismo, sopprimendo crudelmente il figlio come fattore nocivo e disturbante, e tentando, con la messa in scena della rapina, di salvaguardare se stessa.

Altruismo sacrificale, imposto dalla maternità, vs egoismo narcisistico, radicale,piuttosto diffuso nella nostra società: sarebbe questa la chiave interpretativa del delitto di Lecco.

C'è, ovviamente, qualcosa di vero in essa. Ogni esperienza umana si svolge, a livello cosciente e più drammaticamente a livello inconscio, sul registro intrinsecamente conflittuale dei doveri sociali e dei diritti individuali. Si danno situazioni, come quella legata alla maternità, nel corso della quale tale conflitto s'intensifica perché la percezione dei bisogni radicali dell'altro, del figlio, è oggettivamente e soggettivamente netta, ma non azzera la percezione dei bisogni propri, che sono più o meno radicalmente frustrati. Se questi due vissuti divengono ossessivi e le logiche che li sottendono - socio-centrica la prima, ego-centrica la seconda - si scindono, il conflitto può facilmente arrivare al tragico aut-aut cui fa riferimento Galimberti.Ma può mai essere questa tutta la verità?

Nella prima intervista concessa in carcere, il 28 di questo mese, Maria, che riceve la visita di un parlamentare, membro della commissione Giustizia della Camera, si esprime in termini di assoluta disperazione:

Maria Patrizio

"Voglio soltanto una cosa. Morire. Non ho più nulla... senza mio figlio. Adesso non sono più una madre, non sono niente".

Signora Patrizio, come si sente?

"» finito. Tutto".

Mery, aspetti, non si lasci andare...

"Non voglio più vivere. Ho perso la cosa più preziosa della mia vita: il mio bambino. L'avevo... l'avevamo desiderato tanto. E ora non c'è più, non lo rivedrò mai più".

Niente può liberarmi del peso che ho dentro. Lo avrò finché vivrò. Lo sentirò ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo. Appena mi sveglio già mi sembra di soffocare dalla disperazione. E non c'è via di fuga. C'è soltanto un modo per non patire più. Ma voi non potete capire: vivere, respirare vuole dire soffrire".

"Sento un gelo dentro, nelle ossa. Voglio soltanto una cosa: morire. Uccidermi. Lasciatemi morire".

"Che dolore terribile"

Ma ha visto quante persone sono venute a trovarla. Tante gente vuole aiutarla. Lei non è sola.

"Grazie".

E qui, in carcere, come si trova?

"Mi hanno trattata bene. Dormo sempre".

"Ma non avete capito? Io non ho più niente da fare in questo mondo. Io non voglio più vivere, un dolore così grande è impossibile da sopportare. E poi adesso sono sola, la mia famiglia è distrutta, mio marito è lontano".

Vorrebbe dirgli qualcosa?

"Dov'è, dov'è Kristian?".

"Qual è la cosa più importante nella vostra vita? Un figlio. E io... no, non può essere vero. Mi dispiace, Dio, come mi dispiace. Non esiste un dolore più grande. Questo è l'inferno".

Se si esclude che questa disperazione sia una nuova messa in scena per sfuggire alla giustizia, è evidente che essa contrasta con l'ipotesi di una patologia narcisistica e di uno spietato egoismo. Ma se la disperazione, come tutto porta a pensare, è autentica, come spiegare l'orribile crimine commesso pochi giorni prima? Si è trattato evidentemente di un raptus, vale a dire di un repentino, imprevedibile e catastrofico smottamento della personalità. Una circostanza oltremodo rara, che però occorre tentare di spiegare se non si vuol ricadere nello stereotipo dell'irrazionalità che alberga al fondo del cuore umano e che, laddove si dà una malattia mentale sino allora asintomatica, può affiorare d'emblée.

I dati di cui dispongo sono ovviamente del tutto inadeguati, ma non insignificanti.

2.

Un elemento di una qualche importanza è fornito da un testimone che ha riferito alla polizia: "Maria era ossessionata da questa gravidanza, non la voleva. Ha avuto un parto difficile, e non molto tempo fa mi disse chiaramente di essere arrivata sul punto, a volte, di odiare il figlio."

