La morte dignitosa


1.
“Torino: spara alla moglie malata e si toglie la vita
  Stanco di vederla soffrire, non ce l'ha fatta più: ha ucciso la moglie malata da diversi anni di Alzheimer, e poi si e' sparato un colpo di pistola alla tempia. Si e' consumato così, ieri notte, a Torino, un tragico omicidio-suicidio. Protagonisti del dramma, una coppia di anziani, Francesco e Domenica Aloisio di 78 e 77 anni, che vivevano da soli e da tempo afflitti dalla terribile malattia di lei. Il marito ha prima sparato alla donna con una 7,65 regolarmente detenuta e poi ha chiamato il 113 denunciando il suo gesto disperato. Subito dopo, si e' sdraiato ai piedi del letto dove giaceva la moglie, e si e' suicidato. Gli agenti hanno trovato nell'appartamento anche il foglio di denuncia di possesso della pistola e il testamento.”
Eventi di cronaca come questi, riportato dalla stampa a metà gennaio, per quanto rari, pongono il problema del diritto di morire o di essere aiutati a morire in rapporto alla terza età.
Tale diritto dipende, almeno in parte, dai medici quando è in gioco una patologia organica la cui  prognosi è infausta. Non si tratta in tali casi di evitare solo trattamenti finalizzati a prolungare un’inutile agonia, ma di somministrare senza remore i farmaci antidolorifici, compresa la morfina, per lenire le sofferenze e agevolare l’exitus.
Veronesi, in un suo recente libro, ha avuto il coraggio di affermare che questa pratica, che va al di là dell’eutanasia passiva, è già largamente praticata dai medici in Italia e in Europa. Anche se la buona morte cui fa riferimento non è l’eutanasia attiva, il libro ripropone implicitamente questo tema destinato inevitabilmente ad imporsi presso l’opinione pubblica via via che la cultura laica, incentrata sulla qualità della vita e sul rifiuto di inutili sacrifici sull’altare del dolore, avanzerà.
Il progresso è indubbiamente lento perché urta contro una serie di ostacoli di diverso significato. Il primo è il “naturale” attaccamento alla vita, per cui chi soffre spera sempre e comunque di poter guarire, anche contro l’evidenza dei fatti. Il secondo è legato ai familiari che, lottando di solito perché sia fatto tutto il possibile per il loro congiunto malato, pensano di esprimere l’intensità del loro affetto, ma spesso agiscono solo per prevenire eventuali sensi di colpa successivi alla perdita del congiunto. Il terzo è da ricondurre ad una cultura medica che, nonostante le circostanze riferite da Veronesi, è ancora fortemente incentrata sulla tutela della vita, interpretata purtroppo solo come sopravvivenza biologica. Alcuni medici motivano il loro comportamento sulla base di principi religiosi. La maggior parte però è semplicemente condizionata da un tragitto formativo che fa riferimento all’uomo come ad un insieme di organi, il cui funzionamento va sostenuto dalla medicina fino allo scompenso fatale.
Se e quando il progresso culturale riuscirà a sormontare tali ostacoli, non è detto però che tutti i problemi saranno risolti. Presumibilmente, in un futuro non lontanissimo, la pratica della medicina si affrancherà da ogni forma di accanimento terapeutico che, a posteriori, risulterà incivile, e i medici, forse, avranno il coraggio di non accogliere le aspettative dei parenti e la capacità di fare accettare loro i limiti delle cure.
Questo, però, riguarderà le malattie la cui prognosi infausta è scientificamente definibile. Esistono, però,  alcune malattie il cui esito fatale sopravviene dopo molti anni di sintomi che  incidono più o meno pesantemente sulla qualità della vita del soggetto e dei parenti. Tra queste, la più drammatica in assoluto è il morbo di Alzheimer.
2.
Il morbo di Alzheimer, che rappresenta il 50-70% delle demenze, sta diventando un grave problema nel contesto dei paesi occidentali, dato che esso si è incrementato in misura direttamente proporzionale all’allungamento della vita. Ritenuto un tempo una forma tipicamente presenile, da tre decenni a questa parte è risultato chiaro che la sua incidenza aumenta con l’età: ne è affetta il 7% della popolazione al di là dei 65 anni, e addirittura il 30% degli ultraottantenni. Si calcola che attualmente esso investa non meno di trenta milioni di persone in tutto il mondo, con una forte e ovvia prevalenza, come accennato, in Occidente.
