Il black out

1.

Devo confessare una certa difficoltà nel continuare a scrivere articoli di commento inerenti episodi di infanticidio da parte materna. La difficoltà in parte è da ricondurre al ripetersi stesso di questi eventi, che statisticamente tutti ormai riconoscono essere in aumento (6 volte negli ultimi cinque anni); in parte ad una crescente irritazione per il modo in cui essi sono affrontati dalla stampa, dagli specialisti e, di conseguenza, dall'opinione pubblica. Al di là infatti dell'esecrazione e dello sconcerto per delitti contronatura che non dovrebbero accadere, l'interesse, talora morboso, si riduce al capire se l'infanticidio è stato commesso da una persona malata di mente o capace di intendere e di volere, vale a dire da un'assassina per fatalità o per malvagità. Posto che sia possibile pervenire ad una distinzione del genere, essa non spiega nulla: la fatalità della malattia è infatti un'etichetta, la malvagità un giudizio di valore.
Ciò detto, non penso di potermi sottrarre al ruolo che, nel mio piccolo ho assunto a partire dalla vicenda di Cogne, perché alcuni lettori del sito mi hanno comunicato che la lettura degli articoli inerenti la cronaca nera hanno permesso loro di sormontare alcuni stereotipi interpretativi.
Black-out è il termine che ha utilizzato immediatamente Christine Rainer di fronte ai magistrati per motivare l'accoltellamento del figlio Julian, di quattro anni. Il termine equivale a quello specialistico di acting-out per indicare un obnubilamento repentino della coscienza che induce il soggetto ad agire un comportamento deviante, e al limite criminale, in rapporto all'organizzazione normale della sua personalità. Nel caso in questione, la definizione sembra quanto mai giustificata. A differenza, infatti, di altre madri che, dopo un infanticidio, rimuovono l'evento, negano la propria responsabilità e o tentano di attribuirla a qualcun altro, C. R., dopo aver recuperato la lucidità, non solo ha chiamato la polizia denunciandosi e confessando l'accaduto: si è addirittura lanciata dalla finestra del Commissariato con il chiaro intento di togliersi la vita.
Un comportamento del genere rende più clemente l'opinione pubblica, poiché il togliersi la vita (o nel caso in questione il tentativo di attentare ad essa) dopo averla tolta al figlio conferma che l'infanticidio è stato realizzato in condizioni momentanee di non intendere e di volere: condizioni che rendono il comportamento psichiatricamente comprensibile, anche se esecrabile.
La comprensibilità psichiatrica è avallata, come avviene di consueto, dagli esperti. Da un anno, in conseguenza della morte della madre, C. R. era depressa e in cura presso un Centro di Salute Mentale. Dopo quanto è accaduto, qualche psichiatra ha avanzato l'ipotesi che si trattasse di una depressione atipica, termine con cui si fa riferimento ad una depressione apparente indiziaria di una malattia mentale più grave ó la schizofrenia.
Sia la depressione che la schizofrenia consentirebbero di comprendere l'infanticidio, nel senso che entrambe comportano la possibilità che il controllo della coscienza venga meno in virtù dell'emergenza di spinte motivazionali irrazionali, aggressive, distruttive che sarebbero sintomatiche della malattia.
E' evidente che si tratta di un'interpretazione alla Molière. Posto che la malattia mentale è identificata con un disordine primario del cervello, che può non avere alcun rapporto con la storia personale del soggetto e la sua situazione di vita, il suo affiorare sotto forma di un raptus psicologicamente incomprensibile, della cui irrazionalità il soggetto stesso si rende conto quando ridiventa lucido, è una conferma dell'assunto di base.
Da questo punto di vista, la prevenzione si esaurisce nell'essere attenti ai sintomi di una malattia mentale che affiorano in una madre e trattarli adeguatamente con psicofarmaci, ricoveri, ecc.
Al solito, contrapporre all'interpretazione psichiatrica un punto di vista alternativo è oltremodo difficile. Nonostante la carenza di dati disponibili, uno sforzo in questa direzione va compiuto.

2.

Occorre partire dai pochi indizi forniti dalla stampa. Il titolo che un quotidiano ha dedicato alla triste vicenda è già eloquente: "Madre perfetta e assassina".