La testimonianza è attendibile, nonostante Maria abbia sostenuto di aver desiderato intensamente il figlio arrivato dopo cinque anni di matrimonio. E' probabile che essa sia spinta dai sensi di colpa a negare l'ambivalenza vissuta, e a rievocare riparativamente un univoco rapporto d'amore con il figlio soppresso.

Si è trattato dunquedi una gravidanza indesiderata e, di conseguenza, vissuta con un'ambivalenza superiore, forse, alla media.

Il primo problema da porsi sta nel capire perché Maria, se non voleva avere un figlio, ha deciso di non ricorrere all'aborto. Può darsi che abbia subito delle pressioni in famiglia o che si sia semplicemente arresa ad un clima culturale che tende sempre di più a criminalizzare l'interruzione di gravidanza. In ogni caso, la decisione di accettare il ruolo di madre, sia pure controvoglia, esclude un narcisismo in senso proprio. Le donne narcisiste oggi lo affermano senza peli sulla lingua di non volere figli: alcune di loro provano un'infinita soddisfazione nell'andare controcorrente rispetto ad una tradizione che vede nella donna senza figli un essere inutile. Ho sentito di persona due di esse giudicare con estrema severità le donne sterili che fanno i salti mortali pur di diventare madri, e sostenere che l'istinto materno c'entra poco. C'entrerebbe piuttosto l'angoscia normativa di essere come le altre o, in senso lato, come si deve essere in quanto donne.

Si tratta di un punto di vista estremizzato, per alcuni aspetti ingiusto, ma non infondato. C'è ancora di fatto nella nostra società una forte sollecitazione sociale e culturale che spinge la donna a fare figli, voglia o no. Per arginare tale pressione, nel caso in cui essa non corrisponda ad una scelta personale, occorre disporre di una personalità forte e di una visione del mondo ben organizzata.

Immersa in un contesto familiare e di paese tradizionale, Maria evidentemente non disponeva né dell'una né dell'altra. Essa dunque ha subito la gravidanza, vivendola male e ha sviluppato, dopo la nascita di Mirko, un malessere psicologico che, almeno in parte, ha tentato di celare.

Questo si ricava da un'altra testimonianza. Si tratta di una vicina che si recava in casa dei coniugi per catechizzarli in vista del battesimo del figlio, e che ha incontrato la coppia il giorno prima del delitto. Dopo aver sottolineato l'affiatamento della coppia e la loro apertura alla catechesi, essa ha descritto Maria come "una mamma affettuosissima", molto legata al figlio: "L'ha preso in braccio davanti a me sul divano. Quando io gli ho fatto una carezza sulla testolina, lei lo ha stretto a sé, facendo un certo broncio come se fosse gelosa di me. poi mi ha sorriso e gli ha schioccato un bacio."

Questa testimonianza, sicuramente oleografica, attesta che Maria occultava agli occhi degli estranei il suo malessere, calandosi nel ruolo di madre tenera e affettuosa. Probabilmente, qualcosa del genere, anche se in minor misura, essa deve avere fattocon gli operatori del servizio pubblico del paese, e con lo psichiatra di Milano cui questi l'hanno indirizzata, che infatti le ha prescritto una blanda cura antidepressiva. Chiamata in causa, la responsabile dei consultori della provincia lecchese ha giustamente osservato: "Può accadere che la depressione post-partum, che è molto comune, venga sottovalutata dallo psicologo, ma molto più spesso è la paziente stessa o la sua famiglia che la nasconde."

Perché si occulta un malessere così profondo da animare un progetto infanticida? La risposta purtroppo è semplice. Se mettere al mondo un figlio è un comportamento rituale normativo, essere una buona madre lo è a maggior ragione. Il riferimento persistente nella nostra cultura all'istinto materno come qualcosa di naturale, fa sì che qualunque madre la quale sperimenti, nel corso dell'allevamento, un disagio, un malessere, un moto di intolleranza e di rifiuto nei confronti del figlio, giunge a sentirsi già per conto proprio snaturata e a pensare che tale sarebbe giudicata da chiunque venisse a conoscenza di quel disagio.

