Diritto a non esistere, Eugenetica, Eutanasia

1.

Una cara amica mi ha inviato due lettere con alcuni appunti critici in merito agli articoli sulla bioetica. Riporto il testo delle lettere quasi integralmente:

"Caro Luigi,

sento l'esigenza di criticare i tuoi articoli sull'eutanasia e sul diritto di non nascere: mi sono sembrati terribili. Da tempo ho il sospetto che esista, radicata nella psiche di tanta gente, una fobia della debolezza "di sinistra" da militanti severi, come cantava Guccini, che identifica gli atteggiamenti sentimentali o empatici verso la sofferenza come "cattolici" tout court. Io, in effetti, anche se atea, preferirei mille volte andare a cena con Rosy Bindi, piuttosto che con Massimo D'Alema: sono democristiana senza saperlo? Sono favorevole all'aborto, lavoro da sempre con i disabili e sono pronta a lavorare perché una famiglia colpita dall'handicap riesca a ridare un senso alla vita che non sia solo quello del lutto o del sacrificio. Se avessi un figlio malato, penso che lotterei fino all'ultimo perché viva, ma forse avrei abortito se in gravidanza un esame avesse mostrato un feto con danni gravissimi. C'è una bella differenza, mi pare: la vita è vita e si ha sempre il diritto\dovere di lottare: una malattia, sosteneva Luigi Pintor, non è che una forma possibile di vita, e come tale va accettata, è il non capire questo che la rende incurabile (cito un po' a memoria da "Servabo", il capitolo sul dolore.)

Mi colpisce tanto, inoltre, che una persona come te. difenda così radicalmente la libertà di morire,(anzi di essere mandati a morte da un medico) e stigmatizzi qualunque esitazione verso l'eutanasia come una concezione della sacralità della vita, retriva e bigotta. Ho letto anche l'articolo di Nicola Ghezzani, di critica a Galimberti e ritrovo accenti infastiditi solo dal semplice rischio di essere sfiorati dalla debolezza di qualcuno, fuori da un setting terapeutico asettico e ben remunerato.

Il medico olandese che ha difeso l'eutanasia per i bambini malati di tumore, il giorno dopo ha esteso questa pratica ai disabili, citando i neonati con spina bifida, ed evocando, io credo, nella maggioranza dei lettori, l'immagine del "mostro": "Avete mai visto un neonato con spina bifida?"

Almeno questo doveva indurre una riflessione critica, una domanda: sta salvando i bambini da una sofferenza inutile o sta legittimando il sociale rispetto allo scaricare i più deboli, eliminandoli? Agitando per di più lo spauracchio del mostro, che ha tanta presa sulle coscienze, rimbecillite dall'autoritarismo crescente

Invece noto che tu, che penso abbia letto entrambi gli articoli, hai ripreso il discorso parlando della libertà di non nascere, dove citi il tuo conoscente disabile, filosofo, che dice più o meno: siamo tutti handicappati. Tu concordi: ci sono sfumature che gli occhi non vedono ecc., in un discorso che a me pare da super uomini, e scusami, anche un po' inutile: chi se ne frega dei super occhi o super orecchie? I sensi dipendono anche da tante altre cose, cuore incluso..

Ma il problema è questo? Il problema è essere tutti uguali o essere tutti diversi? Il problema è dispiacersi (o consolarsi) perché non siamo tutti super dotati ?

Ora - questa lettera si è interrotta per più giorni - e io ho letto il caso Klinefelter sul sito, noto che il "mostro" l'hai tirato fuori anche tu, un mostro perfetto, che sarebbe piaciuto a Foucault.

Insisti, da persona sensibile quale sei, sul dolore provato da queste persone, evitabile non nascendo.

Questo mi lascia un po' fredda: credo che ci sia una parte di pregiudizio e anche una certa proiezione "maschilista", l'intolleranza degli uomini verso le situazioni di dipendenza non risolvibili.

