Sul caso Welby

Piergiorgio Welby ha commesso "l'errore" di non suicidarsi quando era ancora in grado di farlo, prima cioè di ritrovarsi in balia dei medici e delle macchine. Non è stata certo un'ingenuità. Welby si è astenuto dal porre fine alla sua vita, pur conoscendo nei dettagli evoluzione della malattia, per creare un caso che obbligasse a discutere di temi bioetici che, in Italia, continuano a ricadere sotto il pesante tabù ecclesiale. Gli va, dunque, dato atto di una passione civile e di un senso del dovere sociale ammirevoli. Che un uomo, impegnato a fronteggiare una malattia penosa nella sua inesorabile progressione e giunto alla sua fase terminale, mantenga ancora una tensione verso un obbiettivo che, sul piano del diritto, trascende la sua esperienza personale e può di fatto diminuire le sofferenze non solo sue ma di altri esseri umani, rappresenta la confutazione più radicale della tesi secondo la quale il laicismo e l'ateismo non possono produrre altro che un relativismo dei valori morali, aperto ad ogni possibile aberrazione.

Era facile prevedere, come ho anticipato nell'articolo precedente, che il sasso lanciato da Piergiorgio Welby nello stagno di una cultura dominata dalla volontà egemonica della Chiesa e di una politica dominata dall'ossessione di non entrare in conflitto con l'istituzione ecclesiale, alla quale ormai anche parecchi laici fanno riferimento come argine alla crisi dei valori prodotti dalla secolarizzazione, avrebbe prodotto appena qualche increspatura.

Di fatto, le reazioni della Chiesa e del mondo politico sono state in linea con le previsioni, anche se esse, dato il coinvolgimento dell'opinione pubblica su di un "caso" divenuto mediatico, si sono realizzate sulla base di giustificazioni morali e filosofiche del dovere di sopravvivere forse più mediocri del solito.

Welby è un soggetto adulto, lucido e cosciente che ha rivolto ai medici una richiesta assolutamente ragionevole ("il distacco dal ventilatore polmonare sotto sedazione terminale, se possibile orale"), ricevendo dal medico un rifiuto sofistico. "Su richiesta del paziente - afferma il dottore in una nota - rispettandone la volontà ed essendo egli lucido, dovrei staccare e sedare per evitare sofferenze. Nel momento che il paziente è sedato e quindi non è più in grado di decidere, risultando in pericolo di vita dovrei procedere immediatamente a riattaccarlo e ristabilire la respirazione. Pertanto sono obbligato per legge a rispettare la volontà, ma allo stesso tempo sono obbligato a rispettare la legge nel momento che perde conoscenza e quindi non è più in grado di decidere". Egli, dunque, ha concluso di non poter "decidere in prima persona" e di volersi rimettere "alle autorità competenti".

Le autorità in questione, sollecitate dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, non hanno perduto tempo. Ben quattro commissioni - pare - sono al lavoro per dare una risposta convergente a temi bioetici: in tutte e quattro, naturalmente, la rappresentanza dei laici, dei cattolici e dei teo-con (i "liberali" che opportunisticamente si schierano con la Chiesa) è tale da far pensare che la risposta (eccezion fatta, forse, per il testamento biologico), seppure verrà, sarà compromissoria, cauta ed inadeguata.

in rapporto al caso Welby, la previsione si fonda sulle opinioni espresse sinora da diversi rappresentanti delle istituzioni coinvolte nella querelle.

Il Vaticano attraverso il cardinale Javier Lozano Barragan ha sentenziato:" L'eutanasia "è e resta un percorso di morte", la Chiesa "è sempre per la vita" e, dunque, contro ogni ipotesi di dolce morte sia attiva che passiva. "Spetta ai parlamentari cattolici - ha detto Barragan - essere coerenti ed esprimere il pensiero cattolico dentro i Parlamenti, secondo le regole e le procedure democratiche". Per contro il cardinale messicano non ha chiuso la strada al testamento biologico a patto però - ha detto - che non sia un "cavallo di Troia" per l'eutanasia.