Maria dunque ha in gran parte occultato il suo malessere in nome della stessa esigenza di normalizzazione che l'ha spinta a mettere al mondo un figlio non desiderato. Se non fosse stata preda di tale esigenza, essa avrebbe potuto denunciare apertamente quel malessere, urlare la rabbia che aveva dentro per una decisione sbagliata e condizionata presumibilmente dagli altri, dire né più né meno che non ce la faceva più ad allevare il figlio, che sentiva il pericolo di fargli del male. Quando una madre - ed è molto raro - ce la fa a rivelare una cosa del genere, una presa in carico del problema a livello familiare e sociale può sempre intervenire. Ma, per giungere a tanto, una donna deve avere il coraggio di esporsi ad un giudizio negativo, che va dall'essere snaturata all'essere malata di mente. Maria non ce l'ha fatta. Paradossalmente ha optato per un delitto maldestramente occultato piuttosto che correre il rischio di rivelare il suo dramma.

3.

Il termine normalizzazione fa riferimento ad un aspetto caratteristico della vita sociale: dato un quadro di valori comportamentali attenendosi ai quali i soggetti sono certi di conseguire un giudizio positivo da parte degli altri o, al limite, di evitare un giudizio negativo, essi sono sollecitati dal bisogno di integrazione sociale a rispettarli, vale a dire ad uniformare il proprio comportamento ad essi. In quanto esigenza psicologica, la normalizzazione implica che, per un soggetto, l'apparire e l'essere confermato dagli altri si pone come un obiettivo primario, al quale si può e si deve sacrificare la propria interiorità in ciò che essa ha di incompatibile con il quadro di valori normativo. Nell'ottica della normalizzazione, l'immagine sociale è infinitamente più importante di ciò che il soggetto sperimenta dentro di sé.

Una personalità normalizzata è per forza di cose poco individuata, poco differenziata, poco strutturata. Il vuoto interiore, cui fa riferimento impietosamente la Ravera, è un'inesorabile conseguenza della normalizzazione, poiché essa promuove un'attenzione quasi esclusiva per l'immagine sociale. Stigmatizzare moralisticamente questa attenzione, come implicitamente fa anche Galimberti, è frutto di una confusione. Il narcisismo nel nostro mondo ha raggiunto, particolarmente a livello giovanile, un livello forse mai conosciuto in passato, ed è un tratto alienato della psicologia contemporanea. Non si può negare, però, che, come espressione del bisogno di appartenenza/integrazione sociale, l'esigenza di ricevere conferme dal contesto sociale si può ritenere primaria.

Il problema è che se tale esigenza si pone a livello soggettivo come assoluta, la personalità, che non dà spazio al bisogno d'individuazione, si trova facilmente ad agire comportamenti corrispondenti alle richieste sociali ma poco o punto compatibili con la volontà propria.

La normalizzazione anonimizza la personalità, le consente di sentire di essere come gli altri, ma non l'affranca dall'incubo di essere nessuno. Quasi inevitabilmente, dunque, essa viene compensata, consciamente e inconsciamente, da qualche strategia correttiva.

Sul piano dell'individuazione, tranne una tenue bellezza, peraltro invalidata da una bassa statura, Maria non aveva altre carte da giocare. Non è sorprendente pertanto che essa aspirasse alla ribalta televisiva, all'apparire che è, comunque, per quanto patetico, un modo per distinguersi dagli altri. Un modo, ovviamente, paradossale, in quanto ancora una volta fondato sulla conferma sociale, sul diventare qualcuno agli occhi e per gli occhi della gente.

Nella misura in cui la gravidanza e l'allevamento del figlio hanno inciso, determinando delle modificazioni estetiche reversibili ma vissute catastroficamente, sull'unica carta che Maria aveva da giocare per sottrarsi all'anonimato della normalizzazione, si sono create le premesse del dramma.

L'orribile delitto è stato un modo per rimediare all'avere ceduto a pressioni ambientali e culturali che l'hanno normalizzata ricacciandola in un anonimato irreversibile. E' stato dunque il primo moto d'individuazione drammaticamente autentico che essa è riuscita ad esprimere, opponendosi tardivamente alla volontà altrui e al codice di normalizzazione.