Io, personalmente, ho visto disabili anche gravissimi vivere più felicemente e più pienamente di tante persone normali, ho avuto un rapporto di lavoro e di stima, interrotto purtroppo dalla sua morte, con una docente di psicologia affetta da spina bifida: una donna intelligente, colta e tanto divertente. Inutile dire che ho incontrato anche tanti mostri, fisicamente ineccepibili, anzi il più delle volte eleganti e curati, dediti al jogging e alla famiglia, professionalmente inseriti: nessuno aveva segnali che mi permettessero di capire la loro mostruosità, e quindi di evitarli, evitando io di soffrire. Ma forse è meglio così: è proprio con te, [durante il corso di formazione], che ho sentito che la vita è (anche) rischio, lotta, capacità di sbagliare. Il tuo bello scritto su Conrad me lo confermava, questi articoli che ho citato, no."

"Caro Luigi,

forse la mia lettera era un pò caotica, cerco di essere più sistematica procedendo per punti.

1) L'articolo su "la Repubblica" in cui si annunciava, in Olanda, l'estensione al diritto alla buona morte anche ai bambini, mi ha riempito di orrore: un bambino non sceglie, scelgono per lui i genitori e i medici.

Il riferimento al dolore fisico non penso fosse determinante in quella legge, tanto è vero che 1 o 2 giorni dopo, compariva l'intervista con un medico della commissione che includeva nell'eutanasia i neonati con spina bifida, dicendo: 1) sono mostri, 2) sono destinati a soffrire.(Relativamente falso).

Questa, per me è eugenetica.

2) Devo ammettere che per me la prospettiva di eliminare un neonato vivo ma paraplegico, non è assolutamente uguale all'aborto di un feto nelle stesse condizioni: c'è mi sembra una differenza enorme, così come uccidere il bambino malato di tumore: sono vivi, sono dentro la tempesta come il capitano di Conrad, hanno il diritto di combattere. Capisco che una madre disperata si auguri o metta in atto la loro morte, non che lo faccia lo stato. ( che secondo me ha altri fini)

3) La mia è (come tutte) una posizione discutibile: nei tuoi scritti e in quello di Ghezzani (per me Galimberti ha perfettamente ragione)sembra però che qualunque esitazione o remora di fronte al tema eutanasia, sia da liquidare come cattolica. non sono d'accordo(ti consiglio di leggere Pintor, Servabo)

4) Tutti questi discorsi sull'eutanasia avvengono in un momento di gravissima, totale, arrogante messa in crisi del diritto alle cure, all'assistenza, all'appartenenza: si parla di evitare gli sprechi e si fanno, negli ospedali, cose mostruose. Mi colpisce che non ce ne rendiamo conto."

2.

Dopo avere ricevuto queste lettere, ho riletto gli articoli "incriminati". Riconosco senza difficoltà che essi implicano una presa di posizione radicalmente laica sul significato della vita. Tale significato si riconduce al valore che il singolo soggetto assegna alla propria esperienza. In questa ottica, nessun punto di vista può essere privilegiato rispetto ad un altro. Chi accetta, in nome della fede, l'handicap, una malattia dolorosa, una morte straziante, va rispettato non meno di chi rifiuta di essere una cavia della natura. Occorre concedere ad ogni uomo la libertà di decidere se e in quale misura la sofferenza è tollerabile e non rende la vita un'inutile pena o una lunga agonia. Da questo punto di vista, imporre a tutti il dovere di vivere a qualunque costo per soddisfare l'imperscrutabile volontà di Dio o per accreditare il mito di una scienza medica che non può arrendersi a riconoscere la sua impotenza, mi sembra non assertivo ma lesivo dei diritti umani.

Il contrasto con la mia amica è di ordine filosofico. Affermando che "la vita è vita e si ha sempre il diritto\dovere di lottare", essa definisce un singolare codice normativo universale, vitalistico e ambiguo. Per quanto riguarda l'uomo, la vita è un'esperienza soggettiva aperta alla decisione personale di accettarla o di rifiutarla. Il diritto di lottare per conservarla rientra nell'ambito della libertà decisionale: può essere dunque esercitato o no dal soggetto. Se questo è vero, il riferimento al dovere è del tutto improprio. In nome di che l'individuo sarebbe costretto a lottare per sopravvivere ad ogni costo? Tutt'al più si può ammettere che esista un dovere sociale di aiutare chi soffre, ma non contro la sua volontà.

