Il "valore" dell'uomo


1.
In ogni cultura si danno termini il cui significato simbolico è più ricco di quello concettuale. Questo scarto si scopre non appena si tenta di definirli. Nonostante il suo impianto razionalistico, la nostra cultura abbonda di termini del genere. Un'area semantica ricca di densità simbolica si raccoglie intorno ad un termine la cui ambiguità è massima: quello di valore.
Sul piano lessicale, il termine si può applicare ad una grandezza fisica (come la temperatura), ad un bene scambiabile con altri (merce), ad un oggetto culturale (un'idea, un libro), o, infine, all'uomo. Esso implica univocamente un metro di misura.
In tutti gli ambiti di applicazione del termine, si è posto il problema filosofico di capire se quello che viene misurato è intrinseco all'oggetto o frutto di una convenzione. Già inquietante per quanto riguarda le grandezze fisiche, le merci e gli oggetti culturali, tale problema ovviamente lo è soprattutto in rapporto all'uomo.
Le singole persone possono essere valutate approssimativamente in rapporto alla bellezza, l'intelligenza, la sensibilità, la cultura, le competenze, l'intraprendenza, la capacità comunicativa, ecc. Allorché però si fa riferimento all'homo, di cui gli individui condividono alcune caratteristiche comuni (specie-specifiche) che li differenziano da tutti gli altri animali, la valutazione dipende dal punto di vista che si adotta. Tale punto di vista influenza allo stesso tempo il giudizio sul valore della specie e del singolo individuo che la rappresenta.
Se si pensa, infatti, che la specie umana sia il frutto di una creazione divina e che rientri in un disegno provvidenziale, tal che ogni individuo è espressivo di un atto d'amore divino, il valore dell'uomo, in quanto fatto ad immagine e somiglianza del Creatore, diventa incommensurabile. Sotto il profilo biologico, egli condivide la sorte di tutti gli altri animali. Il suo essere dotato di un'anima spirituale e immortale gli assegna però un destino che trascende l'orizzonte della mondanità e del tempo.
Se, viceversa, si ritiene l'homo espressione dell'evoluzione naturale, il suo valore è omologabile a quello di qualunque altra specie: un valore oggettivamente infimo in quanto frutto del caso e sostanzialmente insignificante nell'economia dell'Universo. Questo valore si allontana appena dallo zero se si considera che l'Universo, come sostengono taluni, è pervaso da un'Intelligenza che tende verso forme di organizzazione sempre più complesse, o se si ammette, con un po' di fantasia, che la comparsa dell'uomo, capace di osservarlo, indagarlo e scoprirne le leggi, è l'obiettivo ultimo di quella Intelligenza.
In quanto essere consapevole, però, l'uomo non può arrendersi a considerarsi un oggetto naturale. Indagando su se stesso, egli scopre di avere bisogni radicalmente diversi rispetto agli altri animali: la dignità, la libertà, la giustizia, ecc. Estesa a tutti gli esseri appartenenti alla stessa specie, tale scoperta trasforma quei bisogni in diritti naturali universali. Sono questi, assunti come inviolabili, a definire il suo valore. Si tratta di qualcosa di straordinario nell'ottica dell'evoluzione, perché, in termini naturalistici, non si dà alcun motivo atto a giustificare la selezione di un animale dotato di quei singolari bisogni e capace di creare un'organizzazione sociale e un mondo culturale orientati alla loro realizzazione, ma, nello stesso tempo, di relativo: primo, perché la trasformazione dei bisogni in diritti è opera della cultura, e dunque è una convenzione; secondo, perché i diritti umani, una volta sanciti come naturali e inviolabili, devono essere rispettati dall'uomo stesso; secondo, perché, posto che siano rispettati dall'uomo, essi possono essere violati dalla natura, per la quale ogni essere umano è, alla pari di ogni altro animale, una cavia da laboratorio.
Questo diverso punto di vista è stato di recente al centro di un dibattito piuttosto scontato tra Chiesa cattolica e intellettuali laici. Alle pretese della Chiesa, infatti, di essere depositaria di un messaggio rivelato che dà ad ogni uomo un valore e una dignità infinita fin dal momento in cui esso si origina in virtù della fecondazione, ha fatto riscontro il tentativo dei laici di contrapporre alla sacralità della vita i diritti naturali e inviolabili dell'individuo come essi si sono definiti a partire dalla Rivoluzione francese e come sono espressi dalla Dichiarazione Universale dell'ONU.
La Chiesa ha buon gioco nel sostenere che il valore che essa assegna all'uomo è incommensurabile rispetto a quello assegnato dalla cultura laica avendo un fondamento ontologico. Aprendo all'uomo la prospettiva di un destino oltremondano, immortale, essa, infatti, opera una promessa alla quale la cultura laica non può opporre nulla, se non il richiamo al coraggio di esistere che si traduce nella sollecitazione "stoica", rivolta ad ogni individuo, di accettare la propria condizione di essere naturale, vulnerabile, precario e finito. Tale sollecitazione però sembra poter essere accolto solo da pochi.