Perfetta apparentemente C. R. lo era.
Casalinga per scelta, avendo abbandonato un impiego per dedicarsi alla casa, ai figli e al marito, i vicini la ricordano come una donna "sempre serena, sempre a posto, educatissima, con quei tre bimbi che curava tanto... Era innamorata dei bambini... Sembrava felice." Qualche settimana fa, incontrando una conoscente, aveva sottolineato la serenità ricavata dall'esperienza di maternità: "Ma come? Ti sei fermata a uno? Dagli almeno un fratellino, vedrai che più ne hai, più ne vuoi."
Perfetta non solo nel ruolo di madre, ma anche di casalinga. I poliziotti accorsi si sono trovati di fronte ad uno spettacolo agghiacciante, con il piccolo Julian trafitto da varie coltellate, ma in un ambiente domestico già dal mattino in ordine, con i vetri trasparenti e pulitissimi. C'erano ancora sul pavimento delle macchie di sangue, ma Julian era stato pulito dalla madre e rivestito con un abitino nuovo.
Nel corso della confessione, C. R. ha detto che il grilletto del black-out è stato il comportamento del figlio che, facendo colazione con la marmellata, aveva sporcato dappertutto e, rimproverato, aveva risposto male.
Se si pone tra parentesi l'esito tragico, circostanze del genere sono piuttosto frequenti.
Molte donne italiane si dedicano ai figli e alla casa, e riversano in questo ruolo le loro istanze di autorealizzazione, finendo con il giungere ad ingaggiare una sfida con se stesse. Se questa sfida assume un significato perfezionistico, nel senso che mantenere ordinato e pulito l'ambiente domestico diventa un valore assoluto alla cui realizzazione gli altri membri della famiglia devono collaborare, è inesorabile che si dia una perpetua tensione interpersonale; primo, perché gli altri membri della famiglia possono non riconoscere quel valore come assoluto; secondo perché (come pare sia accaduto nel caso del povero Julian) alcuni bambini, forzati prematuramente a rispettarlo, sviluppano degli atteggiamenti inconsapevolmente opposizionistici e negativistici.
Nel caso in questione, c'è però almeno un elemento significativo che differenzia l'esperienza di C. R. rispetto a quella di altre madri perfezionistiche. Essa, almeno da un anno, era depressa, prendeva psicofarmaci e aveva difficoltà a dormire.
Comunque motivata, la depressione, in conseguenza dei suoi sintomi canonici ó astenia, apatia, abulia, insonnia, ecc. -, dovrebbe necessariamente ridurre le prestazioni delle persone. Di fatto ciò avviene: le donne depresse rinunciano alla lettura, ad ascoltare la musica, a vedere il televisore, ecc. Alcune di esse, però, come è accaduto a C. R., mantengono nella cura dei figli e della casa un livello di prestazione eccellente. Come è possibile una cosa del genere?
A questo punto si apre uno spiraglio che gli psichiatri, ebbri delle loro formulette nosografiche per cui etichettare una persona come schizofrenica significa che da essa ci si può aspettare imprevedibilmente anche il comportamento più assurdo, trascurano.
Il perfezionismo, come ho avuto già occasione di dire (essendo per me un chiodo fisso), non è una scelta libera di vita, nonostante quello che pensano gli interessati. E' un regime di schiavitù interiore che si mantiene e viene fatto proprio in virtù della sua funzionalità soggettiva. In quanto, infatti, comporta delle prestazioni eccellenti in riferimento ai vari ruoli sociali assunti (madre, moglie, casalinga, figlio, lavoratore, ecc.), che vengono rilevate e apprezzate socialmente, il perfezionismo è una dimensione di normalizzazione in un duplice senso. Per un verso, esso consente al soggetto di sentirsi normale; per un altro, esso promuove continue conferme sociali che sottolineano tale normalità, e la connotano spesso come fuori dell'ordinario: una sorta di ipernormalità.