Il codice normativo forse frettolosamente enunciato dalla mia amica, può valere per coloro che lo riconoscono, ma non può essere imposto a tutti indistintamente, subordinando la libertà soggettiva alle implacabili leggi del bios.

Il tema della buona morte è destinato inesorabilmente a porsi come uno spartiacque tra credenti e laici. Per i primi accettare e piegarsi alla volontà divina è un atto supremo di fede. Per i secondi, o almeno per alcuni di essi, subire i capricci della natura che continua i suoi esperimenti su qualunque organismo biologico è un atteggiamento lesivo della propria dignità.

Per l'eutanasia si pone il problema di sormontare lo stereotipo della sacralità della vita concedendo ad ogni individuo uno spettro decisionale che, al limite, può comportare la denuncia della propria impossibilità di tollerare la sofferenza e il diritto di essere aiutato a morire.

Parlo di stereotipo in riferimento ad una confusione nella quale molti cadono (compresa la mia amica). La confusione verte sul fatto di identificare la sacralità della vita con il diritto di ogni individuo di essere rispettato nella sua dignità, vale a dire di non essere sottoposto da alcun altro a comportamenti lesivi della sua integrità fisica e o psichica.

Nell'ottica religiosa, come ho detto più volte, la vita è sacra perché il suo proprietario è Dio, che crea l'anima dotandola dell'immortalità. Dal momento del concepimento sino all'ultimo respiro, dunque, nessuno può dunque abusare di una proprietà che non è sua. Solo Dio, attraverso le leggi di natura, può fare abortire una vita nel ventre della madre, produrre malformazioni di ogni genere, destinare a morte i bambini, accorciare la vita di qualunque individuo, destinare i malati ad una fine atroce, ecc.

Nell'ottica laica, l'uomo ha il diritto di opporsi alle leggi naturali laddove queste contrastano con la sua dignità. Non è tenuto insomma ad accettare qualsivoglia stato di malattia o di sofferenza se esso eccede le sue risorse psicologiche e, tanto più, se la sua persistenza, destinata ad un'evoluzione fatale, esprime solo la tenace resistenza dell'organismo biologico alle forze che tendono a dissolverlo, facendo regredire la materia dal suo livello di organizzazione più elevato - quello animato - a quello più basso - inanimato.

Chi altri se non il soggetto ha diritto di decidere se la vita vale ancora la pena (alla lettera) di essere vissuta o no?

Il problema etico si pone evidentemente allorché la decisione non riguarda il soggetto stesso ma qualcun altro. Concerne dunque essenzialmente l'aborto, la sopravvivenza di esseri gravemente handicappati dalla nascita sotto il profilo psicofisico e quella di malati terminali.

Il secondo punto è fuori questione. Un essere gravemente handicappato sotto il profilo psicofisico, ridotto in pratica ad una vita vegetativa, può far rabbrividire un soggetto normale, inducendolo a pensare che, se fosse al suo posto, non desiderebbe continuare a vivere. Nessuno però può ricostruire l'esperienza soggettiva di un essere gravemente handicappato, privo della capacità di esprimere la sua volontà. Nulla vieta di pensare che quell'esperienza, non avendo il soggetto altro metro di riferimento, possa avere per lui un significato "viscerale", psicobiologico. In conseguenza di questo, nessuno può decidere di aiutarlo a morire.

Diverso è il discorso per l'aborto. In un'ottica laica, attribuire al concepito il diritto di accedere alla vita è un non senso. Adottando una logica vitalistica, si potrebbe attribuire lo stesso diritto a tutti gli esseri concepibili intrinseci al pool genetico umano, e destinati a rimanere per sempre nel limbo della virtualità. Il diritto di accesso va subordinato alla scelta di coloro che devono farsi carico dell'allevamento: dei genitori anzitutto, dunque, e della comunità. Occorre a questo riguardo considerare due possibilità. La prima è che i genitori biologici non se la sentano, per i più vari motivi (tra cui il più importante è una malformazione anche dagli esiti funzionali incerti), di mettere al mondo un figlio che non sarebbero in grado di allevare e che non riuscirebbero ad affidare all'assistenza pubblica senza sentirsi in colpa. In questo caso, a mio avviso, il loro diritto di decidere l'interruzione della gravidanza non può essere confutato. Imputare loro l'arbitrarietà di una scelta che potrebbe escludere dalla vita un soggetto capace forse di dare ad essa senso è un ricatto moralistico. Nell'incertezza, non è lecito esporre un altro al rischio di condurre un'esistenza penosa.