A sostegno della vita si dice anche il teologo Marco Doldi del Servizio Informazione Religiosa della Chiesa Italiana: "L'ammalato che si sente circondato da presenza amorevole umana e cristiana - afferma in una nota lo studioso - non chiede di farla finita con la vita ed è per questo che l'eutanasia è una sconfitta di chi la teorizza, la decide e la pratica". "Sarebbe bene domandarsi - prosegue Doldi - se la motivazione della insopportabilità del dolore del paziente, non sia da leggersi come l'incapacita' dei sani di accompagnare la persona attraverso la sofferenza e la malattia, che sono così di scandalo per la società del benessere e dell'edonismo".

"L'Italia è la terra della vita e non della morte", afferma da parte sua il presidente del Pontificio Consilio Giustizia e Pace, card. Raffaele Renato Martino ribadendo la dottrina morale della Chiesa e cioè "la difesa della vita dal suo concepimento fino alla morte naturale".

Insomma, com'è suo solito, la Chiesa ha preso spunto dal caso per intorbidare le acque. L'opposizione rigidissima che essa mantiene contro ogni forma di eutanasia viene giustificata sulla base della sacralità della vita e di un fantasma, evocato indirettamente da Marco Doldi, che sembra del tutto fuori luogo. Secondo tale fantasma, legalizzare l'eutanasia non significherebbe solo attribuire all'uomo un diritto che egli non ha - quello di decidere di una vita che non è sua, essendogli stata data e corrispondendo, nelle sue vicissitudini, all'imperscrutabile volontà del Creatore. La legalizzazione aprirebbe la via ad una pratica eugenetica, volta a liberare la società dal peso (assistenziale ed economico) di esseri deboli, difettosi in quanto malati, handicappati, ecc. In questa ottica, la lotta della Chiesa a tutela della sacralità della vita diventa una difesa della dignità umana contro una società efficientista e economicista, che pretende di non perdere energie psichiche, tempo e denaro nel tenere in vita esseri improduttivi.

E' inutile dire che si tratta di un'argomentazione suggestiva per chi ritiene che l'uomo sia un valore e un fine, ma del tutto impropria. Ogni istituzione manipola l'uomo a modo suo. La Chiesa lo manipola insufflando il suo narcisismo di creatura eccezionale per costringerlo ad accettare il capriccio del caso come se esso fosse l'espressione di una Volontà superiore: per renderlo schiavo, in breve, di tale Volontà. La società capitalistica lo manipola riciclando le malattie in maniera tale da ricavarne il massimo profitto possibile. L'assistenza sanitaria produce reddito e concorre in maniera rilevante al PIL. Che essa comporti una spesa pubblica che, in alcuni casi, si può ritenere irragionevole, in quanto le risorse potrebbero essere meglio impiegate, nulla toglie al fatto che ciò che lo Stato spende si traduce in reddito e in profitto per qualcuno.

Il fantasma dell'eugenetica è agitato, dunque, a casaccio, perché, in senso proprio, esso richiede uno Stato totalitario, che privilegia i vantaggi collettivi rispetto a quelli individuali, ed è poco o punto compatibile con un sistema capitalistico nella cui cornice ogni domanda di consumo è sacrosanta e corrisposta.

Le autorità competenti invocate dal medico curante di Welby hanno fornito risposte che, con l'eccezione della minoranza parlamentare (tra l'altro trasversale) favorevole all'eutanasia, attestano uno stato quasi confusionale.

Il ministro della Salute, Livia Turco, annunciando la sua intenzione di incontrare Welby di persona, ha ribadito di essere "contraria a staccare la spina" perché ritiene che la richiesta di morire e un eventuale risposta legalizzata ad essa non rientrano "nell'esercizio della libertà personale".

Se politicamente è inoppugnabile il principio per cui, in una società organizzata, tale esercizio è definito per molti aspetti dalle leggi dello Stato, subordinare a queste la capacità soggettiva di tollerare la malattia, l'invalidità, la sofferenza, vale a dire imporre di continuare a sopravvivere comunque, sembra un arbitrio piuttosto che un principio democratico. Omologare, inoltre, la risposta ad una richiesta di buona morte avanzata da un cittadino in grado di intendere e di volere ad un omicidio è addirittura un non senso, dato che l'omicidio è la soppressione della vita di un soggetto che implica una violenza, vale a dire un agire contro un diritto cui la vittima, in genere, tiene.