Contrapporre all'elevatezza del valore umano nell'ottica religiosa l'elevatezza dei diritti naturali universali è un errore. Esso, infatti, implica accettare, come metro di misura del valore umano, il piano privilegiato dalla religione: quello del senso ultimo dell'esperienza umana e della vita.
Occorre, forse, per fare chiarezza, cambiare questo piano: riconoscere onestamente che, in un'ottica laica, il valore dell'uomo è oggettivamente del tutto insignificante. Anche i laici più illuminati non riescono ad affermare questo: primo, perché si sentono esposti alla critica per cui, se la vita è oggettivamente insignificante, l'uomo non ha alcun valore e può essere usato da qualunque altro uomo come un oggetto; secondo, perché essi ritengono che, sulla base di un'affermazione così radicale, sia difficile rivendicare i diritti umani universali.
E' da questo ultimo aspetto che vale la pena impostare il discorso sul valore della vita umana.

2.
Il riferimento ai diritti naturali e inviolabili dell'individuo è una formula convenzionale che si basa su presupposti filosofici piuttosto precari, la cui origine è da ricondurre al giusnaturalismo.
Ammettendo l'esistenza di norme di diritto naturali anteriori ad ogni norma giuridica positiva, il giusnaturalismo ha avuto un'importanza storica nell'aver vincolato l'attività del legislatore al rispetto di esse, contestando esplicitamente l'arbitrio di ogni potere assoluto.
Il problema è che l'esistenza di tali norme è del tutto opinabile. Per sostenerla, infatti, occorre ammettere uno stato di natura come condizione originaria dell'uomo, anteriore all'istituzione di una convivenza organizzata e regolata da leggi positive. Tale stato di natura, ipotetico, che si costruisce razionalmente spogliando gli uomini di tutte le leggi, i costumi, le abitudini contratte nella società civile, è una forma di vita associata nella quale sono già riconosciuti alcuni diritti originari e incoercibili (vita, libertà, proprietà).
L'opinabilità delle ipotesi è dimostrata dal fatto che, attraverso lo stesso procedimento razionale, Hobbes e Rousseau giungono a conclusioni del tutto diverse: secondo Hobbes, lo stato di natura è uno stato di guerra perpetua derivante dal diritto di tutti su tutto; secondo Rousseau, esso è una condizione puramente animale, dove non esiste alcuna forma di associazione e di rapporto interumano.
In entrambi i casi, le norme che regolano la convivenza civile nascono da un patto intervenuto tra gli individui, dunque da una convenzione.
I diritti naturali, insomma, sono imprescindibili dalla concezione per cui l'uomo nasce dal seno della natura come individuo.
Il problema è che questo ipotetico stato di natura non è mai esistito, e, se è vero che l'essere umano è nato dal seno della natura, attraverso l'evoluzione di specie inferiori, non è meno vero che l'uomo non è nato come individuo ma come membro di un gruppo. Per quanto si possa ammettere che ogni soggetto abbia avuto una percezione del proprio essere distinto dagli altri, tale autoconsapevolezza, per un lunghissimo periodo di tempo, ha avuto poco a che vedere con l'essere dotato di un'identità individuale. L'essere sociale, inteso come appartenenza ad un gruppo, ha preceduto, insomma, la coscienza di essere un individuo.
E' dunque estremamente probabile che, alle origini, l'uomo fosse definito dai ruoli che assumeva all'interno del gruppo, vale a dire dai suoi doveri sociali, piuttosto che dai diritti. Questi presumibilmente si identificavano con i doveri degli altri nei suoi confronti.
Se questo è vero, l'unico diritto che si può ritenere protoculturale più che naturale è la giustizia, intendendo con questo termine semplicemente ottenere dal gruppo il riconoscimento dell'appartenenza in nome della realizzazione dei doveri di ruolo; diritto peraltro complementare a quello del gruppo nei confronti dell'individuo, coincidente con l'autorizzazione a partecipare alla vita comunitaria e a godere dei vantaggi che essa comporta. Nella giustizia è implicito il senso di pari dignità tra i vari membri del gruppo, anche se i loro ruoli sono diversi.
Il diritto alla vita, nel contesto tutt'altro che immaginario di una comunità primitiva, non ha gran senso perché esso coincide con l'appartenenza. Solo in caso di gravi, e rare, trasgressioni, esso viene posto in gioco, ma la sua sospensione si realizza attraverso l'espulsione dal gruppo, che per l'individuo significa morte certa. Il diritto alla libertà è ancora meno riconosciuto perché non si dà la possibilità che l'individuo entri in conflitto con il gruppo, le sue tradizioni e i morti che le hanno trasmesse. Il diritto di proprietà, infine, eccezion fatta per alcuni oggetti, è un non-senso laddove vige il principio, soprattutto in rapporto alla Grande Madre, la Terra, della proprietà comune.

