Una madre aiuta suo figlio a morire

"Una madre belga ha confessato di aver "aiutato a morire" il figlio di cinque anni che soffriva di cancro ed era giunto alla fase terminale della malattia. La donna, Doris Dornè, ha rilasciato la sua testimonianza alla televisione belga fiamminga Vtm, ammettendo di aver chiesto ai medici di "aumentare la dose di morfina" ben sapendo che ciò avrebbe accelerato la morte del suo piccolo Benjamin. "E' stata la migliore decisione che potevo prendere" - ha spiegato la madre - perchè "metteva fine alle sue inumane sofferenze".

L'eutanasia, che sarebbe stata decisa d'accordo con il marito e con i medici, risale al 17 novembre del 1993, ed è avvenuta nella cittadina di Nieuport, sulla costa nord-ovest del Belgio.

Il tumore era stato diagnosticato al bambino all'età di tre anni. Dopo un primo trattamento Benjamin era stato considerato guarito, ma nel 1993 la malattia era ricomparsa.

In seguito ad una intervista della madre pubblicata ieri sul quotidiano fiammingo 'Hest Laatste Nieuws' il tribunale di Furnes ha aperto un'inchiesta per far luce sui fatti.

Il Belgio ha dallo scorso anno parzialmente legalizzato l' eutanasia, imponendo però una serie di severe condizioni. Secondo la nuova legge, il medico deve assicurarsi che il paziente sia maggiorenne ed in grado di intendere e di volere: la richiesta, in forma scritta, deve essere "volontaria, riflettuta e reiterata" e non frutto di pressioni esterne.

Spetterà sempre al medico curante verificare che la malattia sia incurabile e provochi una "sofferenza fisica o psichica costante ed insopportabile". La legge prescrive la consultazione di un altro medico indipendente e, nel caso in cui il decorso naturale della malattia non faccia prevedere una morte in tempi brevi, deve essere sentito un terzo specialista.

Ogni proposta di eutanasia va notificata ad una commissione federale di 16 membri incaricata di verificare se tutte le condizioni stabilite dalla legge siano state rispettate. In caso contrario, il caso può essere deferito all'autorità giudiziaria. "

La scarna notizia di cronaca merita un commento. L'autodenuncia della madre rivela un coraggio notevole. Essa non può non sapere che, denunciandosi, espone se stessa e i medici che hanno accolto la sua richiesta di aiutare il figlio a morire ad un procedimento giudiziario. Perchè lo ha fatto? Presumibilmente per rimuovere la coltre d'ipocrisia che grava sul problema dell'eutanasia. Ovunque, almeno in Europa, medici e parenti adottano strategie terapeutiche che agevolano la morte accelerandola. L'eutanasia attiva è una realtà di fatto, che corrisponde al rifiuto della sofferenza fine a se stessa. Si tratta però di una pratica che va tenuta nascosta perché urta contro il rigore della legge.

E' questo uno dei casi che pongono di fronte allo scarto tra l'evoluzione culturale, che sancisce a livello di coscienza sociale il diritto di porre fine ad inutili sofferenze, e la legge. Tale scarto è dovuto a due motivi.

Il primo è ovviamente riconducibile al divieto di uccidere, che rappresenta un "tabù" presente in tutte le culture sinora note, e che in Europa è stato corroborato dalla concezione cristiana della vita come dono di Dio su cui l'uomo non ha alcun potere. Il cedimento progressivo di questo "tabù" in riferimento alle malattie fatali e dolorose attesta un processo di secolarizzazione strisciante ma incoercibile. Nella misura in cui la vita viene ad essere concepita come un'avventura terrena, la sua qualità diventa più importante del suo perpetuarsi e il dolore fine a se stesso viene vissuto come un attentato alla dignità umana dal quale l'uomo ha diritto di difendersi. Se egli si trova in una condizione di impotenza, ciò implica che tale diritto può essere recepito e realizzato da qualcun altro. Aiutare a morire, in quest'ottica, diventa una manifestazione di umanità incentrata sull'identificazione con l'altro che soffre, la cui sofferenza appare, al soggetto e agli altri che lo circondano, sterile. La legge stenta a farsi carico di questo diritto semplicemente perché, nella tradizione europea, esso è stato esercitato in passato come punizione, sotto forma di pena di morte (tra l'altro dalla Chiesa stessa). Che il dare la morte possa essere un atto di umanità e di amore è ancora incompatibile con questo remoto significato.