Il ministro delle politiche giovanili, Giovanna Melandri, in un'intervista al Corriere della Sera sottolinea: "La parola eutanasia non mi piace" perché "non credo si debba parlare di interruzione volontaria della vita. Guai a varcare quella soglia. La vita è un dono sacro per credenti e non credenti". a discussione aperta da Piergiorgio Welby e dal presidente Napolitano "potrebbe avere due effetti molto importanti. Il primo - osserva Melandri - è infrangere il tabù della morte. Una società che torni a parlare della morte può ritrovare la dimensione sacra della vita. Il secondo è avviare un ragionamento al di là degli schieramenti, senza destra né sinistra, senza governo e opposizione, senza credenti e non credenti".

Last but no least, ha espresso il suo parere anche Gianfranco Fini: "Welby è cosciente, non può chiedere di morire, perché chi assecondasse la sua volontà sarebbe un omicida". In merito alla richiesta di Piergiorgio Welby di staccare la spina che lo tiene in vita, il presidente di An non ha dubbi: "Sono contrario all'eutanasia: la vita non è nella disponibilità di un uomo".

A queste prese di posizione dogmatiche, perentorie e insopportabilmente retoriche, nell'attesa che il tribunale di Roma si pronunci sul ricorso presentato per ottenere l'interruzione dell'accanimento terapeutico, Piergiorgio Welby ha risposto con una lettera, rivolta al Direttore del Tg 3, densa di indignazione e di "civiltà" il cui testo integrale è il seguente:

"Signor Direttore,

sono Piergiorgio Welby, che ha preso il posto di Luca Coscioni quale Presidente dell'Associazione radicale che porta il suo nome, e come esponente della costellazione di soggetti politici Radicali, nazionali e internazionali, che operano con e attorno al Partito Radicale.

Ormai, 77 ´giorniª fa, mi sono rivolto pubblicamente, personalmente, politicamente, al Presidente della Repubblica, quale supremo Garante del rispetto della Costituzione, della legalità repubblicana; per ottenere finalmente l'esercizio del mio diritto naturale civile politico personale ad una mia morte - naturale -. Solo modo possibile per conquistare (anche in Diritto) pace per questo ´mioª corpo altrimenti sempre più straziato e torturato. Sequestratomi, per una kafkiana imposizione ´eticaª dall'ordinamento e del potere burocratico, o anche a esso imposto. Dobbiamo tutti - credo - gratitudine per la qualità, l¥importanza, della Sua risposta e delle Sue esortazioni che hanno indubbiamente consentito il grave e grande dibattito che unisce, anzichè dividere, coloro che vi partecipano, che non sono indifferenti.

Come già Luca Coscioni, a mio turno sono oggi oggetto di offese e insulti, di pensieri, parole, aggressioni alla mia identità ed alla mia immagine, quasi non bastassero quelle perpetrate al corpo che fu mio e che, invece, vorrei, per un attimo almeno, mi fosse reso come forma - qual è il corpo - necessaria del mio spirito, del mio pensiero, della mia vita, della mia morte; in una parola del mio ´essereª.

Sono accusato, insomma, di ´strumentalizzareª io stesso, la mia condizione per muovere a compassione, per mendicare o estorcere in tal modo, slealmente, quel che proponiamo e perseguiamo con i miei compagni Radicali e della Associazione Luca Coscioni, che ha ragione ormai antica e sempre più antropologicamente, culturalmente, politicamente forte; ´dal corpo del malato al cuore della politicaª. O, ancora, non sarei, come già Luca Coscioni, che io stesso strumentalizzato dai ´mieiª, così infamandoci come meri oggetti o come soggetti plagiati. (O indemoniati, vero... Signori?). Strumenti? Sono, invece, limpidi obiettivi ideali, umani, civili, politici.