Il termine demenza è sufficientemente indicativo del quadro clinico che, spesso con un esordio strisciante, comporta deficit cognitivi (disturbi della memoria, del linguaggio e dell’orientamento spazio-temporale, difficoltà e incapacità di riconoscere persone, cose e luoghi anche familiari, compromissione progressiva dei moduli comportamentali necessari a compiere gli atti quotidiani della vita – lavarsi, vestirsi, mangiare); alterazioni della personalità, che si traducono spesso in perdita di controllo sulle emozioni, aggressività verbale e fisica, disinibizioni morali, ecc., e, spesso, disturbi psichiatrici che vanno dall’ansia, alla depressione e al delirio paranoico.
Il quadro clinico, però, dice ben poco dell’esperienza di coloro che si rendono conto (ed è la maggioranza) di scivolare verso la demenza e dei parenti che assistono all’evoluzione della malattia.
Per quanto si diano forme diverse per sintomatologia e decorso, ciò che avviene solitamente è che, nel giro di alcuni anni, il paziente, dopo avere attraversato una fase (schematicamente la seconda) nel corso della quale partecipa, consciamente e inconsciamente, di ciò che sta avvenendo con grande agitazione, almeno apparentemente cessa di soffrire perché la sua esperienza psichica si riduce sul piano dell’istantaneità. In conseguenza di questo, la sua identità tende a svanire. Il comportamento diventa casuale, imprevedibile, incontrollabile. Rimane, insomma, la maschera fisica della persona, dietro la quale però questa sembra esserci il vuoto o – è lo stesso – il caos.
Alcuni pazienti non arrivano a tanto perché, quando hanno ancora un minimo di lucidità, si uccidono. Questa circostanza viene attribuita dagli psichiatri al disturbo depressivo dell’umore, che naturalmente anche in questo caso secondo loro, è espressivo di un difetto di serotonina. Se è vero, ciò significherebbe che anche le molecole chimiche hanno un po’ di buon senso.
Via via che la sofferenza soggettiva dei pazienti si riduce, quella dei parenti aumenta. Al di là della quasi assoluta imprevedibilità dei comportamenti, che determina un’ansia costante, e la necessità di vigilare giorno e notte, ciò che incide di più è il trovarsi di fronte ad una persona che mantiene le sue sembianze, ma non è più la stessa o, meglio, non c’è più.
Chiunque si renda conto della misura in cui ciascuno di noi associa la propria e l’altrui identità individuale alle fattezze fisiche, alla mimica, ai gesti, a un certo modo di sentire, e a determinati atteggiamenti e moduli comportamentali, può capire lo strazio di trovarsi ad interagire con un malato di Alzheimer.
E’ vero che, per arrivare a questo, occorrono solitamente da uno a quattro anni. Il problema è che un essere affetto da Alzheimer può sopravvivere da 8 a 15 anni: un tempo devastante per la sua dignità e ancor più per i parenti.
Cosa fare?
Quello che si fa attualmente è il solito, solo per alcuni aspetti meritorio, balletto assistenziale. Non esiste nessun farmaco specifico per l’Alzheimer, ma, nell’attesa che la ricerca giunga a trovare la soluzione totale biologica (cellule staminali) o chimica (farmaci in grado di impedire la morte delle cellule nervose), le industrie si danno un gran da fare per mettere sul mercato farmaci in grado almeno di rallentare l’evoluzione della malattia. In realtà, i risultati sinora raggiunti sono univocamente mediocri, ma, ciò nonostante, ogni nuovo farmaco viene lanciato con un battage pubblicitario presso la classe medica molto persuasivo. I parenti, data la loro disperazione, non oppongono alcuna resistenza alle prescrizioni.
Per alleviare il carico gestionale  che grava sulle famiglie, si aprono centri diurni ove i malati di Alzheimer trascorrono parte della loro giornata. Esistono anche case di cura che si fanno carico di loro: si tratta di istituti di lungodegenza ad alto costo, che hanno tutti i limiti propri dei “cronicari”, aggravati dalla patologia in questione. Si tratta insomma di stabulari, ove le persone attendono di morire esibendo comportamenti che sono patetici, ridicoli, inquietanti, indegni di un essere umano.
3.
C’è insomma un gran giro di speculazione sull’Alzheimer, sottesa, al solito, dall’umanitarismo di bassa lega della medicina contemporanea e delle industrie farmaceutiche.