Se ci si chiede perché un soggetto imbocca un tragitto del genere, la risposta è univoca. Quali che siano i condizionamenti ambientali, l'adesione interiore al perfezionismo, vale a dire il fatto che l'io cosciente identifica nel modello perfezionistico l'ideale verso cui aspira corrisponde a vissuti più o meno inconsci di inadeguatezza che, spesso, fanno riferimento anche ad un'attribuzione interiore di anormalità e di squilibrio psichico. Il perfezionismo serve a tenere sotto controllo tali vissuti, a mascherarli, se non addirittura a rimuoverli: a fingere, insomma, sia pure in buona fede, un'assoluta normalità che però ha bisogno, per mantenersi, della conferma esterna, essendo compromessa all'interno da quell'attribuzione.
Universale, questa dinamica perfezionistica, che comporta uno scarto tra l'apparire e l'essere, per cui il primo funziona come copertura d'un mondo interiore avvertito come tutt'altro che positivo, non ha lo stesso sviluppo all'interno di tutte le esperienze. Talora essa si mantiene in equilibrio per tutta la vita, sia pure con un dispendio enorme di energie e l'aspettativa univoca (e talora terrificante) di uno smascheramento; talaltra, essa imbocca un vicolo cieco i cui esiti sono di solito negativi.
Ciò accade quando il soggetto, per tenersi sempre più al riparo da una presunta negatività e per impedire ad essa di affiorare a livello sociale, tende a spingere sull'acceleratore del perfezionismo, vale a dire a mettersi progressivamente alla prova assumendo impegni sempre più rilevanti, sfidandosi e pretendendo di fornire prestazioni sempre maggiori. Questo orientamento dà luogo ad una percezione sociale non solo di normalità ma di eccellenza. Il problema è che una situazione del genere coincide con uno stato critico permanente, costantemente vicino al punto di rottura comportamentale.
Nella misura in cui il soggetto, per risultare eccellente agli occhi degli altri, si schiavizza e s'impone, sia pure senza darlo a vedere, un regime di vita durissimo, è inevitabile che nel mondo interiore si animi una protesta contro tale regime. Il sintomo primario ed elettivo di tale protesta è la depressione, che serve a segnalare che qualcosa non va e allo stesso tempo a mettere il soggetto in condizione di diminuire le sue prestazioni.
Qui arriviamo al nodo della questione. Se, infatti, il significato del sintomo non viene recepito né spiegato al soggetto, è inevitabile che egli, pur depresso, continui a funzionare sul piano della vita quotidiana come sempre, vale a dire a fornire le prestazioni a cui associa la sua normalità e la conferma sociale.
E' questo soffocamento di una rivendicazione di libertà personale che crea le premesse di una catastrofe psicologica, la cui conseguenza è il ritrovarsi ad agire il comportamento in assoluto più distante e antitetico rispetto a quello consueto.

3.

Black-out è un termine molto significativo. In senso psicodinamico, esso, però, non significa che l'organizzazione della coscienza viene repentinamente meno lasciando affiorare quanto c'è di limaccioso, irrazionale, selvaggio o malato nell'anima di un soggetto. Il black-out è l'emergenza di un bisogno significativo lungamente frustrato ó di libertà, di autenticità, d'individuazione ó che si manifesta sotto la spinta di una carica rabbiosa direttamente proporzionale alla frustrazione. Un bisogno frustrato è omologabile ad una faglia sismica il cui potenziale energetico è orientato ad indurre un riassetto delle viscere della terra più stabile rispetto a quello esistente che, nonostante le apparenze in superficie, è più o meno instabile. Ciò nondimeno, allorché quel potenziale entra in azione inducendo lo scorrimento della faglia gli effetti in superficie possono essere immediatamente devastanti.
La metafora del sisma, che non implica alcun riferimento ad una presunta malattia mentale, è più vicina a mio avviso alla realtà psicopatologica di qualunque altra. Si dà però una differenza tra la struttura geologica della terra e quella del mondo interiore soggettivo. Nel primo caso, infatti, l'instabilità della struttura geologica dipende solo da cause naturali, vale a dire dalla storia del pianeta; nel secondo, essa invece riconosce cause culturali.
Il bisogno d'individuazione non riesce a dispiegarsi allorché esso rimane intrappolato in un modello di riferimento culturale, fatto proprio dal soggetto, che privilegia in assoluto l'apparire e la conferma sociale rispetto all'essere, vale a dire al vivere e all'agire in nome dei bisogni e dei diritti individuali.