3.
Appartenere ad un gruppo, essere da esso riconosciuto e approvato, assolvere i doveri di ruolo assegnati; essere, in breve, membro di una comunità, rispettato come tale e rispettoso della cultura su cui si fonda la sua coesione e la sua perpetuazione: questo e non altro si può attribuire, come bisogno, all'uomo originario.
Su questa base, che, per alcuni aspetti, lo accomuna ad altre specie di animali sociali, sembra oltremodo difficile costruire una visione del mondo competitiva con quella religiosa.
Muovendo però dall'attribuire all'uomo un bisogno primario di appartenenza ad un gruppo il discorso può essere approfondito. L'istinto sociale è senz'altro un'eredità animale, ma nell'uomo assume una dimensione complessa. Esso infatti non serve solo a soddisfare il bisogno di affetto infantile, di vivere ed interagire faccia a faccia con i simili e di aumentare la sicurezza dai pericoli in virtù della solidarietà di gruppo. Oltre a tutto questo, l'uomo ha anche il problema di essere consapevole della sua condizione vulnerabile, precaria e finita: in breve, di poter soffrire e di essere destinato nel corso della vita a confrontarsi con situazioni dolorose (lutti, incidenti, malattie, ecc).
Questa consapevolezza, che definisce l'uomo un animale patetico, non riguarda peraltro solo l'individuo: essa si estende, per identificazione, al simile. Nonché patetico, dunque, l'uomo è anche un animale capace di sperimentare la pietas, vale a dire di leggere in qualunque altro simile gli indizi della sua stessa condizione esistenziale.
Non si sottolineerà mai abbastanza questo aspetto, che si può ritenere primario e sotteso al bisogno di appartenenza.
Sulla base di esso, sarebbe infatti concepibile un mondo sociale univocamente incentrato sull'alleviare il "male" intrinseco alla struttura della soggettività umana: la consapevolezza di essere esposti al rischio di provar dolore e di essere destinati a finire, nella migliore delle ipotesi, per una parabola biologica senza scampo.
In un mondo siffatto, l'uomo non troverebbe una risposta ultima al perché della sua esistenza. Ma c'è da chiedersi se egli, pienamente riconosciuto dagli altri nella sua umanità e capace di esprimersi secondo modalità umane, si porrebbe ancora la domanda senza senso che lo obbliga a pensare che la sua esperienza s'iscriva in un disegno cosmico.
L'obiettivo della vita diventerebbe quello di realizzare al massimo grado le sue potenzialità, di godere, per quanto possibile, del rapporto con gli altri esseri umani, della natura e della cultura. Tale godimento, realizzando soggettivamente la pienezza dell'essere, potrebbe contribuire, infatti, a produrre quella sazietà di vita che già gli antichi assumevano come un viatico per accettare di uscire dal mondo.
Certo, si tratterebbe di una visione del mondo che non potrebbe competere con la promessa religiosa dell'immortalità e della felicità eterna. Esseri pienamente realizzati nella loro umanità, potrebbero considerare però questa prospettiva non solo illusoria, ma anche inquietante.
La mente umana sembra strutturata per concepire un tempo infinito come successione di istanti a cui se ne può aggiungere sempre un altro. Non sembra, peraltro, strutturata per vivere in un tempo infinito, poiché questo esaurirebbe le sue risorse di sviluppo e di crescita.
La possibilità che la felicità eterna coincida con una condizione di estasi permanente è, infatti, esclusa dall'assuefazione. Nessun piacere è percepito se non come alterazione qualitativa di uno stato di base (non necessariamente doloroso come pensa Leopardi). Un piacere infinito diventerebbe dunque inesorabilmente noioso, ad un dipresso come ascoltare per giorni e giorni il più affascinante quintetto per archi di Mozart.
La visione laica della vita e del destino umano, sulla base di una percezione patetica di sé e degli altri, non comporta un'autorealizzazione individuale che prescinda dal fare il possibile perché anche gli altri possano realizzarla.
Un uomo appagato nella sua fame di vivere, rimanendo a contatto con la sua sensibilità, sarebbe straziato dalla fame inappagata di qualunque altro simile.
Ciò non significa, ovviamente, pensare ad un mondo di esseri uguali nella loro capacità di godere della vita e di stare al riparo dal dolore. C'è, tra gli esseri umani, una diversità di attitudini, di potenzialità e anche di esposizione ai capricci del caso che non potrebbe mai essere azzerata. L'autorealizzazione individuale va, dunque, intesa come realizzazione nei limiti delle proprie potenzialità naturali o, se si vuole, del "destino" genetico, posto che con questo termine si intenda non già un tragitto di vita già scritto nei geni ma un fascio di possibilità evolutive che si realizzano nell'interazione con un determinato ambiente sociostorico e culturale.