Dalla mia prigione infame, da questo corpo che - per etica, s'intende - mi sequestrano, mi tornano alla memoria le lettere inviate alla... ´politicaª da un suo illustre, altro, ´prigionieroª: Aldo Moro. Pagine nobili e tragiche contro gli uomini di un potere che aveva deciso di condannarlo (anche lui per etica, naturalmente) a morte certa, anche lui ad una forma di tortura di Stato, feroce ed ottusa. Quelle pagine non potrei farle mie. Anche perché furono perfette, e lo restano.

Un pensiero, ancora, un interrogativo, un dubbio: dove sono mai finiti per tanti ´credentiª Corpo mistico e Comunione dei Santi?

Comunque Addio, Signori che fate della tortura infinita il mezzo, lo strumento obbligato di realizzazione o di difesa dei vostri valori! Chi siano (e in che modo) i morti o i vivi che rimarranno tali quando saremo tutti passati, non sappiamo, né noi né voi.

Io auguro a voi ogni bene. Spero davvero (ma temo fortemente che così non sia), spero davvero che questo augurio vi raggiunga, si realizzi, perché questo ´voiª oggi manca anche a me, anche a noi altri.

Per finire, grazie Signor Direttore per la sua tollerante attenzione. A questo mio estremo, ultimo tentativo di trasmettere parola. Grazie sincero,

Suo

Piero Welby

p.s. Chiedo - ringraziandoli fraternamente - alle oltre 700 mie compagne e compagni, antiche e nuovi, che sono in sciopero della fame, alcuni al sedicesimo giorno, di sospendere questa loro forma di lotta, che ha contribuito in modo determinante al radicamento di un nuovo grande momento di dialogo e di conoscenza a tutto il Paese."

All'ipocrisia dei politici, che concerne, oltre a quelli autenticamente cattolici, i quali ritengono giusto imporre alla società civile valori confessionali, coloro che intendono opportunisticamente accattivarsi i favori dell'elettorato cattolico, è corrisposta una reazione dell'opinione pubblica sorprendente.

Un'indagine recentissima, infatti, attesta che, almeno sul tema dell'eutanasia, la società civile è già un passo avanti rispetto alla classe politica. Sul sito de La Repubblica i dati emersi dall'indagine sono così sintetizzati:

"Alla domanda se i medici dovrebbero accogliere la richiesta di Welby, il 64% degli intervistati (un campione di mille cittadini residenti in Italia) non ha dubbi nel rispondere un secco sì, contro il 20% dei contrari e un 16% che preferisce non esprimere la propria opinione in assenza di un'idea chiara in materia.

Ma ben più significativo è il dato se si tiene conto della fede religiosa degli intervistati: in particolare tra coloro che vedono l'eutanasia come una soluzione praticabile per Welby, il 50% si dichiara cattolico praticante, mentre il 71% abbraccia la fede cattolica, ma non pratica.

Anche tra coloro che dichiarano di professare un'altra religione la percentuale dei favorevoli all'eutanasia è elevatissima: si parla del 68%. Mentre la percentuale diventa quasi bulgara quando la richiesta viene fatta agli atei che, per il 95%, si dicono favorevoli a staccare la spina."

La decisione del Tribunale di Roma è prevedibile. In difetto di un quadro legislativo, il concetto di accanimento terapeutico è equivoco e facilmente manipolabile. Se anche il tribunale dovesse accogliere il ricorso, peraltro, quale medico oserebbe, dopo le dichiarazioni dei politici, staccare la spina e affrontare un processo penale?

La lotta non già per l'eutanasia ma per una concezione della vita affrancata dal pregiudizio spiritualista, dovendo rimuovere incrostazioni culturali di antica data, sarà inesorabilmente molto lunga.

Nell'immediato aggiungerei solo una riflessione teorica a quanto ho scritto finora su questo tema.

La difesa da parte della Chiesa della sacralità della vita - valore cui è giusto si attengano i credenti - cela in realtà un problema che va molto al di là del Creazionismo. Posto, infatti, il principio che l'uomo, inteso sia come specie che come singolo individuo, è il frutto di un atto intenzionale e di un progetto divino, rimane il problema di capire perché egli sia stato creato in un certo modo piuttosto che in un altro; perché egli dispone di un'anima immortale costretta a vivere per un tempo infinitesimale in un corpo soggetto a tutte le vicissitudini di un organismo la cui struttura biologica, essendo una sfida contro l'entropia, comporta perennemente il rischio di catastrofi di ogni genere. Da questo punto di vista, mentre la morte non è un problema, perché sarebbe inconcepibile un organismo biologico complesso di durata infinita, il dolore e la malattia lo sono.

