L'eroismo del darsi la morte

Il caso di cronaca è noto, essendo stato riportato da tutti i giornali. Un ragazza di 24 anni, residente ad Altamura, affetta da una malattia (l'ileo paralitico), che le procurava lancinanti dolori addominali e la destinava ad una morte certa, decide di uccidersi. La madre, straziata essa stessa dal dolore della figlia, è d'accordo. Ha acquistato l'arma necessaria, ed è intenzionata ad uccidersi dopo la figlia. Il suicidio è meditato: le donne lasciano due lettere, una indirizzata al padre della figlia e una alle autorità i cui spiegano i motivi del gesto.

Il 17 luglio, all'ora di pranzo, la ragazza si spara un colpo alla testa. Rimane agonizzante. La madre, per pietà, la finisce, poi rivolge l'arma contro se stessa, ma non ce la fa ad uccidersi. Viene incarcerata con l'accusa di omicidio volontario. Date le circostanze, è prevedibile che la giustizia sarà clemente. Il magistrato che si occupa del caso ha affermato: "Un caso così sconvolgente non mi è mai capitato in tanti anni di carriera".

Il dramma ripropone il problema dell'eutanasia, vale a dire del diritto delle persone lucide e consapevoli di essere aiutate a porre fine ad un'esistenza inutile e dolorosa.

In casi del genere, i giornalisti non possono fare a meno di consultare gli esperti: gli studiosi di bioetica e gli psicologi. Il presidente del Comitato nazionale di bioetica commenta: "Sono episodi di straziante tragicità su cui la bioetica deve tacere". A dire il vero, si tratta di episodi su cui dovrebbe pronunciarsi piuttosto che tacere. Se il silenzio esprime rispetto per le persone coinvolte, dovrebbe almeno essere mantenuto. L'esperto in questione, invece, per fugare ogni dubbio sul suo orientamento ideologico, non può fare a meno di aggiungere: "Per una persona che cerca la morte, esistono migliaia di malati affetti da malattie invalidanti che coraggiosamente affrontano il dolore nell'immensa difficoltà di una vita malata". Non si rende conto - presumo - che quest'affermazione, ribadendo la banalità per cui chi si uccide è un vigliacco, getta fango sulla povera ragazza e sulla madre.

L'altro esperto contattato dai giornalisti è il presidente dell'Associazione italiana psicologi e psichiatri. Egli afferma: "E' un dramma della solitudine familiare dei nostri tempi. Mi sconvolge che non sia l'unico dramma e che sia stato preannunciato. C'è evidentemente una distanza molto forte tra i servizi per la salute mentale e i cittadini". Non si rende conto - presumo - d'implicare un altro luogo comune corrente - secondo il quale solo uno stato psichico alterato può promuovere un suicidio. Altro fango.

2.

L'episodio di cronaca è significativo per due aspetti. Il primo riguarda la malattia in questione. La ragazza, di famiglia benestante, l'aveva contratta cinque anni fa in Inghilterra, ove studiava, probabilmente in seguito al contatto con un animale (un gatto) portatore del virus. Accertata la diagnosi, la famiglia aveva consultato tutti gli specialisti europei trovandosi di fronte ad una realtà sconvolgente. Contro quella malattia virale, ad esito infausto, la medicina attuale non può assolutamente alcunché. La scelta meditata della ragazza deve avere fatto riferimento al caso, all'impotenza della medicina, al decorso intollerabilmente doloroso della malattia e all'esito certo. E' contestabile una scelta del genere? Di sicuro da un punto di vista religioso, che considera la vita, con tutte le sue vicissitudini, comunque sacra. Se una persona però non ha fede o, in seguito alla malattia, la perde, si tratta di una scelta razionale, coraggiosa più che codarda, e attestante una lucidità di coscienza che non cede alle illusioni di cui gli uomini sono maestri e alle suggestioni di un eventuale miracolo. Da questo punto di vista, la decisione della ragazza e della madre rivelano la crudeltà di una legislazione e di un'assistenza sanitaria che continuano, in un contesto che si va secolarizzando, a ritenere sacra la vita e impongono ai medici di tutelarla sempre e comunque.

L'altro aspetto concerne, ovviamente, l'atteggiamento degli esperti nei confronti del problema. La bioetica è in larga misura colonizzata da "tecnici" cattolici, i quali fanno giustamente il loro mestiere, difendendo per l'appunto la sacralità della vita da ogni attentato. Che, dal loro punto di vista, chiunque non accetta tale valore, è fuori dalla verità e in errore, è comprensibile. Ciò che non riesce comprensibile è presumere che la loro verità debba essere riconosciuta univocamente dallo Stato e dalla classe medica, e che, giuste o sbagliate che siano, le ragioni dei laici non debbano essere tenute in alcun conto dall'uno e dall'altra. Ancora meno comprensibile, per essere eufemisti, riesce la retorica del dolore cui fanno costantemente riferimento. In che senso parlare di retorica? Nel senso che il dolore viene assunto come una dimensione univoca, intrinseca all'esistenza umana, il confronto con la quale si pone come un test di coraggio e di virtù da parte di chi soffre e di coloro che lo circondano. Il problema è che il dolore, sia fisico che psichico, non è affatto una realtà univoca. Anche adottando la distinzione più elementare, si danno dolori che servono a maturare, a crescere, a raggiungere degli obbiettivi, ad umanizzarsi, e dolori solo penosi, sterili e degradanti, come quasi tutti quelli legati a malattie ad esito infausto. Accusare di vigliaccheria chi non intende continuare a vivere come un burattino del caso o di un Dio la cui volontà imperscrutabile offende la ragione umana, significa negare la libertà individuale, il diritto di prendere posizione e di operare scelte significative. Data l'universalità della paura della morte, c'è eroismo in chi decide di porre termine ad un'esistenza intollerabile, e casomai debolezza, umanamente comprensibile, in chi, nelle stesse circostanze, si aggrappa pateticamente alla speranza di guarigione.

L'aiuto di cui le persone gravemente malate hanno bisogno si fonda sul rispetto della loro volontà. E' giusto, dunque, confortare e alimentare l'assurda speranza di chi non accetta di morire. Non meno giusto è farsi carico della richiesta di chi non accetta di sopravvivere. Ricondurre questa richiesta ad un disturbo psichiatrico e rispondere ad essa con un sostegno psicologico esprime una mediocrità filosofica alla quale concorrono una concezione banalmente vitalistica dell'esistenza e una sopravvalutazione del potere delle scienze psicologiche. Che nell'uomo si dia un attaccamento alla vita è fuor di dubbio. Ma l'istinto di conservazione, che è implacabilmente attivo negli animali, s'imbatte, a livello umano, nel problema della libertà e del senso della vita. In molte persone ancora, sopravvivere è un obbiettivo primario quale che sia la qualità dell'esistenza. In alcuni, esso è invece subordinato alla qualità della vita, vale a dire alla possibilità di perseguire scopi significativi. Straziare passando dal letto alla poltrona, alimentarsi, dormire per non soffrire (quando è possibile) non configura, per costoro, scopi del genere.

Si tratta - io ritengo - non già di essere deboli e squilibrati dal dolore, bensì di precursori di un modo di qualificare l'esistenza nobilmente e radicalmente umano. Nonché il rispetto, essi meritano l'ammirazione.