In questa ottica, nulla vieta di pensare che, sormontando il riferimento tradizionale alle pari opportunità ambientali, che è un criterio meritocratico il quale trascura le "ingiustizie" genetiche, la pietas potrebbe promuovere una tendenza a compensare gli esseri meno fortunati, sacrificando a loro vantaggio risorse economiche, affettive e culturali.
Come si potrebbe definire un siffatto mondo se non semplicemente umano, troppo umano?

4.
Laddove Marx scrive che la religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, e, in germe, la critica della valle di lacrime di cui essa è l'aureola coglie una profonda verità. Egli ha anche ragione nel sostenere che togliere la religione, che è la felicità illusoria dell'uomo, significa avanzare l'esigenza della felicità reale di esso. Sbaglia, però, nel ritenere che, in virtù di un profondo cambiamento sociale, la felicità possa diventare un obiettivo facilmente perseguibile. Laddove si riuscisse, infatti, ad eliminare tutte le inutili sofferenze che l'uomo infligge a se stesso e ai propri simili, rimarrebbe pur sempre il problema di una condizione esistenziale vulnerabile, precaria e finita. La solidarietà sociale e la pietas, laddove assumessero una valenza universale, potrebbero sicuramente alleviare il peso intrinseco a quella condizione, ma non azzerarlo.
Occorrerebbe, dunque, in ogni caso da parte di ogni uomo la capacità di farsi carico di tale condizione e di affrontarla senza paura, ritenendola per un verso conseguenza del suo essere biologico e per un altro della struttura affatto particolare del suo apparato mentale.
Una visione laica della vita, insomma, è imprescindibile dal coraggio di esistere e di accettare gli aspetti costitutivi dell'esperienza umana. Perché tale coraggio non sia elitario, c'è bisogno però di un'organizzazione solidaristica di vita comunitaria.
Se si accetta questo punto di vista, riesce immediatamente chiaro quali sono gli ostacoli che impediscono alla nostra cultura di procedere in questa direzione.
Il primo è il diritto di proprietà, che viene ritenuto impropriamente naturale. Dati i suoi limiti costitutivi, che lo rendono un animale carente e non attrezzato dal punto di vista istintuale per raggiungere l'adattamento, ogni uomo ha bisogno di appropriarsi di una quota di beni che soddisfano i suoi bisogni materiali e "spirituali". La produzione di tali beni avviene però univocamente sulla base dell'appartenenza, della cooperazione sociale e della cultura. Ciò vale sia per i beni materiali sia per quelli spirituali. Ciò non significa ovviamente che il singolo individuo non abbia capacità sue proprie che gli consentono di produrre più degli altri, per esempio inventando nuove tecniche produttive o creando oggetti culturali artistici. Se si riconosce però che questo avviene solo sulla base della sua partecipazione ad un gruppo sociale e alla storia umana, è evidente che il diritto di proprietà privata si definisce sullo sfondo della proprietà comune e riconosce come suo limite il sottrarre a questa una quota di risorse di cui gli altri hanno bisogno.
In questo senso, l'affermazione di Rousseau secondo la quale il primo uomo che recintò un campo, violando la tradizione culturale per la quale la terra è stata sempre considerata una proprietà comune, commise un crimine. In questo stesso senso, Marx sostiene che il comunismo non è l'abolizione della proprietà privata, bensì la riappropriazione da parte della comunità di ciò che di fatto è suo e il divieto opposto alla possibilità che gli strumenti di produzione (frutto di lavoro passato) siano utilizzati per sfruttare qualcuno.
Il secondo limite, di ordine psicosociologico, è l'individualismo narcisistico, vale a dire il valore infinito che la nostra cultura assegna all'individuo in sé e per sé e la tendenza di ogni soggetto, in misura più o meno rilevante, a considerare se stesso il centro dell'Universo. E' agevole cogliere in questo orientamento la più radicale e per alcuni aspetti drammatica difesa contro l'insignificanza esistenziale. Il problema è che questa difesa, togliendo all'uomo l'umiltà (nel senso letterale di essere polvere cosmica destinata a ridivenire tale) e estinguendo la sua capacità di farsi carico del suo "destino", lo rende allo stesso tempo ridicolo, patetico e, per alcuni aspetti, pericoloso.
Certo, la cultura laica non risponde al quesito del perché ultimo dell'esistenza. Ma ciò avviene sulla base del fatto che tale quesito viene interpretato non come una domanda necessaria e irrinunciabile, come un bisogno autentico, ma come l'espressione di una delle tante trappole mentali intrinseche ad un apparato per tanti altri aspetti unico e affascinante.