Per un verso, infatti, la distribuzione casuale del dolore e della malattia contrastano con qualsivoglia senso di giustizia. La teologia risolve il problema affermando che l'accettazione del dolore, come espressione dell'imperscrutabile volontà divina, rappresenta un merito che sarà ripagato nell'aldilà. La felicità eterna, paradisiaca, però, teologicamente non comporta gradi diversi a seconda del merito. Alla destra del Padre ascendono sia coloro la cui vita è un perpetuo travaglio sia coloro che praticano la fede, ma hanno un'esistenza serena. L'ingiustizia della distribuzione casuale del dolore e della malattia non è dunque risolta dal premio.

Per un altro verso, la sostituzione della natura con Dio all'origine della vita, rende del tutto incomprensibile un'organizzazione biologica che, talora, procede verso la catastrofe finale con modalità degne di un film dell'orrore. Chi ha avuto occasione di assistere, per esempio, un malato di tumore con metastasi ossee diffuse i cui dolori diventano insensibili alla morfina prima che la fine sopravvenga, sa di cosa si parla. Anche situazioni come quella di Piergiorgio Welby, per quanto più rare, sono inquietanti. La malattia in questione determina, infatti, una morte per asfissia che si realizza lentamente in stato di lucidità. Una fine del genere che riesce perfettamente comprensibile se viene attribuita alla Natura (circostanza questa che autorizza l'uomo a non volersi prestare ai suoi giochi), è del tutto contrastante con un Disegno intelligente, tranne che non si faccia riferimento ad un'intelligenza disumana.

E' evidente che la Chiesa, irrigidendosi sulla difesa della sacralità della vita e non riconoscendo il diritto della creatura di definire il limite al di là del quale essa ha diritto di invocare la pietas e la grazia, commette un errore strategico, poiché, via via che la coscienza umana si affranca dalla soggezione alla tradizione, essa sarà sempre meno incline ad accettare la subordinazione totale e passiva all'imperscrutabile volontà divina.

Come attesta l'inchiesta che ho citato l'erosione del consenso sull'atteggiamento della Chiesa è già in atto presso i cattolici.

Come spiegare, dunque, quell'irrigidimento? La spiegazione ufficiale ecclesiale è che si danno principi e valori che fanno capo alla verità rivelata che sono non contrattabili e sui quali l'intransigenza definisce lo spartiacque tra credenti e miscredenti.

In realtà, la spiegazione è più profonda.

E' per caso che la morte che Welby intende scongiurare - quella per lenta asfissia - sia la stessa nella quale è incorso Gesù. La crocifissione ha rappresentato l'espressione di un disegno intelligente del tutto umano, per quanto sadico. Nel corso della storia essa rappresenta la tecnica per dare la morte la più crudele in assoluto, perché, a differenza della tortura, che richiede l'assidua attività del torturatore sul corpo della vittima, essa fa della vittima stessa il proprio carnefice nella misura in cui il peso del corpo non può essere compensato dallo sforzo delle braccia e il rilassamento infine determina l'asfissia, vanamente contrastata dagli sforzi della vittima di tirarsi su per prendere un po' di aria.

E' la teologia della Croce, insomma, che si cela sotto la difesa della sacralità della vita e della necessità di accettarla in tutte le sue espressioni.

Una stolta teologia che, tra l'altro, trascura il terribile grido di Gesù (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?), che gli evangelisti hanno fedelmente (e forse incautamente) riportato. Tale grido attesta che c'è un limite al di là del quale il dolore è intollerabile per chi lo sopporta.

La richiesta di Welby, che esprime la stessa disperazione, non è rivolta a Dio, ma ai suoi simili, che dovrebbero capire di cosa si tratta. Purtroppo, è probabile che rimanga inascoltata.