Il Diritto di Non Esistere

Una volta aperto, il fronte bioetico rischia di diventare un vaso di Pandora, che costringerà gli uomini a riflettere su problemi radicali. Il diritto alla vita, attraverso il dibattito sull'aborto, e il diritto a rinunciare alla vita, attraverso il dibattito sull'eutanasia, si sono imposti sinora come gli estremi confini della problematica bioetica. Ma la di là di questi confini già si addensano altri inquietanti interrogativi. Due di questi stanno assumendo rilievo. Il primo, che s'intreccia con le tecniche di procreazione artificiale e con le problematiche ecologiche, riguarda i diritti degli esseri virtuali, di coloro che, essendo contenuti in potenza nel pool genetico umano, potrebbero o potranno venire al mondo. Riconosciuto in passato da numerose comunità primitive, che ritenevano ogni loro membro depositario e rappresentante di un essere che si sarebbe attualizzato ulteriormente, lo statuto di essere virtuale comincia ad affacciarsi anche nell'orizzobnte della bioetica contemporanea.

Il secondo problema, che qui interessa, riguarda il diritto di non esistere, vale a dire il diritto di non iniziare a vivere. Tale problema si pone ingenuamente nella fantasia di molti adolescenti contemporanei, disagiati o insoddisfatti per vari motivi, quando essi contestano ai genitori la decisione presa in nome loro di metterli al mondo. Tale problema assume un rilievo bioetico e giuridico solo in circostanze particolari, allorché si pone il "torto da procreazione", vale a dire allorché sussiste il rischio di generare figli con gravi handicap o malattie incurabili e i genitori decidono, più o meno consapevolmente, di correrlo. Si può riconoscere in questo un loro diritto o non si configura, in tale caso, un abuso perpetrato a danno del nascituro, quindi un torto da procreazione? E, posto che sia considerato arbitrario il diritto genitoriale di mettere al mondo un figlio il cui destino è segnato, chi eventualmente ha il potere di intervenire vietandone l'esercizio o assoggettandolo a sanzioni civili e penali?

Il problema, affrontato da un filosofo in un libro denso di interrogativi (Flavio Bacchini, Il diritto di non esistere, Mac Graw-Hill, 2002), si è posto da qualche anno in conseguenza di cause intentate da figli portatori di handicap o di malattie inguaribili contro i genitori. Tali cause pongono ovviamente quesiti di ordine giuridico, con risvolti filosofici, che il diritto finora non ha mai affrontato. Da un punto di vista filosofico, il diritto a non esistere implica la possibilità di ammettere che la non esistenza sarebbe stata una condizione migliore per esseri la cui vita è sperimentata come soggettivamente invivibile. Valutazione ovviamente difficile, dato che, ovviamente, nessuno mai ha sperimentato la non esistenza. Ancor più difficile perché essa deve farsi carico e confrontarsi con un vissuto soggettivo. A parità di condizione di handicap o di malattia, infatti, alcuni soggetti denunciano la propria condizione come invivibile, altri no.

Da un punto di vista giuridico, si pone poi il problema, posto che il torto da procreazione sia riconosciuto, della sanzione. Condannare i genitori non migliora di fatto la condizione dei figli, anche se questi possono ricavare una soddisfazione "morale" dalla condanna. Il risarcimento pecuniario si configura poi come paradossale perché esso o non migliora in alcun modo la qualità della vita dei figli, confermando l'entità non risarcibile del torto subito, o, se la migliora, contesta il fatto che tale qualità sia del tutto invivibile.

E' inutile dire che, come capita per gran parte dei problemi bioetici, anche quello sul diritto di non esistere si è imbattuto nella consueta contrapposizione tra orientamento bioetico religioso e orientamento laico. Dal punto di vista religioso, ovviamente, il problema non si pone. La vita è sempre e comunque un dono che concente di giocarsi le carte che consentono di accedere alla felicità eterna. Da questo punto di vista, il dolore viene addirittura considerato una condizione di privilegio che, accettata serenamente, accresce il meriot del soggetto agli occhi di Dio. I genitori, assecondando il volere di Dio, agiscono giustamente. Un eventuale sanzione morale si pone solo nei casi in cui, dopo averlo messo al mondo, essi si sottraggono al dovere di condividere con il figlio la sua condizione, di portare insomma la croce.

La bioetica laica non può ovviamente considerare sacra la vita e, dunque, non può prescindere dal valutare le ragioni di chi ritiene di essere stato danneggiato dall'irresponsabilità dei genitori. Esclusi però il suicidio, che rientra nell'ambito della libertà personale, l'eutanasia, che è fuori legge, e la promessa di una vita ulteriore beata, è fuor di dubbio che la bioetica laica non ha molte risposte da offrire a chi è incappato in una vita sventurata. Il diritto di non esistere apre però un fronte di riflessione importante che riguarda i diritti degli esseri virtuali. Il problema è come valutare tali diritti, posto il modo diverso in cui i soggetti si confrontano con situazioni di handicap o di malattie inguaribili.

Tra le cause che sono state avviate in questi anni per il "torto da procreazione", ne risultano, in base ai dati di cui dispongo, appena due motivate da un grave disagio psichiatrico. Via via che il problema diventerà di dominio pubblico, è da prevedere che il numero sia destinato ad aumentare progressivamente. Non so se questo sia giusto o ingiusto. Per chi, come me, ritiene che le malattie psichiatriche siano situazioni congiunturali, nella cui genesi raramente incidono comportamenti genitoriali colpevoli (cioè dolosi, agiti nell'intento consapevole di danneggiare i figli), il trasferirsi della querelle nelle aule dei tribunali appare un non senso. E' pur vero che, già nel quotidiano, parecchi filgi che hanno un disagio psichico passano parte della vita a rivendicare un risarcimento, tal che un'impresa psicoterapica è spostare la rivendicazione nella direzione di una qualità della vita migliore.

Sarei disonesto però se non aggiungessi che l'esplosione di cause dul torto da procreazione potrebbe facilmente configurarsi come un boomerang della propaganda neopsichiatrica, che si è affannata, puntando il dito sulla natura biologica della malattia mentale, a deresponsabilizzare le famiglie e la società. Se, infatti, si ammette la natura genetica della malattia, essa implica una responsabilità oggettiva dei genitori. Se, inoltre, nella loro storia o in quella delle loro famiglie, si danno malattie psichiatriche pregresse o in atto, il torto da procreazione diventa un dato di fatto.