La seconda possibilità è che i genitori biologici, riconoscendo i loro limiti e le loro difficoltà, accettino di affidare il figlio all'assistenza pubblica. Come ho scritto in un articolo precedente, ritengo che, in prospettiva, questa sia l'unica soluzione sociale di compromesso tra l'orientamento religioso e quello laico. Per arrivare a realizzarla, occorrerà però superare numerosi ostacoli. Il primo concerne il fatto che la maternità o la paternità si associano spesso ad un senso di responsabilità personale per cui rinunciare al diritto di allevare un figlio viene vissuto come una colpa. Il secondo fa capo al fatto che, a livello sociale, la rinuncia a riconoscere il figlio viene di fatto imputata implicitamente come una colpa. Il terzo, infine, riguarda lo Stato che deve farsi carico dei bambini non riconosciuti e assicurare ad essi un'assistenza adeguata.

Occorrerà insomma rimuovere una tradizione culturale che ha alterato i termini della questione. Un bambino che viene al mondo è di fatto di proprietà della comunità. L'affidamento automatico ai genitori biologici nulla toglie al fatto che di un affidamento si tratta. Connotare la questione in questi termini sarà importante affinché i genitori biologici sentano che farsi carico o meno del figlio rappresenta un'opzione legittima, che va esercitata serenamente.

3.

Il problema dei malati terminali o di quelli che sopravvivono in virtù delle macchine è il più delicato. Se essi sono in grado di esprimere la loro volontà chiedendo di essere aiutati a morire, ritengo che lasciar cadere tale richiesta in nome della sacralità della vita o del divieto imposto ai medici dell'eutanasia, sia un atto di gratuita crudeltà. E' questo il tema di un recente film di Eastwood - Million dollar baby - che definisce, contro la corrente del fondamentalismo statunitense, l'eutanasia come un atto d'amore.

Se essi, viceversa, non sono in grado di esprimere la loro volontà, la decisione non può essere delegata né ai parenti, che potrebbero avere qualche motivazione di ordine personale per accelerarne la fine, né ai medici curanti, che potrebbero essere conniventi con i parenti o inclini a liberarsi di pazienti ingombranti sotto il profilo assistenziale e poco gratificanti. Penso che sia i parenti che i medici abbiano però il diritto di avanzare un'istanza di eutanasia nei confronti della magistratura, che potrebbe vagliarne le ragioni e decidere autonomamente sulla base del parere espresso da una commissione medica.

En passant, è opportuno citare un caso che pone in luce le infinite contraddizioni che gravano su questo problema. Teresa Maria Schiavo, ormai comunemente conosciuta come Terri, è una cittadina statunitense, caduta in seguito ad un infarto nel 1990 in uno stato vegetativo perpetuo, intorno alla quale si è svolta negli anni una battaglia legale all'ultimo sangue tra il marito che invoca la sospensione delle "cure" e i genitori che desiderano prolungarne la vita. Il caso ha coinvolto l'opinione pubblica e ha attivato in particolare i movimenti cristiani fondamentalisti che, in maniera virulenta (com'è nel loro stile poco cristiano), sono giunti a minacciare il marito e i medici qualora si rendessero responsabili di un omicidio. Essi danno per scontato che il marito sia cinicamente animato dal desiderio di liberarsi di un ingombro che, tra spese mediche e legali, grava pesantemente sul suo bilancio. Nella querelle è intervenuto addirittura un miliardario californiano che ha promesso al marito di Terri un milione di dollari se egli cederà la custodia legale della moglie ai genitori. Il marito ha reagito sdegnato con un secco rifiuto, ricordando che egli ha incassato 700000 dollari dai medici che non assistettero adeguatamente la moglie all'epoca dell'infarto e che li ha spesi quasi tutti. Cedendo la custodia legale ai genitori di Terri, egli avrebbe potuto goderseli. Non lo ha fatto in nome del giuramento prestato alla moglie che, negli ultimi momenti di lucidità, gli chiese di non lasciarla vivere appesa alle macchine. Terri, dunque, avrebbe espresso la sua volontà, anche se essa non può ovviamente confermare ciò che dice il marito.