Questo accade costantemente nelle esperienze perfezionistiche e, sempre più spesso, in quelle delle donne il cui perfezionismo si realizza nell'ottica della tradizione, attraverso l'adempimento ottimale nel ruolo di madri, mogli e casalinghe.
Sarebbe ingenuo, da questo punto di vista, non considerare che, nella nostra singolare società, c'è, per effetto soprattutto dell'influenza della religione e del conservatorismo culturale, una forte sollecitazione in questa direzione. In rapporto ai mutamenti sociali, quasi tutte le donne si trovano a dovere operare una scelta tra il ruolo domestico e quello lavorativo. Spesso la scelta non è concretamente possibile: un numero consistente di donne fanno il doppio lavoro, con la nota conseguenza di vivere in una condizione costante di stress. Gran parte di esse sono, però, consapevoli che, se non potessero "distrarsi" lavorando, starebbero peggio. L'intuizione è fondata. Lo standard medio della vita domestica in termini prestazionali è infatti nettamente aumentato in rapporto al passato. In genere si pensa il contrario in riferimento alla disponibilità di elettrodomestici (lavatrice, lavastoviglie, aspirapolvere, forno a microonde, ecc.) e alla possibilità di vicariare la nuclearizzazione della famiglia con un aiuto domestico. Ma si tratta di un errore di valutazione.
La diminuzione del dispendio lavorativo prodotto dagli elettrodomestici è infatti vanificata da un modello di gestione della casa, dell'ordine e della pulizia infinitamente più elevato rispetto al passato. Soffermarsi su questo aspetto significa aprire uno spiraglio sui paradossi della storia sociale. Definire infatti quel modello semplicemente come borghese è vero solo in parte. E' fuor di dubbio che, nel momento stesso in cui si è affermata, la borghesia ha prodotto il valore del decoro, contrapponendo alla volgarità e alla sporcizia del proletariato un contegno domestico e personale globalmente incentrato sull'ordine, sulla pulizia e sull'abbigliamento ("i colletti bianchi"). E' altrettanto vero però che essa, dovendo competere per l'egemonia politica e sociale con la nobiltà, associò al decoro progressivamente una certa tendenza al gusto estetico e al lusso. Nell'immaginario collettivo, è la dimora dei nobili, con i mobili di stile, i quadri, i tappeti, le cristalleria e le argenterie sempre pulite, il punto di riferimento.
Via via che le condizioni sociali sono migliorate, questo modello si è diffuso a tutte le classi sociali. Per rendersi conto di questo, basta visitare una delle infinite case di città o di provincia che lo realizzano sul registro di un orribile kitsch.
L'ossessione dell'uguaglianza puramente formale è incentrata su di un codice culturale che ho definito rupofobico. Attivissimo nelle donne perfezionistiche, tale codice impone un regime di prestazioni pressoché intollerabile, perché, all'ossessione dell'uguaglianza verso l'alto, esso associa il bisogno soggettivo di distinguersi dalla media delle donne in virtù di una gestione dell'ordine e della pulizia che non ha confronto.
Questo spiega anche il fatto che, in un numero rilevante di casi, le donne perfezioniste rifiutano un aiuto domestico perché nessuna collaboratrice, non avendo amore per quello che fa, può assicurare loro prestazioni soddisfacenti.
Nel caso di R. C., l'aiuto c'era: era assicurato dalla madre. La perdita di questa ha avuto un significato psicologicamente squilibrante. Non è un caso che R. C. si sia mostrata smarrita in seguito al lutto (partecipando ad altri questo smarrimento con un'affermazione inequivocabile: "Adesso come faccio?") e che si sia avviata da allora la depressione.
Sarebbe però ridicolo considerare questa di ordine meramente affettivo o psichiatrico (sintomatica cioè di una malattia rimasta latente sino allora). Il "come faccio" va riferito alla necessità soggettiva, tipica del perfezionismo, di mantenere uno standard prestazionale quali che siano le circostanze di vita, dunque anche in assenza di un aiuto necessario. La depressione va dunque riferita allo scarto tra il non farcela più, che corrisponde ad una rivendicazione di libertà rispetto al regime di schiavitù perfezionistico, e il dovercela fare ad ogni costo.