Su questo aspetto delicato vale la pena di soffermarsi. In ogni personalità normalizzata si dà a livello inconscio un potenziale d'individuazione represso, potenzialmente pericoloso perché esso può tradursi repentinamente in un comportamento di rottura, in un acting out trasgressivo che riscatta repentinamente il soggetto dall'assoggettamento al giudizio sociale, agli occhi della gente.

L'acting out esprime, in sé e per sé, una rivendicazione di libertà e di autenticità che il soggetto ignora di albergare. Tale rivendicazione può affiorare repentinamente come un fiume sotterraneo e devastante. Molti raptus corrispondono ad una dinamica del genere per cui il soggetto si ritrova ad agire come un automa un comportamento assolutamente insensibile, egoistico e distruttivo che, appena qualche ora prima, lo avrebbe orripilato.

Se c'è qualcosa di estremamente insidioso nell'apparato mentale umano, esso è proprio il contrario di ciò che comunemente si pensa in riferimento all'irrazionalità delle pulsioni aggressive. Dotato di una doppia logica - socio-centrica e ego-centrica -, la prima riferita ai bisogni e ai diritti dell'altro, la seconda ai bisogni e ai diritti dell'individuo, l'apparato mentale tende verso l'equilibrio tra queste due logiche. Se, in conseguenza dell'interazione con l'ambiente culturale, la personalità si attesta su di un modo di essere che privilegia solo una delle due, la possibilità di un compenso catastrofico che fa affiorare repentinamente il bisogno represso con una carica di emozionalità cieca direttamente proporzionale alla repressione è immanente.

Il culto dell'immagine estetica di Maria solo superficialmente si può ricondurre al narcisismo. Esso rappresentava l'espressione alienata, e dunque del tutto insufficiente, di un bisogno d'individuazione che la gravidanza e la cura del figlio ha compromesso: un bisogno che non avrebbe presumibilmente avuto altri sviluppi, ma che, nel caso in questione, è venuto ad urtare contro l'esigenza di normalizzarsi calandosi nel ruolo di madre. Questa ulteriore normalizzazione ha avuto un effetto dirompente, spazzando via repentinamente la maschera del falso io materno sovrapposto a quella preesistente del falso io fondato sull'immagine apparente.

Se questo è vero, la soppressione del figlio da parte di Maria non ha riconosciuto come movente l'odio nei suoi confronti, bensì l'odio nei confronti dell'esperienza mistificata in cui essa è vissuta e che, cedendo ad una maternità non desiderata, ha alimentato.

Si è trattato dunque di un moto d'individuazione sciagurato, che ha investito il figlio nella misura in cui egli deve essere apparso, alla coscienza e più ancora all'inconscio di Maria, come la prova vivente del suo essere vissuta in maschera. Un moto che può devastare la vita del soggetto che l'agisce, ma che, teoricamente, può anche inaugurare un doloroso tragitto sulla via dell'autenticazione. E' improbabile che Maria possa farsi una ragione di ciò che è accaduto, che rientra nell'ambito di quei fenomeni tragici non meno che significativi per definire i quali si può fare appello solo all'intuizione di un poeta (Lucrezio), laddove egli scrive che nulla nasce se non con l'aiuto di qualcos'altro che muore.

E' troppo - si dirà. La messa in scena atta a simulare una rapina può facilmente essere interpretata come l'indizio di una premeditazione lucida e malvagia quanto può esserlo il volere sottrarsi ad ogni costo alla responsabilità di un infanticidio.

I periti si esprimeranno sulla capacità di intendere e di volere di Maria, e non è difficile anticiparne gli esiti positivi ai fini dell'imputabilità.

Se si dà per scontato che le perizie psichiatriche, condotte solitamente alla luce di una sterile nosografia, servono ben poco a capire la complessità dei fatti umani, quel comportamento, oggettivamente repellente, potrebbe essere interpretato anche in un altro modo.

Preda di un raptus, nel quale si è espressa una drammatica rivendicazione di libertà dai doveri sociali, vale a dire dal dover essere come gli altri vogliono che uno sia, Maria uccide il figlio. Subito dopo, però, si rende conto che, con quel gesto, la sua immagine sociale, costruita sulla base della normalizzazione, è definitivamente compromessa. Come restaurarla se non simulando una messa in scena che la cali nuovamente nel ruolo di madre impedita dalla violenza altrui di prendersi cura e di proteggere il figlio? Con la messa in scena, dunque, Maria avrebbe tentato vanamente di rientrare nella normalità che il raptus ha infranto, di mettere se stessa e il gruppo familiare al riparo da un irreversibile disonore.