Proporre soluzioni alternative non è semplice, perché esse coinvolgono problemi etici di grossa portata. E’ evidente che la soluzione radicale – vale a dire quella di attribuire ad una commissione medica il potere di definire se uno stato di demenza è compatibile o meno con la dignità umana e, in caso di risposta negativa, praticare l’eutanasia – è improponibile: primo, perché il criterio della dignità umana non è univoco (per i cattolici, per esempio, essa si mantiene sino all’ultimo respiro); secondo, perché, dato uno stato di demenza assoluta, nessuno è in grado di ricostruire l’esperienza soggettiva del paziente, e quindi di definire se per lui essa ha senso o meno.
C’è però qualcosa che, nell’ottica laica della qualità della vita e della responsabilizzazione esistenziale del soggetto, si potrebbe e si dovrebbe fare.
La pratica medica, soprattutto in Italia, è vincolata ancora ad una concezione infantile dell’essere umano, che si esprime nel metterlo al riparo da verità riguardanti la sua condizione che potrebbero risultare intollerabili o promuovere gesti “disperati”. E’ questo il motivo per cui, laddove si stabilisca una diagnosi di malattia grave o fatale, si preferisce metterne al corrente i parenti e di tenere all’oscuro l’interessato.
Questa procedura viene giustificata adducendo varie ragioni. La prima fa riferimento al fatto che una malattia grave non incide solo sul destino del soggetto, ma sulla rete parentale cui esso appartiene. Dato che, in genere, i parenti sono i primi a sentire l’obbligo di celare la verità al congiunto, ritenendola intollerabile, i medici non fanno altro che assecondare tale volontà. In questa ottica, il fatto che il soggetto sia un adulto che gode dei pieni diritti civili e giuridici, tra i quali si potrebbe inserire anche quello di sapere la verità sulla sua condizione biologica, sembra insignificante. La condizione di malattia grave sembra automaticamente sospendere tale diritto e trasferirlo sui parenti.
Un secondo motivo è che, per quanto la diagnosi sia certa e la sua prognosi altamente attendibile, la medicina non rinuncia mai a porre in atto degli interventi terapeutici e a confidare nel “miracolo” . Poiché si ritiene giustamente che il decorso di qualunque malattia e l’efficacia della terapia dipenda in una qualche misura, talora rilevante, dallo stato d’animo del paziente e dalla fiducia che egli ripone nella possibilità di guarire, tenerlo al riparo dalla verità, per cui tale possibilità equivale a vincere il primo premio di una lotteria, sembra funzionale ad assicurare una “compliance” favorevole.
Il terzo motivo è la persistente “fobia” dei medici e dei parenti nei confronti di un suicidio che potrebbe sopravvenire in conseguenza della verità comunicata al paziente. Tale fobia si articola sul presupposto per cui, anche nel caso di una diagnosi statisticamente fatale, “non si può mai dire”. Suicidandosi, il paziente potrebbe rinunciare a ritirare il primo premio della lotteria che la sorte potrebbe avergli imperscrutabilmente assegnato. Essa, però, fa capo anche al fatto che il suicidio continua ad essere interpretato come un gesto disperato,  mai razionale o ragionevole, che implica uno stato depressivo patologico e una sorta di denuncia inconscia dell‘insufficienza dell’aiuto sociale.
Tutti i motivi elencati si riconducono a due matrici di fondo: quella per cui l’uomo non tollera la consapevolezza della sua finitezza (che, al limite, significa prendere atto di una condizione che porta alla fine) e quella per cui la vita vale sempre e comunque la pena di essere vissuta.
E’ evidente che queste matrici hanno una valenza culturale, che si esprime attraverso una programmazione sociale che non aiuta certo le persone a confrontarsi apertamente con il problema del loro destino biologico, della malattia e della morte.
Se questo è vero, solo una diversa programmazione sociale potrà affrancare gli uomini da presupposti ideologici che li definiscono implicitamente come bambini che vanno protetti da verità che non tollerano.
Quali conseguenze hanno queste considerazioni in rapporto al problema dell’Alzheimer è intuibile.