Perché i genitori non si arrendono? Perché la madre sostiene che la figlia è viva e sente. A riprova di ciò esibisce dei filmati nei quali Terri sembra rispondere con un sorriso al suo abbraccio.

E' noto da sempre che i pazienti in stato vegetativo, diversamente da quelli in coma profondo, conservano alcune funzioni vitali (per esempio respirano autonomamente) e una sensibilità protopatica agli stimoli ambientali, soprattutto a quelli emozionali. Anche nei casi, peraltro oltremodo rari, "miracolosi", nei quali si verifica un "risveglio" dopo anni, residuano disturbi imponenti a livello cognitivo e mnesico.

Terri è sicuramente viva, ma ricavare da questo che, se fosse in grado di esprimere la sua volontà, desiderebbe continuare a vivere alimentata artificialmente sembra poco realistico.

L'affetto della madre, pure umanamente comprensibile, non esprime l'amore per la vita, ma un terribile egoismo e un'inconsapevole crudeltà. E' essa chiaramente che non riesce ad accettare, dopo quindici anni, che la figlia, se non è morta a livello cerebrale, sta vivendo una vita puramente vegetativa. Poniamo conto che, per miracolo, Terri si risvegliasse dal coma e chiedesse di essere aiutata a morire perché, confrontando il suo stato con quello esperito prima dell'infarto, ricominciare a vivere a quarant'anni potrebbe non avere senso per lei. Data la legislazione vigente negli Stati Uniti, tale richiesta non potrebbe essere accolta.

Affidata alle leggi della natura, Terri sarebbe già morta. Assistita dalla tecnologia, essa non può morire. E' questo un suo bisogno e un diritto o semplicemente l'espressione di un organismo biologico che, pur privo di coscienza, alimentato artificialmente fa il suo dovere?

Il radicalismo laico di cui la mia amica mi accusa è reale, ma, ovviamente, ha poco a che vedere con un'ideologia che concede il diritto di vivere solo agli esseri sani, forti e abili. Esso rappresenta un orientamento a difesa della dignità umana antagonistico rispetto a quello della Chiesa cattolica e del conservatorismo protestante, che spacciano come valore il dovere degli uomini di conformarsi al modello dell'imitazione di Cristo. I fondamentalisti protestanti statunitensi sono più espliciti nell'enunciare tale valore. Nel corso delle manifestazioni pubbliche a sostegno dei genitori di Terri, essi esibiscono il Crocifisso. La Chiesa cattolica, com'è nella sua tradizione, è più riservata, ma anche più insidiosa. L'Osservatore Romano è giunto a paragonare l'agonia di Terri all'agonia dell'umanità che ha smarrito il senso di Dio. Cito testualmente: "E' l'agonia dell'amore che sa chinarsi su chi è più fragile e bisognoso".

C'è un discrimine, nell'ottica laica, tra il rispetto che si deve a chi è debole e bisognoso e il sadismo che impone al debole di soffrire (anche contro la sua volontà) in nome dell'accettazione della volontà del Dio che lo ha creato.

4.

Il riconoscimento del diritto di non esistere, l'aborto, l'eutanasia sono problemi che vanno affrontati nell'ottica di non pretendere che gli uomini siano degli eroi e in nome del riconoscimento dei loro limiti e delle loro debolezze. Non esistono soluzioni univoche per essi. Mi sembra importante però affrontarli prescindendo sia dal principio della sacralità della vita, che si può ritenere lecito e obbligatorio solo per i credenti, sia dall'enfatizzazione laica del diritto individuale a vivere. Tale diritto è inconfutabile, ma non deve tradursi nell'obbligo di continuare a vivere comunque, anche quando il soggetto sente di non essere in grado di reggere il peso della sofferenza, né tantomeno nella valorizzazione di sacrifici che sono inutili.

L'attaccamento alla vita è sicuramente istintivo. Ma l'uomo è l'unico animale che può andare con la sua libertà al di là del determinismo dell'istinto. Occorrerebbe, semplicemente, riconoscergliela, questa libertà.

Aprile 2005