E' assolutamente evidente che un conflitto del genere non può non avere un esito negativo, psicopatologico.
Nella circostanza in questione, però, l'esito è stato a tal punto drammatico da sconcertare l'opinione pubblica. Quali che siano le motivazioni psicodinamiche che si annodano nell'anima di una madre, sopprimere un figlio sembra andare al di là di esse: in breve, comportare una discontinuità qualitativa all'interno dell'esperienza materna, dunque una malattia che si manifesta sotto la spinta di quelle motivazioni ma in maniera incomprensibile (e ovviamente ingiustificabile).
Casomai si può capire che per una madre perfezionista, la quale sente di non farcela più a mantenere l'ordine e la pulizia secondo un determinato standard, qualunque membro della famiglia che sporca e fa disordine, compreso un bambino, diventa un persecutore, un nemico che attenta ad un equilibrio psichico già precario: che vuole, insomma, mandare ai matti. Si può capire che un bambino oppositivo di quattro anni che fa colazione con la marmellata, si sporca la faccia, le mani, gli abiti, sporca il tavolo, la tovaglia, ecc. possa essere vissuto come uno che lo fa apposta per far saltare i nervi.
Da qui all'infanticidio però ce ne corre.
Il problema è che lo scarto tra comprensione psicodinamica e comportamento distruttivo postula l'adozione di una logica diversa rispetto a quella corrente.
A questo punto il discorso si complica perché si entra sul terreno della teoria. Esso va però affrontato perché senza il riferimento ad una teoria che prescinda dalla logica del senso comune nulla si può capire dei fenomeni psicopatologici. Cercherò naturalmente di semplificare al massimo, per quanto possibile, il discorso, ripromettendomi di riprenderlo ulteriormente.

4.

Dacché è comparso sulla faccia della terra, l'uomo non fa altro che interpretare il mondo: i fenomeni naturali, i comportamenti degli altri, i suoi comportamenti. La logica che egli adotta correntemente si fonda sulla causalità lineare, vale a dire sul fatto che dietro ad ogni fenomeno, assunto come effetto, si debbano dare cause che lo determinano. La logica della causalità lineare comporta anche il riferimento al fatto che tra cause ed effetti si debba dare una relazione quantitativa e continua, tale per cui l'incremento quantitativo della causa determina l'incremento proporzionale dell'effetto. così, per esempio, le conseguenze di un incidente stradale si possono spiegare tenendo conto della velocità di un veicolo. Finire contro un muro o contro un albero a 10 o a 100 Km all'ora produce effetti del tutto diversi.
La logica lineare, intrinseca all'apparato mentale umano, è stata assunta per lungo tempo anche dalla scienza, e ha permesso ad essa di stabilire leggi causali universali. In un certo qual modo, la scienza tradizionale, pur adottando la sperimentazione per convalidare le sue ipotesi e giungere alla formulazione di leggi, ha avallato la pertinenza esplicativa di quella logica.
Solo da qualche decennio, la causalità lineare è stata messa in discussione nell'ambito scientifico. Il motivo è da ricondurre alla presa d'atto che la logica lineare permette di spiegare solo un numero limitato di fenomeni che si realizzano all'interno di sistemi che si definiscono semplici essendo caratterizzati da poche variabili che ne definiscono la forma e l'evoluzione. Al di là di questo, si danno infiniti fenomeni che, non potendosi spiegare in termini lineari, sembrano ricondursi a sistemi complessi nei quali il numero delle variabili è a tal punto elevato che ogni tentativo di definire delle leggi, di operare cioè delle previsioni certe sull'evoluzione dei sistemi stessi, è destinata allo scacco.
Taluno è giunto ad affermare che la realtà, nella sua totalità, è indeterministica, e che, al suo interno, le isole di determinismo, laddove vale il principio della causalità lineare, rappresentano un ambito estremamente limitato.