Esse inducono a ritenere eticamente importante e deontologicamente obbligatorio per i medici attenersi al criterio per cui, posta una diagnosi certa di Alzheimer, essa debba venire comunicata, oltre che ai parenti, agli interessati, corredata di tutte le informazioni attualmente disponibili sulla natura della malattia e sul suo decorso. Per quanto riguarda le cure, occorrerebbe anche essere onesti nel riferire che attualmente esse incidono molto poco sul quadro morboso. Sarebbe lecito far presente ai malati che le ricerche a riguardo sono in corso e che si può prevedere che esitino in qualche risultato rilevante nel corso dei prossimi anni. Si tratta di una speranza, più che una certezza, ma non sarebbe comunque una menzogna.
Quale sarebbe la conseguenza di questo salto di qualità culturale, che, a mio avviso, dovrebbe riguardare tutta la pratica medica, ma che, in rapporto al problema in questione, appare urgente e possibile?
Di sicuro, gran parte dei pazienti riuscirebbero, come accade di solito in medicina, a “selezionare” le informazioni ricevute, rimuovendo o  minimizzando la prognosi catastrofica e enfatizzando la possibilità di nuove cure. Tra questi, i pazienti cattolici potrebbero accettare la prova cui Dio li sottopone – di togliere ad essi il bene supremo del libero arbitrio – e affidarsi alla sua volontà.
Alcuni pazienti – più disincantati o laici -, altrettanto sicuramente, sarebbero indotti a valutare la possibilità di anticipare la catastrofe ponendo fine anticipatamente alla loro vita. Altri ancora, pur arrivando alla stessa conclusione, potrebbero trovarsi in gravi difficoltà nel realizzarla.
E’ possibile fornire un aiuto a questo drappello di antesignani di una nuova cultura, ponendoli al riparo dallo stigma di essere affetti da un disturbo psichiatrico dell’umore?
Sulla carta, l’aiuto sarebbe possibile. Si tratterebbe infatti, da parte dei medici o di tanatologici, che tanto si danno da fare sul piano dell’assistenza ai malati terminali (partendo comunque dal presupposto confessionale che la vita è sacra), di secernere un gruppo di operatori della buona morte, orientati a convalidare la decisione presa dai pazienti e/o ad aiutarli a realizzarla.
Già il primo obiettivo, allo stato attuale delle cose, sembra utopistico, perché operatori consapevoli del fatto che la vita è degna di essere vissuta solo in rapporto ad una libera scelta dell’interessato ce ne sono pochi. Il secondo obiettivo, quello al di là della barretta, urta contro la legge che vieta l’eutanasia attiva in qualunque forma.
Che senso ha allora parlare di queste cose?
Il senso ovvio è di promuovere una nuova cultura sul significato della vita, della malattia e della morte che porti l’umanità fuori dalla spirale delle mistificazioni, delle ipocrisie e delle patetiche menzogne che hanno sinora dominato il confronto con questi problemi. Fuoriuscire da questa spirale significherebbe anche porre fine ad una serie di pratiche mediche oggettivamente crudeli, anche se esse vengono giustificate con motivazioni umanitaristiche. Dare per scontato che gli uomini alberghino una motivazione primaria che li porta a voler sopravvivere comunque, e che dunque farsi carico di questo bisogno sia un atto umanitario, si fonda, come ho scritto altrove, sulla confusione tra l’orientamento dell’organismo biologico, che lotta sino alla fine per mantenere una sua identità differenziata rispetto all’ambiente, e l’orientamento del soggetto che non necessariamente intende sopravvivere, tanto più se la qualità della sua vita precipita al di sotto di una soglia minimale che dà ad essa senso.
A tale fine, però, non potendosi aspettare ripensamenti da parte della corporazione medica, sarebbe importante che la richiesta di una nuova cultura venisse dal basso, da parte degli interessati, dei pazienti.
Di fronte ad una domanda crescente di rivendicazioni incentrate sul diritto ad una vita dignitosa e ad una buona morte, sia la medicina che i poteri istituzionali dovrebbero mobilitarsi.
Data l’influenza della Chiesa cattolica sulla cultura italiana, questa lotta non si prefigura affatto semplice. Essa però va condotta a difesa dell’uomo o, meglio, di un uomo nuovo che non accetti di essere la cavia della natura o dell’arbitrio (sia pure provvidenziale) di Dio.
E’ superfluo aggiungere che in questo, come in altri ambiti della bioetica, il rispetto delle credenze religiose e delle scelte con esse coerenti va assunto come principio primario. Si tratta solo di impedire che i dogmi di fede vengano imposti di fatto a tutti i cittadini.