4.

In una società che enfatizza l'individuo e assegna alla sua libertà un valore infinito, si riflette ben poco sul problema delle pressioni normative cui ogni soggetto è sottoposto, e meno ancora sul fatto che tali pressioni producono spesso un'individualità fittizia, sottesa da un bisogno di differenziazione che si traduce paradossalmente nel volersi distinguere facendo propri i miti e i valori che definiscono la normalità. Questa categoria, peraltro, ha uno spettro singolare nella nostra società: essa, infatti, implica ad un estremo la necessità di agire comportamenti conformi alle regole culturali tradizionali per distinguersi anzitutto dalla categoria dei marginali (devianti, malati psichici, ecc.) e, all'estremo opposto, l'esigenza di caratterizzare la propria identità per sfuggire all'anonimato dell'assoluta normalità. Si tratta di una duplice ossessione, caratterizzata dal comune riferimento all'immagine sociale, agli occhi della gente, assunti come referenti del proprio essere come si deve e dell'essere se stessi, unici e irripetibili.

Questo controllo sociale, più insidioso rispetto al passato quando esso si esercitava soprattutto con l'arma del giudizio negativo, della colpevolizzazione, dell'emarginazione, incide ancora potentemente a livello di universo femminile sotto forma di codice normativo. Non solo è necessario che una donna si sposi e metta al mondo dei figli. E' altresì necessario che nell'assumere questi ruoli essa agisca comportamenti ritualizzati che attestino la sua piena adeguatezza rispetto ad essi.

Tale pressione normativa si realizza peraltro in un contesto che non comporta più il fare il proprio dovere come obiettivo ultimo della vita, confermato dalla coscienza tranquilla. C'è una forte e insidiosa sollecitazione all'autorealizzazione individuale che il più spesso imbocca vie di alienazione. Tali vie spiegano sia le varie forme di perfezionismo che affliggono l'universo femminile, per cui alcune donne s'impegnano ad essere regine della casa e madri eccezionali, sia le varie forme di evasione immaginaria dalla realtà che inseguono i miti del successo, del grande amore, ecc.

La vicenda di Maria e del piccolo, infelice Mirko si iscrive nella cornice di questa contraddizione della nostra epoca. Se qualcosa essa può insegnare è la fragilità di un Io catturato contemporaneamente da istanze normative tradizionali e da istanze di differenziazione che imboccano la via dei miti e delle mode.

E' vero ciò che afferma Galimberti in rapporto al sacrificio che impone la maternità, e che definisce questa condizione come naturalmente conflittuale nella misura in cui essa oppone irriducibilmente i bisogni naturalmente coercitivi del figlio e i bisogni della madre come individuo. E' superfluo anche aggiungere, avendolo ripetuto più volte, che tale conflittualità si intensifica laddove il contesto sociale è sempre meno partecipe dell'allevamento dei bambini e le madri si mettono alla prova sul terreno di un rapporto prevalentemente duale come se questa, prodotta dalla nuclearizzazione della famiglia e dall'allentamento dei vincoli comunitari, fosse una condizionenaturale.

Sarebbe oltremodo importante, anziché naturalizzare, drammatizzare l'esperienza di maternità, vale a dire indurre in tutte le donne la percezione di un'esperienza psicologicamente molto dura e rischiosa nelle condizioni in cui oggi essa si realizza. Ciò comporterebbe, per un verso, una maggiore consapevolezza di limiti personali che non vanno sfidati in nome del codice di normalizzazione, che si tradurrebbe in una maggiore libertà di scelta sull'obbligo di filiare, e, per un altro, una maggiore disponibilità a comunicare senza vergogna i vissuti ambivalenti e drammatici che spesso sottendono l'esperienza reale di maternità.

Se l'esperienza di Maria, com'è probabile, verrà archiviata come l'ennesimo e incomprensibile dramma della follia, la sua abiezione e il sacrificio del piccolo Mirko saranno inutili.