Il secondo, ben noto, è da ricondurre al rischio che una legge sull'eutanasia che non sia incentrata sulla volontà esplicita e reiterata del malato e non faccia riferimento ad una situazione di sofferenza oggettivamente intollerabile possa promuovere degli abusi. Questa remora implica che, sia a livello soggettivo che nei rapporti interpersonali privati, si possano dare motivazioni molteplici per desiderare la morte propria o di un altro che non possono essere assunte nell'ambito del diritto. Un soggetto anziano, solo, in difficoltà economiche, la cui vita non ha più senso soggettivo non potrà mai chiedere di essere aiutato a morire perché tale richiesta non configura una situazione oggettivamente intollerabile, e configura tra l'alro uno scacco della comunità e dell'assistenza sociale. Un malato, anche grave, vissuto come un peso dai familiari o la cui morte può portare ad essi vantaggi patrimoniali non può essere messo a morte anche se la sua condizione si può ritenere implicitamente insignificante per lui stesso.

Il caso in questione è interessante perchè esso fa riferimento al diritto di soggetti minorenni che non sono in grado di esprimere la loro volontà. E' questa una situazione che nessuna legge esistente sull'eutanasia e nessuna proposta di legge ha finora previsto. E' difficile che ciò possa accadere anche in futuro perché si tratterebbe si autorizzare qualcuno (i parenti, i medici) ad interpretare la volontà di qualcun altro che non è in grado di esprimerla compiutamente. Come evitare in questo caso l'arbitrio o l'abuso? Una madre che, mettendosi nei panni di un figlio gravemente handicappato, si sente straziata perché pensa che, al suo posto, non avrebbe senso vivere, non intepreta la volontà del figlio, proietta su di lui la propria. E se essa poi, in buona fede, celasse, sotto l'identificazione, il desiderio inconscio di liberarsi da un peso assistenziale insostenibile e dal senso di colpa di aver generato un figlio handicappato?

I limiti dell'ordinamento giuridico stanno nel fatto che esso non può tenere conto che di fatti oggettivi. I vissuti, le implicazioni soggettive, le emozioni sconfinano per molti aspetti dal suo ambito di competenza. Il caso della madre belga fa riferimento, per l'appunto, a questi aspetti.

Nella pratica medica, poche esperienze sconvolgono quanto quelle dei bambini gravemente malati e sofferenti che hanno nello sguardo l'aspettativa che i grandi facciano qualcosa per porli al riparo dal dolore. Una malattia infantile dolorosa violenta la convinzione illusionale dei bambini che i grandi siano onnipotenti nel proteggerli. I genitori, che vivono la sofferenza dei figli, recepiscono quell'aspettativa e sono sconvolti dalla loro impotenza. Anche il loro amore, che implica la protezione del figlio, è violentato da malattie che non hanno alcun riguardo per la soggettività e l'intersoggettività.

Il discorso sull'eutanasia non può prescindere dal riferimento alla malattia come fatto naturale brutale riguardo al quale, oltre che lottare, l'uomo ha il diritto di prendere posizione. E non son lo l'uomo come singolo, bensì la comunità. La pietas eccede la legge, ma un giorno o l'altro questa dovrà confrontarsi con essa e recepirla. Il pericolo dell'arbitrio dovrà essere valutato con estrema attenzione, ma nondimeno dovrà essere valutato il pericolo dell'indifferenza nei confronti dei sacrifici sterili. L'umanità non può sacrificare la sua dignità e la sua vocazione alla felicità sull'altare del Moloch del dolore cristiano.