La scoperta dei sistemi complessi ó tra i quali vanno annoverati a pieno titolo tutti gli organismi biologici e, in particolare, l'uomo con il suo apparato mentale ó non ha però scoraggiato gli scienziati. Posto infatti che, dato un sistema complesso, non è possibile definire leggi deterministiche, è altresì possibile definire leggi dinamiche e probabilistiche che spiegano le discontinuità, vale a dire i cambiamenti nella forma e nel comportamento di un sistema repentinamente o catastroficamente.
Dato infatti un insieme di variabili elevato, riconducibili a "forze" in contrasto tra di loro, si ritiene che il gioco tra le variabili sia tale che fino ad un certo punto il sistema mantiene una sua stabilità strutturale. Raggiunto quel punto critico, si determina una situazione di instabilità strutturale tale per cui l'assetto del sistema deve necessariamente cambiare. A differenza di quanto avviene nei sistemi lineari, laddove si può prevedere il cambiamento (per esempio la rottura di un elastico in seguito ad una trazione crescente), nei sistemi complessi il punto critico comporta un'equiprobabilità tra due diverse e opposte conseguenze. L'esempio classico a riguardo è quello dell'animale che, trovandosi di fronte ad un predatore, sviluppa un panico che si risolverà in virtù di un attacco o di una fuga. Dall'esterno è possibile capire che la sua perplessità e il suo arresto esprimono un conflitto tra due motivazioni diverse. Nessuno però può essere in grado di prevedere con certezza quale delle due possibilità è destinata a realizzarsi.
Se applichiamo questi concetti alla personalità umana, abbiamo la chiave per capire il significato di un raptus infanticida. Alle sue spalle infatti si dà, per effetto di un conflitto, una situazione di grave instabilità strutturale per cui il soggetto non può continuare a vivere come è vissuto sino al momento in cui il conflitto raggiunge un punto critico. Il fatto che il suo comportamento appaia normale o quasi sino al giorno prima non significa nulla. La forma del comportamento infatti può mantenersi continua con la storia precedente della persona finché non interviene la catastrofe. Questa poi non corrisponde ad una fatalità. Il punto critico comporta almeno due cambiamenti equiprobabili.
Nella maggioranza dei casi di madri perfezioniste, il cambiamento di fatto si realizza o sotto forma di una depressione che mette la persona a riposo suo malgrado o sotto forma di ricorrenti e di solito innocue esplosioni di rabbia che le consentono di sfogare il suo malumore. Solo eccezionalmente, il cambiamento si realizza sotto forma di comportamento auto- o eterodistruttivo.
Ci si può chiedere, sotto un profilo pratico, che cosa di nuovo comporta questo approccio interpretativo.
Una prima conseguenza puramente teorica è che il concetto di malattia mentale cui fanno riferimento gli psichiatri non spiega nulla perché esso interpreta in termini di logica lineare ciò che avviene in un sistema complesso. Se non si vuole abbandonare del tutto il concetto di malattia mentale, occorre fare riferimento al fatto che essa si esprime sotto forma di una soluzione sbagliata, equiprobabile rispetto ad altre più adeguate, di problemi reali e vissuti drammaticamente. Da questo punto di vista, più che di una diagnosi psichiatrica e di una terapia farmacologia (che può avere comunque un'utilità sintomatica), l'aiuto importante che può venire dall'esterno consiste nel decifrare i problemi in questione offrendo al soggetto la possibilità di adottare soluzioni adeguate.
Prescrivere solo gli antidepressivi, anche in presenza di una sintomatologia conclamata, può essere addirittura pericoloso poiché, in presenza di un conflitto che ha raggiunto una configurazione critica e che il soggetto non riesce a decifrare, l'effetto psicoattivo dei farmaci può indurre l'acting-out auto-o eterodistruttivo: in breve, funzionare come un cerino lanciato in un deposito di dinamite.
La seconda conseguenza consiste nel prendere atto che i casi di infanticidio sono la punta di un iceberg riconducibile al modo di vivere la maternità in un mondo nel quale la donna è sollecitata ad essere (e a voler essere) perfetta su tutti i piani, nell'ignoranza totale del retroterra storico-culturale che le impone di schiavizzarsi più di quanto sia accaduto in tutte le epoche del passato. Al di là, insomma, di ciò che è umanamente tollerabile, e che, per fortuna raramente, esita in una catastrofica rivendicazione di libertà.